Sabrina Avakian, storia di una vita segnata dal genocidio armeno del 1915 (Ilterritorio 16.04.24)

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Esistono stragi di cui nel corso della storia si è spesso taciuto e il genocidio armeno iniziato nel 1915 è una di queste. IlTerritorio.net ha intervistato Sabrina Avakian, la cui vita è stata fortemente segnata dal Metz Yeghérn (questa la denominazione armena del massacro messo in atto dall’Impero Ottomano all’inizio del secolo scorso).

Oltre alla chiara volontà di voler trattare un argomento storicamente obliato, a monte di questa intervista c’è l’intenzione di promuovere un incontro letterario che si terrà il 27 aprile, in occasione della commemorazione del genocidio che ogni anno cade il 24 dello stesso mese. L’incontro, realizzato grazie all’impegno di Adele Franchi, si terrà alle 18 presso il Bohemien Cafè di Piazza della Repubblica, a Monterotondo.

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Chi è Sabrina Avakian?

Sabrina Avakian nasce ad Addis Abeba (Etiopia) da madre italiana e padre armeno. La sua appartenenza a un gruppo minoritario decimato da un genocidio dimenticato dal mondo la motiva a operare nel settore dell’emergenza umanitaria, lavorando in zone di guerra per dare voce ai più “deboli”. I suoi nonni, fuggiti attraverso il deserto siriano e salvati da una nave francese partita da Aleppo, approdarono a Gibuti e furono accolti come rifugiati in Etiopia. Sua nonna Makrwi la cullava tra le braccia cantandole ninne nanne degli eroi armeni.

Sua madre, Adriana Giostra, ha lottato per far ottenere a lei e alle sue sorelle la nazionalità italiana, poiché all’epoca la cittadinanza poteva essere trasmessa solo dal padre. Ecco chi è Sabrina Avakian: il prodotto di una famiglia di sopravvissuti, una donna dal portamento fiero ma umano, una donna che per le sue radici porta con sé un vissuto da apolide! Sabrina si dedica a missioni di pace, all’insegnamento ed è un’esperta nei campi psicologico, educativo e criminologico. Odia la violenza ed è una convinta vegetariana, poiché crede che ogni creatura abbia diritto di vivere“.

Qual è la storia della tua famiglia e come si intreccia con quella del genocidio armeno?

La storia della mia famiglia è un viaggio attraverso l’Armenia, l’Etiopia e l’Italia. Durante il genocidio del 1915 i miei nonni hanno subito violenze e soprusi. Gli armeni, di confessione cristiana, erano allora uniti alla popolazione turca, ma con l’avvento dei “Giovani Turchi”, che desideravano un impero neutro in cui si parlasse solo turco e in cui ci fosse una sola religione, i rapporti si incrinarono. Tuttavia la vera causa scatenante del genocidio, almeno per quanto mio padre mi ha raccontato – poiché è sempre stato difficile per lui parlare di questo argomento – è stata economica: l’intenzione era quella di privare gli armeni dei loro beni per arricchire le élites turche. Pertanto non è stata solo una questione geopolitica: gli armeni erano un popolo troppo diverso e troppo intraprendente.

La storia della mia famiglia, radicata nel cuore di Antaf, testimonia la lotta per la sopravvivenza di intere generazioni di armeni, costrette ad abbandonare le proprie case, le loro terre, la loro storia. Il sacrificio di mio nonno e di tanti altri armeni che si unirono alla lotta per difendere il territorio armeno fu una pagina dolorosa, che si è purtroppo ripetuta nel 2023 con l’esodo di centoventimila armeni dall’Azerbaigian. Ma questa è un’altra vicenda.

I miei nonni hanno marciato attraverso il deserto del Deir ez-Zor, dove hanno visto campi di concentramento in cui donne e bambini morivano di stenti, maltrattamenti e fame. Molte di loro si suicidavano per il troppo dolore, i soldati turchi strappavano i feti dai loro ventri e le ragazze armene venivano stuprate con regolarità. I miei nonni sono riusciti a fuggire strategicamente dopo oltre 10 giorni di marcia, pagando i beduini con i gioielli e le cose che erano riusciti a salvaguardare. I beduini li hanno nascosti, insieme ai loro tre figli e alla sorellina di mia nonna, nelle carovane coperte di sacchi di legna e di carbone. Ma un terribile destino fermò il loro viaggio.

Un gruppo di soldati di Ataturk li fermò e in cambio della loro libertà vollero la giovane ragazza, la sorellina di mia nonna, che fu portata via tra le urla e il dolore della sua famiglia. Venne venduta nei mercati di Damasco come schiava. Dopo giorni di viaggio, i miei nonni riuscirono ad arrivare al Porto di Aleppo, dove delle navi francesi erano in attesa di famiglie armene da salvare. Saliti su quella nave, i miei nonni con i loro tre figli furono dotati di un passaporto francese, che ancora conservo. Questa nave si diresse a Gibuti (Africa), da dove molte famiglie armene raggiunsero la vicina Etiopia, Paese cristiano che offriva rifugio agli armeni. È così che i miei nonni si stabilirono in Etiopia. Ma la storia completa verrà raccontata in un libro che pubblicherò presto”.

