128° giorno del #ArtsakhBlockade. Ilham Aliyev: «Gli Armeni che vivono in Karabakh devono accettare la cittadinanza azera o trovare un altro posto dove vivere» (Korazym 18.04.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 18.04.2023 – Vik van Brantegem] – Nei 128 giorni del #ArtsakhBlockade, l’Azerbajgian ha interrotto l’unico gasdotto dall’Armenia in Artsakh per un totale di 62 giorni e la fornitura di elettricità è stata interrotta da 99 giorni. Ciò ha portato a blackout giornalieri e arresti di emergenza, con conseguente chiusura di molte strutture o riduzione delle operazioni economiche.

Foto di Siranush Sargsyan.

Turchia e Azerbajgian conducono delle esercitazioni militari “Haydar Aliyev 2023” nella regione di Kars in Turchia, al confine con l’Armenia nord-occidentale. Questi esercizi ormai annuali sono stati eseguiti per la prima volta nel 2022, sempre vicino a Kars, con la partecipazione di cannoniere, veicoli corazzati e truppe aviotrasportate.

Settembre 2022, Jermuk. Un’eroi vittorioso azero posa con la testa mozzata di un muflone armeno sull’orlo dell’estinzione, incluso nella Lista rossa IUCN delle specie minacciate. Nel frattempo auto-dichiarati “ecologisti” sono occupato a bloccare e far morire di fame 120.000 persone di Artsakh.

Si noti che tutte le organizzazioni rappresentate sulle giacche degli “eco-attivisti” del #ArtsakhBlockade sono state create e sono gestite dal governo azero, che continua a negare di aver orchestrato e mantenuto il blocco.

Il dittatore dell’Azerbajgian, lham Aliyev, ha ripetuto l’ultimatum agli Armeni che vivono in Artsakh/Nagorno-Karabakh: devono scegliere se accettare la cittadinanza dell’Azerbajgian e vivere nella regione economica del Karabakh con gli stessi “diritti” dei cittadini azeri (ovvero, senza diritti) o cercare un altro posto dove vivere. Non è questo una dichiarazione di voler deportare con la forza gli Armeni e di effettuare la pulizia etnica in Artsakh? In tutta chiarezza una nuova conferma dell’intenzione di pulizia etnica da parte del regime genocida di Aliyev in Azerbajgian, che mantiene 128 giorni di illegale e sadico #ArtsakhBlockade, in palese violazione dell’ordine legalmente vincolante della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite e contro le dichiarazioni e appelli degli organismi internazionali e degli Stati. Contemporaneamente, Aliyev avverte che l’esercito azero oggi è più forte del 2020 quando ha vinto la guerra dei 44 giorni e di essere “pronti per qualsiasi situazione e in qualsiasi momento”.

Parallelamente, il Primo Ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ha affermato che dopo la guerra dei 44 giorni nel Nagorno-Karabakh, l’Azerbajgian è euforico e cerca di ottenere di più, e – forse – tutto.

Oggi il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha fatto un altro discorso di riconciliazione, nonostante le aggressioni costanti dell’Azerbajgian, e il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, ha fatto un altro discorso che indica una chiara intenzione di pulizia etnica degli Armeni nel Nagorno-Karabakh e rivendicazioni aggressive nei confronti dell’Armenia. Realizzato quasi contemporaneamente, auto-esplicativo.

BAKU, Azerbaigian, 18 aprile. Il presidente della Repubblica di Azerbajgian, Ilham Aliyev, ha inaugurato il centro “ASAN xidmet” a Salyan, riporta Trend News Agency. Quindi, è stato intervistato dalla televisione azera del distretto di Salyan.

Gli Armeni che vivono in Karabakh devono accettare la cittadinanza azera o trovare un altro posto dove vivere: il Presidente Ilham Aliyev
Trend News Agency, 18 aprile 2023

BAKU, Azerbaigian, 18 aprile. Gli Armeni che vivono in Karabakh dovrebbero o accettare la cittadinanza azera o trovare un altro posto dove vivere, ha dichiarato il Presidente della Repubblica di Azerbajgian, Ilham Aliyev, in un’intervista alla televisione azera nel distretto di Salyan, riporta Trend. “Abbiamo ripetutamente affermato che non discuteremo dei nostri affari interni con nessun Paese. Il Karabakh è la nostra questione interna. Gli Armeni che vivono in Karabakh dovrebbero o accettare la cittadinanza azera o trovare un altro posto dove vivere. C’è completa libertà in questo, tutti i fondamenti democratici sono stati offerti. Questo problema dovrebbe essere risolto sulla base dei diritti umani”, ha affermato il Presidente Ilham Aliyev.

L’esercito azero oggi è molto più forte dell’esercito azero che ha vinto la guerra nel 2020 – Presidente Ilham Aliyev
Trend News Agency, 18 aprile 2023
BAKU, Azerbaigian, 18 aprile. L’esercito azero oggi è molto più forte dell’esercito azero che ha vinto la guerra nel 2020, ha dichiarato il Presidente della Repubblica di Azerbajgian, Ilham Aliyev, in un’intervista alla televisione azera nel distretto di Salyan, riferisce Trend. “Nei due anni e mezzo trascorsi dopo la guerra, è stata prestata molta attenzione alle questioni relative alla costruzione dell’esercito. Posso affermare con piena fiducia che l’esercito azero oggi è molto più forte dell’esercito azero che ha vinto la guerra nel 2020. Allo stesso tempo, voglio ribadire che siamo pronti per qualsiasi situazione e in qualsiasi momento”, ha dichiarato il Presidente Ilham Aliyev.

«Credevo che il Presidente Aliyev dell’Azerbjigian avesse consiglieri competenti, ma le sue recenti dichiarazioni hanno dimostrato che sono del tutto inutili. Raccomando vivamente che li licenzia, poiché più dura diventa la retorica, più è probabile che il Signor Aliyev finirà per affrontare il Tribunale Internazionale di Den Haag.
L’espulsione forzata di 120.000 Armeni dalla loro patria da parte dell’Azerbajgian sarà senza dubbio un crimine contro l’umanità. Pertanto, più il popolo dell’Artsakh è soggetto all’oppressione, più forte diventerà la nostra lotta e l’unità sarà forgiata contro questo programma. Di conseguenza, non è possibile compiere progressi in questo senso.
La mia posizione rimane ferma: l’unico modo per risolvere questo problema è avviare normali negoziati all’interno dei meccanismi internazionali. L’Azerbajgian deve riconoscere la legittimità dello Stato di Artsakh e dei suoi leader eletti. I negoziati internazionali devono svolgersi con la consapevolezza che in caso contrario porteranno a un vicolo cieco» (Ruben Vardanyan).

Un giorno questa sarà la fine di Aliyev e di suo compare Erdoğan. Erdoğan e Putin sono responsabili della permanenza al potere di Aliyev. Anche se è tardi, un giorno la verità troverà il suo posto.

Cardinal Parolin: la divisione pacifica della Cecoslovacchia modello per i conflitti di oggi

Il Segretario di Stato di Sua Santità ha celebrato nella Basilica romana di Santa Maria Maggiore nel pomeriggio del 17 aprile 2023 la Santa Messa per il 30° anniversario della nascita delle Repubbliche Ceca e Slovacca, dalla dissoluzione della Cecoslovacchia, che definisce esempio della possibilità di “risolvere pacificamente le divergenze, attraverso il dialogo e il rispetto reciproco”. Un’ispirazione per appianare le tensioni di oggi tra gli Stati, come quelle che hanno causato lo scoppio della guerra in Ucraina e il conflitto nel Caucaso meridionale tra Azerbajgian e Armenia per l’Artsakh/Nagorno-Karabakh armeno.
Le Repubbliche Ceca e Slovacca, il 1° gennaio 1993, prima unite nella Cecoslovacchia, “si separarono pacificamente, dando davanti al mondo una eloquente lezione di come si possano risolvere fondamentali esigenze di autodeterminazione e di indipendenza nel reciproco rispetto, nella pace e nella vera fraternità”. E oggi, alla luce di conflitti come “la guerra in Ucraina scatenata dalla Russia” l’esperienza dei due popoli di 30 anni fa “continua ad essere una fonte di ispirazione”, un modello per altri Stati di come “risolvere pacificamente le loro divergenze, attraverso il dialogo e il rispetto reciproco”. Così il Segretario di Stato, Cardinale Pietro Parolin, citando anche il discorso di San Giovanni Paolo II a Praga nel maggio 1995, ricorda la nascita delle Repubbliche Ceca e Slovacca, nella Messa per il 30° anniversario di quel “momento importante nella storia dell’umanità”.
Nell’omelia della celebrazione, il Cardinal Parolin prende spunto dalle vicende dei due Stati europei “con radici ben piantate nelle tradizioni slave” per ricordare, “in questo periodo pasquale”, il messaggio di pace donato da Cristo. La pace del Signore “non consiste nell’assenza di conflitti, ma nella presenza della giustizia e concordia”. Come ha ricordato Papa Francesco nell’ultima Messa crismale del Giovedì Santo “costruire l’armonia tra noi” non è “questione di strategia o di cortesia: è un’esigenza interna alla vita dello Spirito”. Un messaggio universale, sottolinea il segretario di Stato, come quello di amore e riconciliazione “che trascende tutti i confini e ci chiama al rispetto reciproco, riconoscendo le nostre differenze e abbracciando ciò che ci unisce”.
L’auspicio del Cardinal Parolin è che questa esigenza di rispetto reciproco, “condivisa da entrambe le Nazioni”, fondata “sulla secolare eredità spirituale dei Santi fratelli Cirillo e Metodio”, conservata “nel corso dei secoli nonostante le persecuzioni, le dominazioni e le soppressioni”, sia fonte di ispirazione non solo per coltivare buone relazioni tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia, ma anche “forza trainante per  assicurare la prosperità materiale e soprattutto spirituale ai loro abitanti”. Parolin si augura che questi possano “continuare a rendere lode al Signore in pieno giorno” e che “la luce della fede continui a risplendere in queste Nazioni, mentre le tenebre rischiano di ricoprire ancora una volta l’Europa”.
Nel corso dei secoli, conclude il Segretario di Stato, “i popoli slavi di questa regione hanno affrontato diverse sfide, tra cui la dominazione e l’oppressione straniera”. Ma lo spirito di indipendenza e autodeterminazione “non si è mai affievolito e, grazie a questa intramontabile eredità di evangelizzazione e identità culturale, dopo la caduta del regime comunista, ha dato luogo alla separazione pacifica della Repubblica Federale Ceca e Slovacca nel 1993”.

