Una poltrona (solo) per due. La Turchia e le colpe europee secondo Antonia Arslan (Formiche.net 09.04.21)

La scrittrice di origine armena Antonia Arslan dà una lettura (allargata) di quanto è successo ad Ankara tra Erdogan e Ursula von der Leyen. Tra colpe turche e ventre molle europeo. E commenta la frase di Draghi su Erdogan dittatore

Una poltrona (solo) per due. Nel salotto del presidente turco Erdogan non c’è posto a sedere per la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’incontro, a cui ha partecipato anche il capo del Consiglio europeo Charles Michel (seduto comodamente accanto a Erdogan), aveva come obiettivo quello di far ripartire le relazioni tra Ue e Turchia, oltre a chiedere lumi rispetto la decisione di Ankara di sottrarsi alla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Ebbene, von der Leyen non ha trovato posto a sedere nelle poltrone del salotto di Erdogan. È stata invece relegata in un divanetto poco distante. L’atto è stato visto come uno spregio, un insulto. Alla donna prima e all’istituzione che rappresenta – l’Ue appunto – in secondo luogo. L’ondata di indignazione è stata massiccia, nonostante da Ankara siano state sostanzialmente rispedite al mittente tutte le accuse. Per capire cosa si cela dietro al gesto del presidente turco, Formiche.net ha parlato con Antonia Arslan, scrittrice di origine armena, docente universitaria e intellettuale di vaglia.

Ad Ankara, il presidente turco Erdogan dispone una sedia accanto alla sua per il capo del Consiglio europeo Michel, mentre la presidente della Commissione Europea von der Leyen è confinata in un divanetto distante. È una provocazione, uno smacco alla donna o all’Unione che la donna – von der Leyen appunto – rappresenta in quel momento?

A mio avviso, è tutto insieme. Un po’ provocazione e un po’ smacco. La Turchia ha un atteggiamento tanto più duro e ostile contro l’Unione europea, quanto più è fiacca la risposta e debole l’istituzione. Il gesto di Erdogan è figlio di una cultura diplomatica che affonda radici lontane, nell’impero Ottomano. Quella che ha coinvolto la presidente von der Leyen è stata una scena costruita ad uso e consumo dell’Oriente, una rappresentazione plastica dell’esercizio di potere che Erdogan esercita.

A margine di questa scena che ritrae i due leader maschi seduti sulle poltrone e von der Leyen relegata a parte, è scattata l’indignazione generale. In particolare dal mondo femminile. Tuttavia non è un mistero che nei Paesi a prevalenza musulmana le donne abbiano un trattamento differente rispetto i Paesi occidentali. Se ne dovrebbe dedurre che la Turchia, come altri Paesi, non sono adeguati per le donne?

La Turchia sta facendo passi indietro molto evidenti sul fronte del rispetto delle donne. All’interno della Turchia c’è un grande dibattito su questo, che però viene sottaciuto anche dai media occidentali. Il malcontento serpeggia anche nella grande università di Marmara in cui il rettore è stato imposto dal presidente della Repubblica. C’è un grande sommovimento femminile, che è sintomo di come la condizione della donna in Turchia non sia più minimamente paragonabile a quella che esisteva anche solo vent’anni fa.

Lei teme che, a fronte della massiccia immigrazione islamica e dell’impatto demografico, questo rappresenti un ulteriore problema per la condizione femminile in Europa nel futuro?

Il fenomeno migratorio è molto preoccupante, ma non solo per l’Italia anche per l’Europa. L’esempio e la prova di quanto affermo è quello che si sta verificando in Francia. Paese nel quale interi quartieri sono proibiti alle donne che non siano velate. Se in Francia oggi ci sono quartieri e cittadine che sono totalmente inaccessibili, liberi dalle leggi della repubblica, forse sarebbe il caso di interrogarsi seriamente sul futuro della condizione femminile in tutto il Vecchio Continente.

Come cittadina europea e come donna come si è sentita? Come giudica l’atteggiamento delle istituzioni europee a fronte di tale comportamento e linguaggio simbolico?

