L’asse Roma-Baku: all’Italia interessano solo gli affari con l’Azerbaigian (TPI 25.11.23)

Gas, armi e lobby. Il nostro Paese è la principale destinazione dell’export azero, soprattutto di idrocarburi. Con la benedizione dell’Ue. In cambio però offriamo radar, aerei e altri sistemi militari

Era l’inizio di dicembre del 2020 e da meno di un mese era stato firmato il cessate il fuoco in Nagorno Karabakh con una dichiarazione trilaterale tra l’Azerbaigian, l’Armenia e la Russia. Il conflitto aveva permesso a Baku di riprendere il controllo della maggior parte dei sette distretti occupati dalla mai riconosciuta Repubblica armena dell’Artsakh che, tre anni dopo (nel settembre scorso), l’esercito azero riuscirà a cancellare completamente dalle mappe.

Allora, la prima delegazione europea ad arrivare nella capitale azera il 5 dicembre 2020 partì proprio dall’Italia. Si trattava di un gruppo bipartisan di parlamentari, tra cui l’allora vice presidente della Camera, Ettore Rosato (Italia Viva), i senatori Maria Rizzotti (Forza Italia), Alessandro Alfieri (Pd), Gianluca Ferrara (M5S) e Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), e i deputati Rossana Boldi (Lega) e Pino Cabras (allora M5S). Pochi giorni dopo, a seguito di una visita in Armenia, arrivò a Baku anche l’allora sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano (allora M5S). Entrambe le delegazioni non si fermarono però solo nella capitale, ma visitarono anche le città di Ganja (la seconda del Paese) e di Aghdam, appena riconquistata dagli azeri.

I politici italiani erano lì per promuovere il dialogo e la pace, ma sul tavolo dei colloqui c’erano anche questioni di carattere economico e commerciale. D’altronde, i rapporti tra Italia e Azerbaigian sono da sempre improntati agli affari, soprattutto energetici, senza distinzione di colore politico.

Sete energetica
Con una quota del 46%, pari a 17,7 miliardi di dollari, nel 2022 il nostro Paese rappresentava la principale destinazione delle esportazioni azere e la maggior parte di queste erano idrocarburi. Secondo la Banca mondiale, quasi il 92% dell’export di Baku è composto da petrolio, gas, oli e altri derivati. Soltanto l’anno scorso, secondo i dati del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, l’Italia ha importato dall’Azerbaigian oltre 10,32 miliardi di metri cubi di gas attraverso il gasdotto Trans Adriatic Pipeline (Tap), che insieme a Scp e Tanap collega il Paese caucasico alla Puglia via Georgia, Turchia, Grecia e Albania. L’anno prima erano stati 7,2 i miliardi di metri cubi di gas importati attraverso il punto di interconnessione di Melendugno, mentre nei primi sette mesi di quest’anno (ultimi dati disponibili), hanno già superato i 5,7 miliardi. Secondo la Relazione Annuale di Arera, relativa al 2022, questo ha fatto di Baku il terzo fornitore nazionale di gas dopo Algeria e Russia con il 14,2% delle quote di provenienza, in crescita rispetto al 9,9% del 2021. Dati in aumento e che sono destinati a salire ancora di più.

L’anno scorso infatti la Commissione europea ha firmato un protocollo d’intesa con l’Azerbaigian per ampliare il Corridoio meridionale del gas, di cui fa parte il Tap, raddoppiandone la capacità nei prossimi anni fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno. Proprio a gennaio, il consorzio che gestisce il gasdotto (partecipato dalla statale azera Socar, dalla nostra Snam, dalla britannica Bp, dalla belga Fluxys e dalla spagnola Enagás, tutte al 20%) ha annunciato l’attivazione del primo livello di espansione della capacità dell’opera. Un processo graduale che dovrebbe portare al raddoppio dei flussi entro il 2027. Un affare miliardario e non è l’unico. L’anno scorso infatti, secondo il rapporto 2023 dell’Unione Energie per la Mobilità (Unem) il nostro Paese ha importato il 14,4% del petrolio dall’Azerbaigian. Ma non finisce qui.

Cooperazione nella difesa
I rapporti bilaterali con Baku contano un altro fronte: quello militare. Malgrado la dichiarazione di Praga del Comitato Alti Funzionari Osce del 1992 che invita a non cedere o fornire armamenti ad Armenia e Azerbaigian, nel novembre 2012 l’Italia firmato con Baku un “Accordo sulla cooperazione nel settore della Difesa”, ratificato ed entrato in vigore nel 2017. Un’intesa che, come si legge nel capoverso intitolato “Finalità”, «mira anche ad indurre positivi effetti indiretti in alcuni settori produttivi e commerciali dei due Paesi». L’articolo 6 infatti «disciplina la cooperazione nel campo dei materiali per la difesa», concordando «la possibilità di fornire reciproco supporto alle iniziative commerciali» nel settore e individuando «le modalità attraverso le quali potrà attuarsi la cooperazione nel campo dell’industria della difesa e della politica degli approvvigionamenti, della ricerca e dello sviluppo degli equipaggiamenti».

In quello stesso anno, sui media si parlò di un accordo tra la controllata di Leonardo, AgustaWestland, e il governo azero per la fornitura di 10 elicotteri, affare di cui però non c’è traccia nei documenti ufficiali e che non si sa se sia mai stato portato a termine.

L’anno successivo poi arrivò la prima e ufficialmente unica fornitura militare italiana a Baku: la Selex Es esportò due radar di sorveglianza in Azerbaigian, poi indicati dalle relazioni ufficiali del ministero degli Esteri e dell’Agenzia delle Dogane come «Apparecchiature per la direzione del tiro».

Nel 2017 invece Leonardo firmò con Socar un accordo per «incrementare la sicurezza fisica e cyber delle infrastrutture per gli approvvigionamenti energetici e garantire maggiore efficienza alle attività della società azera». Tre anni dopo, nel febbraio 2020, il Governo firmò una lettera d’intenti con le autorità azere per l’acquisto da parte di Baku di 12 aerei da addestramento M-346 di Alenia Aermacchi, sempre di Leonardo, un’altra operazione di cui poi però non se ne fece più nulla.

Un affare ben più concreto si è tuttavia realizzato a giugno, quando Leonardo ha confermato la firma di «un contratto per il C-27J alla Forza Aerea dell’Azerbaijan», senza specificare né le cifre dell’accordo né il numero dei velivoli da trasporto tattico venduti a Baku.