Segue un pezzo di scrittura che mette le cose in chiaro in riferimento alle opinioni e le prospettive di Monte Melkonian sulle questioni regionali che sono rilevanti nell’attuale #ArtsakhBlockade, e spiega come a volte gli Armeni possono essere il loro peggior nemico.

Artsakh e la verità sulla leggenda di Monte “Avo” Melkonian, comandante della guerra d’indipendenza dell’Artsakh
di Seta Kabranian-Melkonian
The Markaz Review, 17 aprile 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

L’autrice armena e professoressa dell’Università dell’Alaska, Seta Kabranian-Melknonian, ricorda il suo defunto marito, il combattente per la libertà Monte Melkonian, e tenta di mettere le cose in chiaro sulle sue imprese per conto dell’enclave armena bloccata di Artsakh aka Nagorno-Karabakh.

Un posto a cui sono connesso è stato bloccato per mesi. Anche se non mi piacciono molto i social media e li uso raramente, cerco le ultime notizie su Facebook e Instagram. Si parla poco dei 120.000 Armeni che si sono ritrovati improvvisamente in una prigione a cielo aperto in stile Gaza. I principali media mantengono un silenzio urlante sulla questione. Rabbia, senso di colpa, frustrazione, disperazione e speranza formano un nodo nel mio petto. Penso ai paesani, ai tanti miei amici che vivono nella regione. Faccio scorrere l’indice destro sul cellulare, su e giù, a destra ea sinistra. Indugio e aspetto.

“Sì, Set”, dice la mia amica, la sua voce priva di eccitazione.
Mi fermo un secondo. Chiedendole il solito come stai? non ha senso.
“Hai preso frutta o verdura?” Chiedo.
“Le forze di mantenimento della pace russe ci hanno portato delle arance”, dice. “Hanno consegnato le mele il giorno dopo, ma non sono in grado di fare lunghe file, lo sai. Quindi, non ne ho ricevuto nessuno”, continua.
“E le tue condizioni cardiache? La chirurgia?” Chiedo.
“Non lo so. Il chirurgo è in Armenia. Non posso decidermi adesso”, risponde. La sua voce si abbassa di un’ottava. “Non sappiamo cosa ci succederà”, dice.

Siamo diventati amiche dopo aver perso i nostri mariti nella stessa battaglia circa 30 anni fa. Era diventata una madre single con cinque figli minorenni. Sono diventata la madrina della famiglia. Lei e molti dei miei vecchi amici vivono ad Artsakh, l’Oblast autonomo del Nagorno Karabakh di epoca sovietica, un’enclave armena donata da Stalin alla Repubblica Socialista Sovietica di Azerbajgian nel 1921. Dopo 28 anni di relativa pace e prosperità, è difficile immaginare resurrezione delle difficoltà che hanno attraversato nei primi anni ’90, quando Armeni e Azeri hanno combattuto una guerra per il controllo della regione. Quello era un periodo in cui il blocco, le file infinite per il pane e il carburante, i giorni bui e freddi facevano parte del nostro vocabolario quotidiano.

Ora, a migliaia di chilometri di distanza, sullo schermo del mio computer c’è il Corridoio di Lachin, fin troppo familiare ma stranamente barricato, che collega il Nagorno Karabakh all’Armenia. Una strada che per un quarto di secolo mi ha permesso di essere parte di un’ancora di salvezza prima portando una scheggia di gioia ai bambini della guerra e poi organizzando eventi culturali e progetti umanitari per i sopravvissuti. L’ultima volta che ho attraversato il Corridoio di Lachin è stato nel 2018 per essere tra le persone con cui ho gioito delle vittorie e lamentato le sconfitte. Ora l’unica strada per raggiungermi con i miei parenti è bloccata. Tagliato. Amputando lentamente la regione dal suo corpo. Nego che non potrei mai più camminare per le strade abituali, accendere le mie candele nelle solite chiese e passare la notte a casa del mio amico, come ero solito fare.

Ero bambino quando cantavo “Il lamento del Karabakh”, dopo averne sentito il nome per la prima volta. Un artista della diaspora ha scritto la musica per i testi censurati del poeta armeno sovietico Hovhaness Shiraz:
Quello che ti ha strappato all’Armenia non è un fratello dell’Armenia
Impigliato tra noi due, tu sei il mio bambino, il mio Karabakh

Dopo essermi diplomato al liceo in Libano, dove sono nato e cresciuto, sono arrivato nell’Armenia sovietica per studiare. I miei nuovi amici lì non conoscevano la canzone. Solo pochi conoscevano la poesia attraverso le recitazioni dell’autore. Durante una gita universitaria, mi sono fermato accanto all’autista in un autobus LAZ sovietico sovraffollato. Ondeggiando con le gomme in movimento, attraverso un microfono ronzante ho cantato:
Il Karabakh è il grido di mia madre, che mi chiama con una fede straziante
Il Karabakh è il mio papavero rosso, ma vestito di nero sul cuore

Quando ho finito la canzone, i miei amici hanno applaudito e applaudito. Il nostro preside si è spostato sulla sedia. “Ragazzi, questo non è giusto”, ha detto. «Compagno Barseghian, è un canto patriottico armeno», dissi con la sicurezza che mi concedeva il mio status di studente straniero.

Durante i miei anni universitari nell’Armenia sovietica, non ho mai visitato il Nagorno-Karabakh. Tuttavia, nella fase Glasnost e Perestrojka del mio ultimo anno di università, è apparso in prima linea nelle nostre vite. Nel febbraio 1988, il Consiglio dei deputati del popolo dell’Oblast autonomo del Nagorno-Karabakh ha votato per la riunificazione con Madre Armenia. La maggioranza armena nell’enclave aveva iniziato massicce manifestazioni. Pochi giorni dopo, dal mio dormitorio nel centro della capitale dell’Armenia Yerevan, sono andato a piazza dell’Opera, dove migliaia di Armeni si sono riuniti in solidarietà con le richieste. In pochi giorni, mi trovavo tra decine di migliaia, centinaia di migliaia, oltre un milione di compatrioti per sostenere il movimento del Karabakh. Tenendo un piccolo taccuino nel palmo della mano, ho scarabocchiato un diario per il mio fidanzato segreto, Monte Melkonian, all’epoca prigioniero politico in Francia.

Entro la fine di febbraio, a causa delle richieste di autodeterminazione dei loro compatrioti, gli Armeni nelle città azere di Sumgait e Kirovabad sono stati vittime di pogrom ed espulsioni. Dall’altro lato, gli Azeri iniziarono a fuggire dall’Armenia, con alcuni cacciati dai gruppi paramilitari armeni come rappresaglia per i suddetti pogrom. Abbiamo continuato le nostre manifestazioni in Armenia, sperando in una soluzione pacifica che non è mai arrivata. Praticando il loro diritto all’autodeterminazione in conformità con la legge sovietica, l’Oblast autonomo del Nagorno-Karabakh e la Repubblica Socialista Sovietica di Armenia hanno approvato una risoluzione che chiedeva l’unificazione. Seguì un pogrom a Baku, in cui gli Armeni furono uccisi o espulsi dalle loro case. Altri Azeri sono poi fuggiti o sono stati espulsi dall’Armenia. Quando l’Unione Sovietica crollò, era iniziata una guerra a tutti gli effetti tra il Nagorno Karabakh, sostenuti dall’Armenia, e l’Azerbaigian.

Mi ero già laureato all’università e mi ero trasferito in Europa quando è successo. Dopo due anni di assenza, nell’autunno del 1990, ero di nuovo in Armenia con il mio fidanzato. Dopo il nostro matrimonio nel monastero di Geghard del IV secolo, un amico ha gridato: “Vogliamo una canzone dalla sposa! Una canzone dalla sposa!

Ho guardato Monte. Durante i nostri momenti più felici, entrambi abbiamo riconosciuto l’importanza del “Lamento del Karabakh”. Monte mi ha abbracciato intorno alla vita mentre cantavo:
Un alveare che dà il suo miele a un’ape straniera, tu sei il mio bambino, il mio Karabakh.

Poche settimane dopo i nostri voti, Monte si è unito alla lotta per il Nagorno-Karabakh, l’Artsakh armeno dei tempi antichi. Fin dai suoi primi vent’anni, era stato determinato ad aiutare a ripristinare i diritti del suo popolo a vivere nelle loro terre ancestrali. Nel processo, è stato associato sia agli eroi che ai cattivi dell’epoca. Fu anche il primo a denunciare pubblicamente i cattivi e a prendere le distanze da loro. Monte rappresentava tutti gli oppressi e credeva nel diritto di combattere, che è il titolo di un libro di suoi saggi, pubblicato nel 1993 [QUI].

Addestrato in un campo militare palestinese e già veterano dell’allora guerra civile libanese, durante la quale aveva contribuito a difendere il quartiere armeno di Beirut dalle milizie cristiane, Monte si unì ai feroci combattimenti contro l’esercito israeliano quando invase il Libano nel 1982. Amava i suoi compagni – Turchi, Curdi, Corsi e Baschi, tutti guerrieri delle nazioni oppresse – che lottavano per i diritti del loro popolo. Nelle situazioni più improbabili, come la guerra, difendeva allo stesso modo i diritti degli esseri umani, degli animali e dell’ambiente. Ha denunciato i tiranni, compreso i suoi, ed è rimasto incorruttibile fino alla fine. La sua ultima battaglia fu ad Artsakh, nel 1993.

