I Paesi del Caucaso Meridionale alla ricerca di una pace stabile in alternativa alla colonizzazione atlantista (K. Askerkhanov) (FarodiRoma 06.07.24)

Tutti e tre i grandi vicini dei paesi del Caucaso meridionale sono attori politico-militari nella regione del GME.
Tutti e tre i paesi del Caucaso meridionale, Armenia, Azerbaigian e Georgia, hanno attraversato una fase di confronto politico-militare tra loro o con altri vicini. Nei paesi del Caucaso meridionale ci sono persone al potere che lottano per una pace duratura.
A parte il fatto che:
– Il modello globale della “Pax Americana” è in declino e, come dimostra la storia, è accompagnato da una serie di guerre in tutto il mondo.
– i processi che si verificano nella BBB determinano il futuro non solo della regione, ma sono di natura civilizzata.
– sullo sfondo delle guerre e del crollo del tessuto della “Pax Americana” globale, si stanno già formando nuove connessioni, e forse alleanze, che, da un lato, dovrebbero compensare i costi della distruzione dell’attuale sistema economico modello, e dall’altro emergono i contorni di un nuovo mondo.
I paesi del Sud stanno diventando partner di quelle grandi entità economiche emergenti che comprendono i rischi derivanti dal crollo della Pax Americana.

Avendo una vasta esperienza nell’interazione con popoli e culture diverse, ho avuto l’opportunità di osservare, analizzare e sintetizzare. Una qualità ha sempre attirato la mia attenzione: il modo in cui una persona, un’azienda, un paese affronta sfide e minacce nuove e sconosciute. L’esperienza e la conoscenza non sono condizioni sufficienti per affrontare l’ignoto e il pericoloso. Mi sono reso conto che abbiamo ancora bisogno di volontà e di persone che la pensano allo stesso modo. La combinazione di questi fattori aumenta significativamente le possibilità di successo, non solo di un individuo, ma dell’intera comunità.
Sono venuto a questo simposio dall’Azerbaigian. Nel Caucaso meridionale, e questo è un posto unico sotto molti aspetti, ci sono tre stati indipendenti: Armenia, Azerbaigian e Georgia. Siamo circondati da tre grandi vicini: Iran, Turchia e Russia, che da molti secoli partecipano attivamente agli eventi del Grande Medio Oriente (GME). Sono essenzialmente uno degli attori più importanti nei processi politici, che hanno subito una forte accelerazione dopo il 7 ottobre 2023.

Nel corso del XX secolo, i paesi del Caucaso meridionale si sono trovati due volte in guerra, quando è crollato prima l’impero russo nel 1917, e poi l’URSS nel 1991. A differenza di quel periodo, già ai nostri giorni i paesi del Caucaso meridionale risolvono in gran parte in modo indipendente i problemi relativi alla creazione dei principi di un mondo post-conflitto. Abbiamo superato la fase storica del confronto militare e stiamo attivamente cercando vie per una pace sostenibile. Coloro che detengono il potere nei paesi del Caucaso meridionale sono persone che hanno ricevuto il mandato di farlo dai loro popoli. Tuttavia, i recenti eventi in Georgia e Armenia sollevano preoccupazioni. Gli interessi di attori esterni possono portare alla destabilizzazione della regione.
Una pace duratura nella nostra regione offre opportunità per accelerare lo sviluppo economico e la prosperità dei popoli. Si stanno già formando nuove rotte di trasporto internazionali, ad esempio “Ovest-Est” e “Nord-Sud”, che stanno cambiando e avvicinando i nostri paesi. La futura partecipazione dei nostri paesi a tali progetti globali spingerà i paesi del Caucaso meridionale verso l’integrazione economica, possibilmente verso la formazione di un mercato comune.
Processi regionali. Ciò che osserviamo nel Caucaso meridionale si sta verificando sullo sfondo di quello che può essere chiamato il crollo della “Pax Americana”.
Come la storia ci insegna, l’uscita dalla scena del dominion, e parliamo dell’egemonia statunitense nel mondo a partire dalla metà del XX secolo, porta a tutta una serie di guerre in tutto il mondo. Allo stesso tempo, sullo sfondo della destabilizzazione globale, nei paesi del Caucaso meridionale si osserva esattamente il quadro opposto.
Comprendiamo che ciò che accade nel Grande Medio Oriente determinerà il futuro non solo di questa regione, ma di tutta la civiltà umana.

Sullo sfondo di eventi enormi e su larga scala, questo non è ancora stato notato nel mondo, nuove connessioni e forse alleanze; Queste nuove connessioni aiutano a ridurre gli effetti negativi del crollo della Pax Americana. Da un lato alcuni paesi stanno creando nuove relazioni per proteggersi dai costi dell’attuale modello economico globale e, dall’altro, sta emergendo una strategia per cercare i contorni di un nuovo modello post-americano. mondo.
Credo che sia necessario analizzare attentamente gli eventi per cogliere in tempo i contorni di un mondo nuovo, ancora in gran parte misterioso.

Secondo me, i paesi del Caucaso meridionale sono uno di questi posti. Dove questo nuovo mondo assume connotazioni concrete. Credo che la nostra regione stia creando condizioni favorevoli per le attività delle multinazionali e delle grandi società straniere. Allo stesso tempo, siamo sulla soglia dell’emergere di grandi aziende nazionali con le quali interagiranno le società internazionali. L’Azerbaigian non è nella posizione di osservatore passivo. Il mio Paese è un attore proattivo, energico e fiducioso, sia in campo politico che economico.

Kamil Askerkhanov, Azerbaigian, analista economico e specialista in teoria del management. Intervento al Convegno del PANAP a Bratislava sul tema “Possibile contributo dei paesi del Caucaso meridionale al raggiungimento di una pace stabile nella regione”.

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I 5 migliori libri di cucina armena (Notiziescientifiche 06.07.24)

Questi libri esplorano le tradizioni culinarie e il patrimonio culturale armeni con una vasta gamma di ricette e approfondimenti storici.

Di cosa parlano i libri di cucina armena

La cucina d’Armenia di Sonya Orfalian è un’esplorazione dettagliata delle tradizioni culinarie armene. Il libro presenta oltre 130 ricette tradizionali, ciascuna accuratamente documentata con istruzioni precise per ingredienti, preparazione e metodi di cottura. Oltre alle ricette, Orfalian fornisce un ricco contesto storico e culturale, tra cui aneddoti, leggende e vita quotidiana in Armenia.

Anoush linì! di Verjin Manoukian si addentra nelle antiche tradizioni culinarie dell’Armenia. Descrive l’uso meticoloso di cereali, legumi, frutta e prodotti del bestiame. Le ricette, accompagnate da spiegazioni semplici e dettagliate, evidenziano i benefici per la salute e i sapori dei piatti armeni. Questo titolo non offre solo una guida pratica alla cucina, ma anche un apprezzamento più profondo del patrimonio culinario armeno.