Nuove opportunità però sono all’orizzonte, specie dopo la visita nel Paese a gennaio del ministro della Difesa, Guido Crosetto. Secondo indiscrezioni di Repubblica, l’Azerbaigian ha una lunga lista della spesa militare da quasi 2 miliardi di euro, compresi caccia, artiglieria, missili, aerei da trasporto e, soprattutto, sottomarini. In particolare, Baku sarebbe interessata all’acquisto di navigli prodotti dalla Drass Galeazzi di Livorno, «battelli con dimensioni ridotte e prestazioni micidiali». Tutti affari per ora bloccati dal mancato nulla osta dell’Unità per le Autorizzazioni dei Materiali di Armamento (Uama), che regola l’export di armi dall’Italia. E così, secondo l’ultima relazione annuale al Parlamento, l’anno scorso Roma ha concesso solo due autorizzazioni per l’export a Baku di armi di piccolo calibro per un valore di 15mila euro.

Diplomazia del caviale
Le autorità azere però non si disperano e puntano invece sulla cosiddetta “diplomazia del caviale”, finanziando attività culturali nel Bel Paese.

Attraverso la Fondazione Heydar Aliyev, intitolata al padre dell’attuale presidente Ilham, nel 2013 Baku ha stanziato 110mila euro per il restauro della Sala dei Filosofi di Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini a Roma. L’anno successivo, un altro milione di euro è arrivato per riunificare i Fori di Traiano, Augusto e Nerva nella capitale. Mentre la stessa fondazione, d’accordo con il Vaticano, ha finanziato anche il restauro delle catacombe di Commodilla alla Garbatella e di quelle dei Santi Marcellino e Pietro al Casilino, sempre a Roma. Una generosità che sa tanto di lobbismo.

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Armenia-Arabia Saudita: firmato un protocollo per instaurazione relazioni diplomatiche (Agenzia Nuova 25.11.23)

Il 24 novembre l’Armenia e l’Arabia Saudita hanno firmato un protocollo per l’instaurazione delle relazioni diplomatiche. Lo ha reso noto il ministero degli Esteri di Erevan, ripreso dall’agenzia di stampa “Armenpress”.

Il protocollo è stato firmato ad Abu Dhabi dagli ambasciatori armeno e saudita negli Emirati Arabi Uniti, rispettivamente Karen Grigoryan e Abdullah bin Sultan. Alla fine di ottobre 2021, l’allora presidente dell’Armenia Armen Sarkissian per la prima volta nella storia del Paese si era recato in visita ufficiale in Arabia Saudita, con cui Erevan non aveva rapporti diplomatici a causa del sostegno di Riad alla posizione dell’Azerbaigian nel conflitto nel Nagorno-Karabakh.

 

Nagorno-Karabakh: l’ultimo Stato spazzato via dalla cartina d’Europa (TPI 25.11.23)

L’ultima operazione militare condotta dall’Azerbaigian nella regione del Nagorno-Karabakh ha portato alla dissoluzione attualmente in corso della Repubblica dell’Artsakh, uno Stato non riconosciuto dalla comunità internazionale ma de facto esistente da decenni nel complesso contesto del Caucaso.

Questa piccola repubblica autoproclamata e abitata da popolazione di lingua ed etnia armena pur trovandosi in un territorio riconosciuto a livello internazionale come parte dell’Azerbaigian si trovava ormai quasi totalmente isolata e l’ultimo intervento militare compiuto da Baku ha tagliato ogni forma di comunicazione con l’Armenia, unico Paese che ha fornito sostegno all’Artsakh, e le truppe azere sono arrivate a poca distanza dalla capitale Stepanakert, costringendo il governo autoproclamato ad accettare le condizioni dell’Azerbaigian per un cessate il fuoco e iniziando così i negoziati. Colloqui che, vista la situazione di indifendibilità dell’Artsakh, hanno portato il presidente dell’autoproclamata repubblica a firmare la dissoluzione delle sue istituzioni dall’inizio del 2024.

Le origini della questione del Nagorno-Karabakh risalgono a molto tempo fa e vanno inserite nel complesso mosaico etnico della regione del Caucaso, in cui con la nascita degli Stati nazione dopo la caduta dei grandi imperi è diventato difficile tracciare linee di demarcazione precise, anche quando queste non andavano a dividere Stati sovrani ma repubbliche autonome dell’ex Unione sovietica. E così il territorio del Nagorno-Karabakh, abitato in gran parte da armeni, finì per diventare un’oblast autonoma all’interno della Repubblica socialista sovietica di Azerbaigian, collegato alla Repubblica socialista sovietica di Armenia tramite il corridoio di Lachin, tornato tristemente attuale nel corso dell’ultimo scontro armato. Oltre a questo, l’Armenia ottenne la provincia di Syunik e l’Azerbaigian l’exclave di Naxchivan in un risiko che mostra la complessità etnica dell’area.

Se la fine dell’ex Jugoslavia ha avuto esiti traumatici che ben conosciamo, il crollo dell’Unione Sovietica in molti casi non è stato da meno, non risultando sempre un processo pacifico e lineare come avvenuto per alcuni Stati divenuti indipendenti. È il caso, ad esempio, della situazione del Nagorno-Karabakh, che già alla fine degli anni ’80 era oggetto di contesa tra le repubbliche socialiste sovietiche del Caucaso che con l’indipendenza di Armenia e Azerbaigian, nel 1991, sfociò in una guerra per il suo controllo raffreddatasi solo nel 1994. Yerevan prese il controllo di gran parte della regione contesa, dando vita all’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, non riconosciuta dalla comunità internazionale.

Da quel momento diversi scontri armati si sono succeduti, di cui uno particolarmente determinante nel 2020 che ha portato di fatto all’isolamento della piccola repubblica autoproclamata. Quando lo scorso settembre le truppe azere hanno lanciato l’attacco contro l’Artsakh, il piccolo territorio si è trovato in netta inferiorità di uomini e mezzi e si è dovuto arrendere, intraprendendo colloqui che hanno portato alla dissoluzione della repubblica.

Ora la domanda è cosa succederà ai cittadini dell’Artsakh, una realtà statale che seppur non riconosciuta è esistita per circa 30 anni e da cui molti abitanti sono fuggiti verso la vicina Armenia. In quanti di loro rimarranno? Con che status? Otterranno dall’Azerbaigian, che ne ha ripreso il controllo, uno status autonomo come succede in situazioni etniche complesse? Sono queste le incognite che dovranno trovare una risposta nei colloqui in corso.

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Reportage TPI – Azerbaigian: la dittatura invisibile (TPI 25.11.23)

Ha cancellato dalle mappe i separatisti del Nagorno-Karabakh in un giorno, ponendo fine a una guerra durata 30 anni e provocando una crisi umanitaria senza precedenti. Ma non ha organizzato festeggiamenti in piazza. Così il regime ha silenziato la società civile, con controlli capillari, investimenti a pioggia e repressione

Sul boulevard che costeggia il Mar Caspio e che porta al Centro culturale Heider Aliyev di Baku, in Azerbaigian, disegnato dalla compianta archistar anglo-iraniana Zaha Hadid, giovani coppie passeggiano tenendosi per mano. I bambini sfrecciano sui monopattini, i venditori ambulanti colorano il cielo con i palloncini. Non c’è una cartaccia per terra, tutto è molto ordinato, i fiori e le piante sono curati nei minimi dettagli.