Il 24 aprile sarà il giorno della commemorazione del genocidio…

Sì, il 24 aprile di ogni anno si commemora il genocidio armeno, che è stato il primo del XX secolo e uno dei più dimenticati. Hitler lo citava come esempio dell’eliminazione che stava pianificando in Germania, dicendo: ‘Chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?‘.

Il Mez Yegern (il ‘grande male’) ebbe inizio nei territori dell’Impero ottomano nella notte del 24 aprile 1915. I turchi volevano edificare uno “Stato nazionale”, ossia uno Stato linguisticamente e culturalmente omogeneo, con una popolazione composta principalmente da un unico gruppo etnico, limitando le altre popolazioni a piccole minoranze. Per questo motivo, gli armeni, i greci, gli assiri (le tre comunità cristiane più importanti) rappresentarono i primi obiettivi. Il genocidio del 1915 iniziò a Costantinopoli nelle case degli intellettuali, degli studiosi, dei poeti. In un solo mese, più di mille intellettuali armeni furono deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo la strada.

Gli arresti e le deportazioni furono principalmente compiuti dai “Giovani Turchi”. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.500.000 persone, molte morirono per fame, malattia o sfinimento. Ancora oggi la posizione ufficiale del governo turco è che le morti degli armeni durante i “trasferimenti” o “deportazioni” non possono essere considerate un “genocidio”. Inoltre, parlare di “genocidio” è considerato un reato punibile con la reclusione da sei mesi a due anni, secondo l’art. 301 del codice penale (“vilipendio dell’identità nazionale”).

Tuttavia, un ampio consenso tra gli storici qualifica questo evento come il primo genocidio moderno e sottolinea la programmazione “scientifica” delle esecuzioni come prova di un disegno genocida. Anche l’Italia ha ufficialmente riconosciuto il genocidio”.

Quali ripercussioni ha avuto il genocidio sulla famiglia Avakian?

I segni lasciati dal genocidio nella mia famiglia sono stati profondi e le conseguenze delle atrocità compiute sui miei nonni sono rimaste impresse nei loro gesti di sopravvissuti. Mio padre Vasken Avakian non ha mai avuto il coraggio di parlare apertamente del genocidio e della sofferenza dei suoi genitori.

Ha cercato però di trovare la forza di andare avanti attraverso la strada della riconciliazione e del perdono, scontrandosi con le ripercussioni delle proprie ferite psicologiche. Una delle conseguenze più profonde che il genocidio ha lasciato alla mia famiglia è quella di esserci divisi, sparpagliati per il mondo e di non aver più fatto ritorno in Armenia, se non come degli armeni della diaspora“.

Qual è il tuo rapporto con l’Italia?

Il mio rapporto con l’Italia è profondo, fetale. La nazionalità italiana mi ha salvata, perché il mio passaporto etiope, rilasciato dall’Imperatore Haile Sellassie, a seguito del colpo di stato in Etiopia è diventato inutilizzabile. I miei mi hanno voluto che io studiassi nella scuola armena, in quella italiana e poi in quella internazionale affinché potessi parlare tante lingue. Mio padre diceva: “Nel mondo, per salvarti, devi parlare la lingua dei tuoi amici e dei tuoi nemici”. Infatti non c’è un armeno che non parli meno di quattro lingue. Mio padre ne parlava perfettamente undici, incluse il turco, il russo e ovviamente l’italiano, che per lui era la lingua dell’amore.

Come ho già detto, se ho la cittadinanza italiana è solo grazie a mia madre. Mio padre la conobbe ad Addis Abeba, dove è nata e dove è tornata al termine dei suoi studi universitari torinesi. La storia del loro incontro mi ha fatto sempre sorridere. Erano entrambi partecipanti ad una festa per ragazzi. Mio padre era accompagnato dalla sua fidanzata inglese, ma tra la folla notò mia madre, “questa bellissima Italiana” diceva lui molto orgoglioso.

Così, con la scusa di un malessere, riportò la fidanzata a casa e tornò alla festa per conoscere la ragazza dalle chiome brune e occhi verdi. Ma mentre tornava alla festa con la sua Tanus metallizzata, un asinello gli attraversò la strada. Per evitare l’animale, mio padre uscì di strada distruggendo la macchina. Nonostante ciò non desistette. Abbandonò l’auto e raggiunse la festa correndo, solo per conoscere mia madre. Questa è una storia che i miei mi raccontavano sempre in maniera allegra, quasi per placare il passato del genocidio della famiglia di papà”.