Al linguaggio simbolico si dovrebbe contrapporre un altro linguaggio simbolico. Forse sarebbe stato meglio che von der Leyen, ipotizzo, avesse rifiutato di sedersi sui divanetti, avrebbe rotto l’incanto: in queste circostanze bisogna saper giocare al loro tavolo in maniera furba. Oppure sarebbe stato il caso che la presidente della Commissione fosse stata accompagnata da due uomini. Ma d’altro canto noi siamo il Paese che ha coperto i monumenti nell’occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani. È stato l’ennesimo segnale di sudditanza psicologica: un segnale pericolosissimo. Sull’atteggiamento delle istituzioni europee c’è poco da dire: pietoso. Tanto più che si è vanificata tutta la grande tradizione della diplomazia europea.

 L’ha stupita il comportamento di Erdogan o era prevedibile?

Il comportamento di Erdogan era prevedibile, per lui Ursula von der Leyen è una donna. L’incontro con lei era una cosa risibile, specie per uno che è convinto di avere l’Unione europea in mano.

Il premier Mario Draghi ha detto a chiare lettere che, pur essendo utile tenere rapporti con la Turchia, personaggi come Erdogan vanno approcciati con la consapevolezza che siano dittatori. Che ne pensa?

Penso che sia un’affermazione di assoluto buonsenso. Una concreta presa di coscienza rispetto al vero volto del presidente turco. Dirò di più: il mio auspicio è che queste affermazioni vengano riprese dalla stragrande maggioranza dei leader europei. Sarebbe un vero passo avanti che sveglierebbe le coscienze europee.

La Turchia di Erdogan è oggi legata alla leadership dei Fratelli Musulmani, nota organizzazione islamista panaraba. La Germania però è entusiasticamente filoturca sia per demografia interna sia per interessi commerciali, influenzando indebitamente l’intera Ue e minimizzando il problema. Cosa pensa, che futuro prevede e che moniti lancia?

Non credo che la Germania sia così filo-turca. Anche perché ci sono tantissimi curdi in Germania. Il legame con i Fratelli Musulmani è molto pericoloso. Soprattutto perché in prospettiva c’è la sudditanza dell’Europa. Un po’ di malumori emergono dalle discussioni al Parlamento europeo, ma evidentemente poco contano.

L’Unione europea è stata silente a fronte delle violenze omicide tremende patite dagli armeni nel corso della guerra condotta contro di loro da Erdogan e Azerbaijan. Eppure i singoli Stati dell’Unione si riempiono la bocca di etiche e di politiche della memoria e contro l’odio. Cosa si sente di dire?

Di fronte a persone spregiudicate e autoritarie, che sanno come lusingare il popolo, cedere non è mai la scelta giusta. Il silenzio dell’Ue è stato imbarazzante e autolesionista perché ha spinto di nuovo l’Armenia nelle braccia della Russia. L’unica cosa che si può amaramente contestare è che, in fondo, ci sia una grande ipocrisia.

Papa Francesco con il viaggio in Iraq ha concentrato l’attenzione anche sui cristiani di Oriente. E tuttavia il dramma continua lontano dai riflettori con morti, terrore e distruzione del patrimonio artistico spirituale di queste millenarie comunità cristiane, anche, nello specifico, nei riguardi oggi dei cristiani armeni. Al contempo, abbiamo cardinali e arcivescovi cattolici che vanno a Baku per conferenze interreligiose, ne omaggiano il governo, ne ricevono onorificenze. Oppure, ancora, si hanno finanziamenti azero-turchi per iniziative varie di dicasteri pontifici. Da cattolica e da cristiana orientale come vive queste scelte dei massimi vertici della Chiesa Cattolica?

Vivo queste scelte in maniera molto perplessa. I cardinali che vanno a Baku dovrebbero sapere che l’Azerbaijan è uno fra i Paesi con gli standard democratici più bassi del mondo. La Chiesa sta sbandando terribilmente. Non può il centro della cristianità fare piaggerie di questo tipo: in questo modo si evidenzia uno sbandamento nella guida politica della chiesa. Nel momento in cui è preciso interesse dell’Azerbaijan distruggere i monumenti armeni, dovrebbe arrivare una presa di posizione forte da parte della Santa Sede. Forse, solo in questo modo si riuscirebbe a ottenere qualche effetto.

