Sessantanovesimo giorno del #ArtsakhBlockade. La pace con un popolo che ha odio è impossibile e inimmaginabil (Korazym 18.02.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 18.02.2023 – Vik van Brantegem] – Nell’ambito della Conferenza sulla Sicurezza di München si è svolto un incontro trilaterale tra il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan, il Segretario di Stato degli USA Antony Blinken e il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev. Durante l’incontro è stato discusso l’andamento dei lavori attorno a una bozza di trattato di pace tra Armenia e Azerbajgian, nonché lo sblocco delle infrastrutture di trasporto regionale e la delimitazione della frontiera tra i due Paesi. Il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha ribadito l’impegno dell’Armenia a raggiungere la firma di un trattato di pace che garantisca davvero pace duratura e stabilità nella regione. Allo stesso tempo, ha sottolineato il blocco illegale del Corridoio di Lachin da parte dell’Azerbajgian e la conseguente crisi umanitaria, ambientale ed energetica nel Nagorno-Karabakh.

Dopo la riunione trilaterale di oggi il Corridoio di Lachin non viene riaperto e perciò si è trattato di un’altra tra le tante riunioni inutili, anche in riferimento all’auspicato accordo di pace tra l’Armenia e l’Azerbajgian.

Questa sera, alla Conferenza sulla sicurezza di München si è svolta anche una tavola rotonda con il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan, il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev, il Primo Ministro georgiano Irakli Garibashvili e il Segretario Generale dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) Helga Schmid.

Lo scorso 14 febbraio, il Segretario del Consiglio di Sicurezza dell’Armenia, Armen Grigoryan, ha dichiarato che Yerevan era favorevole ai negoziati tra gli Armeni del Nagorno-Karabakh e l’Azerbajgian come parte di un “meccanismo visibile a livello internazionale” che può essere menzionato nel trattato di pace attualmente in fase di stesura da Baku e Yerevan. Ha affermato che l’Armenia continua a lavorare con i suoi partner internazionali per far funzionare questo meccanismo sotto forma di una struttura internazionale o di un formato diverso, e inserirlo nel trattato di pace per affrontare i “diritti e la sicurezza degli Armeni del Nagorno-Karabakh”. Il giorno successivo, il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha informato che le bozze di proposte di pace sono state presentate all’Azerbajgian.

Il giorno successivo, il governo dell’Azerbajgian ha respinto categoricamente la richiesta dell’Armenia di includere in un accordo di pace un articolo sui diritti e la sicurezza degli Armeni etnici che vivono nell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. Il Portavoce del Ministero degli Esteri dell’Azerbajgian, Aykhan Hajizade, in un conferenza stampa del 15 febbraio scorso ha affermato: «Nel processo dei negoziati sull’accordo di pace, la richiesta dell’Armenia di creare un meccanismo internazionale per i diritti e la sicurezza degli Armeni etnici che vivono nella regione del Karabakh dell’Azerbajgian e gli sforzi per includere una disposizione in merito nel progetto di accordo di pace bilaterale tra l’Azerbajgian e l’Armenia è completamente inaccettabile e tali tentativi non produrranno alcun risultato». Hajizade ha aggiunto che tali sforzi «contraddicono le norme e i principi del diritto internazionale, nonché gli accordi di Praga e Sochi tra l’Azerbajgian e l’Armenia sul riconoscimento reciproco di integrità territoriale e sovranità. Vorremmo ricordare ancora una volta che il Karabakh è parte integrante dell’Azerbajgian e che i diritti e la sicurezza della popolazione di origine armena che vive in questa regione saranno garantiti in conformità con la Costituzione della Repubblica dell’Azerbajgian. È inaccettabile che l’Armenia interferisca nel processo di reintegrazione dei residenti armeni, che è una questione interna dell’Azerbajgian».

Le autorità azere, in primis il Presidente Ilham Aliyev, hanno continuamente affermato che Baku non discuterà «dei diritti e la sicurezza degli Armeni nella regione del Karabakh in Azerbajgian con nessun Paese, poiché è una questione interna dell’Azerbajgian». Dopo l’incontro con il Primo Ministro armeno a Praga in ottobre, Aliyev aveva dichiarato: «Gli Armeni che vivono in Karabakh sono nostri cittadini. Non discuteremo del loro destino o della loro vita futura con nessun Paese, inclusa l’Armenia. Questa è una nostra questione interna e gli Armeni godranno degli stessi diritti dei cittadini dell’Azerbajgian. In ogni caso, possono essere certi che la loro vita integrata nella società azera sarà molto migliore della loro vita attuale”. Baku ha respinto la richiesta dell’Armenia di uno status speciale per il Nagorno-Karabakh come una minaccia all’integrità territoriale dell’Azerbajgian. Dalla fine della guerra dei 44 giorni del 2020, le autorità azere hanno chiesto agli Armeni etnici del Nagorno-Karabakh di «eliminare la propaganda anti-azerbajgiana e di prendere provvedimenti per far parte della società azera».

