Armenia: necessità di una nuova Costituzione, per il primo ministro (Osservatorio sulla legalità

L’Armenia ha bisogno di una nuova costituzione, ha detto il primo ministro Nikol Pashinyan.

“In un paio di colloqui di lavoro con il ministro della Giustizia ho sostenuto che, a mio avviso, così come secondo alcuni miei colleghi, la Repubblica di Armenia ha bisogno di una nuova costituzione. Non di emendamenti costituzionali, ma di una nuova costituzione. Sto facendo questo opinione pubblica per avviare una discussione più ampia”, ha detto Pashinyan in un incontro con il personale del Ministero della Giustizia.

“L’Armenia dovrebbe avere una costituzione approvata dal popolo attraverso un voto, che non susciti dubbi. Questo è un altro aspetto importante legato alla legittimità”, ha osservato Pashinyan. Secondo lui, l’Armenia ha bisogno di una costituzione che la renda “più competitiva e vitale nella nuova situazione geopolitica e regionale”.

Il primo ministro ha sottolineato che il mondo sta cambiando molto rapidamente, motivo per cui è fondamentale rispondere alla domanda su come l’Armenia vede la propria sicurezza e su come garantirla. Ha osservato che una visione strategica del futuro dovrebbe basarsi sul concetto che l’Armenia “è uno stato sovrano, governato dalla legge, democratico e sociale”.

Pashinyan ha anche sottolineato la necessità di documentare il territorio e i confini dell’Armenia riconosciuti a livello internazionale. L’attuale forma parlamentare di governo si adatta meglio all’Armenia, ha aggiunto.

Nel frattempo, Pashinyan non ha fissato un calendario per lo sviluppo e l’adozione di una nuova costituzione.

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Corridoio di Zangezur: la pace fra Armenia e Azerbaigian si allontana (Scenari Economici 20.01.24)

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha definito le ultime dichiarazioni del presidente azero Ilham Aliyev sulla delimitazione dei confini e sui collegamenti di transito “totalmente inaccettabili” e un “colpo” al processo di pace. 

“Prometto una ricompensa finanziaria a chiunque trovi il termine ‘corridoio Zangezur’ nell’accordo del 9 novembre”, ha dichiarato Pashinyan a un gruppo di parlamentari il 13 gennaio.
Si trattava di un riferimento ironico alla tesi dell’Azerbaigian, ribadita di recente da Aliyev, secondo cui la disposizione sull’apertura dei collegamenti di transito contenuta nell’accordo di pace mediato dalla Russia che ha posto fine alla Seconda Guerra del Karabakh del 2020 prevede un corridoio senza soluzione di continuità attraverso l’Armenia che colleghi l’Azerbaigian continentale e l’exclave di Nakhchivan, senza controlli doganali o di frontiera armeni. Per dare un’idea più chiara questo è il corridoio di Zangezur, secondo gli azeri:

Questa idea viene chiamata in Azerbaigian “corridoio Zangezur” e Baku ha spinto per questo con vari gradi di intensità dal cessate il fuoco del 2020. All’inizio dell’anno scorso sembrava aver fatto marcia indietro sulla richiesta nel contesto dei colloqui di pace.

All’inizio di ottobre, poco dopo la fulminea offensiva dell’Azerbaigian per impadronirsi dell’intero Nagorno-Karabakh, il progetto del corridoio sembrava non essere più in discussione dopo che si era aperto un percorso alternativo attraverso l’Iran. (Teheran, come l’Armenia, si oppone a gran voce all’idea del corridoio Zangezur).

La questione, che da tempo ispira i timori armeni di un’invasione azera, è ora di nuovo all’ordine del giorno: in un’intervista del 10 gennaio, Aliyev ha dichiarato che se il corridoio non verrà aperto, “l‘Armenia rimarrà in una situazione di stallo eterno. … Se il percorso che ho menzionato non verrà aperto, non apriremo il nostro confine con l’Armenia in nessun altro luogo. Quindi si faranno più male che bene“. Questa se non è una minaccia di guerra, non è neppure una promessa di pace.

Nell’ottobre dello scorso anno, il primo ministro armeno ha presentato un’iniziativa chiamata “Incroci di pace”, finalizzata alla cooperazione regionale. La proposta prevede collegamenti tra l’Azerbaigian continentale e il Nakhchivan con controlli doganali e di frontiera armeni. L’Azerbaigian l’ha liquidata come “PR” perché,  secondo l’accordo del 9 novembre 2020 che ha posto fine alla seconda guerra del Karabakh, il percorso che collega l’Azerbaigian continentale al Nakhchivan deve essere monitorato dalle truppe di frontiera russe. Però la  posizione della Russia in Armenia in questo momento non è tale da permetterle questo ruolo.

Enclave e villaggi

In un’altra parte dell’intervista del 10 gennaio, Aliyev ha chiesto la restituzione delle enclave e dei villaggi di confine che sono stati sotto il controllo armeno fin dalla prima guerra del Karabakh, tre decenni fa.

Pashinyan sembrava appoggiare l’idea di uno scambio di enclavi, con una “mappa concordata” come parte del processo, ma ha detto che se l’Azerbaigian avesse chiesto la restituzione di otto villaggi, l’Armenia avrebbe “sollevato la questione dei 32”.
Si trattava di un riferimento a diverse porzioni di territorio armeno ex sovietico che sono state controllate dall’Azerbaigian fin dalla prima guerra, nonché al territorio all’interno dell’Armenia, stimato in circa 215 chilometri quadrati, che le truppe azere hanno occupato in seguito a diverse incursioni tra il maggio 2021 e il settembre 2022.

