Armenia: la guerra in Nagorno Karabakh e la fecondazione assistita (Osservatorio Balcani e Caucaso 05.05.21)

In Armenia le madri che hanno perso un figlio nella recente guerra in Nagorno Karabakh potranno accedere ad un programma speciale di fecondazione assistita

05/05/2021 –  Armine Avetysian

“Avevo un figlio. Era lo scopo principale della mia vita, il mio sole, la mia felicità. Eravamo davvero giovani quando ci siamo sposati e siamo diventati genitori. Poi per svariate ragioni non abbiamo avuto un secondo figlio. La guerra si è presa il mio unico figlio”. Parlando a fatica Anna (il nome è stato cambiato su richiesta della donna), 46 anni, ci racconta di suo figlio morto 6 mesi fa.

Trattiene le lacrime, prova a regolare il respiro e continua a raccontare: “Provo un senso infinito di vuoto, nessuno può prendere il suo posto, ma dobbiamo provare a vivere, anche se non so come”.

Il figlio di Anna è morto nel settembre 2020, durante la guerra nell’Artsakh. L’Artsakh, meglio conosciuto come Nagorno Karabakh, è uno stato non riconosciuto nel Caucaso meridionale. Dal 27 settembre al 10 novembre dello scorso anno si sono verificati scontri militari fra le forze del Nagorno Karabakh e dell’Armenia contro l’esercito dell’Azerbaijan, con il risultato che migliaia di persone sono rimaste uccise su entrambi i fronti.

Da sei mesi Anna sta lottando con il suo “Io”, anche pensando al suicidio. “Mio figlio aveva solo 18 anni. Sognava di diventare un architetto. Costruiva città nella sua mente, stava facendo progetti per edifici, e per prima cosa avrebbe costruito la nostra casa. Io avevo un figlio davvero intelligente: non lo dico da madre, ma lo dico oggettivamente. Durante lunghe conversazioni immaginarie avute con mio figlio dopo la sua morte, facendo pensieri riguardo al futuro del mio paese, ho realizzato, in una di queste ‘difficili discussioni’ che mio figlio non vorrebbe che io morissi. Invece di morire, devo farmi forza; devo avere nuovi figli per avverare i sogni di mio figlio con gli altri miei ragazzi. È vero, nessuno può sostituire mio figlio, ma lui sarebbe assolutamente d’accordo se avessi un altro figlio”.

Anna si sottoporrà presto ai necessari controlli medici. Si sta pian piano preparando ad essere nuovamente madre. Beneficerà della nuova decisione presa dal governo dell’Armenia, secondo cui i genitori i cui figli sono morti in guerra hanno l’opportunità di accedere alla FIV (fecondazione in vitro) all’interno del quadro normativo dello stato.

Precedentemente era già consentito accedere alla FIV rispettando le normative, ma l’accesso era permesso solo alle donne con età inferiore ai 42 anni. Ora il problema è che la maggior parte delle donne che hanno perso i loro figli nella guerra hanno un’età maggiore rispetto a quella prestabilita come limite. Perciò, è stato deciso di alzare l’età massima per partecipare a questo programma ai 53 anni. Il ministro della Salute della Repubblica d’Armenia Anahit Avanesyan ha sottolineato che è stata creata una nuova categoria di beneficiari proprio tenendo in considerazione il desiderio dei genitori, i cui figli sono morti, di avere nuovamente un figlio a guerra finita, e prestando attenzione all’importanza di garantire un contributo statale al riguardo. Precedentemente potevano accedere al programma i residenti nelle zone di confine, i militari, le persone con disabilità, oltre ai cittadini inclusi nel sistema di benefit per le famiglie.

“I requisiti tradizionali per la presentazione della domanda erano di non avere figli, di essere iscritti in conformità con la legge presso gli enti di registrazione degli attivi civili, e per la donna di non aver compiuto 42 anni; tutto ciò non viene applicato ai genitori il cui figlio è morto per aver preso parte agli scontri durante e dopo la fine della guerra. Questo programma garantirà l’opportunità ai genitori che hanno perso i loro figli di ritrovare nuovamente se stessi attraverso queste tecnologie di riproduzione assistita”, ha sottolineato Avanesyan, durante la discussione riguardo al citato programma in una seduta governativa.

Nel 2020 sono stati impiantati 49 embrioni nel quadro del programma, mentre dopo il primo trimestre del 2021 sono già stati 44. Per incentivare il programma sono stati stanziati 917 milioni di Dram (all’incirca 1 milione e 457mila euro), cifra più che triplicata rispetto allo scorso anno.

Secondo Eduard Hambardzumyan, presidente della società armena per la medicina riproduttiva, i dottori avevano iniziato a pensare di dar vita a questa opportunità per i genitori a cui sono morti i figli, dopo la fine della guerra. “Quando i genitori che hanno perso i loro figli hanno iniziato a far domanda da noi, abbiamo capito che avremmo dovuto attivarci. Loro desiderano essere genitori nuovamente. Ed è un atto eroico. Queste persone dovrebbero essere un esempio per tutti noi, dovremmo guardare avanti, procreare, rafforzare lo stato”.

“Poche persone nel nostro vicinato sanno che io e mio marito abbiamo questa intenzione. Qualche volta me la prendo con la mia età; da una parte credo che essere madre adesso non sia giusto, ma dall’altra sono convinta di questa scelta. Inoltre devo essere un esempio per gli altri. Ora prego Dio di darmi la buona salute per essere madre e avere una normale gravidanza”, sostiene Anna, aggiungendo che, se potrà, avrà poi un altro figlio.