«L’odio azero anti-armeno non è nuovo. La pace con un popolo che ha odio è impossibile e inimmaginabile. È bello avere principi, lotte e valori nella vita» (Nanou Likjan).

Gli Armeni sono classificati come “non degni di nota” da molti media occidentali, il che in pratica significa che possono essere sottoposti a pulizia etnica e genocidio senza ripercussioni, visto che nessuno se ne preoccupa o addirittura lo sa.

«Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla». È urgente, quindi, continuare a parlare di Armeni.

«Ecco, la giornata di un “eco-attivista” dell’Azerbajgian. Godersi cibo caldo, elettricità, riscaldamento e un supermercato rifornito, cose di cui l’Azerbajgian priva 120.000 persone nel Nagorno-Karabakh con il blocco. Così assurdo che l’Azerbajgian porta i giovani in autobus per 800 km ogni due giorni per una “eco-protesta”. Giorno 69 del blocco azero» (Lindsey Snell).

Sull’eccidio armeno c’è un silenzio criminale
In queste settimane il Nagorno Karabakh è isolato dal mondo, con l’unica via di accesso all’enclave bloccata dai filo azeri
L’Occidente che non condanna la strage per non irritare la Turchia si rende complice della presa in ostaggio di un popolo
di Silvana De Mari
La Verità, 18 febbraio 2023

Ho amato appassionatamente il libro La masseria delle allodole, dolente e magnifico racconto della scrittrice Antonia Arslan, che spiega il genocidio degli Armeni. Con il termine negazionista si indica qualcuno che nega lo sterminio degli Ebrei. Negare lo sterminio degli Armeni è lecito. Nel vocabolario Treccani il termine negazionismo indica «una corrente antistorica e antiscientifica del revisionismo la quale, attraverso l’uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo storiografico portato all’estremo, non si limita a reinterpretare determinati fenomeni della storia contemporanea ma, specialmente con riferimento ad alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo (per es., l’istituzione dei campi di sterminio nella Germania nazista), si spinge fino a negarne l’esistenza».

Nel 1990, il parlamentare socialista francese Jean Claude Gayssot propose una legge che intendeva punire, oltre alla negazione dell’Olocausto, anche quella dello sterminio degli Armeni, ma la proposta non fu ratificata dal Senato. Analogamente l’allora vicepresidente dell’Europarlamento, il finlandese Olli Rehn, insieme al presidente della Commissione, José Manuel Barroso, esaminarono e bocciarono la proposta in quanto avrebbe potuto compromettere una fiorente stagione di riforme democratiche in Turchia. Riforme che però, chissà come mai, si devono essere perse per strada. Quella degli Armeni quindi è un’impalpabile tragedia che si perde nel tempo e nello spazio. Parlarne, ricordarla, potrebbe compromettere il glorioso cammino della Turchia verso una scintillante democrazia.

In effetti visto che è la verità che rende liberi, dovrebbe essere il contrario. Solo l’assunzione di responsabilità dei terribili atroci fatti può permettere alla Turchia la libertà. Senza verità, nessuna giustizia è possibile. Senza giustizia, nessuna libertà è possibile. La masseria delle allodole ricostruisce tutto l’orrore: gli uomini assassinati, decapitati, castrati, le donne stuprate, vendute, trascinate in atroci marce della morte. Il motivo politico dello sterminio fu la Prima Guerra Mondiale. Nell’impero ottomano gli armeni erano dhimmi, termine con cui si indicano gli stranieri nel mondo musulmano, vuol dire sottomessi ma anche protetti: una popolazione vinta in guerra che pagava un tributo speciale e in cambio aveva il permesso di vivere. Una volta che eserciti cristiani hanno mosso guerra all’Impero ottomano, gli armeni hanno perso la loro posizione di dhimmi.

Il motivo psicologico dello sterminio e della sua crudeltà, la spiegazione del genocidio vero, e quello degli Armeni lo fu, è contenuta nell’incantevole geniale fiaba Biancaneve e i sette nani. Biancaneve non ha cercato di rubare alla regina il trono, non le ha avvelenato il gatto, non le ha fatto nessun danno. È semplicemente più bella di lei. Il genocidio vero è un atto di un inferiore contro un superiore. Il popolo sterminato ha una superiorità culturale clamorosa, tangibile rispetto al popolo sterminatore. Gli Armeni avevano un livello culturale, e di conseguenza economico clamorosamente superiore alla maggioranza della popolazione turca. Quando Gutenberg inventò la stampa il costo dei libri si abbatté e il loro numero si moltiplicò. L’oggetto fu vietato nell’Impero ottomano agli islamici, in quanto il Corano è l’unico libro che ha un valore e non è il caso di stampare altro.