L’Armenia e diversi Stati occidentali hanno chiesto il ritiro delle truppe azere dalle terre armene. Baku si è però rifiutata, adducendo come giustificazione la mancata demarcazione dei confini.

Aliyev ha dichiarato esplicitamente di non avere alcuna intenzione di ritirarle nelle sue osservazioni del 10 gennaio. “Non stiamo facendo un passo indietro perché il confine deve essere definito. Tuttavia, la nostra posizione, attualmente contestata dall’Armenia, non prevede alcun insediamento”. Insomma le richieste azere non prevedono nessuna concessione alla controparte, e questo sicuramente non facilita le transazioni diplomatiche.

La delimitazione e la demarcazione dei confini di stato tra Armenia e Azerbaigian, così come l’apertura dei collegamenti di trasporto, rimangono le questioni più contestate tra i due Paesi dopo la presa di possesso del Karabakh da parte dell’Azerbaigian a settembre. La commissione di confine che si occupa delle questioni di delimitazione e demarcazione ha tenuto la sua ultima riunione alla fine dell’anno scorso e la prossima, secondo Aliyev, si terrà questo mese, con all’ordine del giorno la questione dei villaggi di confine nella regione di Gazakh in Azerbaigian.

Sebbene i principi di un accordo di pace siano stati concordati a novembre, sembra che le parti abbiano respinto le rispettive bozze di proposte per l’accordo di pace. In un  momento in cui l’Iran sta reagendo militarmente ai suoi confini, questa contesa non chiusa che vede opposti armeni e turcofoni rischia di allargare i confini dei conflitti regionali, aggiungendo carburante agli incendi bellici mondiali.

Inoltre, le parti non sono d’accordo su chi debba mediare i colloqui. Erevan si oppone alla mediazione di Mosca, mentre Baku ha rifiutato i colloqui avviati dall’UE o dagli USA negli ultimi mesi.

A dicembre, i due Paesi sono riusciti a rilasciare una dichiarazione congiunta e a concordare uno scambio di prigionieri, ma non hanno un piano chiaro per continuare i colloqui bilaterali.

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Esplorazione congiunta armeno-britannica porta alla luce nuove meraviglie sotterranee (Scintilena 20.01.24)

Una squadra internazionale di speleologi ha mappato e documentato diverse grotte nel sud dell’Armenia

In una spedizione durata 12 giorni nel 2019, una squadra composta da speleologi armeni e britannici ha esplorato le grotte e i paesaggi mozzafiato delle regioni di Syunik, Vayots Dzor e Ararat in Armenia.

La spedizione è stata organizzata dal centro di antropologia armeno, dal team speleologico armeno (ASN) e dal Black Rose Caving Club britannico (BRCC).

Il team era composto da Samvel Shahinyan e Smbat Davtyan del centro di antropologia armeno, Tigran Armenyan dell’ASN, e da Alex Ritchie, Carol Smith, Chris Scaife e John Proctor del BRCC.

Durante la spedizione, i membri del team hanno mappato e documentato diverse grotte, tra cui il Dzhogkhk Dzor nella regione di Ararat, il Magellan e il Areni Mek nella regione di Vayots Dzor e diverse grotte vicino al Gnishiki gorge.

Uno dei risultati più significativi della spedizione è stata la riscoperta e l’esplorazione completa della grotta di Dghdghnatsak nella regione di Syunik, che si estende per 578 metri.

Questa grotta è ora considerata la terza più grande grotta in Armenia.

Inoltre, il team ha esplorato altre grotte carsiche nella gola di Vorotan, documentando numerose piccole cavità.

La spedizione ha permesso di ampliare la conoscenza delle grotte armene e di promuovere la collaborazione internazionale nella ricerca speleologica.

I risultati della spedizione saranno pubblicati in dettaglio in futuri articoli scientifici.

La spedizione è stata un esempio di collaborazione tra paesi e discipline diverse, dimostrando l’importanza dell’esplorazione e della ricerca per la scoperta di nuove meraviglie naturali.

La conoscenza acquisita durante la spedizione contribuirà a proteggere e preservare il patrimonio naturale dell’Armenia per le generazioni future.

 

Fonte:

https://www.facebook.com/groups/1812544669096995/permalink/2737970519887734/

 

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Nagorno-Karabakh: Poghosyan (Ambasciata Armenia presso Santa Sede), “il nostro Paese determinato a costruire la pace nel Caucaso meridionale” (SIR 20.01.24)