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Lo storico turco Akçam chiarisce le responsabilità ottomane nel genocidio armeno (Ftnews 04.05.21)

I telegrammi di Talat Pasha, un libro dello storico turco Akçam, chiarisce le responsabilità ottomane nel genocidio armeno Il 24 aprile 1915, esattamente 106 anni fa, mentre nel mondo, e anche in Medioriente, infuriava la Prima guerra mondiale, iniziava – prima ad Istanbul, poi in altre zone dell’Impero ottomano, il vero e proprio genocidio del popolo armeno, quel “Medz Yeghern” (in lingua armena, “Grande male”) che avrebbe causato un numero di morti – per eliminazione diretta, o per le conseguenze delle deportazioni, soprattutto in Siria – pari, secondo gli storici più documentati, ad almeno un milione. Un genocidio di cui, però, la Turchia non ha mai voluto assumersi ufficialmente le responsabilità, neanche durante i processi ai colpevoli tenuti nel Primo dopoguerra (a regime del sultano ormai agonizzante, di fronte all’ascesa di Kemall Ataturk). E di cui tuttora contesta cifre e modalità, e, soprattutto, la stessa definizione di “genocidio”: come emerso anche ultimamente, con le polemiche fra il leader turco Erdogan e il Presidente Usa Biden, “reo” di aver ufficialmente riconosciuto (sulle orme, del resto, di Barak Obama già nel 2015) le gravi responsabilità di Ankara nel “Medz Yeghern”.
Con un’introduzione di Antonia Arslan, la scrittrice italiana, di origini armene, autrice, tra l’altro, del romanzo del 2004, dedicato appunto al “Grande male”, “La masseria delle allodole”, l’editore milanese Guerini e Associati ha da poco pubblicato Killing Orders – I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno: documentatissimo saggio (pp.303, €. 25,00) di Taner Akçam, primo storico turco ad aver scritto e discusso apertamente del Medz Yeghern.
Arrestato e condannato nel 1976 a 10 anni di reclusione per i suoi scritti, Akçam un anno dopo riesce a fuggire e rifugiarsi in Germania, ed oggi insegna, su questi temi, alla Clark University degli USA: è auspicabile che questo suo saggio avvii la definitiva chiusura dell’ormai secolare disputa sulle vere responsabilità della catastrofe che dal “1915 e dintorni”, sino addirittura ai primi anni ’20, funestò la vita del popolo armeno.
Il lavoro di Akçam parte dall’esame di un fondamentale gruppo di documenti, tra i più discussi nell’enorme mole di atti sinora pubblicati sulla tragedia del 1915-1922: e cioè i telegrammi di Talat Pasha (ministro dell’Interno turco “de facto”, anche se non “de iure”, dal 1913 al ’18) e di altri alti esponenti dell’amministrazione ottomana, ai responsabili locali – militari e civili – nelle varie province dell’Impero. Dai quali emergono chiaramente le intenzioni genocidarie nei confronti degli armeni: da sempre odiati da turchi, e anche curdi, sia per le oro forti radici cristiane che per le loro capacità economiche, monopolizzatrici (un po’ come per gli ebrei) dei commerci in varie regioni dell’Impero ottomano.
Non si può parlare, a tutt’oggi, di una vera e propria ”Wansee sul Bosforo”, una Conferenza ai massimi livelli della Sublime Porta, pianificatrice – nel 1914 -’15 – dello sterminio armeno, così come sarà poi, nel 1942, appunto per quella nazista, determinante per la Shoah. Ma da questi documenti, in particolare, emerge la volontà del vertice dei “Giovani turchi”, l’organizzazione – di idee liberali, ma con pericolose “scivolate” in senso “nazionalista-esoterico” – che nel 1908 aveva costretto il sultano Abdul Hamid II a ripristinare la Costituzione del 1876, di avviare una “pulizia etnica” nel traballante Impero.
Ma come è riuscito, Taner Akçam, ad individuare questi documenti? Alla fine della “Grande guerra”, il funzionario turco Naim Efendi – che aveva lavorato nell'”Ufficio per la Deportazione” (degli armeni!) di Aleppo – vendette al giornalista Aram Andonian, uno dei pochissimi intellettuali armeni sopravvissuti, una cospicua raccolta appunto di telegrammi originali – e/o copie manoscritte – di Talat Pasha e altri burocrati turchi di primo piano: accompagnandoli con brevi note. Nel 1920-’21, Andonian, pubblico’ il tutto in armeno, francese e inglese, intitolandolo Memorie di Naim Bey.
Tappa successiva, in questa “caccia al tesoro” storiografico, fu l’incontro di Aram Andonian (scomparso poi nel 1952), alla Biblioteca Boghos Nubar di Parigi, che egli dirigeva, col prete armeno cattolico Krikor Guerguerian (1911-1988), studioso del Medz Yeghern (cui avrebbe voluto dedicare un dottorato universitario).In quest’incontro, nel Secondo dopoguerra, Andonian potè vedere il materiale in possesso di Guerguerian.
Molti anni dopo, nel 2015, il cerchio si è chiuso: il nipote del religioso armeno, Edmund Guerguerian, ha dato a Taner Akçam il permesso di usare, per il suo libro, il materiale dell’archivio di Krikor.
Colpisce, nella ricostruzione del “Medz Yeghern” fatta da Akçam, l’intenzione – del governo prima di Abdul Hamid II, poi dei Giovani turchi, in questo perfettamente allineati – di rendere lo Stato ottomano “libero” da elementi (non solo armeni, ma anche greci ed ebrei) non conformi a una pretesa “purezza”, integrità turca, razziale e religiosa. Colpisce, ovviamente, soprattutto per l’inevitabile raffronto con gli altri, successivi genocidi novecenteschi. Ma in particolare saltano agli occhi le preziose “lezioni” impartite dai turchi, nella Prima guerra mondiale, agli alleati tedeschi (che erano presenti, nell’Impero ottomano, con funzioni soprattutto di appoggio logistico alle armate imperiali): sul piano, specialmente, delle deportazioni degli elementi indesiderati, a piedi (come non pensare alle successive “marce della morte” dei detenuti dai lager nazisti, dei primi mesi del 1945?) o in treno. E del resto, è documentata da vari storici la risposta che, molti anni dopo, Hitler avrebbe dato a quei suoi generali timorosi delle conseguenze, per la Germania, della ricaduta mediatica mondiale d’una “Shoah” allora solo “in fieri”: “Chi si ricorda, oggi, del genocidio degli armeni?”.