La stampa fu permessa agli Armeni, che divennero rapidamente l’aristocrazia culturale e quindi economica: erano metà dei medici e metà degli ingegneri. È facile odiare i più ricchi e i più colti. Lo sterminio fu quanto di più insensato si possa immaginare. Con una guerra mondiale in corso, gli Ottomani hanno ucciso metà dei loro medici e metà dei loro ingegneri, la maggioranza dei loro fabbri e la quasi totalità degli orologiai, i dirigenti delle industrie, incluse quelle militari. Il tessuto finanziario-economico lacerato dalla mancanza del suo asse portante crollò, nello stupore dei persecutori che avevano invece pensato che l’eliminazione degli Armeni li avrebbe resi più ricchi. Il libro ricostruisce però anche l’invincibile coraggio dei pochi straordinari soccorritori. Anche lo sterminio degli Armeni ha i suoi giusti.

Ora gli Armeni sono di nuovo sotto attacco e rischiano le loro vite. Il Nagorno-Karabakh (o Artsakh, come gli Armeni chiamano il lembo orientale della loro patria antica) riceve linfa vitale dal cosiddetto Corridoio di Lachin, l’unica via d’accesso rimasta agli Armeni per l’Artsakh. Ora è stata chiusa dall’Azerbajgian, e non usando soldati ma ambientalisti o cosiddetti tali. È quindi urgente continuare a parlare di Armeni. E ora c’è un secondo libro della Arslan: Il destino di Aghavnì. «Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla». La frase del filosofo e politico britannico Edmund Burke è non a caso incisa sul monumento eretto nel campo di concentramento di Dachau. Il detto torna alla mente dopo aver letto lo struggente racconto ambientato in una piccola città dell’Anatolia nella primavera del 1915, alla vigilia del genocidio del popolo armeno. Sullo sfondo il declino dell’Impero ottomano e la presa del potere da parte dei giovani turchi, determinati a rea- lizzare uno Stato composto da un’unica etnia, la creazione del quale prevedeva di cancellare la popolazione armena, la più numerosa di religione cristiana, presente in quelle terre dal VII secolo a.C. Cancellarla come soggetto storico, culturale e soprattutto politico.

Ruolo determinante in questa scelta fu la rapina dei beni e delle terre degli Armeni, che rappresentavano l’élite culturale e finanziaria. La notte del 24 aprile 1915, la popolazione armena di Costantinopoli venne arrestata dando inizio alla deportazione sistematica degli Armeni e al loro sterminio.

I segnali di quanto sta per abbattersi sugli Armeni ci sono tutti, eppure la maggior parte di essi non vuole credere che le persone con cui vivono fianco a fianco, i vicini con cui i loro bambini giocano possano diventare una minaccia. Tuttavia serpeggia un senso d’inquietudine e gli anziani, ricordando i fatti del passato, raccomandano prudenza. «Mantenere un basso profilo», si direbbe oggi. Intimorita, ma non abbastanza, dagli avvertimenti della sua governante, la giovane Aghavnì esce di casa con il marito e i suoi due bambini da cui preferisce non separarsi, proprio per via di quei giorni calamitosi, come ella ripete. Hanno in programma la visita alla zia, l’acquisto di un paio di scarpe, la sosta alla bottega che vende la specialità amata dai piccoli, per aggrapparsi alla normalità, per convincersi che non ci sia ragione per cambiare le proprie abitudini… Nessuno li vedrà più. Le ricerche dei familiari e dell’intera comunità armena si scontrano con il muro di omertà, di disprezzo, di odio di chi sa che gli Armeni sono già condannati ed è solo questione di ore.

La vicenda della ventitreenne Aghavnì e della sua famiglia piano piano scivola nell’oblio. Alla Arslan il grande merito di averla riportata alla memoria, dopo aver visto la fotografia di Aghavnì, sorellina di suo nonno, conservata in casa di un cugino trasferitosi in America. Da qui prende il via la vicenda, in cui l’autrice immagina cosa possa essere accaduto alla giovane, a suo marito e ai suoi bambini in un racconto struggente e doloroso, ma anche ricco di speranza e consolazione, dove Aghavnì con la forza della fede, accetta il suo destino senza tuttavia rassegnarsi. E la notte del 25 dicembre, davanti alla rappresentazione deflagrante di un Uomo, una Donna e un Bambino, vittime e carnefici sentono di appartenere alla medesima umanità. Di nuovo, come ne La masseria delle allodole, insieme all’orrore, anche la grazia irrompe sulla scena.