Alla luce di questi presupposti, non è da ritenere ambiguo il ruolo della Turchia nella Nato?

È una barzelletta che la Turchia sia all’interno della Nato. Si tenga presente, ad esempio, che i missili ad alta precisione utilizzati in Nagorno Karabakh, sono stati prodotti dal genero di Erdogan. In più, tutto ciò che riguarda l’armamento della Nato è a disposizione della Turchia. È una follia.

«Tortura nelle carceri di Baku». La finta tregua in Azerbaigian (Avvenire 09.04.21)

Dopo il rapporto di Hrw la replica azera: «Erano sabotatori», e accusa Erevan di favorire l’uso di mine anti-uomo. Antonia Arslan: «Narrativa tipica di un regime negazionista»

La tregua dello scorso 9 novembre tra Armenia e Azerbaigian, con Mosca chiamata a fare da arbitro, non ha certo sopito aspre contese e velenose accuse fra Baku, la vincitrice, ed Erevan, la capitale armena da allora in una crisi politica di difficile soluzione. E la partita geopolitica in Nagorno-Karabakh segnerà una nuova, forse determinante mossa, con l’annunciata visita nella regione contesa di Recep Erdogan a metà maggio, appena concluso il Ramadan.
Il reís turco andrà nella città di Shusha – da sempre contesa e divisa a metà tra quartieri cristiani armeni e quartieri musulmani azeri – riconquistata dalle forze dell’Azerbaigian lo scorso novembre e che, posta su una collina strategica, consente il controllo di tutta l’enclave armena. Un passo importante, nella strategia neo-ottomana di Ankara, per realizzare un “corridoio turco” che, attraverso l’Azerbaigian, potrebbe sospingere l’influenza politica della Turchia fino alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
Una battaglia geopolitica che pare più ampia e che, ritornando al Nagorno-Karabakh a circa sei mesi dalla fine degli scontri si è concentrata sul rilascio dei prigionieri di guerra. Una preoccupazione cui papa Francesco, durante il messaggio “Urbi et Orbi” di Pasqua, ha dedicato un significativo passaggio chiedendo per «quanti sono prigionieri nei conflitti, specialmente nell’Ucraina orientale e nel Nagorno-Karabakh, di ritornare sani e salvi alle proprie famiglie».
A fine marzo un rapporto di Human rights watch (Hrw) – dopo aver esaminato video diffusi sui social e intervistato ex detenuti – accusava l’Azerbaigian di aver sottoposto ad «abusi» e «tortura» soldati e civili armeni, prigionieri di guerra tuttora detenuti in carcere. Di pochi giorni dopo è l’appello di alcuni intellettuali italiani – tra cui Antonia Arslan, Dacia Maraini e Carlo Verdone – che citando il dossier dell’organizzazione umanitaria con sede a New York, chiedevano al governo di Baku un rilascio immediato dei detenuti in base alla Convenzione di Ginevra e al cessate il fuoco del 10 novembre. I prigionieri, è stata la replica dell’ambasciatore azero in Italia Ahmadzada, sono stati tutti liberati, mentre gli almeno 67 detenuti di cui parla Hrw, fanno parte di un «gruppo di sabotaggio» entrato in Azerbaigian per «commettere atti di terrorismo» e che, colpevoli «dell’uccisione di civili e militari azerbaigiani», per questo sono detenuti e, precisa il diplomatico, trattati nel rispetto del diritto internazionale. L’ambasciatore Ahmadzada, sottolinea come l’Armenia «continua a violare il diritto di ritorno dei profughi azerbaigiani alle proprie terre» e in un recente intervento Hikmat Hajiyev, assistente del presidente dell’Azerbaigian, ha chiesto all’Armenia di consegnare le mappe dei «territori liberati» dove sono presenti mine anti-uomo che causano morti fra i civili.
«È solo uno degli argomenti narrativi del regime dell’Azerbaigian che, usando come scudo internazionale la Turchia, ha sempre attuato un chiaro negazionismo dei suoi crimini», la replica della scrittrice Antonia Arslan. In Nagorno Karabakh, «con enorme determinazione», è rientrata solo la metà dei 150mila armeni fuggiti durante gli scontri. «Una popolazione a rischio di un nuovo genocidio culturale e per cui non c’è nessuna forma di tutela internazionale.
L’unica tutela è quella di Mosca che non può permettere un predominio incontrastato di Erdogan nel Caucaso», conclude l’autrice del famoso romanzo La masserie delle allodole, dedicato al genocidio armeno del 1915.