Adriana Giostra e Vasken Avakian

Perché, secondo te, alcuni genocidi non hanno la stessa eco storica di altri?

La storia umana è permeata di stermini, massacri, genocidi e crimini di guerra, una triste realtà spesso caratterizzata dall’indifferenza verso le minoranze colpite, lasciate nell’oblio. Il genocidio armeno ne è un esempio lampante, lungamente negato e dimenticato, con i responsabili che, dopo la sconfitta ottomana, trovarono rifugio principalmente in Germania senza subire conseguenze. Durante i trattati tra l’ex Unione Sovietica e la Turchia, gli ambasciatori di Ankara negarono l’esistenza degli armeni in Turchia, cercando di cancellare la loro memoria.

Negazione e oblio si riflettono anche nella distruzione delle chiese, dei monasteri e delle case armene, una violenza che continua nel Nagorno-Karabakh, dove l’Azerbaijan, guidato dall’etnonazionalismo, perpetua atti di violenza. La mancanza di intervento e di denuncia da parte della comunità internazionale, incluso il silenzio del Papa e dell’Italia, è assolutamente sconcertante. La guerra in Nagorno-Karabakh ha provocato l’esodo degli armeni, con il governo azero che aveva bloccato l’unica via di accesso agli aiuti umanitari facendo morire di fame la minoranza armena.

Questo ha portato, nel 2023, alla fine della Repubblica dell’Artsakh, che si era autoproclamata in quell’area geografica, quando gli azeri hanno occupato le case degli armeni. Sono rimasta sorpresa quando ho appreso che Israele ha firmato un accordo con il governo turco per fornito armi al governo azero per sterminare gli armeni, considerando il comune passato di genocidio con gli ebrei. Come diceva Vico, “corsi e ricorsi storici”: la storia sembra ripetersi, con gli armeni che subiscono nuovamente una pulizia etnica in Karabakh sotto lo sguardo silenzioso della comunità internazionale, inclusa l’Italia.

La mancanza di eco per alcuni genocidi è spiegabile dalla ‘fastidiosa’’ presenza delle minoranze per le maggioranze, il timore del diverso e, non da ultimo, gli interessi economici e geopolitici. Si pensi alle politiche di sterminio attuate dagli Stati Uniti e dal Canada contro i nativi americani, dall’Australia contro gli aborigeni e dalla Nuova Zelanda contro i Maori. La vergogna persiste nel fatto che, nonostante la chiusura dell’ultimo istituto australiano per l’educazione dei bambini aborigeni nel 1988, la situazione rimanga immutata.

In Cambogia, il regime di Pol Pot mirava a trasformare il paese in una repubblica socialista agraria, causando la morte di 1,5 milioni di persone tra il 1975 e il 1979. Anche il genocidio di Timor Est, avvenuto nel 1975, testimonia la brutalità umana.

Il genocidio in Ruanda, dove ho lavorato con le Nazioni Unite, evidenzia la fallacia delle missioni di peacekeeping, con un milione di morti e un intervento inefficace della comunità internazionale. L’ostilità tra gli Hutu e i Tutsi, acuita dalla divisione coloniale belga, portò a un massacro sistematico nel 1994, coinvolgendo anche gli Hutu moderati”.

Hai dedicato la tua vita agli altri: è questo il lascito della tua famiglia?

“Sì, è stato il lascito della mia famiglia. Appartenendo ad una minoranza e avendo un padre che mi ha insegnato che la sofferenza degli altri non va ignorata, mi sono sempre dedicata al servizio degli altri. Questo senso di impegno è stato rafforzato dalle parole di mia nonna, che a voce bassa ricordava l’Armenia perduta e le persone care che aveva perso nel genocidio. Anche il fatto di essere nata in Africa e cresciuta lì mi ha spinto ad aiutare gli altri, e quando dico “gli altri”, intendo tutti gli esseri viventi: umani, animali, piante, tutti. Per me, la vita è preziosa. Noi armeni siamo sopravvissuti e io mi sento una guerriera ma non uso le armi, perché non le amo ma amo l’educazione/istruzione“.

Per 23 anni ho lavorato con le Nazioni Unite in paesi colpiti dalla guerra come il Kosovo, il Rwanda, l’Angola, la Bosnia, l’Afghanistan, l’Armenia, la Somalia, il Sudan, eccetera. Ho anche lavorato costantemente con le Nazioni Unite sulle navi della guardia costiera, impegnata nelle operazioni di ricerca e salvataggio dei migranti. Qui ho visto e sentito la vera sofferenza, e ho capito perché le persone cercano rifugio in Italia: perché conosco i loro paesi, ci ho lavorato e ci sono nata. E ora mi dedico all’insegnamento portando le mie esperienze ai ragazzi e il mio messaggio: ‘Nelle vera storia, il conflitto tra Turchi e Armeni non è una frattura tra popoli, ma la rivelazione dell’avidità dei potenti‘”.

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