Libri in inglese

Armenian Food di Irina Petrosian e David Underwood offre un viaggio culinario completo attraverso l’Armenia. Gli autori mescolano narrazioni storiche, leggende e storie di fatto per presentare un ricco arazzo della cultura gastronomica armena. Il libro esplora antiche favole, influenze sovietiche sulla cucina e usanze armene uniche come “nutrire” i morti. Con ricette autentiche e aneddoti culturali, questo libro è una risorsa preziosa per chiunque sia interessato alle tradizioni armene.

The Armenian Table Cookbook di Victoria Jenanyan Wise offre 165 ricette tradizionali e contemporanee, catturando l’essenza dei sapori armeni con un tocco moderno. Il libro include capitoli dettagliati sugli ingredienti armeni essenziali, yogurt, maza, pane, insalate, pilaf e piatti di carne. Ogni capitolo è introdotto da commenti e consigli. È una guida alla cucina armena. Il tocco personale di Wise e le ricette di famiglia aggiungono profondità e autenticità a questa raccolta.

The Cuisine of Armenia di Sonia Uvezian presenta 375 ricette che mettono in risalto le diverse e ricche tradizioni culinarie dell’Armenia. Da kebab e verdure ripiene a squisiti dolci, questo libro copre un’ampia gamma di piatti armeni. Uvezian include informazioni storiche, menu e un glossario. Fornisce una guida alla cucina armena. Questo titolo è una risorsa definitiva per chiunque sia interessato a esplorare la cucina armena, con ricette che spaziano dai piatti tradizionali preferiti alle creazioni innovative ispirate alla cultura armena.

Lista dei migliori libri di cucina armena su Amazon

Qui sotto la top list dei 5 migliori libri di cucina armena che sono presenti su Amazon:

 

 

1.La cucina d’Armenia. Viaggio nella cultura culinaria di un popolo

 


La cucina d'Armenia. Viaggio nella cultura culinaria di un popolo

TitoloLa cucina d’Armenia
SottotitoloViaggio nella cultura culinaria di un popolo
ISBN-13: 978-8879289825
Autore: Sonya Orfalian
Editore: Ponte alle Grazie
Edizione: quarta (1 gennaio 2000)
Pagine: 272
Recensioni: vedi
Formato: copertina flessibile

Prezzo: 17.67 EUR su Amazon.it   (dal 07/07/2024 7:31 CEST – Avviso)


 

 

 

2.Anoush linì! Ricette e tradizioni della cucina armena

 


Anoush linì! Ricette e tradizioni della cucina armena

TitoloAnoush linì! Ricette e tradizioni della cucina armena
ISBN-13: 978-8896923313
Autore: Verjin Manoukian
Editore: Trenta Editore
Edizione: 1 gennaio 2012
Pagine: 180
Recensioni: vedi
Formato: copertina flessibile

Prezzo: — su Amazon.it   (dal 07/07/2024 7:31 CEST – Avviso)


 

 

 

3.Armenian Food: Fact, Fiction & Folklore

 


Armenian Food: Fact, Fiction & Folklore

TitoloArmenian Food
SottotitoloFact, Fiction & Folklore
ISBN-13: 978-1411698659
Autori: Irina Petrosian, David Underwood
Editore: Lulu.com
Edizione: 19 aprile 2006
Pagine: 252
Recensioni: vedi
Formato: copertina flessibile
Note: in inglese

Prezzo: 15.16 EUR su Amazon.it   (dal 07/07/2024 7:31 CEST – Avviso)


 

inglese

 

 

4.The Armenian Table Cookbook: 165 treasured recipes that bring together ancient flavors and 21st-century style

 


The Armenian Table Cookbook: 165 treasured recipes that bring together ancient flavors and 21st-century style

TitoloThe Armenian Table Cookbook
Sottotitolo165 treasured recipes that bring together ancient flavors and 21st-century style
ISBN-13: 978-1905570706
Autore: Victoria Jenanyan Wise
Editore: Clairview Books
Edizione: New edition (3 ottobre 2013)
Pagine: 320
Recensioni: vedi
Formato: copertina flessibile
Note: in inglese

Prezzo: 27.22 EUR su Amazon.it   (dal 07/07/2024 7:31 CEST – Avviso)


 

inglese

 

 

5.The Cuisine of Armenia

 


The Cuisine of Armenia

TitoloThe Cuisine of Armenia
ISBN-13: 978-0970971678
Autore: Sonia Uvezian
Editore: The Siamanto Press
Edizione: Revised (31 luglio 2001)
Pagine: 496
Recensioni: vedi
Formato: copertina flessibile
Note: in inglese

Prezzo: 18.23 EUR su Amazon.it   (dal 07/07/2024 7:31 CEST – Avviso)


 

inglese

 

Tabella riepilogativa dei migliori libri di cucina armena

 

 

 

 

 

 

Titolo Autore Edizione Pagine
La cucina d’Armenia. Viaggio nella cultura culinaria di un popolo Orfalian, Sonya 2000 272
Anoush linì! Ricette e tradizioni della cucina armena Manoukian, Verjin 2012 180
Armenian Food: Fact, Fiction & Folklore Petrosian, Irina; Underwood, David 2006 252
The Armenian Table Cookbook: 165 treasured recipes that bring together ancient flavors and 21st-century style Jenanyan Wise, Victoria 2013 320
The Cuisine of Armenia Uvezian, Sonia 2001 496

 

Lo sviluppo del mondo è in stallo perchè l’Occidente vuol mantenere il dominio ad ogni costo, ma non è più in grado di farlo per ragioni oggettive (Karine Gevorgyan) (FarodiRoma 05.07.24)

Vedo la situazione attuale nel mondo in questo modo: si sta accelerando verso una situazione di stallo con rischi estremi di risolversi in una forza maggiore combinata con l’uso di mezzi di distruzione non convenzionali, come armi nucleari, biologiche e chimiche, in un contesto di diminuzione nella capacità di contrastare le catastrofi naturali.
I confronti emergenti sono caratterizzati dall’azione di scenari inerziali di tutti i partecipanti ai processi.

