Zone calde, quelle aree del mondo dove si combatte fuori dai riflettori (Espresso 11.04.23)

Da ormai più di un anno, una cortina di ferro divide l’Europa. Il mondo sembra tornato sotto sfere d’influenza, l’opinione pubblica è assuefatta alla geopolitica che apre quotidiani e telegiornali. La guerra in Ucraina infuria sui telefonini, il campo di battaglia si fa più vicino, mentre si scrollano le pagine dei social network. Prima si parla di fin dove riuscirà a spingersi l’esercito russo, poi si attende l’offensiva di primavera di Kiev. Ma da mesi i piani sbandierati dalle autorità si manifestano in un nulla di fatto. In uno stallo come quello che circonda la piccola città di Bakhmut, nel Donbass, ormai quasi del tutto controllata dai russi. Una delle numerose zone definite simbolo di questa guerra. Come Buča, Mariupol, Irpin: fino a un anno fa semi-sconosciute, oggi tristemente note.

Impantanate all’apparenza anche le trattative di pace, quantomeno quelle che non rimangono segrete. All’inizio il mediatore numero uno era considerato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, alle prese con gravi problemi interni dopo il terremoto e con le elezioni a breve. Adesso c’è chi invoca, tra le diffidenze di Washington, il ruolo del leader cinese Xi Jinping, che ha interesse a intestarsi una tregua, ma che ci guadagna, secondo gli analisti, da un conflitto lungo e a bassa intensità. I margini dei negoziati si assottigliano e l’assenza di alternative – ribaltando la celebre frase dell’ex segretario di Stato statunitense Henry Kissinger – non schiarisce la mente. Anzi, rende forse ancor più fragile il lavoro diplomatico anche in altre zone calde del mondo.

Come in Nagorno-Karabakh, conteso tra Armenia e Azerbaigian. In questa regione nel Caucaso meridionale sono forti gli effetti della guerra in Ucraina. Nonostante la tregua di due anni e mezzo fa, gli scontri non si sono mai fermati. L’unico che era riuscito a mediare tra le parti era stato Vladimir Putin: a novembre 2020, strategicamente, si era affermato come arbitro imponendo una presenza militare russa (circa duemila unità) in Azerbaigian, ex repubblica sovietica, e come garante della sicurezza armena. Mentre le preoccupazioni del Cremlino isolato sono rivolte altrove, però, gli azeri sondano il terreno e il rischio di escalation è alto. E il cessate il fuoco fragilissimo.

La storia ci riporta tragicamente agli anni Novanta anche in Myanmar, o Birmania, dove il primo febbraio 2021 i militari hanno rovesciato il governo democraticamente eletto. Il Paese delle pagode d’oro è scivolato velocemente in una sanguinosa guerra civile. Da una parte il Tatmadaw, l’esercito con una lunga storia di atrocità contro i civili, dall’altra i numerosi gruppi ribelli in parte riuniti sotto la sigla del People’s Defence Force, il braccio armato del governo di coalizione nazionale, esecutivo in esilio che sfida la giunta al potere guidata dal generale Min Aung Hlaing.

Le iniziali manifestazioni pacifiche, brutalmente represse, diventano lotta armata. Ai raid aerei dell’esercito i ribelli rispondono con la guerriglia, tradizionale in queste zone, e i numeri (difficili da verificare) parlano chiaro: più di undicimila morti e circa un milione e mezzo di sfollati interni. Amnesty International, nel suo ultimo rapporto, scrive di «migliaia di arresti arbitrari e di esecuzioni sommarie» delle forze armate.

«In qualche modo la tragedia birmana non è entrata nella coscienza del mondo. Difficile spiegare perché», raccontava il giornalista Tiziano Terzani nel 1991. Vale pure oggi. «Se i governi stranieri vogliono davvero aiutare – dice a L’Espresso lo storico Thant Myint-U, nipote di un vecchio segretario dell’Onu – dovrebbero innanzitutto agire a livello multilaterale. Ma, dopo aver indebolito le Nazioni Unite per molti decenni, non sono sicuro che sia facile, anche con una sufficiente volontà politica».

In Yemen, invece, si intravedono timidi segnali positivi. Dopo una guerra devastante durata otto anni tra i ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, e il governo yemenita, appoggiato dall’Arabia Saudita, la recente ripresa delle relazioni tra Teheran e Riad potrebbe promuovere una certa stabilità nella penisola arabica. «I Paesi della regione condividono un unico destino», aveva commentato il ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan Al Saud, al momento dell’accordo. Sul campo yemenita, però, una vera pace ancora non c’è e le sorti della popolazione sono scritte nei dati dell’Onu: dal 2015 quasi 400 mila morti, circa la metà uccisi negli scontri armati, gli altri per gli effetti indiretti della guerra. Malnutrizione, scarsità di acqua, epidemie: uno stato di emergenza cronica per cui le piccole aperture producono effetti limitati.

Tante le incognite anche in Etiopia. Per ora regge l’accordo siglato il 2 novembre scorso a Pretoria, Sudafrica, dal governo federale etiope guidato da Abiy Ahmed Ali e dalle autorità del Tigray People’s Liberation Front, i ribelli della regione del Tigray, nel Nord del Paese. Un primo passo verso il silenzio delle armi, certo, ma si potrebbe arretrare senza il controllo della comunità internazionale. Innanzitutto perché la guerra, scoppiata a fine 2020, ha ridato vita a lotte identitarie in un contesto inter-etnico. Tanto che per mesi si è parlato di balcanizzazione del conflitto con conseguenze drammatiche per i civili.

Poi c’è la questione dell’Eritrea, in questo caso alleata di Addis Abeba, la cui posizione non è stata del tutto chiarita nelle trattative. Infine, le indagini sui crimini di guerra, forse commessi da entrambe le parti, sono state affidate al governo etiope e non a un’autorità esterna. Decisione che rischia di seppellire la verità. Che in guerra è sempre la prima vittima.

Vai al sito