“Il mondo è stato testimone del blocco di 10 mesi del Nagorno-Karabakh a opera dell’Azerbaijan, della crisi umanitaria, della mancanza di cibo, medicine, gas ed elettricità. Il tutto è culminato, tra il 20 e il 23 settembre 2023, in un’offensiva militare su larga scala, nella violazione dei diritti umani e nell’attacco indiscriminato da parte dell’Azerbaijan a civili e infrastrutture, fino a giungere alla pulizia etnica dell’intera popolazione autoctona armena del Nagorno Karabakh, costretta ad abbandonare case, luoghi di culto e un millenario patrimonio culturale e religioso”. Lo scrive, al Sir, Victoria Poghosyan, terzo segretario dell’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede, Chargé d’Affaires a.i., in merito all’articolo pubblicato nei giorni scorsi sulla situazione in Nagorno-Karabakh.
“L’Armenia ha dovuto fronteggiare, lo scorso autunno, l’afflusso massiccio di oltre 100.000 rifugiati che nel giro di pochi giorni sono fuggiti dalla terra dei loro avi per timore di persecuzioni e barbarie. Il governo armeno ha adottato diverse misure per rispondere alle necessità dei rifugiati, tra cui si contano 30.000 bambini, e per facilitare la loro integrazione socio-economica che, nel medio termine, richiederà un contributo significativo”, afferma Poghosyan che puntualizza: “Per via del recente uso della forza da parte dell’Azerbaijan, il patrimonio culturale armeno in Nagorno Karabakh è stato, di fatto, ancora una volta sottoposto a distruzione, profanazione e appropriazione”. Di qui l’osservazione che “la politica – sponsorizzata dallo Stato – di deliberata distruzione e di alterazione dell’identità del patrimonio culturale è una sfida non solo per l’Armenia ma per l’umanità tutta. Oggi la gravità della situazione richiede un impegno urgente della comunità internazionale. A tal proposito, appoggiamo lo spiegamento della missione di esperti indipendenti dell’Unesco nel Nagorno-Karabakh, finora ostacolato dall’Azerbaijan. Ribadiamo inoltre l’importanza della rapida attuazione delle decisioni giuridicamente vincolanti della Corte internazionale di Giustizia al riguardo”.
In questo contesto, precisa Poghosyan, “l’Armenia sostiene senza riserve e apprezza grandemente i forti appelli lanciati di recente da Papa Francesco che rimane fedele alla sue posizioni di principio e continua a sostenere la soluzione di delicate questioni umanitarie quali la conservazione e la protezione dei luoghi sacri e il ritorno dei prigionieri di guerra”.
Il terzo segretario dell’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede conclude: “Malgrado le sfide e le difficoltà di cui siamo testimoni da parte dell’Azerbaijan, l’Armenia è determinata a costruire la pace nel Caucaso meridionale. Riteniamo inoltre che sia importante per il futuro della regione escludere l’uso o la minaccia della forza e attuare programmi come ‘Crossroads of Peace’ sviluppato dal governo armeno”.

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Nagorno-Karabakh: Poghosyan (Ambasciata Armenia presso Santa Sede), “il nostro Paese determinato a costruire la pace nel Caucaso meridionale” (Avvenire di Calabria)

In Armenia, una guest house di montagna forma giovani cuochi del futuro (L’Inkiesta 20.01.24)

Tsaghkunk è un comune di poco più di mille abitanti in Armenia, a nord del lago Sevan. Siamo nella regione dello Gegharkunik, a circa sessanta chilometri dalla capitale, l’equivalente di due ore circa di macchina con le strade locali. Circondato dalle montagne e da un panorama che ricorda i massicci mongoli e le alture balcaniche, questo piccolo paese sopporta temperature particolarmente rigide in inverno (si arriva in genere a -13 / -18 gradi centigradi) mentre durante le stagioni intermedie è facile svegliarsi con pochi – uno o due – gradi sopra lo zero. Nonostante l’atmosfera sembri quella di un luogo abbandonato e poco popolato, Tsaghkunk è in realtà una destinazione conosciuta e apprezzata anche dalla gente locale.

Uno dei primi motivi per il quale vale la pena spingersi fino a qui è incontrare Yura Sargsyan, sua moglie Ani e la loro affiatata famiglia. Con oltre venticinque anni di esperienza alle spalle, tra cucine armene ed europee, nel 2011 Yura è riuscito finalmente a inaugurare la sua guest house. Nel vero senso della parola, e guardandola dall’esterno, si tratta niente di meno che di una casa, sue due piani, grande e accogliente dove oltre a un ristorante ci sono diverse camere a disposizione di turisti, viaggiatori e appassionati. Nato e cresciuto proprio a Tsaghkunk, Yura ha coltivato a lungo il desiderio di avere un luogo proprio dove accogliere clienti e amici, nella stessa città dove è cresciuto insieme ai suoi genitori. Grazie al prezioso contributo di Ani, e dei loro figli, l’atmosfera e il calore di questa guest house sono semplici ma estremamente genuini e personali.

La cucina è sempre aperta, con un menu vasto e suddiviso tra piatti armeni e internazionali preparati con ingredienti della zona, stagionali e naturali. La colazione viene servita secondo l’uso locale e i ricordi d’infanzia dello chef: formaggi freschi, lavash (il pane sottilissimo tipico armeno) appena fatto, frutta tagliata, frutta secca, torte fatte in casa, uova strapazzate con pomodoro e coriandolo, confetture e miele.

Grazie alla passione per la cultura gastronomica locale e al lavoro in costante contatto con il territorio, Yura e la sua realtà sono diventati negli anni un punto di riferimento per le organizzazioni governative promotrici di turismo e cultura oltre che per la comunità di cuochi internazionali e le nuove generazioni.

I ragazzi che ambiscono a diventare cuochi infatti sono accolti nelle cucine di Sargsyan per imparare la vita di cucina e apprendere tecniche e tradizioni culinarie come una vera e propria scuola di formazione. «In Armenia non vantiamo ancora dei veri e propri istituti professionali per imparare questo mestiere e non tutti i giovani hanno la possibilità e i mezzi per potersi spostare, per studiare, per viaggiare. Negli anni la nostra guest house è diventata un punto di riferimento anche per questo, perché prendo i giovani del posto a lavorare con noi e gli insegno tanti aspetti di questa professione sperando che se ne appassionino e trovino stimoli per approfondire le loro conoscenze» ci racconta.