Allo stesso tempo, alcuni (il cosiddetto Occidente, guidato dagli Stati Uniti) vogliono mantenere il dominio ad ogni costo, ma non sono più in grado di farlo per ragioni oggettive: a causa del catastrofico deterioramento degli strumenti di gestione e della crescente contraddizioni tra strati interni.
Le misure adottate creano difficoltà, ma non portano agli obiettivi dichiarati. Quindi, la confisca dei beni russi aiuterà l’Occidente? Piuttosto, intensificherà la distruzione nel sistema di interazione internazionale.
Considerando il peso del debito degli Stati Uniti, con un debito pubblico enorme, qualsiasi sfiducia nell’affidabilità degli investimenti in titoli americani può portare ad un grave aumento del costo del suo servizio. Se i beni verranno comunque confiscati, la Russia avrà qualcosa di cui rispondere. In Russia sono stati congelati diverse decine di miliardi di dollari appartenenti a società americane o a persone giuridiche ad esse affiliate.
Allo stesso tempo, è evidente l’intenzione dei detentori dell’offerta di dollari, non garantita da beni reali, di trovare modi per impossessarsi di quei beni reali, come terreni, immobili e risorse naturali. In questa situazione, l’Ucraina e il Medio Oriente sono diventati il ​​campo di battaglia. I rischi non sfuggono alle istituzioni non statali come la Chiesa cattolica e la Chiesa apostolica armena.
Il calo del livello di fiducia nei politici e nei media non contribuisce a mantenere il dominio del formato Pax Americana.

I paesi non occidentali (gli altri) non hanno una strategia unificata per vincere e mantenere le loro posizioni, riponendo le loro speranze nella tattica di esaurire la controparte in modo reattivo. Il processo di istituzionalizzazione dei formati procede lentamente. Intendo i BRICS.

Medio Oriente e Caucaso meridionale
Dinamica crescente nei processi di cambiamento nell’ordine mondiale con crescenti conflitti nella “major league”, spargimenti di sangue in Medio Oriente, tendenze crescenti del coinvolgimento dell’Europa in uno scontro militare con la Russia e una diminuzione del livello di interazione commerciale ed economica tra i Paesi dell’UE e la Cina creano per i Paesi del Caucaso meridionale da un lato rischi elevati e dall’altro nuove opportunità.

Il primo è dovuto all’impegno delle autorità e delle società rispetto a scenari e progetti precedenti, interni ed esterni, che hanno già ridotto al minimo catastrofico le possibilità di azioni consolidate di tutti e tre i soggetti. Soprattutto Azerbaigian e Armenia. Le azioni della leadership georgiana indicano la loro riluttanza a trovarsi in una zona di turbolenza politica.
A livello diplomatico è stato avviato il processo di “soluzione pacifica”, delimitazione e demarcazione, approvato dall’intera “major league”. Mosca, Washington, Pechino, Londra e Bruxelles sostengono questo processo. Per scopi diversi. Tuttavia, ricordo una battuta a margine della Società delle Nazioni caduta nell’oblio: “Se vuoi la guerra, parla di pace”. Ed ecco perché. La leadership armena, “su richiesta di Baku”, sta effettuando la demarcazione senza la necessaria procedura di legittimazione a livello parlamentare e registrazione presso il Ministero della Giustizia.
L’“installazione di dissuasori” e lo sminamento hanno provocato in Armenia il movimento di protesta “Tavush in nome della Patria”, guidato dall’arcivescovo Bagrat. I già citati dettagli giuridici “noiosi” sui cittadini indignati che chiedono le dimissioni del governo di Nikol Pashinyan per molte altre ragioni interne non interessano più al momento. Tuttavia, anche con un cambio di potere, i problemi esterni non scompariranno.
Sembrerebbe che il corteo vittorioso dell’Azerbaigian sia in marcia. Tuttavia, le “piccole cose” menzionate lasciano intravedere la possibilità di una nuova guerra, nella quale un alleato come la Turchia non sarà in grado di fornire al paese lo stesso sostegno. Perché? L’argomento è separato e affascinante. Tra l’altro, a causa dell’emergente attualizzazione del fattore curdo.

La seconda riguarda le “nuove opportunità”. Ad essi è associata la prospettiva di formare una grande zona monetaria ed economica con l’infrastruttura logistica del progetto Nord-Sud. L’unica cosa che resta da fare è fermare i processi inerziali avviati dai progetti precedenti e sviluppare un formato di interazione in cui non ci saranno perdenti.

Sul conflitto Iran-Israele

Nel 1979, il nuovo governo iraniano dichiarò il “regime sionista” nemico della “Rivoluzione Islamica”. Da allora c’è stato un conflitto tra Iran e Israele. Si noti però che da quarantacinque anni nessuno al mondo propone di creare un formato diplomatico per risolverlo! Anche adesso, dopo lo scambio vero e proprio di colpi diretti, c’è solo una “reazione”: giusto o sbagliato, trattenersi, astenersi… Perché?
Credo che questo sia il risultato di una serie di calcoli errati da parte della leadership israeliana .
Inizialmente, gli Stati Uniti e lo stesso Israele non ne erano interessati fino agli anni 2000, poiché era il loro principale partner nella regione del Vicino e Medio Oriente; È importante notare qui che il fattore israeliano ha consentito agli Stati Uniti di rafforzare la propria posizione nella macroregione ricca di petrolio e di aumentare la propria influenza sull’ambiente dei prezzi in quest’area.
Credevano che i “fondamentalisti islamici” iraniani sarebbero caduti nell’arcaismo e nell’impotenza tecnologica. Si sbagliavano. Permettetemi di ricordarvi che nel 2023 Bloomberg è stato costretto ad ammettere che l’Iran è entrato nella top ten dei paesi tecnologicamente più sviluppati al mondo.

Il 2001 – Afghanistan e il 2003 – l’invasione dell’Iraq sono stati motivi di riflessione per la leadership israeliana. Tuttavia. Alla fine del 2001 a Mosca, esperti, giornalisti, deputati israeliani informati e persino l’ex capo del Mossad, venuto a discutere la questione: quali conseguenze avrebbe avuto l’operazione in Afghanistan per Russia e Israele, non hanno considerato questa formulazione di la questione era rilevante e parlava solo della “riva occidentale del fiume Giordano” ”
Dal 2003, l’Iran ha metodicamente e progressivamente rafforzato le sue posizioni in Iraq, Siria, Libano e Yemen. Il fattore Isis (vietato in Russia) avrebbe dovuto impedirlo, ma lo ha solo accelerato.

Permettetemi di ricordarvi che in Israele credevano che questi radicali non fossero pericolosi per il Paese, al contrario, le loro azioni in Iraq e Siria non hanno fatto altro che indebolire i nemici di Israele, e in primo luogo dell’Iran; A proposito. Credo che la “risposta” della Russia all’Occidente in relazione alle sue azioni in Ucraina sia stata l’annessione della Crimea (2014) e la creazione di una base militare in Siria, dove dal 2011 il Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche iraniane (IRGC) ha aiutato Bashar al -Assad resterà. Nonostante tutte le difficoltà e le contraddizioni, ciò ha contribuito al riavvicinamento tra Mosca e Teheran.
Gli israeliani non si sono allarmati per il fatto che il petrolio è diventato per la prima volta dal 2009 il principale prodotto di esportazione degli Stati Uniti , il che ha oggettivamente ridotto il valore di un bene come Israele per gli Stati Uniti. Con il rischio di sbarazzarsene in futuro . Henry Kissinger ha accennato a questo nel 2012: “Tra dieci anni non ci sarà più Israele”.