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Armenia: 24 aprile inizio di un genocidio…. (Consulpress.eu)

Schiava dell’Isis di Jinan (sololibri.net 04.05.21)

Chi ha letto l’avventura di Corto Maltese intitolata La casa dorata di Samarcanda, pubblicata da Hugo Pratt (1927-1995) nel 1986, potrebbe essere venuto a conoscenza dell’esistenza degli yazidi del Medio Oriente. La diceria secondo cui questo gruppo religioso sarebbe dedito all’adorazione del diavolo è un’invenzione musulmana. Il governo ottomano perseguitò duramente queste genti monoteiste e nel XIX secolo le spinse a cercare rifugio nel Caucaso, in Armenia, in Georgia e in Russia. Nel 1915, durante il genocidio degli armeni, decine di migliaia di cristiani si rifugiarono nel Jebel Sinjar e gli yazidi li difesero, rifiutando di consegnarli ai turchi. Sconfitti dall’esercito della mezzaluna, nel febbraio del 1918, yazidi e armeni furono costretti a ritirarsi sulle montagne in attesa di un aiuto britannico. La persecuzione degli yazidi, però, prosegue sino ai giorni nostri; nel marzo del 2015 le Nazioni Unite hanno giudicato che i terroristi dello Stato Islamico, in Iraq, hanno messo in atto un genocidio contro questa minoranza.

Una giovane curda di religione yazida con cittadinanza irachena, Jinan, ha raccontato il suo inferno in un libro che raccoglie i suoi ricordi, trascritti dal giornalista Thierry Oberlé: Schiava dell’Isisedito da Garzanti nel 2016 con la traduzione di Giuseppe Maugeri.
Jinan è stata rapita e segregata dai guerriglieri islamici, ma è riuscita a fuggire e ha trovato la forza di consegnare al mondo la testimonianza degli orrori subiti dalle comunità perseguitate dai jihadisti:

“A differenza degli sciiti, noi [yazidi] non siamo musulmani. Né siamo uno dei popoli della Bibbia, come i cristiani. Per i sunniti dell’Isis, siamo la feccia dell’umanità. Noi yazidi siamo in pericolo proprio perché siamo un gruppo a parte. La nostra religione è una delle più antiche del mondo. Non abbiamo dovuto aspettare gli ebrei, i cristiani e i musulmani per adorare un unico Dio. Il nostro calendario conta già 6765 anni. Ci siamo sempre tenuti lontani dai conflitti settari e politici, ma siamo sempre stati perseguitati e massacrati a causa della nostra diversità. Noi crediamo in un Dio onnipotente e nei suoi sette angeli. Eppure, veniamo considerati da secoli come ribelli e pagani. Ecco perché viviamo in un luogo appartato, ai piedi del Sinjar, sempre pronti a risalirne le pendici per sfuggire agli incendi dei nostri villaggi e alle deportazioni”.

La guerra descritta da Jinan è terrificante: intere popolazioni sono in fuga dalla loro terra, tra i musulmani gli sciiti sono attaccati dai sunniti, armate diverse si contendono il territorio, le milizie del califfato gestiscono una tratta di esseri umani e le prigioniere che riescono a scappare e a tornare dalle loro famiglie sono spesso allontanate, se non invitate dai loro parenti a togliersi la vita.
L’autrice delinea in maniera raccapricciante i metodi adottati dall’Isis, l’occasionale falsa gentilezza dei carcerieri, i filmati delle esecuzioni degli ostaggi, la sottomissione delle vittime, le conversioni forzate e la vita quotidiana nel territorio dello Stato Islamico. Anche in questo abisso di sofferenza la protagonista cerca comunque di difendere la sua dignità:

“Personalmente, non ho mai portato quell’orribile velo (con o senza rete), né alcun tipo di abaya. Questi abiti islamici sono vere e proprie prigioni ambulanti. Non mi sorprende affatto che piacciano ai mostri che ci trattengono”.

Guidati da criminali megalomani, i miliziani dell’Isis appaiono in tutta la loro efferatezza, sono pervertiti, ignoranti e sadici. Nel libro, gli uomini del califfo al-Baghdadi (1971-2019) giustificano ogni loro atrocità dicendo che Maometto, prima di loro, si era comportato allo stesso modo. Bisogna meditare seriamente su queste parole.

Un aspetto importante nell’opera di Jinan è sicuramente l’aver affrontato senza censure la questione femminile nella sua terra di origine. Schiava dell’Isis è un testo che può essere letto anche in un solo giorno e ciò permette di diffondere maggiormente la denuncia che il libro intende lanciare. Questo piccolo volume è un documento storico che i posteri dovranno conoscere per riflettere sui crimini dell’Isis e sulle condizioni drammatiche in cui versano le donne in una parte del mondo non troppo distante dal continente europeo.

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L’Armenia deplora i cosiddetti “lavori di restauro” alla cattedrale Ghazanchetsots di Sushi nell’Artsakh occupato dall’Azerbajgian (Korazym 04.05.21)

Gli Azeri continuano indisturbati il genocidio culturale nei territori della Repubblica di Artsakh, che hanno occupato con la guerra di aggressione nell’autunno del 2020. Oggi arriva la notizia da Shushi, nella parte della Repubblica di Artsakh occupata dall’esercito dell’Azerbajgian, che gli Azeri hanno cominciato a cambiare l’aspetto della Cattedrale del Santo Salvatore Ghazanchetsots, livellando cupola e rimuovendo croci e angeli, mentre nel frattempo fanno sparire le prove delle destruzioni durante la guerra.