L’elicottero si librava, le pale che tagliavano il caldo secco. Le nuvole di polvere presero la forma di un tornado. I veicoli militari si avvicinavano, trascinandosi dietro la terra come il velo di una sposa. In un videoclip, sono una figura snella vestita di nero, i capelli lucenti come il centro del papavero rosso nativo, mentre scendo i gradini. Circondato dai miei compagni in divisa militare, guardo gli uomini che si abbracciano addolorati. Ricordo di aver sentito il loro disagio, confusione ed esitazione. Non hanno osato avvicinarsi a me. Non erano riusciti a proteggere mio marito, il loro comandante.

In piedi vicino a quell’elicottero, ho guardato la foto in bianco e nero appuntata sui risvolti delle divise dei compagni. Non avevo mai visto la foto prima. Sopracciglia corrugate, i suoi occhi scuri mi fissano. Un’attaccatura dei capelli sfuggente accentua la sua fronte, il suo viso incorniciato dalla barba a forma di cuore. Ho immaginato che, nonostante la fretta costante e la maglietta spiegazzata che indossa nella foto, Monte potesse essere rilassato. Al di là delle lacrime, ho fatto un respiro profondo. Non c’erano lacrime.

Dopo la sua partenza in quel caldo giorno di giugno, non ci volle molto perché il folklore prendesse piede. Infinite versioni di Monte hanno inondato la carta stampata di storie inventate. Per uno, “era un santo combattente”, una specie di crociato; per un altro, un guerriero vendicativo (in verità, considerava la vendetta tra le più vili disposizioni). Uno lo ha reso un fumatore (non ha mai provato a fumare); un altro lo fece girare come cantante (con sua grande delusione, era praticamente stonato). Successivamente, molte distorsioni sono apparse su Internet, su Facebook, Instagram e altre piattaforme di social media.

Ho boicottato Facebook fin dall’inizio. Ma Facebook è entrato in faccia alla società. Considerato un assalto da alcuni, è stato etichettato come un successo di marketing. Presto le mie e-mail furono infestate da falsità “condivise”. Letteralmente a migliaia. Storie immaginarie, auto-esaltazione, affiliazioni inventate, storie alte di eroismo e patriottismo e rappresentazioni distorte di un umanista che diceva che le persone dovrebbero essere giudicate dalle loro idee, principi, azioni e stile di vita, non dalle loro origini. In una lettera dell’ottobre 1988 a me, Monte ha scritto:
Il razzismo è sbagliato in qualsiasi parte del mondo e per qualsiasi motivo. È totalmente irrazionale e illogico. È una specie di complesso che implica certe insufficienze da parte di chi ci crede. Il nostro popolo è stato ripetutamente sottoposto alle politiche molto antiumane di vari governi turchi che sono stati spesso sostenuti dalla massa del popolo turco (molto non politicizzato). Oggi non fa eccezione. Tuttavia, questo non significa affatto che dovremmo essere razzisti o odiare tutti i Turchi e tutto ciò che è turco. No, invece dovremmo essere calmi e obiettivi. Dovremmo dare uno sguardo più critico alla nostra storia per comprendere meglio le interrelazioni della nostra gente con i nostri vicini.

Fisso i due schermi sulla mia scrivania. Il mio computer e il mio telefono ripetono la stessa cosa. Le parole le capisco una per una, ma messe insieme sembrano indecifrabili.

“Le gente del Nagorno-Karabakh sono cittadini dell’Azerbajgian”, afferma il leader di quest’ultimo Paese.

La gente dell’Artsakh non ha visto un Azero in carne ed ossa negli ultimi 30 anni. La gente dell’Artsakh non ha sentito la lingua azera, ascoltato musica azera o mangiato cibo azero dall’inizio degli anni ’90. E sebbene l’assurdità della dichiarazione del leader azero sia sbalorditiva, rimane in gran parte inosservata dal mondo.

La macchina delle pubbliche relazioni del governo azero è stata implacabile nel riscrivere la storia. Dalle mappe ai libri di storia alle demolizioni di siti antichi (non) protetti dall’UNESCO, l’equivalente di milioni di dollari deve essere stato speso per la deliberata cancellazione della presenza indigena armena.

Questa pratica si estende ai social media. Facebook è un ottimo strumento nelle mani della macchina delle pubbliche relazioni dell’Azerbajgian. Sophie Zhang, la whistleblower di Facebook [QUI] ha rivelato di aver “visto il danno più persistente” dall’abuso di Facebook da parte del partito politico al governo dell’Azerbajgian per indurre in errore i propri cittadini a schiacciare l’opposizione e organizzare attacchi contro la popolazione armena in Artsakh. La corruzione del governo azero è ben documentata, così come la brutalità dei suoi soldati e i loro crimini di guerra. Eppure il leader dell’Azerbajgian afferma che “la vita degli Armeni in Karabakh sarà molto migliore che durante l’occupazione [da parte dell’Armenia]”.

Contro il mio miglior giudizio, soccombo alla pressione dei fan di Monte e approdo su Instagram. Il mio obiettivo è fornire informazioni accurate per ricostruire la vera immagine del guerriero. Nessun amore o odio in più, semplicemente la verità così come la conosco, sostenuta dal privilegio della documentazione che possiedo.

I miei post sono foto, brevi spiegazioni, eventi documentati e citazioni dirette. Descrivo il personaggio del “Che Guevara armeno”, come lo aveva definito un giornalista occidentale. Sottolineo gli ideali a lui cari: lotta per gli oppressi, come ha combattuto per il popolo palestinese in Libano; solidarietà con tutti i movimenti popolari, poiché ha mostrato solidarietà con i combattenti progressisti per la libertà curdi e turchi; protezione di tutte le vite innocenti, proprio come ha mostrato misericordia a tutti in Artsakh. Ricordo la sua rigorosa disciplina e istruzioni ai suoi soldati per salvare vite innocenti, non importa chi fossero.

Il mio Instagram è vibrante. Insieme ai messaggi di supporto, ricevo alcune note di odio, presunto terrorismo, omicidio e crudeltà. I fatti hanno perso credibilità. I social media non hanno posto per la verità. La sua nuova realtà ha preso il sopravvento. Le storie di guerrieri – una razza rara – non ne fanno parte. Penso a Malcom X. La resistenza della società alle verità scomode mi rattrista.

Una per una, le foto della mia patria, le foto della mia gente, le foto del mio defunto marito comandante, persino le foto di noi due insieme in abiti civili – vengono bloccate da Instagram, seguite da avvertimenti. Mi chiedo quali siano i miei diritti. Io “Segnala un problema”, mi lamento e spiego. Le foto vengono ripristinate e sbloccate. Ricevo messaggi di scuse generiche.

Nell’anniversario della sua morte, pubblico la foto in bianco e nero della spilla sulla divisa dei suoi soldati ventotto anni prima. Racconto la storia e molto presto il mio account Instagram scompare. “Eliminato”, dice il messaggio di Instagram.

La mia verità sembra indifesa contro gli arbitri e gli autori di falsità. La verità dei miei 120.000 compatrioti dell’Artsakh è invisibile sulla tela azera ricca di petrolio. Una verità fluida ha conquistato lo spazio dei social media. La dichiarazione d’intenti di Instagram afferma “catturare e condividere i momenti del mondo”. I miei momenti, però, non contano. I creatori di Instagram affermano che si può ” entrare in contatto con più persone, creare influenza e creare contenuti accattivanti che siano distintamente tuoi “. Ma il mio potrebbe essere troppo “distintamente mio” e non può essere permesso.

La dichiarazione d’intenti di Facebook afferma “dare alle persone il potere di condividere e rendere il mondo più aperto e connesso”. Solo non a tutte le persone. In ogni anniversario della commemorazione di mio marito, migliaia di account Facebook di utenti armeni vengono contrassegnati, ricevono avvisi, restrizioni e blocchi, anche quando i loro post sono ripubblicati dai media mainstream o dai siti governativi.

Le persone mi inviano screenshot delle loro pagine Facebook e account Instagram bloccati. Alzo le mani. Faccio clic sulla X nell’angolo destro dello schermo del mio computer. Internet è chiuso. Uno schermo bianco pulito ricambia il mio sguardo. Posiziono le dita sulla tastiera. Una fila di lettere nere procede in progressione regolare, facendo spazio alla mia verità.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Israele, attacchi ai cristiani a livelli senza precedenti (Renovatio

Non ha precedenti la situazione dei cristiani in Israele. Gli attacchi contro di essi sono aumentati vertiginosamente sotto il nuovo governo Netanyahu, riconosciuto per essere il più legato alla destra religiosa della storia dello Stato ebraico.

Il Patriarca Latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa ha rilasciato un’intervista all’Associated Press in cui ha parlato dell’incremento delle aggressioni da parte degli estremisti ebraici che hanno vessato il clero e vandalizzato proprietà religiose a un ritmo sempre più veloce.

«La frequenza di questi attacchi, le aggressioni, è diventata qualcosa di nuovo», ha detto Pizzaballa all’agenzia di stampa. «Queste persone si sentono protette» perché sentono «che l’atmosfera culturale e politica ora può giustificare, o tollerare, azioni contro i cristiani».

«I cristiani affermano di ritenere che le autorità non proteggano i loro siti da attacchi mirati».

Le preoccupazioni sono condivise anche dai cristiani non-cattolici. «Gli elementi di destra vogliono giudaizzare la Città Vecchia e le altre terre, e sentiamo che nulla li trattiene ora», ha dichiarato ad AP padre Binder, pastore della cattedrale anglicana di San Giorgio a Gerusalemme. «Le chiese sono state il principale ostacolo».

«I cristiani armeni hanno trovato graffiti odiosi sui muri di un loro convento. I sacerdoti di tutte le denominazioni affermano di essere stati perseguitati, sputati e picchiati mentre si recavano in chiesa» continua AP. «A gennaio, ebrei religiosi hanno abbattuto e vandalizzato 30 tombe contrassegnate da croci di pietra in uno storico cimitero cristiano della città. Due adolescenti sono stati arrestati con l’accusa di aver provocato danni e oltraggio alla religione».