Obama ha concluso un accordo sul nucleare con l’Iran, al quale Tel Aviv si è categoricamente opposta. Trump lo ha fatto a pezzi e ha addirittura riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. E ora Biden sta nuovamente migliorando le relazioni con l’Iran. E il vicepresidente Kamala Harris ha effettivamente sostenuto i palestinesi nell’attuale aggravamento. Allora perché l’attuale governo di Washington sta minando Israele?

C’è un’ipotesi che Washington (Obama-Biden) abbia deciso di unire il mondo arabo, ma sotto gli auspici di Londra, che dal 19° secolo ha combattuto con successo per il potere in Medio Oriente con l’Impero Ottomano. E l’unica cosa che può unire gli arabi divisi è l’idea di combattere Israele. In questo modo Londra ripristinerebbe di fatto l’”Impero britannico” in contrapposizione all’Unione Europea , che sta diventando sempre più difficile da governare.
La Primavera Araba, durante la quale radicali come i Fratelli Musulmani salirono al potere in molti paesi. Parallelamente, si è verificata un’attiva islamizzazione dell’Europa, che è stata costretta ad accogliere milioni di rifugiati.
Ma nel 2016 Trump è salito al potere negli Stati Uniti e ha iniziato a rafforzare Israele. La Primavera Araba è fallita e gli islamisti in Siria e Iraq sono stati sconfitti.

Karine Gevorgyan, intervento al Convegno di Bratislava promosso dal PANAP

Nella foto: la professoressa Gevorgyan, politologa, orientalista
Nata nel 1956 a Mosca. Nel 1980 si è laureata presso l’Istituto dei Paesi asiatici e africani dell’Università statale di Mosca. Ha lavorato come redattrice presso la redazione principale di letteratura orientale della casa editrice Nauka, nel dipartimento CIS dell’Istituto di studi orientali dell’Accademia russa delle scienze.
Dal 1993 – esperto del Consiglio Supremo, dal 1994 – esperto del Comitato per gli affari della CSI della Duma di Stato russa. Dal 2007 – capo del dipartimento di scienze politiche della rivista “East” (Oriens) del Centro editoriale accademico “Scienza” dell’Accademia delle scienze russa.

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Armenia, arcivescovo contro il governo (Italia Oggi 04.07.24)

Sulla scena politica dell’Armenia è comparsa una nuova figura. Ha la barba lunga, l’abito bianco e guida le proteste contro il premier Nikol Pashinyan. Il principale oppositore del governo armeno si chiama Bagrat Galstanyan, 53 anni, arcivescovo di Tavows, provincia di 135mila abitanti nota agli appassionati di trekking per i suoi sentieri panoramici.

L’arcivescovo ribelle che mira a diventare premier dell’Armenia Galstanyan è stato temporaneamente sospeso dagli incarichi pastorali su sua stessa richiesta, il che non gli impedisce di scendere in piazza con i paramenti e gli arredi ecclesiastici per guidare il movimento «Tavows in nome della patria», che si coagula attorno a gruppi e sigle politiche di ogni provenienza, anche ideologicamente molto distanti dalla Chiesa e dalla religione, ma tutti favorevoli a rafforzare i legami con la Russia di Vladimir Putin.

Galstanyan è un monaco della tradizione orientale. E non ha altra famiglia «al di fuori della Chiesa e del popolo». L’arcivescovo non nasconde le sue ambizioni di assumere il ruolo di primo ministro dopo aver rovesciato il «traditore» Pashinyan.

Galstanyan non si limita ad arringare le folle, ma le esorta a prendere d’assalto i palazzi del potere, com’è accaduto qualche giorno fa, quando i manifestanti hanno cercato di rinchiudere il premier e i deputati nel palazzo dell’Assemblea nazionale. La polizia è dovuta ricorrere alla forza per disperdere i contestatori, ma il sacerdote rivoluzionario, presente alle proteste, non è stato sfiorato.

Il Paese è diviso tra la maggioranza che sostiene il primo ministro e l’opposizione guidata dal monaco

L’Armenia è dilaniata da un conflitto interno tra le forze di maggioranza che sostengono Pashinyan, favorevoli ai colloqui di pace con l’Azerbaigian, e l’opposizione guidata da Galstanyan, che pretende di difendere i territori di confine.Secondo i funzionari di Accordo civile, il partito del premier, dietro alle rivolte ci sarebbe il patriarca della Chiesa armena, Karekin II, che avrebbe dato la sua benedizione (in tutti i sensi) a Galstanyan per rovesciare il potere con ogni mezzo, e pazienza se non sarà il più democratico.

La Chiesa esortava il governo a eliminare il Nagorno Karabakh

Lo scorso anno la Chiesa armena aveva esortato il governo a proseguire la battaglia contro gli azeri sul Nagorno Karabakh, da cui l’esercito era stato ritirato dall’esecutivo di Pashinyan per evitare una guerra totale tra Armenia e Azerbaigian.

Il premier Pashinyan contro i vescovi Il primo ministro ha definito i vescovi «agenti provocatori» che «vogliono portare di nuovo la guerra». E ha promesso che la faccenda verrà risolta «entro due o tre mesi». Pashinyan si affida alle rievocazioni storiche: davanti al parlamento ha giurato che non accadrà più come all’epoca dei bizantini, quando i patriarchi fomentarono guerre e conflitti facendo pressione sugli imperatori a Bisanzio.

La rilettura della storia è una caratteristica delle guerre del terzo millennio: mentre Putin cerca di ristabilire i fasti del passato in Russia, Pashinyan insiste nel proporre una nuova Armenia, che non sia un’imitazione di quella antica o medievale.

«Se i rapporti della Chiesa col governo sono cattivi», ha detto il premier armeno Nikol Pashinyan citando un brano delle lettere di San Paolo, «allora saranno cattivi anche i rapporti della Chiesa con Dio». Un messaggio non troppo velato per l’arcivescovo rivoluzionario.