Alla fine della strada pedonale, sorge questo palazzo dalle forme geometriche affusolate che è diventato uno dei simboli del nuovo skyline di Baku, la capitale dell’Azerbaigian. All’orizzonte spuntano grattacieli costruiti da grandi studi di architetti che raccontano la rinascita economica del Paese, grazie alla produzione e vendita di petrolio e gas all’Occidente, sotto il controllo del governo. Il centro culturale, inaugurato a maggio 2010, come la strada su cui sorge, è dedicato a Heider, terzo presidente del Paese morto nel dicembre 2003, e padre di Ilham che lo ha sostituito come capo di Stato ed è al potere incontrastato da vent’anni.

Blitzkrieg
Oltre a modernizzare la città Ilham Aliyev ha investito nell’apparato di sicurezza e in particolare nelle forze armate. Aliyev ha creato un esercito efficiente, moderno, ed efficace. D’altronde uno degli obiettivi più importanti per Aliyev era chiudere la partita con il Nagorno-Karabakh, l’area che si è auto-governata per oltre 30 anni, a maggioranza armena. L’autonomia della zona comincia subito dopo il collasso dell’Unione Sovietica e un conflitto che ha visto la sconfitta di Baku contro gli abitanti della zona e l’esercito armeno. Un conflitto che si è trascinato fino ad oggi.

Nel primo pomeriggio di martedì 19 settembre, un gruppo di turisti orientali si protegge dal sole caldo con ombrelli e cappellini, tutti guardano incuriositi l’entrata del centro; fanno fotografie e si mischiano ai residenti locali, come in una qualsiasi città turistica. Sembra tutto tranquillo, fino a quando la nostra guida, una giovane studentessa universitaria che non vuole essere citata per paura di ritorsioni, tira fuori il telefono. «È successo qualcosa, Internet è molto lento», fissa il cellulare con aria preoccupata. I messaggi su Whatsapp e altre piattaforme arrivano a rilento. I video su Instagram e TikTok non si caricano. Poco dopo annuncia: «È cominciata una nuova operazione in Nagorno-Karabakh; il governo non vuole che circolino altre informazioni da quelle ufficiali. Lo fanno spesso». La giovane donna, con i capelli corti e i jeans strappati, sottolinea come non ci siano media indipendenti e che della propaganda ufficiale non ci si può fidare. «Né da una parte, né dall’altra». La maggior parte delle informazioni le ottiene dai social media. «Anche i soldati postano in continuazione».

Sul taxi, la radio diffonde la versione ufficiale che viene ripetuta allo sfinimento su tutti i canali: 11 persone sono state uccise da una mina piantata dai separatisti, tra queste ci sarebbero due civili. Secondo il governo, questa è l’ennesima violazione degli accordi del 2020, una provocazione. Così Ilham Aliyev ha dato il via libera a una nuova operazione che in meno di 24 ore ha portato alla resa incondizionata e al completo “riassorbimento” della regione autonoma nel territorio azero. In meno di una settimana, quasi tutta la popolazione armena è fuggita, circa 120mila persone, creando una catastrofe umanitaria. I soldati sono stati accusati di violenze e ritorsioni. Con questo attacco Aliyev ha sorpreso tutti; fino all’ultimo momento il presidente azero aveva escluso l’uso della forza con tutti i partner internazionali, rassicurandoli in diverse occasioni. E, invece, il 19 settembre ha visto un’opportunità per chiudere questa guerra durata più di trent’anni.

L’autocrazia in borghese
Tra la gente, a Baku, la notizia viene assorbita con cautela. Tra stupore, attesa e mal contento represso. A porte chiuse si piangono i morti di questa nuova operazione, almeno 200 secondo il governo, e si invoca la pace. Ma per le strade non si parla, le proteste non esistono. E chiunque sui social media esprima delle opinioni contro la guerra o il governo, viene chiamato in caserma e arrestato quindi bollato come traditore dalla propaganda governativa. L’apparato di sicurezza del Paese è molto efficace e allo stesso tempo ben nascosto. Nella capitale, che conta oltre tre milioni di abitanti su un totale di nove, ci sono migliaia di agenti in borghese che ascoltano, controllano, monitorano. Si mescolano tra la folla, pronti a intervenire nel momento del bisogno o come forza preventiva. Un controllo sociale capillare, ma mai evidente. Infatti, non ci sono pattuglie di soldati, né tantomeno volanti della polizia. Per la strada non ci sono cartelloni di propaganda che spesso adornano le strade di città in guerra o controllate da un regime. Un’autocrazia visibile agli occhi di chi vuole vedere.

«Oramai il governo è talmente forte che non ha bisogno di fare propaganda o avere un controllo evidente per le strade. Di fatto, la società civile non è più una minaccia, è stata completamente silenziata», spiega a TPI Samad Rahimli, giurista per i diritti umani che sottolinea come la mancata presenza di militari non deve ingannare perché in realtà c’è un controllo sociale molto forte, anche grazie a migliaia di informatori. E non esistono libertà personali. Fa alcuni esempi: «Per i matrimoni e i funerali si deve chiedere il permesso alla polizia. Di solito si presentano alle cerimonie», racconta. Una maniera, secondo lui, per far capire alla popolazione che nulla sfugge agli occhi attenti dello Stato che non ammette alcuna voce fuori dal coro. Poi racconta di come l’opposizione non riesca a organizzare un congresso, «le location a pagamento si rifiutano di ospitarli o cancellano all’ultimo minuto». Le organizzazioni della società civile «non possono avere un incontro a porte chiuse. È impossibile. Addirittura, vengono fatte delle pressioni sui proprietari degli immobili che con pretesti futili recidono i contratti di affitto a chi partecipa a qualche attività». E aggiunge: «Tra le norme che hanno varato c’è anche quella contro le ong, che è particolarmente problematica. In pratica, nessuno può ricevere fondi dall’estero e nessuno ha soldi per operare. Quindi non esistono ong».

Controllo sociale
Rahimli spiega come questa svolta nella repressione sia cominciata dieci anni fa. Il movimento giovanile Nida era molto partecipato, l’opposizione stava crescendo. Nel 2013, Aliyev è stato riconfermato presidente per la terza volta e un mese dopo la sua vittoria è scoppiata la protesta in Ucraina contro le influenze russe e per un futuro più vicino all’Europa. «Era una rivoluzione colorata che voleva cambiare le cose. Noi capivamo bene che cosa volesse dire, anche noi facevamo parte dell’Unione Sovietica e l’influenza di Mosca si sente molto. Secondo me, Aliyev ha avuto paura, non ha voluto correre rischi che le proteste dilagassero anche qui». E così sono cominciati gli arresti e le violenze. Nuove leggi hanno limitato drammaticamente la libertà di espressione e cancellato la libertà di riunirsi. L’opposizione è rimasta paralizzata, incapace di rispondere o arginare gli attacchi. Il tutto, mentre grandi somme di denaro venivano elargite a cascata nella società. Migliaia di cittadini sono stati assunti nel pubblico impiego.