L’UNESCO se c’è batte un colpo (oltretutto, le parole sono gratis). L’Unione Europea e il governo italiano non pervenuti, come stanno zitti anche i professionisti della difesa delle minoranze. Non pervenuti nemmeno i difensori dei diritti delle minoranze. Come pure la Santa Sede muta e zitta, nel nome delle “eccellenti relazioni” con Baku. La domanda è: gli Azeri-Turchi musulmani faranno della Cattedrale Ghazanchetsots una moschea come ha fatto Erdogan con Santa Sofia ad Istanbul, in previsione della sua visita alle terre armeni cristiani conquistati? Intanto, nel febbraio scorso il suo alleato Aliyev avevo già fatto un sopralluogo.

Questa foto abbiamo pubblicato il 26 febbraio 2021, con la seguente didascalia, da rileggere oggi, con le notizie nuove dallo stesso luogo a Sushi: «“Premio di guerra e simbolo di vittoria”. Così Ilham Aliyev, il Presidente dell’Azerbajgian ha definito il 15 gennaio 2021, nel corso della sua visita con la sua moglie Mehriban Aliyeva, [Primo] Vicepresidente dell’Azerbaigian, la cattedrale armena del Santo Salvatore Ghazanchetsots a Shushi (foto di copertina). Le foto ufficiali diffuse dai media azeri non mostrano gli squarci causati dalle bombe azere dell’ottobre scorso. La pace è ancora lontana. E le chiese armene nel Nagorno-Karabakh sempre più in pericolo» [QUI].

Per chi si domanda ancora quale è la sorte del patrimonio culturale e religioso armeno nel Nagorno-Karabakh sotto occupazione azera – dopo i tanti articoli che abbiamo dedicato all’argomento (qui sopra soltanto una piccola selezione) – facciamo seguire la Dichiarazione del Ministero degli Esteri armeno su cosa sta succedendo con la cattedrale armena Ghazanchetsots di Sushi.

E poi, potete leggere, interpretare e capire la lunga intervista L’importanza dell’alleanza tra Italia e Azerbaigian (con un passaggio anche sull’alleanza tra il Vaticano e l’Azerbajgian), pubblicata oggi 4 maggio 2021 su Ilgiornale.it [QUI]. Emanuel Pietrobon – “con l’obiettivo di comprendere la reale profondità del legame italo-azerbaigiano” ha “raggiunto e intervistato” l’Ambasciatore azero Elchin Amirbayov, Assistente del Primo Vicepresidente della Repubblica dell’Azerbaigian (cioè la moglie del dittatore azero, Mehriban Aliyeva), già Ambasciatore presso la Francia e la Santa Sede, che “in questi giorni è in Italia per una visita di lavoro”.

Quale tipo di “lavoro” Amirbayov è venuto a fare qui da noi, si comprende, quando spiega in modo chiaro quali sono i rapporti dell’Italia e della Santa Sede con l’Azerbaigian e come espone “la visione del suo paese per una pacificazione regionale postbellica”. Cioè, invece di un servizio giornalistico leggerete una velina con il copia/incolla dal classico manuale di propaganda, mistificazione e disinformacia stile sovietico-azerbajgiano.

Per capire il perché del silenzio dell’Occidente (dell’Italia e della Santa Sede in particolare) e dei professionisti della “difesa delle minoranze”, basterebbe l’introduzione di Pietrobon, che sposa in toto la “visione” azera: “L’Italia ha un alleato prezioso al di là del Mediterraneo, più precisamente in quel polveroso lembo di terra steso fra i mondi russo e turcico: l’Azerbaigian. Il partenariato strategico con Baku ha consentito a Roma di non sentire i traumi dovuti al cambio di regime a Tripoli e all’erosione della sua sedimentata influenza nel cosiddetto Mediterraneo allargato, perché le ricchezze contenute nel sottosuolo di questa nazione sudcaucasica hanno contribuito in maniera determinante a salvaguardare la sicurezza energetica del Bel Paese. È erroneo credere, però, che il sodalizio italo-azerbaigiano sia circoscritto alla sfera della cooperazione energetica, perché i due Paesi collaborano attivamente e profittevolmente in una miriade di settori, dal commercio al caseario, passando per la cultura, e le imprese nostrane stanno svolgendo un ruolo-chiave nella ricostruzione dei territori liberati dell’Azerbaigian durante l’ultima guerra del Karabakh”.

Poi segue l’intervista “metodo Sodano”, con una serie di lunghi proclami – con l’aggiunte di domande – del diplomatico azero, ovviamente servo del suo padrone, come nel caso del suo collega, di cui ci siamo già occupato in passato [L’acer in fundo di un’intervista diplomatica. Un Pontifex Maximus non può non essere consapevole della strumentalizzazione dei suoi discorsi e degli atti dei suoi ministri – 12 marzo 2021].

Intanto, di fronte a tante parole diplomatiche e di propaganda, vedremo cosa sta succedendo con la cattedrale armena di Shushi, sotto le “cure amorevoli e tolleranti” degli occupanti azeri: tolti angeli e croci, e livellata la cupola armena, sparite croce e statue degli angeli dal cancello di ingresso. Il più recente ma non ultimo esempio di come il regime del dittatore Aliyev sta distruggendo tutto il patrimonio armeno nei territori conquistati con la guerra di aggressione.