Oltre a lavorare, i giovani aspiranti cuochi entrano in contatto con professionisti del settore, ospiti in visita oltre che una fitta rete di colleghi e appassionati da tutto il mondo che si spingono fino a qui per conoscere lo chef e provare alcune delle sue specialità.

Tra queste, sicuramente il crayfish kebab è uno dei piatti che più di tutti continua a giustificare chilometri di strada e ore di viaggio per gli avventori della guest house. Attingendo dalle abbondanti scorte di gamberetti del lago Sevan, Yuri ne prepara una pasta morbida e modellabile che, mischiata a cipolla, aglio e spezie, costituisce l’impasto per la realizzazione di un kebab. Come potete immaginare la versione di pesce di questo piatto non si trova così comunemente e in questo caso si tratta addirittura di specie di lago. L’impasto viene modellato a forma di kebab su un lungo spiedone di acciaio che viene quindi posizionato sulla griglia. La cottura è dolce, alla brace e non a fuoco vivo, così da consentire allo spiedo di diventare dorato e restare tenero e succoso contemporaneamente. Provato di persona, vi possiamo assicurare che era squisito!

Yura ci ha spiegato come «L’educazione alimentare è un tema ancora interamente da costruire a livello statale e necessita decisamente di maggiori attenzioni da parte di tutta la comunità, per arrivare a infondere consapevolezza nelle singole famiglie e negli individui». Il nuovo spazio di Yuri e dei suoi collaboratori sarà aperto a tutti e volutamente gratuito per i più piccoli, per fargli avere pane buono anche se non lo possono permettere e fargli capire l’importanza di una cultura alimentare attenta, rispettosa e sostenibile.

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Il paese perduto (Internazionale 19.01.24)

Il 1 gennaio il Nagorno Karabakh, uno stato mai riconosciuto da nessuno, ha cessato ufficialmente di esistere. Alla fine di settembre l’intera popolazione è scappata in Armenia, in fuga dalle truppe azere

Il massacro dimenticato dei Cristiani armeni nell’ultimo numero di “Intervento nella società” (Secolo d’Italia 19.01.24)

Si apre con una durissima denuncia di Riccardo Pedrizzi e dell’ex sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, la prima pagina dell’ultimo numero del trimestrale “Intervento nella società”, dedicata alla tragedia degli Armeni cristiani, perseguitati e dimenticati dalla comunità occidentale, un “dramma invisibile”, quello del genocidio nel Nagorno Karabak. Nella lettera inviata come presidente del Cts dell’Ucid, a tutti i parlamentari, e riportata nella rivista, il direttore di “Intervento”, Pedrizzi, chiede di accendere la luce su quella tragedia che sembra non interessare nessuno, “nonostante la cancellazione in atto di millenni di storia, di simboli cristiani, di un patrimonio culturale millenario nei territori del Nagorno passati sotto il controllo dell’Azerbaigian con conseguente esodo della popolazione verso l’Armenia”.
“Centomila armeni su un totale di centoventimila sono stati costretti con le armi dall’esercito dell’Azerbaigian ad abbandonare le loro terre, dove abitavano da secoli. Profughi nei campi per rifugiati in Armenia. La Russia ha sempre difeso l’Armenia dalle mire della Turchia, che ha appoggiato l’aggressione azera e l’ha pesantemente aiutata. Ma quel ‘criminale’ di Putin non era in condizione di intervenire e la Turchia ne ha approfittato”, scrive Mantica.
Sul silenzio dell’Europa si esprime, invece, Cinzia Bonfrisco, componente della Commissioni Esteri del Parlamento europeo.
Sul fronte politico, lo stesso Pedrizzi, nel suo editoriale, analizza lo status quo delle misure a sostegno delle fasce più deboli, come gli anziani, mentre Domenico Fisichella, ex Vicepresidente del Senato, critica la passività dell’opposizione su fronte delle riforme, ponendo alcune domande; “Cosa propone lo schieramento alternativo? Ha e può avere un iter programmatico con una sua significativa coerenza?” . Sullo stesso tema, l’approfondimento di Alberto Balboni delinea la proposta sul premierato arrivata dal centrodestra. Un duro attacco alla direttiva Ue sulla case green arriva da Nicola Procaccini, Copresidente gruppo Conservatori e Riformisti al Parlamento Europeo, che parla espressamente di patrimoniale occulta.
Ed ancora, un ritratto sincero del “comunista redento” Giorgio Napolitano, firmato da Paolo Armaroli, con giudizio di un avversario” firmato da Maurizio Gasparri, approfondimenti sull’intelligenza artificiale, la natalità, i rischi e le trappole della finanza, il ruolo centrale nel sistema creditizio delle banche popolari, l’analisi di Souad Sbai sull’integralismo islamico e il contributo di Monsignor Pizzaballa sulla guerra che infiamma il Medio Oriente.

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Nagorno Karabakh, a rischio ogni testimonianza armeno-cristiana (Terra Santa 19.01.24)

Dopo che decine di migliaia di armeni sono fuggiti dal Nagorno Karabakh preso dalle truppe azere nel settembre scorso, ora rischiano di scomparire anche le chiese, le croci, i simboli di una plurimillenaria presenza armena e cristiana.