Bahruz Samadov, nel 2013 aveva 18 anni. Da poco più di un anno partecipava al movimento giovanile Nida. Aveva grandi speranze, racconta di un’atmosfera frizzante con dibattiti e confronti. «La società civile era forte», ricorda. Oltre alle proteste in Ucraina, le cosiddette Primavere Arabe erano diventate un’ispirazione. Tutti speravano in un cambiamento. Ma il governo ha capito prima di tutti di dover agire e falcidiare il movimento sul nascere.

«Hanno cominciato piano, una persona alla volta. Ma in pochi mesi tutti i leader del movimento sono stati arrestati e molti altri ancora», racconta Samadov a TPI, sottolineando come in quel frangente il partito di opposizione abbia «perso la faccia» per non essere riuscito a rispondere agli attacchi contro la società civile, ma anche per non avere avuto una chiara posizione sul conflitto. Tutti i cittadini hanno cominciato ad avere paura, e la maggior parte ha preferito il quieto vivere, girandosi dall’altra parte, e allontanandosi il più possibile da qualsiasi forma di partecipazione politica. In molti, soprattutto giovani, si definiscono apolitici. «Nelle università c’è un serio controllo, riflette la macchina disciplinare del governo su tutta la società». Se uno studente o una studentessa scrive in rete qualsiasi cosa che possa essere percepito come politico, viene chiamato e ripreso. «Spesso lo fanno in maniera pubblica per umiliarti. Pressano per rimuovere il post incriminato e ti spingono a non esprimerti», ci racconta una studentessa universitaria. «In alcuni casi hanno corrotto i professori per far bocciare gli studenti più problematici».

Conflitto & Identità
Samadov ha lasciato Baku e ora è dottorando alla Charles University a Praga, scrive su giornali internazionali della guerra e della repressione. «A fine agosto in ambienti militari circolavano voci di una possibile escalation. Non ho perso tempo e ho preso il primo aereo che mi portasse fuori dal Paese. Non sono in prigione per una casualità». Quattro suoi cari amici sono stati arrestati, hanno subito un fermo amministrativo per un mese. «Hanno scritto su Facebook che erano contrari a questa operazione. Sono ancora in prigione. Mi sento in colpa di essere riuscito a fuggire». Da anni Samadov critica la guerra. Dal collasso dell’Unione Sovietica, spiega, la formazione dei nuovi Stati nazione ha portato solo a un bagno di sangue. «Dovunque ci sono stati solo conflitti». Durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh (1988-1994), ricorda il massacro degli azeri a Khojaly nel 1992, centinaia di civili vennero uccisi dalle forze armene molto più preparate di quelle azere. Da lì a poco arrivò la sconfitta in guerra e quindi la perdita di  controllo sul Nagorno-Karabah e su sette province limitrofe. Risultato, centinaia di migliaia di profughi sono arrivati a Baku nel caos. Mancanza di viveri, nessun aiuto internazionale. Nell’aprile del 1993 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha varato quattro risoluzioni che stabilivano l’area come parte dell’Azerbaigian e il diritto a garantire la continuità territoriale. «È stato uno choc per tutti. Il massacro, la guerra, ha plasmato l’identità nazionale e siamo entrati in questa mentalità da vittime. La verità è che entrambe le parti hanno partecipato a crimini di guerra. Bisogna tornare a un dialogo per la pace e la convivenza come abbiamo fatto per migliaia di anni».

Secondo l’analista politico Anar Mammadil, le paure degli armeni che scappano, sono più che giustificate. Alcuni giornalisti hanno raccolto le testimonianze di aggressioni delle truppe azere nei confronti dei civili armeni. «Il governo non ha dato garanzie di sicurezza. Spero che le cose cambieranno e che a un certo punto tornino. È molto triste che se ne siano andati. Ma Baku deve cercare un dialogo, la pace». Finora non sono stati fatti passi avanti. «Il risultato della guerra del 2020 era chiaro, perché non cercare delle vie diplomatiche?».

Infatti, per Mammadil questi ultimi tre anni sono stati un’occasione persa, si poteva costruire un percorso di pace, ma tutti gli attori sono rimasti statici sulle loro posizioni «e le potenze locali e internazionali hanno fatto solo i loro interessi». Non c’è mai stato un vero confronto su come continuare, su come ottenere la pace. E lui avrebbe una proposta: «Per prima cosa il governo dovrebbe demilitarizzare tutta la zona, nemmeno le forze di pace russe dovrebbero rimanere ed è necessario consegnare l’area ai civili. Poi dovrebbero costruire delle forze locali miste, in cui ci sia una forte  partecipazione armena». Sottolinea come sia importante riconquistare la fiducia, «ma l’Azerbaigian deve essere più trasparente». Nemmeno lui si aspettava questa operazione. «È stato tutto molto veloce, e il disarmo è stato una sorpresa più che altro perché non c’è nessun accordo scritto”.

Chi arma Baku
Da quando Ilham Aliyev ha preso il potere, ha cominciato a ristrutturare le forze militari, modernizzare gli arsenali, crescere nelle capacità operative. Oggi l’Azerbaigian riserva quasi 3 miliardi di dollari l’anno alla Difesa. «In questi anni, le entrate delle risorse energetiche sono state investite nel settore della sicurezza», aggiunge Nona Mikhelidze, ricercatrice dell’Istituto Affari Internazionali (Iai). Secondo diversi analisti militari le capacità azere superano quelle armene, grazie anche a un arsenale che comprende droni e missili ad alta tecnologia.

Infatti Baku compra soprattutto da Russia, Israele e Turchia. «La differenza nella costruzione del comparto militare l’hanno fatto questi tre Paesi», con la grande contraddizione russa. «L’Armenia fa parte dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Otsc) che ha un articolo 5 simile a quello della Nato per cui se un Paese membro viene aggredito, gli altri devono rispondere. La Russia non solo non ha appoggiato l’Armenia, ma vendeva le armi a Baku». Secondo la studiosa non dovrebbe esserci pericolo di una nuova campagna militare, «di fatto hanno ripreso tutto quello che volevano. Ufficialmente non hanno altre pretese, ma bisogna capire che cosa succederà al corridoio di Zangezur e a quello di Lachin. La situazione rimane molto delicata».

Nuove tensioni
Ma non solo: l’Armenia ha paura che il conflitto dilaghi a marzo 2024, alla fine dell’inverno quando tutte le operazioni militari a causa del terreno fangoso, si fermano. Se Yerevan ha ufficialmente riconosciuto l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, Baku non ha fatto lo stesso. La paura di un nuovo conflitto serpeggia anche a Baku. Dopo il discorso di Aliyev per la vittoria nessuno è sceso in piazza a festeggiare.