Le azioni compiute dall’Azerbaigian presso la Cattedrale del Santissimo Salvatore di Ghazanchetsots a Shushi sono deplorevoli, poiché ci sono già molti precedenti di distruzione di luoghi di culto e monumenti armeni, nonché per la giustificazione di tali azioni, ha affermato il Ministero degli Esteri armeno in una Dichiarazione.

“Tra i molti crimini di guerra commessi dalle forze armate azere durante l’aggressione contro l’Artsakh c’è il deliberato attacco alla cattedrale di Shushi Ghazanchetsots con armi ad alta precisione due volte in un giorno, seguito dall’atto di vandalismo dopo l’istituzione del cessate il fuoco”, si legge nella Dichiarazione.

Il Ministero degli Esteri armeno sottolinea che l’Azerbajgian svolge azioni presso la cattedrale di Shushi senza consultare la Chiesa Apostolica Armena, il che costituisce una chiara violazione del diritto dei credenti armeni alla libertà di religione. “È altrettanto preoccupante che l’Azerbajgian abbia iniziato a modificare l’aspetto architettonico della chiesa prima dell’avvio dei lavori della missione di valutazione degli esperti dell’UNESCO. È ovvio che l’Azerbajgian sta deliberatamente bloccando l’ingresso degli esperti dell’UNESCO nei siti del patrimonio culturale armeno in via di estinzione, da un lato per coprire i crimini di guerra che ha commesso, e dall’altro per cambiare l’integrità storico-architettonica del monumento”.

“In questa situazione, tutte le preoccupazioni della parte armena che queste azioni dell’Azerbajgian siano manifestazioni di vandalismo, volte a privare la Cattedrale Madre di Shushi della sua identità armena, sono più che motivate”, ha affermato il Ministero degli Esteri armeno.

La Dichiarazione sottolinea che nessuna azione può essere svolta presso la Cattedrale di Ghazanchetsots, e i numerosi monumenti storici e culturali armeni e luoghi di culto nei territori dell’Artsakh sotto l’occupazione azera, senza documentazione della situazione attuale da parte di esperti internazionali, prima di tutto, dell’UNESCO e il loro attivo coinvolgimento nei lavori di restauro.

“La cattedrale di Shushi è uno dei centri importanti della Chiesa Apostolica Armena in Artsakh, dovrebbe servire come luogo di culto”, conclude la Dichiarazione.

Gegham Stepanyan, il Difensore dei diritti umani della Repubblica di Artsakh, alla vigilia aveva riferito che con il pretesto del cosiddetto “restauro”, gli Azeri stavano distorcendo uno dei più importanti valori culturali armeni: la Cattedrale del Santo Salvatore Ghazanchetsots a Shushi.

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Sul genocidio armeno si stringe il cerchio intorno a Erdoğan (ilbolive.unipd.it 04.05.21)

Il 24 aprile di ogni anno le comunità armene di tutto il mondo ricordano “il grande crimine” (Medz Yeghern), ma quello appena passato resterà nella memoria soprattutto per la dichiarazione di Joe Biden. “Ricordiamo i morti nel genocidio armeno in epoca ottomana – scrive il presidente statunitense – e ci impegniamo a impedire che una tale atrocità si ripeta”. Non si tratta di un atto isolato, né completamente inaspettato: nel 2019 una mozione in questo senso era passata al Congresso e già nel 1981 il presidente Reagan aveva usato la parola genocidio in riferimento agli armeni. È però la prima volta che alla questione viene dedicato uno specifico e dettagliato statement, che cita tra le altre cose il numero delle vittime (un milione e mezzo) e la responsabilità dei carnefici: l’esito di un percorso lungo oltre un secolo, rimandato più volte negli ultimi decenni per non irritare il governo turco, componente della Nato e alleato essenziale nel Medioriente.

Un atto dal valore anzitutto simbolico, ma che potrebbe avere conseguenze anche molto concrete: non a caso anche stavolta il presidente turco Erdoğan ha tentato in tutti i modi di evitarlo, assicurando che avrebbe difeso “la verità contro la menzogna del cosiddetto ‘genocidio armeno’”. La telefonata tra i due leader, il giorno prima della dichiarazione, non ha però sortito altri effetti che la presa d’atto delle divergenze e l’impegno a incontrarsi durante il prossimo vertice dell’Alleanza Atlantica.

L’importanza della dichiarazione è sostanzialmente nell’utilizzo della parola genocidio, che ha in sé una valenza enorme”, spiega a Il Bo Live Antonia Arslan, scrittrice di fama internazionale e tra le prime voci al mondo a far uscire la tragedia armena dal ristretto ambito delle memorie familiari e degli studi specialistici. “Adesso ad esempio potranno partire una serie di cause negli Usa da parte dei discendenti delle vittime contro lo Stato turco, finora bloccate proprio dal mancato riconoscimento da parte dell’amministrazione statunitense”. Continua Arslan: “L’atto del presidente Biden riflette e si adegua alla dichiarazione dell’Onu del dicembre 1948, nella quale la neonata organizzazione ha accettato la definizione di genocidio data nel 1944 da Raphael Lemkin, personaggio che rappresenta il nesso tra genocidio armeno e quello ebraico. Ebreo polacco, avvocato e giurista, Lemkin nel 1921 si accorge che la tragedia armena ha caratteristiche uniche che la distinguono da ogni altra: per questo negli anni successivi cerca di diffondere questa percezione, senza che però nessuno gli credesse”.