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Fano Jazz by the sea batte il ritmo. Musicisti da ogni angolo del mondo (Resto del Carlino 04.07.24)

E’partito il conto alla rovescia della 32esima edizione del Fano Jazz by the Sea. Si comincia sabato 20 dall’Arco d’Augusto con “The Next Movement” per proseguire con i sei concerti sul main stage della Rocca Malatestiana, fino ad arrivare agli appuntamenti alla ex Chiesa di San Francesco e alla Pinacoteca San Domenico, per arrivare alla Spiaggia di Sassonia con il suggestivo concerto all’alba (domenica alle 5 all’ex Anfiteatro Rastatt), senza dimenticare il Jazz Village. Alla Rocca si comincia domenica alle 21,30 con Richard Bona e Alfredo Rodriguez, coadiuvati dal batterista Michael Olivera. La sera dopo sarà la volta di Dhafer Youssef. Martedi 23 luglio toccherà al trio del pianista di origine armena Tigran Hamasyan. Novità assolute per il Festival saranno Ana Carla Maza e Daniel Garcia. Venerdi 26, toccherà chiudere il ciclo ai rinnovati The Bad Plus, ovvero al bassista Reid Anderson e al batterista Dave King, cofondatori del gruppo, affiancati dal sassofonista Chris Speed e dal chitarrista Ben Monder, quest’ultimo partner di David Bowie nel suo album Blackstar.

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Genocidio armeno, licenza revocata a una radio turca (Cds 04.07.24)

Una radio turca indipendente, condannata per aver permesso a un ospite di discutere del “genocidio armeno” del 1915, si è vista revocare la licenza dal Consiglio turco per la radiodiffusione (RTÜK).

“RTÜK ha annullato la licenza di Açik Radyo. Il motivo è che la sua direzione non ha rispettato la sospensione di cinque giorni (di uno dei suoi programmi) per ‘incitamento all’odio e all’ostilità’, ha annunciato sulla rete sociale X Ilhan Tasci, membro di RTÜK , nominato dall’opposizione.

Didem Gençtürk, coordinatore dei programmi della radio indipendente con sede a Istanbul, ha confermato questa decisione all’Afp.

 

Açik Radyo, che trasmette da quasi trent’anni e si proclama “aperto a tutte le voci e a tutti i colori”, è stato condannato a fine maggio a una multa e al divieto di trasmettere per cinque giorni il suo programma in cui, ad aprile Il 24, un ospite è tornato sui massacri degli armeni perpetrati nel 1915 dalle truppe ottomane, definendoli “genocidio”, come molti storici.
Nella sua decisione, l’Alto Consiglio turco dell’audiovisivo aveva criticato l’emittente per non aver “tentato di correggere le dichiarazioni dell’ospite”.
Il genocidio armeno è riconosciuto come tale dai governi o dai parlamenti di molti Paesi, tra cui Stati Uniti, Italia, Francia e Germania. Il numero degli armeni morti è stimato tra 600.000 e 1,5 milioni.
La Turchia, nata dallo smantellamento dell’Impero Ottomano nel 1920, continua a rifiutare questo termine e si riferisce a “massacri” accompagnati da una carestia, in cui morirono da 300.000 a 500.000 armeni e altrettanti turchi.
In un comunicato diffuso dopo la condanna, la radio ha ricordato di “aver sempre difeso la libertà di pensiero e di espressione e la libertà di stampa”.

“Nessuna espressione nel programma sanzionato ha superato (questi) limiti”, ha affermato.

“La decisione (…) del Consiglio Superiore dell’Audiovisivo nei confronti di @acikradyo è chiaramente contraria all’articolo 26 della Costituzione, che regola la libertà di pensiero e di espressione”, ha reagito su X il sindacato turco dei giornalisti del TGS.

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La tragedia che non c’è (Korazym 04.07.24)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 04.07.2024 – Renato Farina] – La “dichiarazione” finale del G7 è composta di 19.842 parole (in inglese, compresi titoli e titoletti). Apro il mio tablet sul bordo del lago di Sevan. Sono venuti a trovarmi alcuni amici cacciati dall’Artsakh (Nagorno-Karabakh), desertificato della sua popolazione indigena dagli invasori giunti dall’Azerbajgian tirando cannonate su Stepanakert e su tutti i villaggi abitati. Una espulsione totalitaria equivalente al genocidio: nullificare la presenza di un popolo nella sua terra, con tanto di fagotti dei morti sulle spalle, qualcosa di così disumano da spaccare le ossa della mia anima.

Ma so che tutto questo è stato vissuto dolorosamente anche da tanti Italiani, a differenza soprattutto del loro Governo, e del loro Parlamento (maggioranza e opposizione, presenzialisti e assenteisti). Tutti adoratori della Costituzione, questi politici, e tutti a citare l’articolo 11 che “ripudia la guerra”. Ma ci dev’essere un postscriptum riservato, che si passano tra loro le generazioni di potenti: non c’è scritto che bisogna ripudiare chi fa la guerra e annienta poveri cristi, purché in cambio stipino di gas i nostri serbatoi, e di caviale certi tipetti, e di denaro le nostre fabbriche di cannoni e aerei tattici militari per trasferire paracadutisti di reparti d’assalto sui petti di sciagurate minoranze Cristiane…

Sono ingiusto a non fare distinguo. Non tutti i parlamentari e non tutti i ministri e i sottosegretari hanno sacrificato gli Armeni dell’Artsakh alla ragion di Stato (ma val la pena sopravviva uno Stato che ha ragioni così miserabili per campare, al punto da accarezzare massacri e pulizie etniche purché gli autori siano bravi fornitori? Per me no, ma chi sono io per giudicare e magari al loro posto fare lo stesso?).

Non tutti hanno chiuso gli occhi, ci sono pochi meravigliosi deputati e senatori coraggiosi, oltre a qualche Nicodemo che nel silenzio dissente. Oso qualche nome: Centemero, Formentini, Zampa, Pozzolo, Orsini, Malagola, Fassino e se dimentico qualcuno, scriva che – se sono ancora vivo – rimedierò.

Speranze tradite

Ho letto la dichiarazione finale firmata da Capi di Stato e Premier del G7. Ho usato i dispositivi dell’intelligenza calcolatrice che permettono di scrutare il succo dei testi. Avevo moderate speranze di trovare un impegno per tutelare la piccola culla delle memorie Cristiane, un luogo che non è simbolico e basta, ma palpitava. Uso il passato!

Il Nagorno-Karabakh era abitato da centoventimila Cristiani. Nel settembre del 2020 l’Azerbajgian sostenuto dai Turchi si era già preso metà del territorio. La Russia e la Bielorussia, che avrebbero dovuto intervenire in base ai trattati sottoscritti con l’Armenia, hanno lasciato fare. Putin si è mosso solo a novembre, quando migliaia di soldati e civili Armeni erano ormai stati uccisi come sagome del lunapark da droni israeliani infallibili.