Due mesi fa c’era stato il caso di un «turista» americano che armato di martello era entrato nella Chiesa della Condanna e Imposizione della Croce
– importante luogo di culto situato sulla Via Dolorosa – per distruggere statue di Gesù: «non potete avere idoli a Gerusalemme. Questa è la città santa».

 

In gennaio, una folla di coloni israeliani ha attaccato un bar di proprietà armena nel quartiere cristiano gridando «morte agli arabi… morte ai cristiani». Secondo quanto riportato, la polizia avrebbe fatto pochi sforzi per prendere i colpevoli.

Dopo una certa pressione mediatica locale, si sarebbe detto, due mesi più tardi, che tre sospetti erano stati arrestati, tuttavia al proprietario del locale era stato chiesto, bizzarramente, il video di sorveglianza, nonostante questo fosse già disponibile online e che telecamere di controllo siano onnipresenti nella Città Vecchia.

Due giorni dopo l’attacco al locale, armeni che lasciavano un funerale nel loro sarebbero stati attaccati da coloni israeliani che portavano bastoni. Un armeno è stato spruzzato con lo spray al peperoncino mentre i coloni hanno scalato le mura del convento armeno, cercando di tirar giù la sua bandiera, che ha una croce sopra.

Quando gli armeni li hanno cacciati via, i coloni hanno iniziato a gridare: «attacco terroristico», spingendo la vicina polizia di frontiera a puntare le armi contro gli armeni, picchiandoli e arrestandone uno, riporta Al Jazeera

Abbiamo da poco visto le oscene restrizioni ai riti della Pasqua inflitte dallo Stato di Israele ai fedeli cristiani, a cui sono stati perfino cancellati i permessi di viaggio per la celebrazione religiosa. La situazione di tensione di questi mesi ha reso impossibile la vita delle scuole cristiane presenti in Terra Santa.

Nei video finiti in rete, si vedono botte ai cristiani che tentavano di raggiungere la Chiesa del Santo Sepolcro lo scorso sabato santo.

 

Non mancano quest’anno i video di un grande classico della Città Vecchia, i riccioluti cappelluti ortodossi che sputano si cristiani e sulle cristiane, in questo caso due suore, non disegnando tuttavia anche uno sputazzo anche una Via Crucis di passaggio.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso due rabbini influenti membri della Knesset (il Parlamento di Tel Aviv) hanno presentato un disegno di legge per vietare il proselitismo cristiano in Israele prevedendo pesanti condanne in prigione per chi trasgredisse. La cosa ha fatto infuriare i fondamentalisti protestanti americani, da sempre sostenitori fanatici dello Stato di Israele.

Dopo l’indignazione diffusa, Netanyahu ha detto che avrebbe presentato il disegno di legge e uno dei legislatori che lo ha presentato ha dichiarato che non ha intenzione di andare avanti con il divieto «in questa fase».

Washington, ora in mano a sedicenti campioni dei diritti civili, della non-discriminazione, della libertà religiosa etc., sembra non voler alzare un dito contro questa nuova persecuzione anticristiana in corso.

Del resto, lo stiamo vedendo anche a Kiev, con Zelens’kyj che bandisce un’intera denominazione cristiana dal suo Paese, sfrattando monaci e suore, vietando le preghiere in russobombardando Donetsk la notte di Pasqua, senza che la Casa Bianca, o Bruxelles, o chiunque, dica qualcosa.

La libertà religiosa va sempre bene, purché non si tratti di quella dei cristiani. Che sono, e rimarranno, i veri nemici dei principi di questo mondo.

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ConflittiLa normalità della guerra in una terra contesa da decenni (Cdt 17.04.23)

Mentre cammina tra le macerie, Sevak Khathaturyan alza il braccio al cielo e indica le alte montagne innevate tutt’intorno. Le cime non si vedono perché immerse in una fitta coltre di nebbia. «I turchi sono lassù», dice «è da là che ci hanno bombardato. Ora che c’è la neve è difficile che scendano in pianura, ma appena si scioglierà temiamo che proveranno a conquistare il nostro villaggio».

Li chiama turchi, come in Armenia fanno tutti, ma in realtà si riferisce all’esercito dell’Azerbaigian. Khathaturyan è il capo dell’amministrazione di Sotk, villaggio armeno di 800 anime situato sul confine azero. Lo scorso settembre i soldati di Baku hanno lanciato un’offensiva, conquistando diverse posizioni sulle montagne circostanti e bombardando pesantemente verso valle. «Metà della popolazione di Sotk è scappata», racconta mostrandoci i segni dei missili «grad» piovuti sul centro abitato. «Il loro obiettivo è proprio farci fuggire così da poter presto occupare questo territorio». I pochi abitanti rimasti temono che la guerra sia imminente. Già ora si verificano quasi quotidianamente scontri armati lungo tutta la linea di contatto, con diversi morti e feriti. Con lo sciogliersi della neve si teme che l’Azerbaigian lanci un’offensiva su larga scala per occupare gran parte dell’Armenia.

La pace punitiva

La crisi tra Armenia e Azerbaigian dura da più di trent’anni e si è intensificata nel 2020 quando l’esercito azero, con l’appoggio militare della Turchia, ha attaccato il Nagorno-Karabakh, contesa regione di confine che secondo il diritto internazionale appartiene all’Azerbaigian ma che allora era abitata esclusivamente da armeni e amministrata da una repubblica non riconosciuta controllata da Yerevan. Attraverso la loro inarrestabile avanzata, i soldati di Baku hanno costretto l’Armenia a firmare una pace punitiva che ha sancito il passaggio di gran parte del Karabakh sotto il controllo azero e l’esodo di massa della popolazione. Le uniche parti rimaste in mano armena sono la città di Stepanakert e i suoi dintorni, che sono diventati un’enclave. Lì oggi vivono ancora 120.000 armeni in una difficile situazione umanitaria. Circondati dal nemico, possono raggiungere l’Armenia solo attraverso uno stretto che passa attraverso le posizioni militari azere: il corridoio di Lachin, controllato da un paio di migliaia di soldati russi che in base agli accordi di pace sono chiamati a garantire la circolazione delle persone e delle merci e la protezione degli armeni rimasti in Karabakh.

La tensione cresce

Negli ultimi due anni e mezzo, però, la situazione è peggiorata drasticamente: grazie alla fragilità di Yerevan, militarmente devastata dalla guerra e vittima di conflitti politici interni, l’Azerbaigian ha iniziato a rivendicare il controllo non solo di tutto il Karabakh, ma anche di gran parte dell’Armenia, compresa la capitale. Ora Baku chiede un corridoio extraterritoriale che, tagliando in due l’Armenia, colleghi l’Azerbaigian alla Turchia, cosa che Yerevan rifiuta. La tensione è diventata così alta da sfociare più volte in scontri militari. A maggio e novembre 2021 e a settembre 2022, i soldati azeri hanno attaccato non il Karabakh ma direttamente l’Armenia, conquistando aree in tre sue regioni di confine. Da allora, l’Azerbaigian ha occupato un totale di 150 chilometri quadrati di territorio armeno e vi ha stabilito numerose postazioni militari.

Il corridoio di Lachin

La tensione ha raggiunto il picco nel dicembre 2022, quando un gruppo di autoproclamati attivisti per il clima, controllati in realtà da Baku, ha occupato il corridoio di Lachin, bloccando il traffico e isolando completamente gli armeni del Karabakh: 120.000 persone sono quindi bloccate a Stepanakert, con carenza di cibo, medicine, gas e benzina. Marut Vayan è una giornalista quarantenne di Stepanakert. Ci chiama di notte, in un momento in cui ha la corrente. «Ogni tre ore viene spenta perché non ce n’è abbastanza», dice. «I generatori non possono più arrivare dall’Armenia. Guardando fuori dalla finestra, tutto è buio e deserto. Le uniche luci provengono dalle aree controllate dall’Azerbaigian sulle colline intorno a noi». Gli unici prodotti disponibili sono occasionalmente introdotti dai russi e dalla Croce Rossa Internazionale, ma appena messi in vendita si esauriscono immediatamente, i prezzi sono diventati molto più alti e la disoccupazione è dilagante. Qualora l’Azerbaigian conquistasse Stepanakert, l’intera popolazione attuale potrebbe fuggire, annientando così definitivamente qualsiasi presenza armena nel Karabakh. Molti temono che ormai sia solo questione di tempo.

Il paradosso

In questa situazione, la Russia non sta intervenendo militarmente né condannando a gran voce le aggressioni azere. Ciò è dovuto in parte al suo impiego nel Donbass, ma anche al fatto che grazie alla guerra in Ucraina l’Azerbaigian si trova in una posizione di forza politica straordinaria. Baku mantiene un ruolo di partenariato strategico sia con Mosca che con l’Unione Europea (e la Svizzera). Poiché l’Occidente non può più acquistare idrocarburi dalla Russia a causa delle sanzioni, l’approvvigionamento dall’Azerbaigian, che è un grande produttore di idrocarburi, è diventato vitale. L’11 luglio 2022, il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha firmato un memorandum d’intesa con Baku per raddoppiare le esportazioni di gas azero verso l’UE. Allo stesso tempo, diversi rapporti indicano che la società di Stato russa Gazprom ha recentemente raggiunto un accordo con l’Azerbaigian per fornirgli un miliardo di metri cubi di gas. Questo è destinato al mercato interno azero, il che non dovrebbe violare la politica delle sanzioni occidentali contro la Russia. Sul piano politico, però, gli armeni stanno pagando il prezzo. Baku vede un’opportunità storica per esercitare pressioni sui suoi nemici mentre nessuna potenza internazionale sembra realmente pronta ad aiutarli. Paradossalmente, per provare a proteggersi, Yerevan sta aprendo alla normalizzazione dei suoi rapporti con la Turchia, suo storico nemico e grande sponsor dell’Azerbaigian, nella speranza che possa mettere un freno alle mire espansionistiche azere. «Il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Ankara non è mai stato una precondizione da parte armena per la normalizzazione delle relazioni con la Turchia», dice Artur Vanetsyan, uno dei principali leader dell’opposizione all’attuale governo armeno. «Circa un decennio fa, grazie agli sforzi di mediazione della Svizzera, vennero firmati documenti tra Armenia e Turchia per normalizzare le relazioni bilaterali senza che la questione del genocidio fosse un ostacolo. Fu però Ankara a rifiutarsi di ratificare quei documenti, e la ragione di ciò non era la questione del genocidio bensì le reticenze turche legate al Nagorno Karabakh». Oggi, paradossalmente, gli armeni pur di salvarsi cercano il sostegno del proprio grande storico nemico.