Per Mikhelidze questo è un segnale positivo: «Lascia la speranza di una coesistenza pacifica, non c’è più questa voglia di vendetta che porta a festeggiare». Ma secondo T.S., una giornalista locale, «non riusciamo veramente a digerire quello che sta succedendo». T.S. ha accettato di rispondere a qualche domanda di TPI solo a patto di non venire riconosciuta, «rischio il mio posto di lavoro e molto di più», ammette nel cortile interno di un’enoteca che vende vini da tutto il mondo e serve pietanze locali.

«La storia si ripete e io ho paura. Non credo che il conflitto sia finito, chi ci dice che tra dieci anni non ci troveremo nella stessa situazione?». Nota anche come in nessun negoziato sia presente una donna. «Sappiamo bene come le donne siano le prima garanti e promotrici di pace, per questo è necessario coinvolgerle», sospira. C’è chi dice che nemmeno il governo volesse festeggiamenti di piazza. «La situazione è incerta, l’inflazione è altissima, le persone cominciano a fare fatica. E un grande raduno di piazza potrebbe trasformarsi in un momento per sfogare la rabbia».

Insomma Aliyev sembra aver perso del consenso, ma grazie alla repressione e il senso di patriottismo instillato perennemente da tutti i media è ancora saldamente al comando con una società silenziata. Una sorta di auto censura preventiva per non incorrere in problemi. Negli ultimi 20 anni Aliyev ha giocato moltissimo sul nazionalismo, accentuando il carattere laico del governo e del Paese.

Oggi Baku è una delle mete preferite nel Caucaso. Accoglie turisti da tutto il mondo. Quello che stupisce di Baku è la sovrapposizione di architetture e stili. Gli imperi passati in questa terra hanno lasciato le loro tracce. Da quello ottomano ai francesi venuti per il petrolio e che hanno costruito palazzi a ridosso del centro. Poi i casermoni sovietici che ospitano migliaia di famiglie. E quindi nuovi grattacieli con forme affusolate e futuristiche. Oltre al centro Haider Aliyev, anche le Flame Towers sono un simbolo della città. Un complesso residenziale con tre grattacieli di altezze diverse di cui il più alto tocca i 190 metri. Sono costruiti sull’altura che domina Baku e si vedono da diversi punti. Ogni sera, dopo il tramonto, sulla loro superficie viene proiettato il video di un uomo stilizzato che sventola la bandiera azera. Ogni sera. È impossibile non notarle nel nuovo skyline di Baku.

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Gerusalemme. La crisi del Patriarcato Armeno, vittima di speculazioni immobiliari israeliane (Faro di Roma 25.11.23)

Il 10 maggio il Santo Sinodo del Patriarcato armeno di Gerusalemme ha convocato ed unanimemente dichiarato decaduto il p. Baret Yeretzian. L’ex direttore immobiliare del Patriarcato è stato accusato di aver favorito una trattativa di leasing con l’uomo d’affari ebreo-australiano Danny Rubinstein, riguardante i terreni del Goverou Bardez (Il giardino delle mucche), per una durata di 99 anni. Alcune settimane più tardi, gli fu chiesto di lasciare la sua residenza all’interno del monastero armeno.

Dopo aver ascoltato la triste notizia, una gran parte della comunità armena a Gerusalemme si è riunita fuori da casa sua, chiedendo risposte, mentre gridavano ad alta voce: “traditore! traditore!”. Sono stato cinico e non pensavo che la protesta sarebbe stata efficace. Quando sono arrivato sulla scena, sono stato felicemente smentito. Con mia grande sorpresa, ho incontrato molte persone della comunità armena. Tutti erano accomunati dalla rabbia per il gesto compiuto dell’amministratore patriarcale. Le proteste durarono per ore fino al tramonto, e furono accompagnate da canzoni patriottiche.

A questo punto, la polizia israeliana e la divisione di rinforzo hanno fatto irruzione nel convento armeno, presumibilmente su richiesta del prete disonorato, per scortarlo fuori in modo sicuro. La folla era aumentata a dismisura, e mentre usciva dalla residenza, è successo di tutto: grida di indignazione, sputi, schiaffi, pugni e una rissa con le forze israeliane, nel tentativo di afferrare l’ex economo. Certo non possiamo tollerare un tale comportamento, specie verso un uomo spogliato del suo potere e scomunicato. Sarebbe stato facile, troppo facile. Ma serviva una risposta. Il popolo meritava risposte, e il Patriarcato negli ultimi tre anni non è stato trasparente sulla questione. Però in quel momento, Yeretzian sembrava un agnello sacrificale in balia di un giustificato delirio.

In questa triste vicenda c’era e deve essere posto l’accento sulle responsabilità dell’economo e la responsabilità del Patriarcato. Va notato che solo la firma del Patriarca ha forza giuridica nei confronti dello Stato d’Israele. Se Sua Beatitudine l’Arcivescovo Nourhan Manougian è stato ingannato, ha solo messo in luce la sua incompetenza; se ha coscientemente firmato il contratto, è colpevole di aver tradito il popolo armeno. Solo accuse finora, ma nonostante entrambe le possibilità, la credibilità della Chiesa armena in Terra Santa è pari a zero.

Alcuni membri della comunità, galvanizzati dal fervore della folla, hanno organizzato una manifestazione la settimana successiva che ha avuto luogo in Medz Pag (il cortile principale). Quando ho saputo della protesta, credevo che nessuno si sarebbe presentato. Ed ancora, ho ricevuto un’altra umiliazione! I responsabili della comunità, nei loro discorsi, hanno sottolineato l’importanza di “questo pezzo di terra” acquistato gradualmente, con fatica e sudore, a partire dal 14 º secolo. La proprietà in questione, nel corso degli anni ha provveduto al sostentamento della comunità con l’allevamento di bovini, prodotti lattiero-caseari e riciclaggio dell’abbigliamento. Questo luogo è divenuto un rifugio sicuro per i rifugiati di tutta la diaspora armena.

Durante il sit-in, i giovani hanno proposto lo “Yarkhushta”, il ballo popolare di battaglia risalente al Medioevo, menzionato nelle opere di Movses Khorenatsi. La protesta guidata dagli attivisti Hagop Djernazian e Setrag Balian, si è fermata all’entrata del Patriarcato armeno, adiacente alla Chiesa di San Giacomo. L’evento si è concluso con laa preghiera “Der Voghormia” intrisa di dolore e di memoria per coloro che hanno sacrificato la loro vita per le nostre terre.