Nel 2022, quattro giorni prima dell’aggressione all’Ucraina, lo Zar Vladimir e il dittatore dell’Azerbajgian Ilham Aliyev hanno firmato un trattato di cooperazione, che ha consentito alla Russia di triangolare gas e petrolio con l’Occidente tramite il simpatico tiranno il cui padre Heydar fu vice di Breznev e colonna asiatica del KGB.

Nel 2023, dopo uno stillicidio di attacchi e assassinii, e l’assedio utile per far morire i bambini di fame, il colpo finale. In centomila espropriati della loro essenza furono costretti, per non essere schiavizzati o appesi ai pali, ad andarsene nella Repubblica di Armenia. L’Italia era corsa in soccorso del vincitore sin dai primi giorni del 2023 firmando un accordo per la “modernizzazione” (citazione dalla dichiarazione ufficiale del governo di Baku) delle forze armate azere.

Nelle circa 20mila parole messe in fila dal G7 non c’era spazio per scrivere “Armenia”

Ed ecco il G7 a presidenza italiana. Speravamo in Giorgia Meloni, ma forse l’essersi affidata a Elisabetta Belloni come sherpa per fissare accordi, non è stata una grande idea, almeno per noi disgraziati Cristiani del Caucaso. Non deve essere stata una gran trascinatrice per la buona causa delle minoranze religiose e razziali.

Avevamo sperato nella presenza al G7 di Borgo Egnazia dello Stato più amico di noi Armeni che esista in Occidente, almeno sulla carta: in Francia circa 750mila suoi cittadini sono “armenians de France”; ma dovrebbero esserlo anche gli USA e il Canada, nazioni in cui i miei fratelli assommano a un milione e mezzo.

Risultati? Siamo invisibili, siamo inesistenti. Esiste anche un genocidio che bassa attraverso la soppressione del problema, l’impiparsene.

Tra i circa 20mila lemmi ho provato a far contare al computer alcune parole chiave. Innanzitutto nomi propri di Stati o territori: Russia 61, Ucraina 57, Cina 29, Nord Corea 14, Palestina 13, Israele 11, Iran 11, Gaza 9, Libia 6, Armenia 0, Nagorno-Karabakh 0, Azerbajgian 0. Nomi per problematiche: Cambiamento climatico/clima 53, Gender 25, Diritti umani 24, Dignità umana 3, Migrazioni/migranti 38, Inquinamento 12, Plastica 9, Libertà 13, Libertà religiosa 0, Persecuzione 1, Persecuzione religiosa 0.

Come si vede, l’Armenia e la sparizione di una nazione Cristiana dalle cartine geografiche in Caucaso non sono un problema che interessi i grandi. Qui batterò ancora qualche colpo in alfabeto Morse, o vi siete stancati anche voi?

Il Molokano

Questo articolo è la versione integrale di quanto è stato pubblicato sul numero di luglio 2024 di Tempi in formato cartaceo e sulla edizione online Tempi.it [QUI].

Postilla

Il titolo del Molokano di luglio 2024 del carissimo amico Renato Farina porta alla memoria il Neverland (l’isola che non c’è) in Peter Pan, l’opera celebre di J. M. Barrie del 1904, che è la metafora della positività della ricerca dell’utopia o dell’ideale, senza però illudersi che questo sia pienamente raggiungibile nel mondo reale.
Da spalatore di nuvole, come Fred Vargas e il suo Adamsberg [QUI], continuo a sognare l’ideale, che un giorno gli Armeni potranno vivere in pace nelle loro terre ancestrali; un’utopia, visto come sono state ridotte dai Turchi nei secoli le terre armene, e continuano a prendersene fette con il sistema del taglio del salame; una speranza Cristiana in una pace che il mondo non ci può dare: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). Gesù è il Principe della pace, l’unico che può portarci la vera pace [V.v.B.].

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Nagorno Karabakh, guerre e sfollati (Osservatorio Balcani e Caucaso 03.07.24)

Un mini dossier in tre puntate per rendere conto delle popolazioni colpite dai conflitti per il Nagorno Karabkah e che sono sfollate dalle aree che abitavano, anche se non coinvolte direttamente nei combattimenti. Prima puntata

03/07/2024 –  Marilisa Lorusso

I conflitti per il Nagorno Karabakh hanno comportato un massiccio esodo delle popolazioni che abitavano l’area, inclusa quella non direttamente interessata dai combattimenti. Prima sono scappati gli azeri dal Karabakh e zone limitrofe e poi, specularmente, gli armeni nel 2023, gli azeri dall’Armenia, gli armeni dall’Azerbaijan.

Questi svasi di popolazione, drammatici, tragici, si sono inseriti in contesti di progressiva divisione di gruppi etno-linguistici dalla miscela tipica degli imperi multinazionali e delle migrazioni e conformazioni demografiche locali, e riguardano diverse centinaia di migliaia di persone. Numeri quindi molto elevati per la relativamente ridotta demografia dell’area.

Delle comunità preesistenti le storie nazionali hanno largamente rimosso il ricordo, fino a negare la presenza storica di intere culture nei territori che ora corrispondono agli stati repubblicani.

Questa storia, che è soprattutto una storia di sfollamento e dolore individuali e collettivi, potrebbe finalmente giungere a una ricomposizione, a un assai postumo risanamento, ora che la geografia politica dell’area fra Armenia e Azerbaijan va chiarificandosi e forse, a grande fatica, stabilizzandosi e normalizzandosi.

Purtroppo anche questo possibile ridare spazio alle comunità di sfollati e ai rientri è intossicato dall’odio e dalla retorica dello scontro. Il discorso del rientro delle popolazioni sta piuttosto diventando uno strumento di appropriazione territoriale a posteriori e di revanscismo.

Un governo in esilio

Mentre continua il Grande Ritorno, cioè il rientro degli azerbaijani nelle zone riconquistate da Baku, la comunità degli esuli armeni rimane totalmente fuori dal territorio. Il numero di quanti hanno accettato di diventare cittadini azerbaijani rimane bassissimo, e limitato di fatto alle poche unità che non erano riuscite ad evacuare al momento della resa del 2023. Gli armeni del Karabakh sono quindi quasi nella totalità in Armenia, a parte circa tremila persone, ma i dati sono approssimativi, che dall’Armenia si sono spostate in altri paesi.

Di questa popolazione di circa 100mila sfollati, la stragrande maggioranza rimane in Armenia con un documento di protezione provvisorio, una esigua minoranza ha accettato la cittadinanza armena.

Formalmente il governo dell’Artsakh (Nagorno Karabakh in armeno) esiste ancora. Il previsto scioglimento di tutti gli organi governativi è stato cancellato da un contro-decreto a inizio gennaio 2024, quando il presidente de facto Samvel Shahramanyan ha reso nota la decisione di annullare il decreto sulla dissoluzione. La decisione è stata firmata il 10 dicembre 2023 e una copia è stata inviata al primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan.