I centomila abitanti dell’ultima enclave armena del Nagorno Karabakh sono fuggiti nel giro di pochi minuti lo scorso settembre, quando i soldati dell’Azerbaigian hanno occupato la loro città, Stepanakert. Hanno lasciato dietro di sé documenti, vestiti e tutta la loro vita. Adesso chiedono che sia almeno risparmiata la loro memoria, testimoniata dalle centinaia di chiese, cappelle, kachkar (le tradizionali croci di pietra) che punteggiano un territorio abitato, sin dal IV secolo d. C., dalla comunità dei cristiani armeni.

«Gli azeri hanno già cominciato a cancellare le tracce armene dai luoghi sacri, in quattro mesi hanno cambiato l’aspetto di una decina di chiese negli ultimi territori occupati», spiega l’archimandrita Tirayr Hakobyan, rappresentante presso la Santa Sede della Chiesa apostolica armena in Europa Occidentale. Il loro metodo – denuncia l’archimandrita – è cancellare ogni scritta, ogni simbolo che possa suggerire la presenza ultramillenaria armena. Talvolta sostituiscono le parole incise sulla pietra con scritte in lingua albana, appartenente all’ antico regno cristiano dell’Albania caucasica, scomparso del tutto nel VI secolo d.C. (niente a che vedere con l’Albania balcanica – ndr.). «In molte occasioni, dopo l’invasione e la conquista di gran parte del Nagorno Karabakh nel 2020, l’Azerbaigian ha usato metodi più brutali. Ha distrutto importanti chiese, compresa la cattedrale di Shushi, vandalizzato monasteri risalenti al IX secolo, polverizzato croci di pietra», riferisce l’archimandrita, in un incontro con alcune testate giornalistiche, tra cui Terrasanta.net.

La religione cristiana è parte integrante dell’identità armena, cancellando i simboli della fede si annulla l’individualità di un popolo. L’archimandrita Hakobyan parla di un patrimonio di oltre 4mila edifici e beni sacri, molti dei quali antichissimi e preziosi, in tutta la regione contesa, di cui un centinaio nella città di Stepanakert (Khankendi per gli azeri). Prima di essere occupata definitivamente, il 24-25 settembre 2023, la città ha subito un assedio pressoché totale durato dieci mesi. L’unica strada di collegamento con l’Armenia era stata chiusa dagli azeri, bloccando i rifornimenti. Infine è arrivato il blitz dell’esercito, che ha imposto alla popolazione civile di scegliere, in pochi minuti, se rimanere sotto l’autorità e le leggi dell’Azerbaigian o lasciare immediatamente Stepanakert.

Video girati pochi giorni dopo la conquista azera, mostravano una città abitata da cani in cerca di cibo, cavalli che trottavano da soli nelle principali strade, tra borse, valigie, passeggini abbandonati all’ultimo momento, probabilmente perché non entravano nelle auto, nei camion, sui trattori usati per l’esodo di massa. Le porte delle case erano rimaste aperte. Tuttora Stepanakert, come mostra un recente reportage di Al Jazeera, è una città fantasma, nonostante i tentativi del governo di Baku – afferma l’archimandrita Hakobyan – di convincere i cristiani azeri, minoranza in un Paese musulmano, a trasferirsi nell’ex enclave armena.

Dei 100mila profughi arrivati a Yerevan, 30 mila sono bambini. In tanti non hanno alcun documento, alcun attestato di studio. Sono persone che hanno bisogno di tutto e che nella capitale armena, travolta da un’immigrazione così massiccia e improvvisa, hanno trovato alloggi provvisori e aiuti alimentari, ma non le basi per ricominciare una nuova esistenza. In molti sono tornati a cercare casa vicino al confine del Nagorno.

Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh è cominciato con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando si è trattato di definire confini in regioni con forti caratterizzazioni etniche incastrate tra loro come in un mosaico. Il Nagorno Karabakh, che si trova all’interno dell’Azerbaigian, dopo la fine dell’Unione Sovietica è stato proclamato, nonostante la resistenza del governo di Baku, ma grazie all’appoggio della nuova Russia, un’entità statale armena, anche se questa non ha avuto il riconoscimento internazionale. Nel 2020, con il sostegno militare turco, l’esercito azero è riuscito ad occuparne i due terzi, espellendo già allora centinaia di migliaia di persone. Infine, il colpo di grazia dello scorso settembre.

Gli armeni, spiega Tirayr Hakobyan, si trovano in un gioco internazionale più grande di loro. Con la guerra in Ucraina e le sanzioni imposte alla Russia, l’Azerbaigian – che è già un produttore di rilievo di greggio e di gas – ha acquisito un ruolo chiave negli approvvigionamenti energetici. Secondo l’archimandrita, da Baku passerebbe adesso anche petrolio russo venduto sotto banco ai Paesi europei. Le alleanze diplomatiche sono cambiate e l’Armenia si è trovata di fatto da sola, nonostante i suoi appelli all’Onu e all’Occidente. Il futuro non promette niente di buono.