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Caucaso: conflitti e diritti (Settimananews 09.04.21)

Intervista con Marilisa Lorusso, che si è occupata del Caucaso per il Ministero degli Esteri dopo la guerra in Georgia nel 2008, partecipando alla missione civile dell’Unione Europea e alle negoziazioni diplomatiche di Ginevra per la normalizzazione post-bellica. Attualmente collabora con l’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Come esperta d’area contribuisce alle decisioni di concessione del diritto di asilo nelle corti americane e inglesi, producendo report sui paesi di origine: Armenia e Georgia. Rientra negli elenchi internazionali di Rights in Exile, (UK, US) e del Center for Gender & Refugee Studies (US).

  • Dottoressa Lorusso può inquadrare – sia pure in estrema sintesi – la guerra del Nagorno-Karabakh?

Il conflitto armeno-azerbaijano del 2020 è conseguenza della situazione che si era creata con la prima guerra per il Nagorno-Karabakh: iniziata con scontri interetnici azerbaijano-armeni nel 1988, si è trasformata in una guerra totale – poi interrotta – per trasformarsi quindi in un conflitto congelato e protratto sottotraccia da quando è stato firmato il Protocollo di Bishkek. La prima guerra si è fermata, ma non è, in effetti, mai cessata.

Di conseguenza, il Nagorno-Karabakh non è mai stato riconosciuto come tale, sebbene di fatto fosse divenuto completamente indipendente dall’Azerbaijan. Nel 1991 era stata dichiarata l’indipendenza. L’Armenia aveva chiuso i confini terrestri e interrotto le relazioni diplomatiche con l’Azerbaijan e con la Turchia.

L’Azerbaijan non ha più esercitato sovranità sul Karabakh, sulle 3 regioni col confine armeno (Kalbajar, Lachin, Qubadli), sulle 3 regioni lungo il confine con l’Iran a sud del Karabakh (Zangilan, Jabrail, Fizuli) e sulla regione lungo il confine amministrativo Karabakh-Azerbaijan, trasformato in una linea di contatto militare (Agdam).

Le conseguenze demografiche sono state rilevanti in Karabakh e nelle regioni circostanti, ove la comunità azera è scomparsa. Il numero totale di azeri che hanno abbandonato l’autoproclamato Karabakh e l’Armenia risulta complessivamente di circa 800.000 persone (ma la cifra più citata, sommando sfollati e rifugiati giunge a un milione). Per contro, più di 200.000 armeni hanno lasciato l’Azerbaijan.

Della risoluzione del conflitto ha cercato di occuparsi l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – OSCE – che ha attivato alcuni organismi, quali il Gruppo di Minsk, costituito da tre co-presidenti mediatori nelle varie fasi della trattativa. La composizione dello stesso organismo non è mai mutata, con la presenza di USA, Francia, Russia e di un rappresentante della presidenza dell’OSCE, incaricata di monitorare il rispetto del cessate il fuoco.

Le parti in conflitto

Le posizioni delle parti possono essere così sommariamente riassunte: per il Karabakh è stata una guerra d’indipendenza basata sul diritto all’autodeterminazione, per l’Armenia pure; secondo l’Azerbaijan è stata guerra interstatale Armenia-Azerbaijan per il controllo del Karabakh: perciò il nuovo conflitto è interpretato da quest’ultimo in chiave difensiva, in vista del ripristino dell’integrità territoriale dello stato (peraltro riconosciuta da quattro risoluzioni ONU del 1993).

Il cessate il fuoco è durato dunque, con maggiore o minore efficienza, per quasi 30 anni, durante i quali sono maturate le cause del secondo conflitto militare.