Shahramanyan ha deciso di non renderla pubblica  , tenendo conto delle minacce e delle speculazioni espresse dalle autorità armene riguardo all’attivismo possibile dei rappresentanti dell’Artsakh come qualcosa che potrebbe mettere in pericolo la sicurezza dell’Armenia e ostacolare il processo di firma del trattato di pace.

I deputati del Parlamento dell’Artsakh alla fine del 2023 avevano convocato una sessione segreta e deciso di creare un comitato e si erano impegnati a portare avanti attività a difesa dei diritti della comunità che aveva loro dato un mandato, in tempi ben diversi da quelli attuali.

Il 18 gennaio 2024 l’ex ministro degli Esteri dell’Armenia (1998-2008) Vartan Oskanian ha annunciato che avrebbe presieduto e coordinato il lavoro del nuovo Comitato per la difesa del diritto al rimpatrio collettivo del popolo dell’Artsakh e dei loro altri diritti fondamentali.

Il Comitato è stato istituito in collaborazione con le principali forze politiche del Nagorno Karabakh. La missione principale del Comitato è quella di sostenere e perseguire il diritto al rimpatrio collettivo del popolo degli armeni in Nagorno Karabakh con garanzie internazionali per il loro re-insediamento sicuro, protetto e dignitoso.

Secondo le parole di Oskanian  l’obiettivo di una pace duratura nella regione rimane irraggiungibile se un segmento del popolo armeno viene sradicato dalla propria terra, e viene imposto all’Armenia un concetto coercitivo di pace con la minaccia imminente di ulteriori perdite. Una pace duratura e stabile può essere realizzata solo attraverso una risoluzione completa che coinvolge il ripristino dei diritti del popolo del Karabakh.

Oskanian e altri membri del comitato si sono incontrati a febbraio con i rappresentanti dell’Assemblea parlamentare dell’Artsakh  per parlare di rimpatri, di garanzie di sicurezza internazionali e dell’autodeterminazione degli armeni del Karabakh nonostante “il disarmo e l’occupazione” che sono stati definiti temporanei.

Un territorio altrui

Mentre la comunità di armeni del Karabakh quindi si organizza e crea organi per un eventuale rimpatrio, il Nagorno Karabakh diventa effettivamente territorio altro rispetto a quello in cui vivevano.

Il Grande Ritorno sta dando vita a nuovi insediamenti, green village completamente ricostruiti con l’intenzione di divenire il fiore all’occhiello dell’Azerbaijan. Sono state inaugurate nuove grandi infrastrutture, incluse quelle aeroportuali, e la memoria della comunità precedentemente insediata – illegalmente, ricorda Baku – rimossa.

A gennaio è stato smantellato il complesso dedicato ai caduti armeni nelle guerre del Karabkh: terroristi secondo Baku  , le cui spoglie devono lasciare il territorio dell’Azerbaijan e essere trasferiti in Armenia. Di nuovo non c’è pace nemmeno per i morti, e i cimiteri del Karabakh  prima epurati dalla memoria azera, ora sono epurati da quella armena.

Distrutto anche il parlamento armeno di Stepanakert, tornata Khankendi, e il pantheon degli eroi in città. Ed è anche il patrimonio religioso a subire il processo di lustrazione: a Shusha è stata rasa al suolo  la chiesa di Giovanni Battista, nota con il nome Kanach Zham.

La politica della ruspa ha sollevato preoccupazioni  anche a livello internazionale, cui Baku risponde che nessuno è intervenuto quando il processo era diretto contro la memoria storica azera. Alla riconquista, l’Azerbaijan si è trovato davanti a un territorio stravolto rispetto a quello abbandonato, ed è chiaro che l’ascia di guerra non è sepolta sulla questione della cancellazione culturale.

Ospiti scomodi

Non c’è pace per i morti, ma nemmeno per i vivi. Lo status degli armeni del Karabakh in Armenia è complesso, e la questione è stata politicizzata. Il leader dell’opposizione, gli ex presidenti Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan – che a marzo hanno firmato una dichiarazione congiunta con i rappresentanti del Karabakh contro il governo di Nikol Pashinyan – cavalcano l’onda della frustrazione e strumentalizzano  la questione del non-rientro in Karabakh.

I rapporti del governo armeno con i rappresentati del Karabakh sono gelidi: nessun contatto diretto. È chiaro che per Yerevan è una questione estremamente spinosa ospitare sul proprio territorio un governo in esilio fortemente revanscista mentre cerca di portare a termine un trattato di pace.

Inoltre c’è una questione politica che si trascina da prima della guerra e che è sfociata adesso in una tensione latente, cioè il fatto che l’allora Stepanakert e Pashinyan non siano mai stati in buoni termini.

Pashinyan è il primo capo di esecutivo d’Armenia eletto non membro del “clan del Karabakh” e non ha mai avuto lo stesso rapporto dei suoi predecessori, che erano karabakhi, con il governo de facto. Ed è quindi un continuo rintuzzare il governo Pashinyan, da una parte, e una spigolosità verso le rivendicazioni politiche karabakhi in Armenia dall’altro.

Un malanimo che non fa bene a una comunità di sfollati, ma nemmeno alla coesione del paese che dovrà con ogni probabilità continuare ad assorbire e integrare la comunità karabakhi, visto che i requisiti per un rientro consensuale e pacifico, inclusivo di differenze culturale e che sia una vera riconciliazione appare molto remoto, e non in agenda da nessuna delle parti.

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Perché gli armeni sono fuggiti dal Nagorno Karabakh (Socialnews 03.07.24)

È ufficiale la dissoluzione della Repubblica del Nagorno Karabakh dal primo gennaio 2024, che, su una popolazione di circa 120.000 persone, ha portato 110.000 armeni residenti nella regione a fuggire in Armenia.

Il Nagorno Karabakh è una piccola regione montuosa del Caucaso meridionale situata tra l’Armenia ad ovest e l’Azerbaijan ad est. Nonostante si sia autoproclamato indipendente dall’Azerbaijan negli anni ‘90, fa formalmente parte del territorio azero – in cui vivono principalmente musulmani sciiti di lingua turca -, ma è abitato da popolazioni di etnia armena – quasi tutti cristiani. Chiamato anche Repubblica del Artsakh (in lingua armena), già dal XX secolo è conteso da Azerbaijan – che pedantemente vuole impossessarsi ed annettere questo territorio al proprio Stato – ed Armenia – che vuole mantenere la propria integrità territoriale e garantire l’autodeterminazione del proprio popolo.