La protesta nasce dall’attivismo popolare, che non ha niente a che fare con le comunità online o internazionali. Come abbiamo visto di recente, anche i 120.000 armeni di Artsakh, nonostante le proteste della rete, e le poche denunce internazionali, hanno dovuto andare via dalle città e dai loro villaggi. Mentre la protesta di pochi giorni fa non era solo virtuale. Nasce da gente che si conosce, che vive dentro le mura e che si incontra nelle case. Nel corso della manifestazione, ci siamo spostati nel convento, fermandoci davanti alla porta con Vunkin Toor. I nostri piedi, hanno battuto i ciottoli della strada conducendoci verso le pareti sante della Chiesa di S. Giacomo prima di girare verso le scale che portano al Bezdig Pag. Abbiamo percorso tutte le vie fino ai vicoli che dividono le case delle diverse famiglie che abitano da molto tempo il quartiere armeno: i Kahkedjians, Kahvedjians, Manougians, Kasparians, Panossians, Toumayans, Hindoyans, Djernazians, Alemians, Nassarians, Kalaydjians, Kopoushians, Kassabians, Deldelians, Krikorians, Bedrossians, Nakashians, Hagopians, Gejekoushians, Dikatanians, Yezegelians, Karagozians, Baghamians, Antreassians, Nalbandians, Lepedjians, Koutoujians, Melidossians, Tateosians, Sandrounis, Karakashians, Balians, Der Mateossians, Odabashians, Sahagians, Torossians, Baghdassarians, Dikbikians, Jansezians, Boyadjians, Avedissians, Avakians, Shahinians, Bakerdjians, Marshalians e tanti altri.

Questo movimento non rappresenta un attacco contro il patriarcato. È una richiesta di attenzione, che vuole strappare quell’indifferenza che da troppo tempo avvolge la nostra comunità. Ci troviamo tutti sulla stessa proverbiale barca: in pericolo. Non possiamo continuare a lasciarci andare nell’anonimato. “Dobbiamo far sentire la nostra voce”, dicono i manifestanti (nella foto).

Abbiamo trascritto in inglese la posizione di tre movimenti: Homenetmen, Hoyetchmen, Pari Siradz. Dopo circa mezzo secolo, questa è la prima volta che si esprime una posizione di questo tipo:

“In the past several weeks, many peaceful protests have been held by the Armenian community of Jerusalem against the fraudulent leasing of Armenian real estate properties, in particular ‘Cows’ Garden’ (Goveroun Bardez). It had become public knowledge that the said real estate had been covertly given away in an illegal 99-year lease to the XANA GARDES organization.

The impact of the illegal lease on the Armenian Quarter would be immeasurably detrimental to the presence and the national ethos of the Armenian presence in the Holy Land. The Armenian community utterly rejects the illegal 99-year lease of the historical “Cows’ Garden” and its environs. The illegal lease poses a great threat to the ubiquitous mosaic of the Holy City.

Consequently, we urge the Patriarch to revoke the contract and rescind all other promised contractual deals regarding the Cows’ Garden and the Armenian properties in general because the Armenian Quarter is the natural link to other Quarters in Jerusalem. The Armenian community is ready to submit any assistance to the Patriarch to revoke the contract.

The Armenian Community at large expresses and acknowledges with gratitude the efforts exerted by His Majesty King Abdullah the Second of the Hashemite Kingdom of Jordan and His Excellency the President of Palestine, Dr. Mahmoud Abbas, who reaffirmed their commitments to the integrity of the Armenian Quarter, as well as maintaining the Armenian and Christian presence in Jerusalem.

We also call upon the relevant stakeholders and in particular, the Republic of Armenia and the Catholicos of all Armenians, Karekin II and to the Armenian communities worldwide to reach out to help and support the struggle of the Armenian Community in Jerusalem for transparency and justice.

We, Armenians, must unite and fight to protect our presence in the Holy Land which goes back to the 4th century C.E. As a united community, we demand answers and transparency of all illegal contracts in order to revoke them, and to protect Armenian properties against all attempts of illegal sales. This will create an enhanced environment for Jerusalem Armenians to flourish, prosper and develop against all attempts of illegal seizure of Armenian properties. Furthermore, it is imperative to note that the Holy Synod and General Assembly of the St. James Brotherhood never ratified this lease.

Many supportive statements have been issued by Jerusalem heads of Churches stressing the fact that the very presence of Christianity in the Holy City is being targeted and jeopardized by extremists. Finally, the contract isn’t just a real estate matter: it is politics at the highest level. The agreement makes a mockery of international law because it violates relevant covenants and decisions, which aim to preserve the status quo, governing Jerusalem. This international covenant protects the rights of the Armenian Church and Community. The main questions to be asked of Patriarch Manougian are these: why was the land leased and to whom?

Finally, the illegal sale/lease contract should be revoked and presented to the Armenian public.

On behalf of the Armenian clubs in Jerusalem,

Homenetmen
Hoyetchmen
Paresiradz (JABU)”.

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L’AMICO ARMENO Andreï Makine (Ilpassaparoladeilibri 25.11.23)

Consigliatomi dalla mia bibliotecaria preferita, mi sono messa a leggere questo piccolo libro che mi si è svelato invece di grande qualità e così ricco di significati da farmi veramente emozionare. Scritto da uno (almeno per me) sconosciuto autore russo, nato in Siberia e naturalizzato francese, il romanzo è ambientato, in un tardo periodo dell’epoca sovietica, a Irkutsk, sede di una prigione dove sostavano per qualche tempo detenuti politici, specie armeni, in attesa di giudizio, prima del loro trasferimento in qualche gulag siberiano; narra la storia di un’improbabile amicizia nata tra due ragazzi: l’io narrante, Andrei, che è un orfano duro e ribelle e un compagno di scuola, Vardan, coetaneo di origine armena, debole e malaticcio, quasi femmineo nei grandi occhi neri dalle lunghe ciglia, che vive assieme alla madre e ad una ragazza che forse è sua sorella, in una parte periferica della cittadina, denominata “Piccola Armenia” perché vi vivevano i familiari degli armeni imprigionati in attesa di giudizio.

E Andrei, che decide di difendere dai bulli della scuola quel debole compagno, rimane colpito invece dalla sua forza interiore e dalla sua capacità di vedere le cose del mondo in un modo del tutto particolare. E così scopre che si può toccare il cielo con un dito perché“ qui, alla nostra altezza, c’è la stessa aria che si trova in mezzo alle nuvole, non è vero? Dunque il cielo comincia da qui, e persino da più in basso, raso terra… anzi, sotto le nostre scarpe!” Ed ancora che è più importante sognare che possedere: “Prendi per esempio il Monte Ararat, la vetta sacra degli armeni. Si trova in Turchia adesso. Lo abbiamo perduto ma….. In realtà, non averlo ce lo rende ancora più caro. E’ questa la vera scelta : possedere o sognare. Io preferisco il sogno.” Andrei viene anche a conoscenza attraverso i racconti dell’amico della triste storia degli armeni, la loro lotta per l’indipendenza e il loro genocidio perpetrato senza pietà per nessuno; ed entrerà in rapporto con la madre e la sorella di Vartan, che lo colpiscono per la loro compostezza e bellezza, con il saggio Servan e la sua panchina che accoglie le anime sole, e con il loro insegnante di matematica Ronin, che instaurerà con gli armeni un intenso rapporto di amicizie e comprensione.