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Armenia, il genocidio dimenticato (Gente e Territorio 17.04.23)

Lo sapete che il termine genocidio è di conio recentissimo? Se lo cercate su un dizionario dantan, sul Tramater o sul Tommaseo, ad esempio, non trovate il lemma. Compare solo sui dizionari pubblicati dopo il 9 dicembre del 1948, quando, tra gli atti costitutivi della fondazione dell’ONU, l’Assemblea Generale adottò, con la Risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio.

L’umanità non aveva avuto bisogno, prima del ‘900, di un lemma per indicare questo crimine e, se non lo aveva cercato prima, possiamo dedurne con ragionevole certezza che fino ad allora non erano stati perpetrati delitti di tanta portata. C’erano state guerre terribili, crudeli, massacri agghiaccianti, ma la memoria umana non aveva memoria a fine ottocento di tentativi di sistematica distruzione di un gruppo etnico mediante l’eliminazione fisica degli individui che lo compongono, la dispersione delle famiglie, l’eradicamento dei bambini non uccisi dalla loro cultura tramite la deportazione e l’affidamento ad altre famiglie di diversa etnia o cultura, che si prodigano per recidere dalla loro mente ogni legame con le proprie origini, la soppressione delle istituzioni pubbliche e la demolizione dei monumenti e dei documenti d’archivio di un popolo. Quando diciamo di genocidio parliamo di tutto ciò, non di un massacro generico.

Il primo nella storia dell’umanità – e il più dimenticato – fu quello degli Armeni ad opera dei Turchi tra il 1914 ed il 1920. Un milione e mezzo di persone trucidate, bruciate vive, il saccheggio capillare dei loro beni patrimoniali, la distruzione delle chiese e delle biblioteche. A quel genocidio fecero seguito altri due, l’Holomodor degli Ucraini ad opera dei Russi sovietici negli anni Trenta, circa tre milioni di esseri umani soppressi per fame, ed il più noto, l’Olocausto degli Ebrei ad opera dei nazisti di Hitler, sei milioni circa di ‘giudei’ passati per i forni crematori nei lager.

Sconfitto Hitler, nel dopoguerra il mondo costituì l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) con l’obiettivo di prevenire e scongiurare nuove guerre. E nuovi genocidi.

La Risoluzione 260 A (III) dellONU, nell’istituire il reato penale universale del genocidio, così ne delimitò il concetto:

«Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

    • uccisione di membri del gruppo;
    • lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
    • il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
  • misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
  • trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro».

La Risoluzione dell’ONU non considera con la dovuta attenzione, però, una costante nei tre genocidi del XX secolo: in tutti e tre i genocidi le vittime erano disarmate. Non si trattò di massacri contestuali ad uno scontro militare tra due gruppi armati, ma dello sterminio di minoranze etniche o culturali inermi da parte di Stati armati di tutto punto. Tanto inermi le vittime che neanche sospettavano di essere esposte al rischio dello sterminio.

Gli Armeni erano una delle tante comunità nazionali membra dell’Impero Ottomano, in cui avevano vissuto per secoli. Ad inizio del Novecento avevano finanche una loro rappresentanza politica eletta nel Parlamento di Costantinopoli. Nel ‘14, mentre i Giovani Turchi – partito politico laicista al governo – ne pianificavano la soppressione fisica ed il furto dei loro beni, i deputati armeni nel Parlamento addirittura ne appoggiavano il governo. Avevano cominciato già da fine Ottocento a subire violenze sempre più frequenti e crudeli da parte di Curdi e Turchi, perciò si erano armati. Per autodifesa. Il governo massonico dei Giovani Turchi, con la motivazione della preminente esigenza della sicurezza nazionale alla vigilia della Prima Guerra Mondiale e con l’appoggio della loro stessa delegazione parlamentare, li persuase a deporre le armi ed a consegnarle ai diversi commissariati ottomani presenti nei territori da essi abitati, impegnandosi a garantire la loro incolumità. Si fidarono gli sventurati e si autodisarmarono. Si arruolarono anche in massa nell’esercito ottomano, dove furono poi passati per le armi.

Il 24 aprile 1915, allo scopo ufficiale di tenere una grande convention di confronto culturale con la componente armena dell’Impero, tutta la sua classe dirigente – politica, culturale e religiosa – fu invitata a Costantinopoli. Una volta arrivati nella capitale, i rappresentanti di quella millenaria civiltà cristiana del Caucaso furono arrestati, quindi deportati nel deserto e portati alla morte. Ebbe inizio così il primo genocidio della storia dell’umanità.

Oggi l’Armenia è un piccolo Stato autonomo, di tre milioni di abitanti; un’altra decina sono gli Armeni della diaspora nel mondo. Nel 1988 la Repubblica Socialista Sovietica Armena istituì il Giorno della Memoria del Genocidio degli Armeni, fissandolo per il 24 aprile, il giorno della fatidica trappola mortale. L’attuale Repubblica post-sovietica ha conservato il 24 aprile come giorno del ricordo.

Poco sopra, dicendo dei tre genocidi del XX secolo, parlavamo di quello degli Armeni ad opera dei Turchi, di quello degli Ucraini ad opera dei Russi sovietici e di quello degli Ebrei ad opera dei nazisti. Non dicevamo, in quest’ultimo caso ad opera dei Tedeschi per l’evidente motivo che, sconfitto il nazismo, il popolo tedesco ha fatto pubblica ammenda della Shoah e riconosce il 27 gennaio di ogni anno come Giorno della Memoria dell’Olocausto. Non così i Turchi ed i Russi, che tuttora non solo negano le proprie responsabilità nei due genocidi, ma minacciano anche ritorsioni verso gli Stati ed i popoli che le ricordano.

Il 24 aprile non è perciò riconosciuto da tutti gli Stati del mondo come Giorno della Memoria, solo da alcuni. Tra questi non c’è l’Italia. Il gas azero ed il peso della Turchia nella NATO contano eccome in questa colpevole negligenza della nostra Repubblica. A fronte di tanto, tuttavia, numerose Regioni, Province, Istituzioni culturali, nonché Comuni italiani hanno deciso in autonomia di riconoscere il 24 aprile e ne ricordano annualmente la tragedia.

Tra questi Comuni, dallo scorso anno, c’è anche Cava de’ Tirreni. Nella città metelliana, in località Croce di Cava, tra il ‘600 e l’800 vissero da eremiti alcuni monaci armeni. A Napoli risiedeva da secoli una piccola ma significativa comunità armena. Ne fa testimonianza San Gregorio Armeno, la celebre strada oggi detta ‘dei presepi’. Erano mercanti e una volta all’anno si recavano a Salerno per partecipare alla sua fiera. Fu così che, passando per Croce di Cava, un giovane monaco armeno, fra’ Giovanni di Giovanni, fu attratto da una chiesetta ormai in rovina e decise di trasferirvisi per vivervi da eremita. A lui ne succedettero altri fino al 1819, quando l’ultimo morì. Prima di rendere l’anima a Dio aveva aderito al cattolicesimo, era diventato sacerdote e si era integrato nel presbiterio diocesano. Nella biblioteca di Cava tuttora sono conservati cinque volumi in lingua armena a tema religioso, ovviamente.

Quest’anno il Comune di Cava de’ Tirreni, in collaborazione con l’associazione Joined Cultures, ha onorato la Memoria del Genocidio invitando Robert Attarian ed Emanuele Aliprandi, membri della Comunità armena di Roma, a tenere una serie di incontri con la cittadinanza e con gli studenti del Liceo Scientifico Genoino. Contestualmente il Comitato per la difesa della Biblioteca ha inaugurato una mostra sugli Armeni e l’Italia, con una sezione dedicata sugli Armeni di Cava com’è naturale. La mostra è stata inaugurata venerdì 14 aprile mattina dalle stesse personalità armene di cui sopra.

È stata una due giorni – quella del 13 e 14 aprile – molto intensa con momenti di vibrante emozione. Ad esempio quando Elisabetta Musco, cavese di madre armena, a sua volta figlia di due profughi fuggiti dalla deportazione ad inizio Novecento, ha raccontato la storia drammatica ed insieme meravigliosa dei suoi nonni.

Per chiudere una parola in più va detta sulla mostra: è una vera gemma, piccola ma esaustiva, soprattutto inappuntabile nei riferimenti storici. Resterà aperta fino al 28 aprile.

Presentato a Ca’ Farsetti il calendario di iniziative per ricordare il Genocidio armeno. Oltre 20 appuntamenti diffusi sul territorio comunale (Live.comune.venezia 17.04.23)

Un percorso istituzionale, con la collaborazione di enti, istituti e associazioni, per celebrare la Giornata del Ricordo del Genocidio armeno. Dopo la prima edizione, promossa l’anno scorso su iniziativa della Presidenza del Consiglio comunale, torna anche quest’anno sino al 16 maggio un ricco programma di iniziative diffuse sul territorio comunale.

Il cartellone degli eventi è stato presentato questa mattina a Ca’ Farsetti alla presenza della presidente del Consiglio comunale ErmelindaDamiano, di Baykar Sivazliyan, presidente Unione Armeni d’Italia, Aldo Ferrari, professore di Lingua e letteratura armena dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Germana Daneluzzi, presidente dell’Associazione Civica Lido Pellestrina, di Roberta Di Mambro, Guardian Grando della Scuola di San Teodoro, che il 20 aprile, alle ore 11, ospiterà la cerimonia cittadina in ricordo del genocidio del Popolo armeno. Un appuntamento in cui oltre a momenti di approfondimento e dibattito si terranno canti tradizionali e popolari, letture di poesie armene e l’esecuzione musicale al duduk, antico strumento musicale armeno.