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«ARMENIA – ARTSAKH. Ritorno al Paradiso» (Culturacattolica 18.01.24)

Il Coordinamento delle Associazioni Laicali di San Marino propone questo incontro sul tema della Armenia e della sorte dei cristiani in Artsakh (Nagorno – Karabakh)
NON possiamo dimenticare, né essere indifferenti

«ARMENIA – ARTSAKH. Ritorno al Paradiso»

VENERDÌ 26 GENNAIO 2024
Ore 20,45
SALA MONTELUPO – DOMAGNANO – RSM

Intervengono:

  • TERESA MKHITARYAN Fondatrice del “Germoglio”, associazione con sede a Lugano che promuove progetti umanitari in Armenia
  • RENATO FARINA Giornalista

Queste le parole del Vescovo di San Marino – Montefeltro, in occasione dell’insediamento dei Capitani Reggenti, il I° ottobre 2023, alla presenza degli Ambasciatori accreditati in Repubblica:

«Ora voglio ricordare un’altra tragedia che ferisce il cuore degli uomini, e dei cristiani in particolare: è la sorte di migliaia e migliaia di Armeni dell’Artsakh [Nagorno-Karabakh] che sono scacciati dalla loro terra per rifugiarsi nell’Armenia. Non ho le competenze che hanno Loro [gli ambasciatori e i politici presenti (ndc)] per orientare la riflessione così delicata, tocca rapporti internazionali, ma penso agli uomini, donne, bambini e agli anziani.
Viene davvero da chiedere giustizia per loro, la cui vita e storia vale certamente di più che qualsiasi progetto politico e di qualsiasi vantaggio economico.»
Mons. Andrea Turazzi, Omelia per l’Insediamento dei Capitani Reggenti, 1° ottobre 2023

LE TAPPE DELL’ODIO – IL GENOCIDIO DEGLI ARMENI (Gariwo 18.01.24)

Questa scheda fa parte del dossier di Gariwo “Le tappe dell’odio”, un’analisi comparata su alcuni dei principali genocidi del XX secolo coordinata dalla redazione di GariwoMag e scritta da Alessandra Colarizi, Tatjana Đorđević, Anna Foa, Françoise Kankindi, Pietro Kuciukian. A scrittori e studiosi abbiamo chiesto di raccontare le tappe dell’odio che hanno portato ai diversi genocidi, cercando di capire in che modo le parole e le azioni di politici, media e persone comuni hanno forgiato i sentimenti d’odio che hanno condotto al male estremo. Lo schema è quello di The Ten Stages of Genocide, la formula coniata nel 1996 da Gregory H. Stanton, presidente di Genocide Watch. Le otto “stazioni dell’odio” che creano le condizioni per un genocidio sono: classificazione, simbolizzazione, discriminazione, disumanizzazione, organizzazione, polarizzazione, preparazione e persecuzione. La nostra analisi comparata si ferma lì, prima delle ultime due tragiche tappe: lo sterminio e la negazione.

In questa scheda Pietro Kuciukian, console onorario d’Armenia in Italia e cofondatore di Gariwo, racconta le otto tappe che hanno condotto al genocidio degli armeni.

Nel corso della Prima guerra mondiale venne perpetrato, nei territori dell’Impero Ottomano, il genocidio del popolo armeno. Il governo ultranazionalista dei Giovani Turchi, emanazione del partito “Unione e Progresso”, scelse di turchizzare l’area anatolica e decise di deportare e sterminare l’etnia armena presente nel territorio fin dal 7° secolo a.C, integrata ma non assimilabile. Nel giro di pochi mesi, circa due milioni di armeni vennero deportati con le carovane della morte verso i deserti della Mesopotamia. Più di un milione tra essi trovarono la morte lungo il cammino, nei campi o nel deserto. Com’è stato possibile arrivare ad una simile tragedia?

1. CLASSIFICAZIONE

Le differenze tra le persone non vengono rispettate. Esiste una divisione tra “noi” e “loro” che può essere attuata utilizzando stereotipi o escludendo persone percepite come diverse.

Nel caso del genocidio armeno è necessario risalire alle condizioni delle minoranze cristiane dopo la conquista ottomana dell’Impero Romano d’Oriente e la caduta di Costantinopoli del 1453, che consolidò la realtà di stato centralizzato, autocratico e islamico dell’Impero Ottomano. La distinzione tra il gruppo noi e il gruppo loro era presente fin dalle origini, in quanto gli armeni si trovavano ad essere sudditi cristiani di un Impero fondato sulla Sharia (legge sacra di Allah rivelata a Maometto). I non musulmani, cristiani, ebrei, zoroastriani, induisti e altri erano chiamati dhimmi (sudditi che godono di un patto di protezione): potevano praticare la loro religione a determinate condizioni e la loro sicurezza era garantita dall’obbligo di pagare una tassa straordinaria, la Jizya, definita “compensazione“, poiché garantiva la condizione di “protetti”. Le Sure del Corano regolamentavano i compiti dei sudditi, e relativamente ai cristiani si prescriveva che potessero godere dell’atteggiamento tollerante dei dominanti, ma non di uguali diritti; la discriminazione era all’origine della convivenza tra gruppi diversi nella realtà multietnica dell’Impero Ottomano. Da segnalare anche la pratica (XIV secolo) di sottrarre i primogeniti maschi delle famiglie cristiane (tributo dei fanciulli), istruirli all’Islam e addestrarli militarmente. Diventavano così “giannizzeri”, corpi scelti a difesa del Sultano e fanatici esecutori dei suoi ordini.

2. SIMBOLIZZAZIONE

Una manifestazione visiva di odio. Come, ad esempio, gli ebrei che nell’Europa nazista furono costretti a indossare stelle gialle per dimostrare che erano “diversi”.