Pochi insomma lo sanno, ma il termine genocidio è stato coniato da Lemkin pensando proprio agli armeni, diversi anni prima che la Shoah spazzasse via la sua stessa famiglia. Anche per questo sul punto è intervenuta l’Assemblea dei Rabbini d’Italia (ARI), che per bocca del presidente Rav Alfonso P. Arbib ha recentemente affermato che “il Genocidio Armeno, la cui memoria è fondamentale e preziosa, esige l’impegno di noi tutti, con fermezza e chiarezza. Questo 24 aprile, come il 27 gennaio per la Memoria della Shoà, noi ricordiamo e chiediamo a tutti di unirsi a noi, nell’assumere la responsabilità di combattere vecchi e nuovi negazionismi, rendendo testimonianza di questo atroce crimine”.

Con gli Stati Uniti oggi sono appena 30 i Paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno (tra cui l’Italia), ma con la presa di posizione ufficiale dell’amministrazione americana le cose potrebbero cambiare. “Ci si può chiedere se Biden volesse colmare un vuoto di verità e di riconoscimento o se tutto vada inserito in una più generale offensiva contro i governi autoritari – è l’analisi di Aldo Ferrari, docente a Ca’ Foscari di lingua e letteratura armena e responsabile presso l’ISPI di Milano delle ricerche su Russia, Caucaso e Asia centrale –. Probabilmente si tratta delle due cose insieme; senza fare troppa dietrologia prendiamo però l’aspetto positivo: si tratta di un riconoscimento importantissimo, destinato probabilmente ad essere seguito da molti altri Paesi”.

Probabilmente la Turchia è meno importate e meno utile all’America rispetto ad anni passati – continua Ferrari –, ma bisogna tener presente che Biden, qualsiasi giudizio se ne voglia dare, ha comunque mantenuto fede alle promesse fatte in campagna elettorale di insistere maggiormente sui diritti umani nelle relazioni internazionali, affrontando anche in maniera poco diplomatica i regimi e arrivando persino a dare dell’assassino a Putin. Ora tocca alla Turchia essere toccata su un nervo scoperto; in ogni caso il presidente sta portando avanti un’opera di chiarificazione della politica estera statunitense, che viene così ricollocata con forza sui valori democratici e liberali”.

Biden sta mantenendo fede alla promessa di insistere sui diritti umani nelle relazioni internazionali

L’atto di Biden tocca un altro aspetto specifico dello Medz Yeghern, che è quello di continuare ad essere pervicacemente negato. “Oltre a rifiutare ai sopravvissuti e ai loro discendenti il diritto di ritornare in patria e di reclamare i beni confiscati, per un intero secolo la Turchia ha infatti operato consapevolmente e con tutti i mezzi a disposizione di uno Stato moderno per ridurre, deformare o persino cancellare la stessa memoria della millenaria presenza armena nei territori anatolici – scrive Ferrari nel libro L’Armenia perduta. Viaggio nella memoria di un popolo (Salerno editrice 2019), resoconto di un viaggio nei luoghi della memoria armena –. È stata una politica coerente e sistematica, che ha provocato tra gli Armeni uno stato d’animo di frustrante e disperata privazione”.

Per quanto riguarda le possibili reazioni del governo turco a livello internazionale, Ferrari ritiene che saranno limitate: “Erdoğan ha già risposto per le rime, ma alla fine che può fare? Anche con Francia, Germania e Italia alla fine ha dovuto abbozzare. Per questo finora è stata ancora più vergognosa la timidezza e la pigrizia di chi non ha riconosciuto il genocidio armeno, di fronte a un Paese che come la Turchia non aveva nemmeno un reale potere di ritorsione”.

A livello interno invece le conseguenze sono imprevedibili, e potrebbero andare addirittura nella direzione di un ulteriore giro di vite contro le minoranze. Garo Palyan, deputato turco di origine armena dell’Hdp (Partito della democrazia dei popoli –) ha addirittura presentato al parlamento di Ankara una legge per il riconoscimento del genocidio armeno, ma come risposta è stato minacciato da un collega parlamentare. E non si tratta solo del partito di Sul genocidio armeno si stringe il cerchio intorno a Erdoğan: la dichiarazione di Biden è stata infatti condannata anche dal più grande partito di opposizione, il CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Popolare Repubblicano), laico e socialdemocratico ma allo stesso tempo fieramente kemalista. Con il riconoscimento del genocidio ad essere attaccato è lo stesso fondamento ideologico del moderno Stato turco, la sua pretesa di incarnare un popolo essenzialmente omogeneo, unico ed esclusivo padrone dell’Anatolia. Una pesante eredità da cui non sarà tanto facile liberarsi

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Armenia: eurodeputati a Ue, Baku rilasci i prigionieri (Ansa 04.05.21)

(ANSA) – STRASBURGO, 04 MAG – L’Unione europea deve usare tutti i mezzi a sua disposizione per chiedere all’Azerbaijan di liberare e far tornare nel loro Paese tutti i prigionieri armeni, come previsto dall’accordo di cessate il fuoco entrato in vigore il 10 novembre 2020. Lo chiedono oltre 100 eurodeputati di alcuni tra i principali gruppi politici del Parlamento Ue in una lettera inviata ai presidenti della Commissione Ue e del Consiglio europeo, Ursula von der Leyen e Charles Michel.”È difficile dire quanti armeni siano ancora detenuti dall’Azerbaijan”, scrivono gli eurodeputati, denunciando che “si stanno accumulando prove inconfutabili che numerosi prigionieri di guerra sono vittime di tortura” e che “esistono casi ben documentati di esecuzioni sommarie”.L’Armenia “un paese amico dell’Europa, ha già pagato un prezzo altissimo nel conflitto con l’Azerbaijan”, e “l’Unione europea non può lasciarla, più a lungo, in questa situazione insopportabile”, indicano gli eurodeputati.

Tra i firmatari della missiva, anche gli italiani Fabio Massimo Castaldo (M5S), Rossana Conte, Marco Dreosto, Marco Zanni, Gianna Gancia (Lega), Antonio Tajani, Massimiliano Salini, Fulvio Martusciello (Forza Italia), Carlo Fidanza (Fratelli d’Italia). (ANSA).