“Incontri con gli studenti, dibattiti, conferenze, proiezioni di film, visite guidate, spettacoli teatrali: un ricco e variegato programma che consente di valorizzare più aspetti della cultura armena, in continuità con tutti quei percorsi della memoria promossi a Venezia che in questi anni ha saputo ripercorrere, conoscere ed approfondire con grande sensibilità e competenza le persecuzioni e i gravi crimini della storia recente” ha sottolineato la presidente Damiano. “Il popolo armeno vede nella nostra città una presenza antica, costante e significativa sin dai tempi della Serenissima. Venezia, partendo da una tragedia come quella del genocidio armeno, vuole dare continuità a questa storia, provando a sanare una ferita dolorosa e ancora aperta di questo popolo, valorizzandone anche cultura, storia e tradizioni e contribuendo a lanciare un messaggio di condivisione e di rispetto tra i popoli”.

“A Venezia c’è un secolare rapporto con gli armeni – ha aggiunto il professor Ferrari – e avere questa dimostrazione di sensibilità, che cresce di anno in anno, è un segnale molto bello”. “Tutti gli armeni d’Italia che rappresento – ha rimarcato Baykar – sono veramente molto grati al lavoro che sta facendo il Comune di Venezia, dando voce alla Comunità armena, che ha radici veneziane, ma è estesa in tutto il Paese con 3500 cittadini”.

L’obiettivo principale – come è stato evidenziato da Germana Daneluzzi – è quello di coinvolgere le nuove generazioni. Quest’anno sono stati promossi incontri con gli studenti dell’Istituto Cavanis, Vendramin Corner, Benedetti, Stefanini e Franchetti e per l’anno prossimo si pensa già a incontri con le scuole superiori nella Città metropolitana di Venezia.

Tra gli appuntamenti da ricordare il 19 aprile alla Biblioteca Hugo Pratt, alle 17.30, una conferenza dal titolo “Donne del genocidio armeno: tra memoria e letteratura”; il 20 aprile oltre alla Cerimonia cittadina nella Scuola Grande di San Teodoro, alle ore 18, all’auditorium dell’M9 si svolgerà la proiezione del video “Dal genocidio alla ricostruzione dell’identità nazionale”. Il due maggio, prima alle 9.30 (dedicata alle scuole), poi alle 17.30, si terrà la giornata del cinema armeno alla Casa del cinema. Alle 18.30 di giovedì 4 maggio al Conservatorio Benedetto Marcello, concerto per pianoforte in memoria del popolo armeno.

Dopo il successo riscosso nell’edizione del 2022 verrà inoltre riproposta per i cittadini veneziani la visita guidata all’Isola di San Lazzaro degli Armeni, dove potranno essere visitati all’interno del monastero, una stamperia di fine ’700, una pinacoteca, un museo e molti manufatti arabi, indiani ed egiziani, raccolti dai monaci o ricevuti come doni da collezionisti. Sarà inoltre possibile ammirare una biblioteca multidisciplinare, che, accresciutasi in tre secoli, conta oggi centocinquantamila volumi tra cui 4500 manoscritti armeni, alcuni di inestimabile valore storico e culturale, come l’Evangelario della Regina Mlkhe, dell’864.

 

Per maggiori informazioni e per iscrizioni: https://www.comune.venezia.it/it/content/giornata-memoria-genocidio-popolo-armeno-2023, a cura del Servizio Produzioni culturali del Comune di Venezia.

Galleria fotografica: https://v41.it/L17pc

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127° giorno del #ArtsakhBlockade. «Chi salva una vita, salva il mondo intero» (Korazym 17.04.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 17.04.2023 – Vik van Brantegem] – Il #ArtsakhBlockade prosegue da 127 giorni, nonostante la condanna internazionale e l’ordine legalmente vincolante della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite all’Azerbajgian di aprire il Corridoio di Berdzor (Lachin) e garantire la libera circolazione di veicoli, persone e merce in ambedue le direzioni tra Artsakh e Armenia. L’Europa non intende rafforzare le decisioni giudiziari, perché preferiscono avere il gas azero-russo, piuttosto che fermare la pulizia etnica e il genocidio nel Caucaso meridionale. Foto di copertina (Stepanakert nella nebbia) di Siranush Sargsyan (giornalista freelance a Stepanakert: «Chi salva una vita, salva il mondo intero».

La frase è tratta dal Talmud di Babilonia. Oggi c’è chi penserebbe che non ne vale la pena… neanche la nostra copertura del strisciante dramma che si sta svolgendo nel Caucaso meridionale, mentre tutto il mondo guarda all’Ucraina (come il mondo guardava altrove mentre fu compiuta la Shoah). La frase è posta in polacco, inglese, ebraico sulla lapide davanti alla ex fabbrica di Oskar Schindler.

La frase sottolinea «come sia iscritta in ogni uomo la capacità di opporsi al male e come, anche attraverso l’azione individuale, si possano compiere gesti di enorme rilevanza equiparabili a salvare il mondo intero. Con un atto di responsabilità personale ci si può sottrarre a logiche di massificazione del pensiero che conducono all’odio, alle violenze, ai crimini più efferati. Per non prendere parte al male è necessario essere capaci di una riflessione personale, vivere un combattimento morale, essere in prima fila laddove le istituzioni sono assenti e dove l’opinione pubblica si lascia assuefare dall’indifferenza e dal timore o abdica il proprio pensiero a ideologie volte all’odio e alla violenza. Il mondo intero è salvato dal gesto eroico di chi ha la capacità di contrapporsi all’odio! I giovani devono essere condotti a comprendere la valenza enorme di questi gesti ed essere spinti ad ispirarsi a questo comportamento per dar vita ad un processo di “umanizzazione” che possa garantire la giustizia e la convivenza pacifica. Il “giusto” salva il mondo intero e la sua testimonianza equivale a raccontare la testimonianza di ogni uomo che sia veramente libero ed è strumento per smuovere la coscienza dell’intera comunità. Il significato comunemente affidato alla frase consiste nell’affermare che ognuno di noi possiede un suo valore universale e che, di conseguenza, nella decisione di mettere in salvo un individuo si racchiude la volontà di liberare e difendere l’intera umanità dal processo di disumanizzazione, che è avvenuto e avviene ancora sotto i nostri occhi. Oggi purtroppo è difficile associare questa frase ad una società come quella odierna, orientata all’individualismo e fondata, non sulla cooperazione, ma sul raggiungimento spregiudicato dei propri scopi. La libertà personale dovrebbe essere il giusto connubio tra il perseguimento di obiettivi personali e il bene della comunità. “Chi salva un uomo, salva il mondo intero” è un messaggio di speranza. Salvare un uomo è un atto di coraggio che non tutti sono in grado di compiere. Occorre riportare in primo piano il valore di “ogni” persona, nella sua integrale dimensione identitaria. Attraverso l’aiuto di una singola persona, l’uomo può riappropriarsi della consapevolezza del proprio io e del proprio valore. Preservando l’identità, il mondo potrà non essere privato della diversità» (Angela De Santis e Mariapia Nardone, Rete nella memoria).

A seguito delle sparatorie di ieri 16 aprile 2023, da parte di unità delle forze armate dell’Azerbajgian, il lavoro della miniera di oro a Sotk (che sorge sul confine tra Armenia e Azerbajgian) è stato interrotto nuovamente, informa la società GeoProMining Gold. Il Ministero della Difesa della Repubblica di Armenia ha riferito che intorno alle ore 22.50 locali, le unità delle forze armate azere hanno aperto il fuoco con fucili di diverso calibro contro le posizioni armene situate a Sotk. Secondo il rapporto, la parte armena non ha perdite e questa mattina la situazione in prima linea era tornata relativamente stabile.

L’attività lavorativa alla miniera di Sotk era già stata interrotta dalla parte armena a causa di ripetuti colpi di arma da fuoco sparati dalle forze armate azeri il 15 aprile e anche l’11 aprile, quando c’è stato l’attacco mortale delle forze armate azere a Tegh [QUI].

Non noto proteste indignate da parte di chi si strappa le veste per una bandiera bruciata, per questa ennesima violazione del cessato il fuoco con lo scopo di impedire la vita economica dell’Armenia.

La giornalista armena Narine Krakosian afferma che il 15 aprile 2023 nuove trincee sono state scavate vicino al villaggio di Vaghatin, in cima ad una altezza di circa 1000 metri, distante circa 500 metri dalla principale (e unica) autostrada nord-sud dell’Armenia che conduce all’Artsakh (distante circa 4,5 km) e all’Iran. La giornalista ha riferito che la gente del posto le ha detto che gli Azeri si erano spostati ancora più avanti [rispetto all’avanzamento del settembre 2022]. Il Nagorno Karabakh Observer, che ha visionato la documentazione, osserva che “anche se il materiale video non mostra molti dettagli su ciò che viene realmente scavato, trincee o meno, le immagini satellitari indicano che l’Azerbajgian controlla questa altezza maggiore di 3,5 km all’interno dell’Armenia dal settembre 2022. L’area si trova anche a 4 km dal luogo in cui le truppe dell’Armenia arrese furono giustiziate dalle truppe dell’Azerbajgian che erano avanzate nel territorio dell’Armenia il 13 settembre 2022. Attualmente circa 20 km² dell’area di Ukhtasar sono sotto il controllo militare azero, inclusi almeno 5 km² dalle incursioni del 2022. Dopo l’incursione dell’Azerbajgian nel settembre 2022, si vede una debole traccia di quella che sembra essere una nuova posizione, supportata da una nuova strada che vi conduce dal territorio controllato dagli Azeri, suggerendo un’altezza strategica allora sotto il loro controllo».