Insomma un romanzo carico di emozioni, in cui si coglie il dolore e la dignità di persone che hanno molto sofferto per difendere le proprie tradizioni e la propria identità; un libro che, seppure con parole scarne e soppesate sapientemente, mette a nudo una umanità sofferente, che tuttavia ci invita a guardare il mondo con occhi non offuscati da pregiudizi e rigidità ma pronti a svelare la bellezza di un altro modo di vedere e di vivere la vita. Assolutamente da leggere se non vi preoccupa troppo emozionarvi e, perché no, versare anche qualche lacrima.

Recensione di Ale Fortebraccio

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Nagorno Karabakh, l’esodo aree Nagorno Karabakh (Osservatorio Balcani e Caucaso 24.11.23)

Con l’attacco dell’Azerbaijan al Nagorno Karabakh dello scorso settembre, gli oltre 100mila residenti armeni della regione si sono rifugiati in Armenia. In molti vorrebbero fare ritorno alle proprie abitazioni, ma la coabitazione delle due etnie è per il momento ancora una chimera

24/11/2023 –  Marilisa Lorusso

Il fatto che si sia arrivati ad una soluzione del conflitto del Karabakh attraverso la guerra e non attraverso un’opera di riconciliazione ha comportato un controesodo, che ripercorre in senso opposto e contrario quello fatto dagli azeri quando era stata l’Armenia a vincere la guerra ad inizio anni Novanta. Dopo il 19 settembre 2023, giorno dell’attacco dell’Azerbaijan, in pochi giorni il Karabakh si è svuotato. La coabitazione delle due etnie nello stesso territorio è per il momento ancora una chimera.

Gli sfollati armeni dal Karabakh sono distribuiti in varie regioni dell’Armenia. La prima ondata ha raggiunto la zona limitrofa al Karabakh per poi allargarsi all’intero territorio nazionale armeno. Nel giro di due giorni, già il 30% della popolazione era fuggito, ma i numeri sono continuati a aumentare vertiginosamente e per tutti i giorni seguenti tanto che al 2 di ottobre l’intera popolazione dell’ex repubblica secessionista era rifugiata in Armenia. Inizialmente si riteneva che i residenti del Nagorno Karabakh fossero 120mila unità, ma è poi stato confermato un numero inferiore, circa 100.600 persone.

Stando a quanto dichiarato dal primo ministro armeno Nikol Pashinyan, gli sfollati si sono fermati quasi tutti in Armenia e sono solo tremila quelli che hanno abbandonato l’Armenia per recarsi all’estero. Lo stesso Pashinyan ha invitato i karabakhi a non emigrare e a fermarsi in Armenia, dove possono registrarsi e andare a scuola. Nel giro di pochi giorni dopo l’esodo il 40% degli studenti già frequentava le scuole armene. Sono stati invece portati all’estero i feriti gravi che non è stato possibile ricoverare negli ospedali nazionali. Di questi alcuni in Francia, in Bulgaria, in Italia, in Belgio e negli Stati Uniti. L’Armenia offre agli sfollati uno status di protettorato temporaneo, ne supporta i costi e si impegna a rendere possibile ricostruirsi una vita.

Il 13 ottobre l’ex primo ministro del Karabakh ha dichiarato che la maggioranza degli sfollati vorrebbe rientrare nelle proprie abitazioni. La comunità internazionale preme perché vengano creati i requisiti per facilitare il rientro. L’inviato speciale del presidente azero Elchin Amirbayov ha recentemente rilasciato una intervista  in cui ricorda che per i karabakhi è possibile registrarsi ed acquisire la cittadinanza azera. Ma ha tenuto a sottolineare che dei 100mila rifugiati, buona parte ha già cittadinanza armena e circa il 30% sono dei “coloni”, insediatesi in Karabakh durante il periodo secessionista. Si stima che siano ormai poche centinaia gli armeni che sono rimasti sul territorio ora controllato da Baku, per lo più persone impossibilitate a lasciare l’area per motivi di disabilità o di anzianità. Li assiste la Croce Rossa.

Lo smantellamento del Nagorno Karabakh

Il Nagorno Karabakh politico, come stato de facto, cesserà di esistere a fine anno per decreto del suo ultimo presidente, ma di fatto dalla resa del 20 settembre non esiste più. Rispetto a come era definita con il cessate il fuoco del 1994, la regione secessionista si era già molto ridotta dopo la guerra del 2020. Il processo di erosione territoriale e demografico a vantaggio di Baku era in corso prima dell’esodo che in pochi giorni ha svuotato la regione. Era già iniziato il Grande Ritorno, il processo che dovrebbe riportare almeno entro il 2026 140mila sfollati di guerra azeri nei territori da cui provengono.

Attualmente sono più di tremila le persone che sono rientrate nelle zone che erano state conquistate dagli armeni, principalmente nella ex cintura di sicurezza. La comunità che sta prendendo forma non abita però le case abbandonate dagli armeni. Il Grande Ritorno implica una grande ricostruzione con nuovi aeroporti, infrastrutture, complessi residenziali. A Füzüli vivono ormai più di 660 persone, a Lachin più di mille. 

Resta ancora largamente spopolata la città di Stepanakert, il cui nome armeno [la città di Stepan] è dedicato a Stepan Shahumian, bolscevico armeno membro della Comune di Baku. Il suo busto è stato rimosso dagli azeri, che chiamano la città Khankendi, il villaggio del Khan. I pochi cronisti presenti, Al Jazeera e la Croce Rossa mostrano le immagini di una città fantasma.

Ci sono ancora i peacekeepers russi, il cui mandato scade nel 2025. Confermano che hanno continuato a ricevere armi e munizioni: granate, mortai, missili e carri armati, sistemi anticarro. Hanno smobilitato buona parte dei vari punti di monitoraggio, nati per il mandato ufficiale di verificare le violazioni del cessate il fuoco. Il ministero della Difesa azero pubblica periodicamente il bollettino delle armi sequestrate, inclusi missili costruiti del 2021 in Armenia che, stando alle dichiarazioni, sono stati rinvenuti nelle aree conquistate, vari esplosivi improvvisati tipici di quella che era la produzione locale, pezzi di artiglieria.

Sul territorio, la situazione relativa alla sicurezza rimane abbastanza stabile. Nell’ex Karabakh armeno c’è stato solo un episodio di un agguato a una pattuglia mista russa e azera. Lungo il confine armeno-azero a inizio ottobre ci sono invece stati degli scambi di fuoco con perdite umane.