Questi dissapori hanno causato per decenni scontri e violenze senza quasi mai raggiungere una tregua prolungata e proficua: uno dei primi conflitti risale al 1905, ma è con la caduta dell’Impero russo che gli scontri si fanno più aggressivi. In seguito all’indipendenza sia della Repubblica Democratica dell’Azerbaijan sia della Repubblica di Armenia nel 1918, entrambi gli stati rivendicano la regione del Nagorno Karabakh, che entra a far parte della Repubblica Federale Democratica Transcaucasica (Stato composto da Azerbaijan, Armenia e Georgia). Passano pochi anni e nel 1921 Stalin, in accordo con la Turchia, assegna il Nagorno Karabakh e Naxçıvan – entrambe armene – all’Azerbaijan.

Proseguono le dispute e i conflitti, ed è negli anni ’90 che la brutalità e la coercizione si fanno più acute. Dopo il crollo dell’URSS, nel 1992 scoppia la prima guerra del Nagorno Karabakh, che si protrae per ben due anni e miete più di 30.000 vittime. Vince l’Armenia due anni dopo e il Nagorno Karabakh diventa una repubblica de facto indipendente (la Repubblica del Artsakh), anche se non verrà mai formalmente riconosciuta dalla comunità internazionale e dall’Azerbaijan. Quest’ultimo perde il controllo di una parte del territorio, ma non si dà per vinto e nell’aprile del 2016 si scontra per quattro giorni contro gli armeni e si impossessa di alcuni territori a nord-est e a sud-est del Nagorno Karabakh. La sua netta superiorità tattica-militare si evince sia durante la seconda guerra del Nagorno Karabakh nel 2020 – con la quale occupò la parte meridionale della regione – sia alla fine del 2022, quando assedia l’Armenia: chiude il corridoio di Lachin – l’unica strada al confine che collega il Nagorno Karabakh alla Repubblica di Armenia –  e di conseguenza blocca l’entrata di merci e beni anche di prima necessità.

La comunità internazionale assente, è del tutto silente. Nessuno interviene, nemmeno i peacekeeper russi insediati al confine. E non finisce qui. Il momento clou è l’offensiva azera del 19 e 20 settembre del 2023: in ventiquattro ore l’Azerbaijan, sostenuto dalla Turchia di Erdogan, lancia un’operazione militare lampo “antiterrorismo” nel Nagorno Karabakh. Dopo solo un giorno di combattimenti, gli armeni si arrendono, l’Azerbaijan vince e la Repubblica del Nagorno Karabakh si dissolve.

Dal primo gennaio 2024 il Nagorno Karabakh non è più uno Stato indipendente e gli armeni in pratica sono costretti a fuggire. Nessuno li ha obbligati, anzi il governo dell’Azerbaijan a parole si è dimostrato aperto ad accoglierli, ma nei fatti è un regime non così democratico e non così rispettoso delle libertà e dei diritti specialmente delle minoranze; si tratta piuttosto di uno Stato autoritario e repressivo nei confronti della popolazione armena. Si parla di esodo forzato quasi completo, di sfollamento di massa di migliaia di karabakhi che temono per la loro incolumità; addirittura l’UE lo definisce come una pulizia etnica nel Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaijan. Quasi la totalità dei karabakhi sono diventati profughi. Dei più dei 100.000 armeni fuggiti, più di 26.000 sono bambine e bambini, ovvero il 30% dei rifugiati. È ciò che riferisce Save the Children a fine 2023, che lancia l’allarme per un’adeguata assistenza umanitaria, sicurezza e protezione del futuro dei civili, in particolare dei più piccoli. Molti di loro si sono rifugiati nel campo profughi a Goris e a Kornidzor, in Armenia. Non c’è stato un vero e proprio tentativo di riconciliazione e un intervento repentino e sufficiente anche da parte di altri attori internazionali, la Russia in primis. A novembre si terrà la Cop29 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) a Baku, capitale dell’Azerbaijan. Circa 200 paesi parteciperanno. Chissà se ci sarà uno spiraglio per i negoziati e per un dialogo tra l’Azerbaijan e l’Armenia, e se in questi collaboreranno anche l’Unione Europea e la Russia.

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GIUSTIFICARE IL GENOCIDIO (Mangialibri 03.07.24)

Il genocidio armeno è l’inizio degli orrori del Novecento. Appare anche evidente la sua interconnessione con la Shoah ebraica. Ciò che hanno subito gli armeni è la sorgente della concretizzazione di una ideologia e poi di una politica che si è nutrita di sangue umano per imporre all’umanità un pensiero malato. Un sogno di dominio di despoti sulla realtà, della Realpolitk. L’Europa in questo ha avuto una grande responsabilità, avendo tradito la sua cultura, girandosi molto spesso dall’altra parte. La Realpolitik è intrinsecamente pericolosa per il destino dell’umanità. Il suo fondatore Cartesio, nella seconda parte del Discorso sul metodo, descrive i due principi cardine di questa “ideologia” che consiste nella consapevolezza che lo sviluppo dell’essere umano sia di per sé primitivo e che per superarlo sia necessario “un singolo artefice che ci renderà quasi signori e padroni della natura”. Una porta spalancata alla tirannia. Il Metz Yeghèrn, il grande male, ha reso reali plasticamente i due principi guida di Cartesio. Un preciso movimento a forbice per distruggere un ordine insieme naturale e antico, composto di famiglie, persone, villaggi e città in cui si parlava l’armeno, si pregava in armeno e si viveva da armeni per rimpiazzarlo con un nuovo ordine e una storia inventata per sete di conquista. Uno schema che si ripeterà pedissequamente di nuovo con la Shoah del popolo ebraico…

In un momento storico come quello attuale dove spesso si sproloquia di presunti genocidi senza alcuna cognizione di causa né attinenza alla realtà, è illuminante questo monumentale saggio dello storico tedesco Stefan Ihrig sui collegamenti e le interconnessioni tra il Metz Yeghérn e la Shoah. Somiglianze spesso ignorate, trascurate o peggio silenziate. L’occhio dell’autore si focalizza naturalmente sulla sua Germania, con un focus sulla politica estera di Bismarck e Guglielmo II, volta a espandere la grandezza tedesca. Uno schema che si ripeterà ai tempi del Terzo Reich. Genocidi veri e propri che talvolta vengono negati o giustificati anche adesso in Europa. Il libro mette in evidenza le somiglianze ideologiche tra la Germania al termine degli anni Venti, la Turchia di Ataturk e l’Italia mussoliniana. Nonostante l’argomento, lo stile del libro è vivace e sempre corroborato da una grande documentazione. Gli spunti di riflessione proposti sono originali e contribuiscono a svelare molte teorie “giustificazionaliste” dietro cui si cela semplicemente del vecchio e stantio razzismo.

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