Il governo dell’Armenia ha presentato dettagli riguardanti i negoziati con l’Azerbajgian

Separare la firma del trattato di pace dal processo di risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh rimane accettabile per l’Armenia con la logica che siano sviluppati meccanismi internazionali per le discussioni tra Stepanakert e Baku. La formazione di meccanismi garantiti per affrontare la sicurezza e i diritti degli Armeni dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh – sempre con visibilità e coinvolgimento internazionale – è significativa per l’Armenia.

Nel contesto del trattato Armenia-Azerbajgian, lo sviluppo delle garanzie di sicurezza dei 29.800 chilometri quadrati di territorio armeno è cruciale per il governo armeno e la formazione di un meccanismo pratico per risolvere possibili interpretazioni errate e controversie riguardanti il testo del trattato.

Il rapporto rileva che, ai sensi degli incontri di Praga del 6 ottobre 2022 e di Sochi del 31 ottobre 2022, Armenia e Azerbajgian hanno confermato l’impegno a riconoscere l’integrità territoriale e la sovranità reciproche sulla base della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione di Alma Ata del 1991.

In base alla dichiarazione di Sochi, i due Paesi hanno chiaramente concordato di astenersi dall’uso della forza o dalla minaccia della forza e di discutere e risolvere tutte le questioni controverse esclusivamente rispettando i principi di sovranità e integrità territoriale.

Il rapporto aggiunge che l’Armenia è interessata allo sblocco dei collegamenti economici e di trasporto regionali ed è pronta ad attuarlo il prima possibile ai sensi della legislazione armena nell’ambito del progetto “Crocevia armeno”. Le nuove opportunità per il movimento di merci, merci e cittadini aumenteranno in modo significativo l’attrattiva del crocevia armeno per il trasporto internazionale e regionale di passeggeri e merci e metteranno in risalto in modo significativo il ruolo logistico non sfruttato dell’Armenia nella regione, che a sua volta garantirà ulteriore sicurezza e stabilità.

Rimangono in sospeso gli accordi su una serie di questioni umanitarie con l’Azerbajgian. Nonostante i termini della dichiarazione trilaterale del 9 novembre 2020, l’Azerbajgian continua a tenere in custodia 33 cittadini armeni catturati. L’Armenia persegue la questione del rimpatrio dei propri cittadini in tutte le istanze internazionali, comprese la Corte Europeo dei Diritti dell’Uomo e la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite. 31 prigionieri sono stati rimpatriati nel 2022. La questione delle persone scomparse rimane significativa nelle relazioni tra Armenia e Azerbajgian. Mancano 975 persone dalla parte armena (777 dalla prima guerra del Nagorno-#Karabakh, 196 dalla seconda guerra del Nagorno-Karabakh e 2 dall’aggressione azera di settembre 2022).

Nel 2022 l’Armenia ha trasmesso all’Azerbajgian tre mappe delle possibili posizioni dei resti di 35 Azeri presunti dispersi.

L’Armenia ha presentato 4 denunce contro l’Azerbaigian alla CEDU nel 2022 riguardanti le violazioni di massa dei diritti umani durante la guerra del 2020 e nei due mesi successivi, torture, maltrattamenti, omicidi, violazioni del diritto di proprietà e altri diritti, processi illegali contro prigionieri di guerra, violazioni dei diritti a seguito dell’occupazione azera del territorio sovrano dell’Armenia, gli eventi a Parukh e Karaglukh e nel Corridoio di Lachin.

Nel 2022, l’Armenia ha anche presentato una denuncia contro l’Azerbajgian presso la Corte Internazionale di Giustizia ai sensi della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale.

In tutte le domande interstatali l’Armenia ha sollevato le richieste di risarcimento per danni materiali e morali.

Nel 2022, il Primo Ministro armeno e il Presidente azero hanno tenuto 5 incontri mediati dall’Unione Europea, 1 incontro mediato dalla Russia e un altro incontro mediato dagli USA.

Pelusium, media affiliati allo Stato di Iran segnala la presenza di Israeliani nell’aeroporto militare di Baku, a 30 minuti dal confine iraniano di Parsabad. Ali Alizada, l’Ambasciatore dell’Azerbajgian in Iran afferma che non vi è alcuna presenza militare straniera contro l’Iran sul suo territorio. Gli aerei Hermes-450 e Hermes-900 israeliani dimostrano il contrario.

«Canali Telegram iraniani stanno pubblicando immagini satellitari della base aerea di Kurdamir in Azerbajgian. Le immagini mostrano la presenza di diversi velivoli, tra cui MiG-29, Su-25, L-39 Albatros, MiG-21 e Su-24. La base aerea di Kurdamir si trova a circa 200 km dall’Armenia ea 70 km dall’Iran» (301).

Mentre ci avviciniamo alla 108ª commemorazione del genocidio armeno, non dimentichiamoci dell’Artsakh. La Turchia ha reclutato e trasferito mercenari siriani durante la guerra dei 44 giorni dell’Azerbajgian nel 2020.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Bari: Chiesa di San Gregorio armeno, il 24 Aprile 2023 Commemorazione del genocidio armeno (Bariseranews

L’ Associazione Armeni Apulia, commemorerà i martiri del genocidio armeno.

Lunedì 24 aprile 2023 alle ore 18,30 presso la Chiesa di San Gregorio armeno in Bari Vecchia, adiacente alla Basilica di di San Nicola.

Al termine della Messa, insieme ai membri dell’associazione i convenuti si trasferiranno presso il Khachkar (stele armena) posta sul lungomare Cristoforo Colombo per un momento di riflessione.

Il nodo di Gordio è diventato il nodo di Baku (Electomagazine 16.04.23)

È divertente assistere alle analisi sui cambiamenti geopolitici in atto. Cambiamenti radicali, certo. Ed è comprensibile che ci possano essere dubbi, perplessità ed incomprensioni. Ma ciò che è davvero assurdo, anche ridicolo, è l’atteggiamento di analisti, giornalisti e politici che “ordinano” ad altri Paesi come comportarsi per essere approvati dal “sistema globale”. Retaggio coloniale, probabilmente, unito alla convinzione che essersi trasformati in servi dell’imperialismo statunitense autorizzi a gestire il globo terracqueo.

 

Peccato che una simile impostazione mentale renda difficile comprendere ciò che sta succedendo e, soprattutto, ciò che potrà accadere. L’attenzione degli osservatori si è spostata ora sull’Azerbaijan. Il Corriere, riprendendo altri commenti di testate atlantiste europee, ha il terrore che Baku possa stracciare gli accordi raggiunti con la patetica Ursula von der Leyen relativi ad un forte incremento della fornitura di gas. E questo perché, pur di scippare un alleato storico a Mosca, l’Unione europea si è intromessa nello scontro tra Azerbaijan ed Armenia. Insomma, noi atlantisti facciamo ciò che vogliamo e voi azeri fate ciò che decidiamo noi.

Ma la situazione sul terreno è molto più complicata. Perché se l’Armenia si avvicina a Bruxelles, l’Azerbaijan per reazione tende a migliorare i rapporti con Mosca. Anche perché il grande protettore di Baku è il turco Erdogan che è riuscito a trovare un sistema di proficua collaborazione con Putin. Tutto chiaro? Per nulla. Perché Putin è strettamente legato all’Iran che è in contrasto con gli azeri. Ma non è finita. Perché la Turchia, che non ama Israele, in Azerbaijan si ritrova ad avere proprio Israele come partner.

Insomma, un vero e proprio guazzabuglio. Un nodo inestricabile. E in mancanza di un Alessandro Magno in grado di tagliare il nodo gordiano in modo netto e definitivo, servirebbe perlomeno qualcuno meno imbarazzante di Ursula, o meno arrogante e provocatorio di Stoltenberg.

Nel frattempo le prospettive per il prezzo del gas non sono favorevoli per i consumatori europei ed italiani, a partire dall’estate. Ma Crosetto vuole continuare a giocare con i soldatini in Ucraina..

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Il genocidio armeno Chi ha dato l’ordine di attuare il genocidio degli armeni? (Libero.it 16.04.23)

Il genocidio armeno

Chi ha dato l’ordine di attuare il genocidio degli armeni?

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126° giorno del #ArtsakhBlockade. «Artsakh vive e combatte ogni secondo!» (Korazym 16.04.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 16.04.2023 – Vik van Brantegem] – Oggi, nel 126° giorno nessun cambiamento per quanto riguarda il posto di blocco sulla strada che collega l’Artsakh con l’Armenia. Il #ArtsakhBlockade rimane in vigore da parte delle autorità dell’Azerbajgian, con solo i veicoli del Comitato Internazionale della Croce Rossa e del Contingente di mantenimento della pace della Russia autorizzati a transitare dal 12 dicembre 2022. Sono passati 25 giorni di fila da quando l’Azerbajgian ha interrotto completamente la fornitura di gas naturale dall’Armenia all’Artsakh. Durante il blocco, l’Azerbaigian ha tagliato la fornitura di gas per un totale di 60 giorni. Il “terrore energetico” è un altro strumento della politica dell’Azerbajgian di pulizia etnica dell’Artsakh.

L’incidente con la bandiera azera a Yerevan è stato una scusa per richiamare la squadra azera in patria

L’incidente accaduto all’apertura del Campionato Europeo di Sollevamento Pesi a Yerevan è stato una scusa per richiamare la squadra azera in patria, ha dichiarato Karen Giloyan, Viceministro degli Interni e delle Comunicazioni della Repubblica di Armenia: «La decisione di richiamare la squadra è stata presa in Azerbajgian. Ho parlato personalmente con i rappresentanti della delegazione, non erano insoddisfatti di nulla. Il capodelegazione e gli allenatori hanno detto all’unanimità che erano soddisfatti, si sentivano bene, non avevano problemi con la sicurezza. Hanno ricevuto un ordine e non possono andare contro l’ordine, devono ritornare in Patria. Questa è solo una scusa. La Repubblica di Armenia ha garantito e garantirà la sicurezza di tutti».
Giloyan ha detto che l’incidente è stato utilizzato per gettare un’ombra sull’organizzazione del campionato: «Sì, l’incidente non è sportivo ed è un fatto triste. Ma capiscono che l’atto è stato appena compiuto da una persona, non è un atteggiamento statale. Ora stiamo cercando di calmare la situazione. Se ieri la probabilità di disputare il Mondiale del prossimo anno in Armenia era alta, oggi è diminuita parecchio».
In precedenza, il Ministero della Gioventù e dello Sport e il Comitato Olimpico Nazionale dell’Azerbajgian avevano deciso di riportare gli atleti azeri in patria dopo l’incendio della bandiera dell’Azerbajgian alla cerimonia di apertura del Campionato Europeo di Sollevamento Pesi la sera del 14 aprile al Karen Demirchyan Sports Concert Complex di Yerevan, affermando che gli atleti azeri erano stati sottoposti a pressioni psicologiche.