Nell’epoca ottomana i sudditi cristiani erano stati organizzati in millet (comunità religiosa non musulmana, “nazione senza confini”), il cui capo era una figura religiosa, parzialmente responsabile della comunità dal punto di vista giuridico. La condizione di dhimmi comportava talvolta l’obbligo di vestire determinati abiti e usare determinati colori a seconda del millet di appartenenza. La distinzione tra i gruppi era quasi sempre legata alla disposizione topografica delle città o dei villaggi; i sudditi cristiani vivevano in quartieri circoscritti. Le chiese per lo più non dovevano essere visibili dall’esterno. Le campane non dovevano suonare. Le etnie dominate erano quindi facilmente identificabili e controllabili dall’etnia dominante. Le donne armene spesso non portavano il velo e nel corso dei pogrom le case armene venivano segnate con croci. Durante il genocidio, le ragazze rapite e rese schiave venivano tatuate sul viso per renderle riconoscibili.

3. DISCRIMINAZIONE

Il gruppo dominante nega i diritti civili o addirittura la cittadinanza a gruppi identificati. Le leggi di Norimberga del 1935 privarono gli ebrei della cittadinanza tedesca, rendendo illegale per loro svolgere molti lavori o sposare tedeschi non ebrei.

L’Impero Ottomano nel XIX secolo era passato da un periodo di stabilità e di capacità di controllo sulle aree del Nord Africa e dell’Europa balcanica a una crisi progressiva, che lo aveva reso “il grande malato d’Europa” per l’incapacità di gestire il processo di modernizzazione in atto, caratterizzato dalla nascita degli ideali nazionali dei popoli europei soggetti all’Impero. A questo si aggiunse l’interesse della Russia zarista, che con il Trattato di Berlino (1878) si erse a protettrice dei cristiani sudditi dell’Impero e garante della concessione di riforme richieste dalle minoranze interne, in particolare dagli armeni. Il millet dei sudditi armeni cristiani era considerato “nazione fedele” (millet sadiqa diventò “nazione infedele”): gli armeni si erano lasciati penetrare dagli ideali di uguaglianza di diritti, di giustizia e di libertà propri della situazione sociale, culturale e politica dell’Ottocento. Alcune minoranze armene fondarono segretamente partiti politici. Nacque la “questione armena” e si passò dalla discriminazione accettata dagli armeni a una vera e propria propaganda contro il nemico interno, considerato pericoloso, con la sua richiesta di riforme, per la stabilità dell’Impero Ottomano. Si registrò un progressivo aumento degli episodi di violenza da parte delle tribù curde e circasse e la pressione fiscale si fece insostenibile. Gli armeni vissero la condizione di ghiaur, infedeli, asserviti al codice islamico basato sulla forza e sull’onore, riproposto dal sultano Abdülhamid II contro le leggi del diritto pubblico introdotte dalle riforme.

Abdülhamid, il “sultano rosso”, fu l’organizzatore delle brigate hamidié, di cui si servì per perpetrare i massacri hamidiani, dal 1894 al 1896, nei villaggi abitati dagli armeni nell’Anatolia, ma anche in città come Trebisonda e Costantinopoli. Più di duecentomila vittime, cinquecentomila islamizzati, trasferimenti di popolazione, distruzione di chiese e simboli religiosi. Si compirono e si giustificarono i massacri anche in previsione di una ”possibile” rivolta. In realtà, il Sultano stava anche cercando spazio per i turchi fuggiti dai territori ottomani che si erano resi indipendenti, con l’obiettivo di rivitalizzare il credo islamico e aumentare, con la nuova immigrazione dai Balcani, la potenza nazionale ed economica dell’Impero.

4. DISUMANIZZAZIONE

Coloro che sono percepiti come “diversi” vengono privati di ogni forma di diritti umani o dignità personale. Durante il genocidio contro i tutsi in Ruanda, i tutsi venivano chiamati “scarafaggi”; i nazisti chiamavano gli ebrei “parassiti”.

L’esercizio della violenza sui sudditi armeni restò impunito e non provocò conseguenze (le potenze occidentali protestarono, ma non agirono), ma fece sì che si consolidasse l’idea della vulnerabilità della minoranza cristiana, insieme alla convinzione che gli armeni fossero l’ostacolo maggiore al risanamento dell’Impero in declino. Venne aperta la strada alla disumanizzazione che costituirà il cuore della propaganda dei Giovani Turchi, espressione dei circoli nazionalisti che avevano fatto proprie le ideologie panturchiste e panturaniche (unificazione di tutti i popoli di etnia turca e ricongiungimento con il Turan, la terra di origine dell’Asia Centrale). Nel 1908 il movimento dei Giovani Turchi, che in un primo momento era stato sostenuto anche da alcuni partiti armeni, organizzò una rivoluzione incruenta, togliendo il potere al sultano e inaugurando un regime costituzionale che portò al potere il partito politico “Unione e Progresso” (Ittihad ve Terraki). Ben presto il nuovo governo, in cui erano presenti due anime, una liberale e l’altra nazionalista radicale, abbandonò ogni progetto di ottomanismo (unire tutti i sudditi e le varie etnie in una federazione di uguali) e diede il via, con i nuovi massacri in Cilicia (30.000 vittime), alla pulizia etnica degli armeni. Si accelerava in questo modo il processo di disumanizzazione che preparò il terreno per l’annientamento. Gli armeni, un tempo utili all’economia, diventarono così parassiti, microbi e batteri che infettano la salute dell’etnia dominante. Infedeli che non riconoscono più la benevolenza della Umma, (comunità dei fedeli) e tramano congiure; in quanto cristiani, privilegiati nei commerci con l’Occidente, traditori e futuri alleati alle nazioni che minacciano l’Impero. I “cani ribelli”, il rayaah (bestiame) cristiano, non può travalicare i limiti imposti dai “padroni” musulmani; se lo fa, la sua vita e i suoi beni sono alla mercè dell’etnia dominante.