Nonostante non si spari più, la guerra del Karabakh continua a fare vittime. Il 13 ottobre un azero è morto e un altro è rimasto ferito. Sono 333 le vittime dalla fine del conflitto tra feriti e morti civili e militari. Il Karabakh rimane un’area estremamente pericolosa A ottobre ANAMA, l’agenzia azera addetta a sminare, ha mostrato le foto delle mine e degli esplosivi che erano stati disposti in vari punti dai secessionisti armeni.

La mancata amnistia

Durante il Consiglio di Sicurezza sul Nagorno Karabakh convocato d’urgenza dalla Francia, l’Unione Europea aveva richiesto un’amnistia per i membri del governo e della pubblica amministrazione del Karabakh. L’Azerbaijan non ha intenzione di attivare provvedimenti di questo tipo, e come ha rilevato lo stesso ultimo presidente del Karabakh, pare che Baku stia procedendo con un sistema selettivo per valutare le responsabilità dei vari secessionisti.

Il 27 settembre è stato fermato Ruben Vardanyan, ex capo del governo del Karabakh, che da subito era risultato particolarmente inviso a Baku. Anche l’ex segretario del servizio di sicurezza è stato arrestato e i vari ex presidenti della Repubblica. Qualcuno si è consegnato, come per esempio il consigliere presidenziale che si è recato a Sushi, sapendo già di essere ricercato e avendo deciso di rispondere personalmente del proprio credo politico. Alcuni membri sia delle forze armate che del governo sono riusciti a riparare in Armenia. Quelli che erano ancora in carica e sono riusciti a arrivare a Yerevan, hanno preso possesso della rappresentanza diplomatica del Karabakh dove si è di fatto insediato quanto rimane oggi del governo secessionista.

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Pontificio Istituto Orientale: convegno a Roma su St Nerses Shnorhali, una vita spesa per l’ecumenismo e la pace (Agensir 24.11.23)

“Plenitude of Grace, Plenitude of Humanity: St Nerses Shnorhali at the Juncture of Millennia”. E’ il tema del convegno che si terrà a Roma, presso il Pontificio Istituto Orientale il 30 novembre e il 1 dicembre per celebrare l’850° anniversario della morte di San Nerses Shnorhali. L’anniversario della morte di Nerses Shnorhali (ovvero “il Grazioso” – 1102-1173) – si legge in una nota del Pio -, è stata inserita nel calendario Unesco 2023 di anniversari di personaggi famosi e di eventi importanti. Pioniere nell’arte della musica e della poesia e teologo di spicco dell’Oriente Cristiano, Nerses il Grazioso ha lasciato epistole, omelie e preghiere in prosa, ha composto il testo e la melodia di quasi 1200 tra inni (šarakan), tropari, odi e canti liturgici. Divenuto Catholicos (1166 al 1173) con il nome di Nerses IV, è soprannominato Shnorhali, per i doni di santità e umile benevolenza, fu anche una figura di rilievo internazionale nel dialogo tra le Chiese Cristiane. “La sua eccezionale apertura ecumenica, unita all’approccio umano e pacifista nelle controversie del suo tempo – spiega il Pio –, è stato un modello di diplomazia efficace che può servire da insegnamento anche oggi nella soluzione dei conflitti religiosi ed etnici. Il convegno internazionale, che riunirà eminenti studiosi da tutto il mondo, si svolgerà in lingua inglese presso l’Aula Magna del Pontificio Istituto Orientale e verrà trasmesso in streaming sul canale canale YouTube @Orientale.

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Nagorno Karabakh, la grande fuga (RSi 24.11.23)

La Repubblica del Nagorno Karabakh – uno Stato de facto indipendente dal 1991, ma de iure situato dentro i confini dell’Azerbaigian – cesserà ufficialmente di esistere dal 1° gennaio 2024.

Dopo aver imposto un blocco al cosiddetto “corridoio di Lachin” – l’unico collegamento della regione con l’Armenia e il resto del mondo – che per mesi aveva ostacolato traffico civile e forniture di beni alimentari, medicine e carburante, l’Azerbaigian ha lanciato lo scorso settembre un’offensiva su larga scala. In poche ore, il governo azero ha ottenuto il controllo della regione e il disarmo dell’enclave. La quasi totalità dei circa 120’000 residenti è fuggita in massa verso il sud dell’Armenia.

Se da una parte i rifugiati piangono le vite che si sono lasciati alle spalle e affrontano un futuro incerto, l’Armenia intera si misura con una questione fondamentale per la propria memoria collettiva: la resa della cosiddetta “ultima roccaforte”, un territorio simbolo per l’identità nazionale e custode del patrimonio culturale.

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Nagorno-Karabakh: UE fornisce 5 milioni di aiuti umanitari (Regione Tosacana 24.11.23)

L’UE sta incrementando i suoi aiuti umanitari con 5 milioni di euro in risposta alle crescenti necessità derivanti dalla crisi del Nagorno-Karabakh. L’escalation del conflitto e il successivo cessate il fuoco dovrebbero innescare un esodo di massa di persone dal Nagorno-Karabakh verso l’Armenia, con circa 13.500 rifugiati che hanno già attraversato il confine. Allo stesso tempo, nell’enclave del Nagorno-Karabakh si registra una grave carenza alimentare e la mancanza di accesso all’elettricità e all’acqua.

Il finanziamento umanitario di 5 milioni di euro comprende 500.000 euro di sostegno d’emergenza annunciato la scorsa settimana e 4,5 milioni di euro di nuovi finanziamenti, che serviranno a:

•    assistere le persone sfollate dal Nagorno-Karabakh verso l’Armenia. Gli aiuti saranno forniti da diversi partner umanitari dell’UE che operano in Armenia per raggiungere circa 25.000 persone. La priorità è fornire assistenza in denaro, alloggi, sicurezza alimentare e mezzi di sussistenza.

•    assistere le persone vulnerabili all’interno del Nagorno-Karabakh. Gli aiuti saranno inoltrati attraverso il Comitato internazionale della Croce Rossa e mirano a sostenere circa 60.000 persone con cibo, assistenza sanitaria, alloggi e logistica.

L’UE sta inoltre inviando nella regione un esperto umanitario che collaborerà con i partner umanitari in loco per garantire una risposta rapida alla crisi.

Compresi i nuovi finanziamenti annunciati, la Commissione europea ha fornito oltre 25,8 milioni di euro in aiuti umanitari dall’escalation del conflitto in Nagorno-Karabakh nel 2020. Allo scoppio del conflitto in Nagorno-Karabakh nel 2020, la Commissione ha prontamente risposto con 6,9 milioni di euro in aiuti umanitari per rispondere alle esigenze dei civili più vulnerabili direttamente colpiti dalle ostilità.

Maggiori informazioni:

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