«L’Azerbajgian protesta contro il “barbaro” rogo della bandiera al campionato di sollevamento pesi in Armenia» (Reuters).

La Federazione Europea di Sollevamento Pesi ha condannato l’incidente della bandiera dell’Azerbajgian a Yerevan. Perché gli atleti di quello Stato genocida possono sventolare la loro bandiera in Armenia? I Russi non possono farlo. Come reagirebbe la Federazione se un Ucraino bruciasse la bandiera della Russia? La bandiera dell’Azerbajgian è simbolo di violazioni dei diritti umani, crimini di guerra impuniti, sequestro e intimidazione di 120.000 Armeni, con l’impunità dell’autocrate guerrafondaio genocida Aliyev per l’ipocrisia e l’inerzia criminale dell’Occidente.

Barbarico…

  • è il criminale #ArtsakhBlockade. Una madre, che non vede i suoi figli da più di 4 mesi a causa del genocida #ArtsakhBlockade dell’Azerbaigian, è stata nuovamente respinta 2 settimane fa dai delinquenti del regime azero che bloccano il Corridoio di Berdzor (Lachin). Mancavano solo 15 minuti per vedere i suoi figli. Centinaia di famiglie rimangono separate dal 12 dicembre, indipendentemente dalle affermazioni dell’Azerbajgian secondo cui il Corridoio è aperto al traffico (solo umanitario per lo loro stessa affermazione quotidiana).
  • è il regime autocratico azero che ha lanciato una guerra di aggressione durante una pandemia e ha bombardato le città armene dell’Artsakh per 44 giorni, uccidendo oltre 4000 coscritti adolescenti.
  • è il regime fascista azero, che congela e tenta di far morire di fame e di malattie 30.000 bambini armeni.
  • è l’autocrate di un Paese che tiene in ostaggio 120.000 esseri umani contro gli ordini della Corte Internazionale di Giustizia, è responsabile del massacro di 5.000 giovani uomini, la tortura e la mutilazione di donne soldato armene, che tiene in ostaggio prigionieri di guerra, molesta e uccide abitanti di villaggi, distrugge il patrimonio culturale armeno e altro. Barbarismo e crimini di guerra fanno parte della storia azera.
  • è l’Azerbajgian – “devastato” dall’incendio della sua bandiera in Armenia – che tratta l’uomo che ha ucciso nel sonno un soldato armeno con un’ascia durante un addestramento NATO come un eroe nazionale e ha celebrato collettivamente i numerosi e continui crimini di guerra delle forze armate azere.
  • sono le pressioni psicologiche che gli Armeni subiscono durante i pogrom in Azerbajgian o attualmente sotto il #ArtsakhBlockade, mentre eco-terroristi azeri si vantano di decapitazioni, di torture e di mutilazioni di civili e prigionieri di guerra armeni durante la guerra del 2020 e le recenti invasioni di territorio sovrano armeno.
  • sono i gruppi terroristici turco-azeri che sono penetrati a Jermuk, nel territorio sovrano dell’Armenia e dopo il massacro dei civili hanno fatto a pezzi la bandiera dell’Armenia e barbari sono i troll azeri che sui social lo giustificano perché è “sul campo di battaglia dove fare a pezzo una bandiera è permesso”.
  • è il 18nne soldato azero che è infiltrato in Armenia e ha ucciso un uomo armeno 57enne disarmato e successivamente ha realizzato un video in diretta con il telefono della vittima, vantandosi del suo crimine. Quando è stato catturato dalla gente sul posto il regime criminale azero ha urlato che l’uomo è stato “brutalizzato”.

Oggi, il Difensore dei Diritti Umani dell’Armenia, Anahit Manasyan, ha visitato i due militari delle forze armate dell’Azerbajgian detenuti in Armenia. Ha preso conoscenza delle condizioni di detenzione dei militari e delle questioni relative alla garanzia dei loro diritti, compreso il diritto alla salute. Durante i colloqui privati, non sono pervenute denunce di tortura e altre forme di maltrattamento, comprese pressioni psicologiche, commesse da organi e funzionari statali. Il Difensore dei Diritti Umani ha registrato che ai due militari azeri vengono fornite adeguate condizioni di detenzione, tra cui acqua potabile costante, cibo e articoli per l’igiene. Sono inoltre forniti di assistenza medica e servizio quando necessario. Il medico-specialista del personale dell’Ufficio del Difensore dei Diritti Umani, anch’egli presente durante la visita, ha preso conoscenza della documentazione medica, e dell’assistenza medica che è stata prestata alle suddette persone. I due militari azeri privati della libertà hanno comunicato di essere a conoscenza delle accuse mosse contro di loro e di aver avuto a loro disposizione un difensore d’ufficio gratuito, nonché la partecipazione di un interprete durante il procedimento. Il Difensore dei Diritti Umani ha chiarito alle persone private della libertà i meccanismi di tutela dei loro diritti, la natura delle restrizioni applicate dall’atto giudiziario, la procedura e i termini del suo ricorso, nonché le modalità di ricorso al Difensore dei Diritti Umani.

«Artsakh vive e combatte ogni secondo!» (Liana Margaryan).

Il processo di demarcazione dei confini dovrebbe essere condizionato dal ritorno delle truppe azere ai punti di partenza
Intervista a Shahan Gantaharyan, studioso internazionale
Artsakhpress, 16 aprile 2023

Il Presidente di turno dell’OSCE ha visitato la regione, compresa l’Armenia. Quale significato può avere questa visita nel contesto della stabilizzazione della regione, tenendo conto dell’ultima provocazione militare azera?
La rapida visita del Presidente di turno dell’OSCE riassume tre punti a colpo d’occhio. Precisiamo innanzitutto che si tratta di una visita regionale nella sequenza Tbilisi-Baku-Yerevan. La successione ha un significato politico. In questo caso, prima ha discusso gli ultimi eventi del conflitto con Baku, poi si è consultato con i rappresentanti di Yerevan sui risultati di quelle discussioni. In secondo luogo, è stato confermato che il Gruppo di Minsk dell’OSCE è stato congelato e non sciolto, ed è stato anche affermato che l’OSCE dispone di altri strumenti, oltre al Gruppo di Minsk, per rimanere coinvolta nel processo di instaurazione della stabilità e della pace. Penso che questo sia importante, perché se non vogliono lavorare insieme alla Russia nel Gruppo di Minsk, ricorreranno ad altri passaggi e strumenti. per rimanere coinvolti nel processo e nella regione. Ma c’è una sfumatura importante qui. Il Gruppo di Minsk dell’OSCE è stato autorizzato a svolgere una missione di mediazione nel conflitto dell’Artsakh. Ora l’ordine del giorno riguarda generalmente la pace Armenia-Azerbajgian, per questo si parla di altri strumenti e formati. In questo contenuto è stato discusso il compito di sostituire le forze armate con guardie di frontiera e l’esempio della Macedonia del Nord è stato citato per la pace. Non dimentichiamo che il Presidente di turno dell’OSCE è il Ministro degli Esteri della Macedonia del Nord. La missione di guardia di frontiera può essere svolta mediante accordo di missione con un altro Paese. L’OSCE può far parte della missione delle forze di guardia di frontiera.

In generale, dal punto di vista della stabilizzazione della regione e della regolamentazione delle relazioni armeno-azerbajgiani, cosa deve fare l’OSCE, se teniamo conto dei disaccordi degli Stati membri dell’OSCE?
L’OSCE sta cercando di proporre alla Russia una guardia di frontiera alternativa. Non credo che il gioco della mediazione andrà a senso unico in queste condizioni. È una competizione geopolitica tra le forze, e finora non ci sono stati precedenti per rompere lo status quo.

Si afferma che l’Azerbajgian, coinvolgendo l’Armenia nelle provocazioni, stia cercando di assumere il ruolo di vittima agli occhi dell’Occidente. Secondo lei, gli osservatori dell’UE registreranno adeguatamente ciò che è accaduto e cosa seguirà dopo la registrazione?
L’UE, altre strutture legate all’UE e gli Stati membri dell’UE, in particolare la Francia, hanno rilasciato dichiarazioni mirate e presentato richieste. Inoltre, il Tribunale Internazionale di Giustizia ha preso una decisione, ma l’Azerbajgian continua a tenere chiuso il Corridoio, a invadere e a sparare. Quando l’UE inizierà ad applicare una politica di sanzioni contro Baku, allora la pressione sull’Azerbaigian inizierà ad essere significativa. In caso contrario, le posizioni rimarranno di natura dichiarativa, il che non influirà in pratica su Baku.

Considerando l’ultima provocazione, fino a che punto è necessario il dispiegamento della missione di mantenimento della pace CSTO per l’Armenia e come dovrebbe posizionarsi la parte armena?
È necessaria una missione di mantenimento della pace, guardia di frontiera, altrimenti continueranno le infiltrazioni territoriali. È una pressione per attuare la demarcazione e penso che tutte queste siano pressioni per accelerare il processo di demarcazione. L’offerta di CSTO è percepita come un pacchetto in questo senso. Non stiamo parlando di un ritiro speculare delle truppe, ma unilaterale. L’Azerbajgian ha invaso il territorio dell’Armenia e il processo dovrebbe essere condizionato dal ritorno delle truppe azere ai punti di partenza, dopodiché determinare le aree di dispiegamento delle forze di pace, che è interconnesso con i processi di demarcazione.

Indice – #ArtsakhBlockade
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