5. ORGANIZZAZIONE

I genocidi sono sempre pianificati. I regimi di odio spesso addestrano coloro che poi portano avanti la distruzione di un popolo.

Si entrò in un percorso le cui tappe (segnate dal 1908 al 1913 dalla perdita di quasi tutto il territorio europeo dell’Impero) videro l’accelerazione delle spinte nazionaliste che orientavano il nuovo governo a risolvere le tensioni interne con la forza. Nel 1913 un colpo di stato dei Giovani Turchi del CUP portò al potere il triumvirato composto da Enver, Talaat e Cemal Pascia, capaci di mobilitare il popolo attorno alla nascente identità turca che si fondava sui legami linguistici, sull’idea di razza e di origini comuni. Le figure più note dell’azione genocidaria, i due medici Bahaeddin Sakir e Mehemed Nazim, furono gli ideologi della costruzione di uno stato nazionale turco islamico centralizzato, omogeneo e unitario, con scuole, amministrazione e potere giudiziario turco. La superiorità etnica turca si sarebbe consolidata solo dopo la risoluzione della questione armena. Risultava inoltre evidente la vicinanza dell’ideologia panturchista dei Giovani Turchi all’ideologia del pangermanesimo che stava nascendo nei circoli nazionalisti in Germania. Prossimità ideologica che spiega l’avvicinamento tra l’imperatore Guglielmo II e il governo dei Giovani Turchi.

6. POLARIZZAZIONE

La propaganda inizia a essere diffusa da gruppi di odio. I nazisti utilizzarono il giornale Der Stürmer per diffondere e incitare messaggi di odio contro gli ebrei.

Si pensò a una sostituzione etnica su vasta scala. Il sentimento anti-armeno si acuì, sostenuto dall’idea forte che gli armeni cristiani – un tempo “fedeli” e sottomessi, che guardavano all’Occidente, che avevano condiviso con i Giovani Turchi inizialmente gli ideali di uguaglianza e libertà – costituissero una barriera, un ostacolo da eliminare. È la minaccia alla sovranità nazionale che si può riassumere in questa espressione: “I turchi sono un popolo che parla turco e vive in Turchia. La Turchia ai turchi”.

7. PREPARAZIONE

Gli autori pianificano il genocidio. Spesso usano eufemismi come la frase nazista “La soluzione finale” per mascherare le loro intenzioni. Fomentano paura nei confronti del gruppo delle vittime, costruendo eserciti e armi.

La soluzione della questione armena, che consiste nell’eliminare in modo definitivo gli armeni dall’area del loro insediamento storico, venne preparata attraverso alcune tappe. L’occasione venne offerta dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Molti genocidi avvengono nel corso di una guerra che facilita anche il rovesciamento delle responsabilità e la negazione del crimine. Il partito “Unione e Progresso” dei Giovani Turchi acquisì il controllo delle istituzioni statali. Dopo avere giocato sulla neutralità con molta astuzia politica, i triumviri decisero di entrare in guerra a fianco degli Imperi Centrali nel novembre del 1914. Riorganizzarono e addestrarono l’apparato militare; potenziarono l’Organizzazione Speciale (Teshkilat i Mahashusa) controllata dal dottor Bahaeddin Sakir e la affiancarono con irregolari, bande di tribù curde e carcerati liberati ad hoc. Tutto era pronto per l’azione genocidaria.

8. PERSECUZIONE

Le vittime vengono identificate in base alla loro etnia o religione e vengono stilate liste di morte. Le persone a volte vengono segregate in ghetti, deportate o fatte morire di fame e le proprietà vengono spesso espropriate. Iniziano i massacri con intento genocidario.

Lo stato di guerra, con il suo alto tasso di violenza e sofferenza; le sconfitte dell’esercito turco, inflitte dai russi sul fronte orientale, di cui vennero ritenuti responsabili i soldati armeni; le azioni di armeni volontari che passarono nelle file dell’esercito russo. Sono queste le situazioni che crearono le condizioni per dare il via alla persecuzione: gli armeni erano visti come traditori, una minaccia per la sopravvivenza del popolo turco. L’attività del Parlamento venne sospesa; i triumviri emanarono tre decreti-legge: abolizione delle riforme, deportazione temporanea, confisca dei beni abbandonati (l’esproprio dei beni segnala il carattere definitivo dello sterminio). Il 24 aprile del 1915, i leader delle comunità armene di Costantinopoli e gli esponenti dei partiti politici vennero arrestati e massacrati. Colpiti i vertici, si diede il via, in tutti i distretti e province, all’eliminazione dei maschi armeni e alla deportazione di donne, anziani e bambini. I maschi dai 20 ai 40 anni, militari arruolati e poi disarmati, vennero utilizzati in lavori massacranti e poi eliminati progressivamente. La data del 24 aprile, scrive l’ambasciatore americano Henry Morghentau, segna “la morte di una nazione”.

Pietro Kuciukian, Console onorario d’Armenia in Italia e cofondatore di Gariwo

18 gennaio 2024

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