La lettera
Presidente Meloni, rischiamo un nuovo sterminio

Gentilissimo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rappresento una comunità di cittadine italiane, mamme e donne, di origine armena.

La nostra storia di sradicamento è sempre stata accompagnata da dignità, speranza e coraggio. Questo lo dobbiamo alle nostre madri, alle nostre nonne, alle nostre famiglie. Noi donne armene siamo depositarie delle antiche e preziose tradizioni del nostro popolo e viviamo con grande orgoglio la nostra eredità culturale, in un Paese pacifico in cui ci sentiamo perfettamente integrate.

Da due mesi centinaia di attivisti azeri stanno bloccando il Corridoio di Lachin, l’unica arteria che mette in comunicazione l’Artsakh/Nagorno-Karabakh con l’Armenia e, attraverso di essa, con l’Europa e con la comunità internazionale, impedendo il transito di persone, mezzi, viveri e medicinali. Oltre 120.000 armeni dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh, da più di due mesi sono isolati dal resto del mondo. Negozi vuoti, prodotti e medicinali mancanti, persone senza lavoro, scuole chiuse, ospedali in seria difficoltà, malati in terapia intensiva che non possono essere trasportati: è in corso una vera e propria crisi umanitaria denunciata anche dall’Onu; è in atto l’ennesimo progetto genocidario contro il popolo armeno.

Non vogliamo scriverle sull’ingiustizia di questa «guerra strisciante», quale è stata definita dalle madri dell’Artsakh/Nagorno Karabakh nella lettera a Ursula von der Leyen, perché siamo certe che al di là delle valutazioni di equilibrio internazionale e dei differenti ruoli che ognuna di noi ricopre, tutte noi inorridiamo davanti alle sofferenze imposte ai nostri figli. È dilaniante dover leggere: «ci aiuti siamo disperate», «i nostri figli sono rimasti senza cibo, calore, cure mediche e senza la possibilità di studiare», e ancora, «non permetteremo che i nostri figli muoiano in silenzio». Stiamo parlando di 30.000 bambini, presidente.

Facciamo appello al suo coraggio, alla sua determinazione, alla sua volontà di difendere la voce delle donne e alla sua capacità di mediazione politica perché vengano fermati questi folli crimini contro l’umanità: non si possono distruggere la speranza e l’innocenza dei bambini. Nessuno deve rimanere inerte.

L’Italia è un partner strategico fondamentale per l’Azerbaigian e dunque ha sicuramente i mezzi per farsi ascoltare in modo da indurre la cessazione di questo isolamento che sta letteralmente spegnendo le vite di 120.000 civili.

Le chiediamo di ascoltare l’appello di noi madri e donne armene, sapienti custodi delle preziose radici del nostro popolo, e di intervenire per impedire il perdurare di questa situazione insostenibile. Non sappiamo quanto i bambini, le donne e gli anziani dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh possano ancora resistere nella drammatica situazione determinata da questo blocco.

Grazie presidente e buon lavoro.

Gayané Khodaveerdi
Presidente di Agbu (Armenian general benevolent union)

«Si sa com’è fatto il cuore degli uomini:
si arresta davanti ai piccoli contrattempi
e si fa una ragione delle peggiori sciagure»
(Didò Sotirìu, Addio Anatolia)
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Addio Anatolia (Crocetti Editore 2022, 312 pagine) di Didò Sotirìu è la storia, epica e drammatica, della scomparsa dell’ellenismo dalle terre in cui era insediato da tremila anni. È il racconto di un paradiso perduto. Mostra il fallimento rovinoso e sanguinario di ogni forma di nazionalismo, sia turco che greco, e accusa con forza la politica sciagurata delle Grandi Potenze in Oriente, guidata dalla brama di petrolio e dalla corruzione. Seguendo le peripezie del protagonista Manolis e dei suoi compagni di sventura, Didò Sotirìu offre al lettore un romanzo avvincente e, allo stesso tempo, uno sguardo ricco di umanità e di una limpidezza rara sulla Grande Catastrofe dell’Asia Minore. La tragedia, che trovò compimento nella tarda estate del 1922, viene infatti descritta dall’autrice – che fu lei stessa, a soli tredici anni, una di quei profughi greci scampati ai massacri e costretti all’esilio dalla terra natìa – con grande equilibrio e apprezzabile assenza di partigianeria. Definito il Guerra e pace della letteratura greca, Addio Anatolia è ormai considerato un classico della letteratura greca contemporanea.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]