Genocidio Armeni, giunta delibera cittadinanza onoraria ad Antonia Arslan e Taner Akcam (Cronaca Comune 04.05.21)

GENOCIDIO ARMENI, GIUNTA DELIBERA CITTADINANZA ONORARIA AD ANTONIA ARSLAN E A TANER AKCAM: “UN TRIBUTO A DUE AUTORI CORAGGIOSI, CONTRO OGNI NEGAZIONISMO”
Ferrara, 4 maggio 2021 – “Ferrara omaggia due autori coraggiosi, che hanno dato voce e prova storica a un capitolo terribile della storia del ‘900: il genocidio armeno, contro ogni negazionismo e contro chi vorrebbe tacere gli orrori della storia”. Così il sindaco Alan Fabbri nel giorno in cui la giunta – su sua proposta – ha approvato la delibera per il riconoscimento della cittadinanza onoraria ad Antonia Arslan e a Taner Akcam, lo storico turco, esule, che ha dimostrato il genocidio armeno con prove raccolte nel suo libro da poco tradotto in italiano. “A entrambi va la mia stima e la mia ammirazione”, ha ribadito il primo cittadino.
L’iniziativa era stata annunciata da Fabbri nei giorni scorsi, ed è emersa nel contesto della sua risposta all’ambasciatore turco Murat Salim Esenli che chiedeva di “correggere” e di “riconsiderare la posizione” in ordine a un’iniziativa promossa al Teatro comunale di Ferrara il 24 aprile – con, tra gli altri, Antonia Arslan -, dal titolo ‘Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni tra memoria, negazioni e silenzi’.
“Omaggiamo due autori e studiosi che, dando voce alla storia e con lo sguardo obbiettivo del ricercatore attento e scrupoloso, hanno fatto della verità storica la loro missione, combattendo così chi – ancora oggi – vuole negare l’evidenza e oscurare la memoria di 1 milione e 500mila vittime – dice il sindaco -. Siamo felici e convinti di questa scelta e pronti ad accogliere Antonia Arslan, Taner Akcam e l’ambasciatore della Repubblica d’Armenia Tsovinar Hambardzumyan che, gentilmente, in questi giorni, con una lettera, ha fatto sentire a Ferrara la vicinanza del popolo armeno e l’apprezzamento per le nostre scelte”. La delibera per il conferimento della cittadinanza onoraria – dopo l’ok della giunta – sarà presentata alla conferenza dei capigruppo consiliari, per poi approdare in consiglio comunale.
(Comunicazione Sindaco)

Nagorno-Karabakh: Armenia, condannati due mercenari siriani al soldo dell’Azerbaigian (Agenzianuova 04.05.21)

Erevan, 04 mag 21:46 – (Agenzia Nova) – Un tribunale della provincia di Syunik, in Armenia, ha condannato all’ergastolo due mercenari siriani che hanno combattuto per l’Azerbaigian durante il conflitto in Nagorno-Karabak dello scorso autunno. Come riferito dall’ufficio stampa del procuratore generale dell’Armenia Arevik Khachatryan all’agenzia di stampa “Armenpress”, i due cittadini siriani, Muhrab Muhammad al-Shkher e Yusef Alabet al-Hajji, sono stati accusati di terrorismo internazionale e crimini commessi durante il conflitto contro l’Azerbaigian. “Combattevano come mercenari-terroristi durante le operazioni militari lanciate dall’Azerbaigian contro l’Artsakh (così si definisce l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh) nell’autunno del 2020. Le azioni dei mercenari miravano all’uccisione di civili in Armenia e nell’Artsakh, con lo scopo di terrorizzare la popolazione pacifica e destabilizzare la situazione interna”, ha spiegato l’ufficio stampa di Khachatryan. Al-Hajji è il terrorista siriano che aveva testimoniato di aver ricevuto l’ordine “di massacrare ogni armeno” sulla sua strada. Al-Shkher, anch’egli cittadino siriano, aveva testimoniato di essere stato reclutato, insieme a molti altri, dal leader della Brigata Suleyman Shah in Siria ed è arrivato in Azerbaigian attraverso la Turchia. (Rum)

Caso Ferrara-Turchia. L’ambasciatore armeno ringrazia Fabbri (Estense 04.05.21)

“Il suo gesto riaccende un barlume di speranza nell’abisso del negazionismo”. Il sindaco: “Ferrara c’è”

L'ambasciatrice armena Tsovinar Hambardzumyan“Ringraziamenti per la solidarietà e il sostegno dimostrato agli armeni, ma soprattutto alla causa della Giustizia, in occasione del 106° anniversario del Genocidio armeno”.

E’ il messaggio che l’ambasciatore della Repubblica d’Armenia Tsovinar Hambardzumyan ha inviato al sindaco Alan Fabbri che nei giorni scorsi aveva risposto rigettando le richieste dell’ambasciatore turco Murat Salim Esenli.

Il diplomatico di Ankara che chiedeva di “correggere” e di “riconsiderare la posizione” in ordine a un’iniziativa promossa al Teatro comunale di Ferrara  – con, tra gli altri,  Antonia Arslan -, dal titolo ‘Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni tra memoria, negazioni e silenzi’.

“La sua inamovibilità a difesa della Verità storica e della Giustizia ha fornito un esempio che ha contribuito a riaccendere un barlume di speranza nell’abisso del negazionismo e dell’indifferenza che ancora circonda il Genocidio degli armeni. Ma soprattutto il Suo gesto ha dimostrato che tali ingerenze non sono accettabili in un Paese libero come l’Italia. Ha dimostrato che non è tollerabile che uno Stato come la Turchia tenti di imporre la sua percezione della libertà d’espressione in Italia. Con il Suo gesto, ha contribuito a prevenire che simili episodi si ripetano nel futuro”, scrive Hambardzumyan al primo cittadino di Ferrara, auspicando di avere “l’opportunità di visitare” la città estense, anche per “discutere di iniziative di cooperazione bilaterale, soprattutto in ambito culturale”.

