Si acuisce la crisi politica armena (Asianews 15.02.22)

Dimissioni del presidente Sarkisyan lasciano il campo libero al premier Pašinyan. Il primo ministro sotto accusa per essere troppo cedevole nei confronti di Azerbaigian e Turchia. I timori di una deriva autoritaria a Erevan.

Mosca (AsiaNews) – Le dimissioni a fine gennaio del presidente Armen Sarkisyan hanno ulteriormente acuito gli scontri politici nella giovane democrazia armena. L’ex capo dello Stato ha spiegato nei giorni scorsi di essersi dimesso per “carenza di poteri” attribuiti al suo ruolo, e si è trasferito sulle isole caraibiche di Saint Kitts and Nevis, dove si è scoperto fosse già in possesso di una terza cittadinanza, oltre a quella britannica che era già nota.

Sulla Novaja Gazeta l’ex ambasciatore armeno in Russia, ora politologo, Stepan Grigoryan sostiene che “in certi Paesi come il nostro, oltre agli accordi scritti, sono molto importanti quelli verbali, come avvenuto nel passaggio di presidenza tra Serž Sargsyan e Armen Sarkisyan, a cui era stato promesso che da presidente si sarebbe occupato di attirare investimenti in Armenia, e avrebbe avuto un ruolo importante nella politica estera”.

Sarkisyan era stato eletto nel 2018, e in questi anni ha dovuto trovare un modo di collaborare con il premier Nikol Pašinyan, protagonista della “rivoluzione di velluto” e poi della sconfitta con l’Azerbaigian nel Nagorno Karabakh, quindi confermato alle elezioni anticipate del 2021. Il governo di Pašinyan ha bloccato tutte le iniziative del presidente, usando la legittimazione popolare di cui ancora gode nonostante le molte contraddizioni. Grigoryan avverte però che “anche a un governo rivoluzionario serve un controllo da parte degli altri poteri dello Stato”.

L’amministrazione Pašinyan è fortemente criticata, tra le altre cose per le scarse competenze dei suoi componenti, scelti dalla “società civile”, che non sembrano in grado di affrontare le sfide tremende di questi anni. “Ho parlato con un membro importante del partito al governo”, spiega Grigoryan, “e mi ha detto: se l’Azerbaigian ha 1.000 carri armati, la Turchia 10mila e noi solo 300, siamo costretti a fare quello che vogliono loro. Io gli ho risposto che il Lussemburgo non ne ha neanche uno, ma vive in pace tra Francia e Germania”.

Dopo la conferma di Pašinyan, il presidente dimissionario non ha avuto la forza di continuare il confronto, e si è unito alle critiche distruttive delle opposizioni, insieme alla Chiesa armena, all’università di Erevan e all’Accademia delle Scienze. Proprio la rigidità dell’élite intellettuale, culturale e politica ha ulteriormente rafforzato il consenso popolare al primo ministro, di cui si chiedevano soltanto le dimissioni, senza proporre alternative e compromessi.

Sarkisyan ha inviato la lettera di dimissioni da Londra, prima di volare nei Caraibi, e questo atteggiamento sprezzante ha attirato ancora più il malumore nella popolazione. Pašinyan ha avuto buon gioco a esasperare l’ex presidente dopo la sconfitta bellica del 2020, quando è apparso chiaro che intendeva liberarsi di lui, ciò che non avrebbe potuto fare per vie parlamentari dove sarebbe servito il 75% dei consensi (ora controlla comunque il 67%).

Secondo Grigoryan e diversi altri commentatori, la crisi si è acuita poiché Pašinyan è in procinto di concludere nuovi accordi sul Nagorno Karabakh cedendo su molti punti, pur di chiudere i contenziosi con azeri e turchi. Soprattutto pare inevitabile il riconoscimento del Karabakh come parte dell’Azerbaigian, “visto che ormai tutto il mondo lo riconosce”, come ha recentemente affermato lo stesso premier armeno, cosa che invece l’opposizione e l’alta società armena non è disposta ad accettare.

Con la Turchia il capo del governo sarebbe disposto a non insistere più sulla denuncia del genocidio dell’inizio del ‘900, sostenendo che “di questo se ne deve occupare la diaspora armena, più che le istituzioni nazionali”. Verrebbero aperti gli accessi stradali verso Nakhičevan, permettendo quindi alla Turchia di comunicare direttamente con l’Azerbaigian. Infine, Pašinyan potrebbe cercare di sostituire Sarkisyan con una persona a lui fedele, compiendo un “corto circuito” democratico simile a quelli che lui denunciava ai tempi della “rivoluzione di velluto”. In questo modo, conclude Grigoryan, “anche lui si trasformerebbe in una specie di autocrate, e non credo che godrebbe ancora a lungo del consenso attuale”.

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