“Riconoscere e commemorare il Genocidio armeno del 1915 – scrive l’ambasciatore – non è solo un atto di verità, non è solo un omaggio alla memoria di un milione e mezzo di armeni, ma vuole dire anche contribuire alla prevenzione di futuri genocidi e crimini contro l’umanità”.

“Ringrazio l’ambasciatore della Repubblica d’Armenia – dice il sindaco Fabbri – . Siamo pronti ad accoglierla in città, non appena possibile,  ad avviare forme di collaborazione e iniziative comuni”.

“Questa vicenda – sottolinea Fabbri – ha dimostrato che c’è ancora tanto da fare per rafforzare lo scudo al negazionismo. Ferrara c’è: come dimostrato, siamo pronti a fare la nostra parte e a dare nuovi e importanti segnali a difesa della verità storica, a difesa della memoria di un milione e mezzo di vittime, a difesa della Giustizia e per creare solidi anticorpi che proteggano da un ritorno dei drammi del passato”.

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>>Ambasciatore armeno scrive a Sindaco di Ferrara: “Grazie per la difesa del nostro popolo”. Primo cittadino replica con invito in città: “Pronti a iniziative comuni contro il negazionismo” (CronacaComune 03.05.21)

>> L’Ambasciatore armeno scrive al sindaco di Ferrara: “Grazie per la difesa del nostro popolo” (Ferrara24ore)

Mourinho alla Roma, riecco Mkhitaryan: liti e conflitti ai tempi del Manchester United (Goal 04.05.21)

Mourinho allenerà la Roma a partire dalla prossima stagione e potrebbe ritrovare Mkhitaryan: il rapporto tra i due a Manchester fu pessimo.

E’ la notizia del giorno, e come potrebbe essere altrimenti: José Mourinho tornerà in Italia, non alla ‘sua’ Inter ma alla guida della Roma, che lo ha scelto come erede di Paulo Fonseca. Un passaggio di testimone tutto portoghese che fa sognare mezza Capitale, entusiasta all’idea di avere al proprio fianco lo ‘Special One’, non più come avversario ma come fedele alleato.

In giallorosso Mourinho ritroverà alcuni giocatori già allenati in precedenza, con alterne fortune: è il caso di Davide Santon, da lui soprannominato il ‘Bambino’ e fatto esordire nella prima squadra dell’Inter a soli 18 anni, schierato senza paura tra i titolari anche in Champions League al cospetto di Cristiano Ronaldo; anche Smalling Pedro hanno avuto modo di lavorare con il portoghese al Manchester United e al Chelsea, ma è un altro attuale giallorosso a far parlare di sé per il suo rapporto controverso con il tecnico.

Stiamo parlando di Henrikh Mkhitaryan, il cui futuro alla Roma resta in forte bilico: il rinnovo del contratto in scadenza il prossimo 30 giugno è ancora lontano dall’essere siglato e i dubbi non fanno altro che aumentare dopo l’annuncio ufficiale dell’ingaggio di Mourinho. Sì, perché tra l’armeno e il 58enne non è mai scorso buon sangue nell’anno e mezzo condiviso ai tempi del Manchester United, caratterizzato da turbolenze e dissapori che alla fine hanno portato alla cessione del classe 1989 all’Arsenal a gennaio 2018

Colpa di un feeling mai nato, di un’avversione spiegata da Mkhitaryan nel corso di un’intervista concessa al blogger russo Yevgeny Savin nel marzo 2020.

“Una volta a colazione Mourinho mi vide e mi disse: ‘Per colpa tua la stampa mi critica’. E io risposi: ‘Davvero? Non lo faccio certo di proposito’. E’ stato l’allenatore più duro che ho avuto in carriera, è un vincente di natura e vuole che tu faccia quello che ti chiede. Ci sono state divergenze e conflitti, che per fortuna non hanno messo a repentaglio i trofei vinti”.

“Una volta dopo una partita mi disse che dovevo pensare ad allenarmi di più. A quel punto pensai: ‘Non ho altro da fare qui a Manchester. Lavoro duramente, presso, segno, aiuto la squadra e qualcuno è pure insoddisfatto'”.

Tralasciando la stagione 2016/2017 in cui arrivarono i trionfi in Community Shield, Coppa di Lega ed Europa League che misero da parte le polemiche, fu nell’annata successiva che il rapporto tra Mourinho e Mkhitaryan raggiunse il punto più basso: in particolare tra novembre e dicembre 2017, quando l’armeno fu lasciato in tribuna per sei partite consecutive, pur non essendo alle prese con qualche tipo di infortunio.

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso e convinse la dirigenza dei ‘Red Devils’ a cedere Mkhitaryan nel mercato invernale 2018 all’Arsenal, in uno scambio di cartellini con Alexis Sanchez. Da allora le strade dei due si sono incrociate solo due volte, entrambe in Premier League, poi l’approdo in Italia dell’ex Shakhtar ha fatto sì che non ci fossero più confronti in terra inglese.

Sarà importante capire, qualora Mkhitaryan decidesse di rinnovare il contratto, se e come Mourinho punterà su di lui per riportare la Roma in alto: 11 goal e altrettanti assist stagionali sono un bottino considerevole che non può passare sotto traccia, nemmeno per uno come lo ‘Special One’, da sempre abituato a non guardare in faccia a nessuno pur di dare seguito alle sue idee e far rendere ogni giocatore al massimo delle sue possibilità.

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