In Azerbaijan è accresciuta infatti la frustrazione dovuta alla mancanza di risultati nella negoziazione. Le posizioni risultavano inconciliabili. Si è colta la progressiva emarginazione delle figure inclini a trovare una soluzione pacifica al conflitto, poiché l’amministrazione che ha firmato il cessate il fuoco è stata sostituita, anno dopo anno, da una nuova coorte di politici dotata di un diverso background. La crescita economica del paese ha portato alla possibilità di acquistare armi, che a sua volta ha portato alla persuasione di aver raggiunto la superiorità militare sull’Armenia e, in generale, a una posizione internazionale più decisa, sostenuta dalla così detta diplomazia del petrolio e del caviale.

L’Azerbaijan ha potuto poi contare sulla cooperazione sempre più forte della potenza regionale più rilevante, la Turchia. Abbiamo assistito alla radicalizzazione dell’opinione pubblica, intrecciata alla retorica diffusa dell’odio, della ingiustizia subita, della legittimità della riconquista militare.

In Armenia, dal 1998 al 2018, i presidenti sono risultati tutti originari del Karabakh (il cosiddetto clan Karabakhi), il che ha portato la prospettiva del Karabakh direttamente al cuore dello stato armeno. Si è verificata una progressiva assimilazione alla sfera di influenza russa, anche se, ufficialmente, non si è data mai abdicazione totale al metodo politico internazionale del multilateralismo.

Dopo alcuni tentativi di approccio, una quindicina di anni fa, si è registrato un rafforzamento dell’antico complesso dell’accerchiamento e del genocidio armeno a causa delle peggiorate relazioni con la Turchia. Nel mentre è incrementata la cooperazione di quest’ultima con l’Azerbaijan, alimentando le ipotesi armene che la stessa Armenia sia l’unico ostacolo alla creazione del Grande Turan. Voglio dire che, anche in Armenia, abbiamo assistito ad una radicalizzazione della pubblica opinione che ha portato a un atteggiamento intransigente verso qualsiasi ipotesi di compromesso.

Nel Nagorno Karabakh è avvenuto, nel corso del tempo, un consolidamento della statualità di fatto, con una mutata percezione della cintura di sicurezza costituita dalle regioni menzionate: da territori cuscinetto a parte integrante della territorialità della repubblica. Ciò ha portato a nuovi insediamenti nell’area di Karabakhi, e al revanscismo rispetto ad aree ancora sotto il controllo azerbaijano.

Tutto questo – più altri elementi circostanziali – ha causato l’incapacità di negoziare una soluzione pacifica e ha portato alla riconquista militare della così detta cintura di sicurezza e di parte del Karabakh ex sovietico da parte azerbaijana, con una guerra durata 44 giorni che ha avuto quale esito un secondo cessate il fuoco e un nuovo congelamento dello status quo, senza che siano state poste basi solide per una soluzione politica e pacifica del conflitto.

Armenia: paese e Chiesa
  • Quali sono i contraccolpi sociali e politici del conflitto in Armenia?

L’Armenia ha perso la guerra, e di conseguenza il governo in carica è sotto accusa. Dalla firma del cessate il fuoco a novembre ad oggi sono state ripetutamente chieste le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan, mentre avvengono regolarmente manifestazioni antigovernative – ma anche, per la verità, pro-governative –, a significare la profonda spaccatura che sta attraversando la società armena.

Allo stato attuale la situazione rimane irrisolta. Un possibile scenario – non scontato – potrà vedere le elezioni anticipate che lo stesso Pashinyan sta auspicando. Recentemente anche l’esercito ha preso le distanze dal governo, significando una pericolosa politicizzazione dei vertici militari e un progressivo isolamento delle forze governative.

  • Può ricordare le caratteristiche della Chiesa armena e le sue influenze?

La Chiesa apostolica armena è la Chiesa nazionale del popolo armeno e ne consolida le tendenze nazionaliste, vieppiù dopo la sconfitta militare. Luoghi di culto armeno si trovano in Karabakh e nella cintura di sicurezza passata sotto il controllo azero.

Per capire, dobbiamo conoscere la storia. La Chiesa armena è parte distinta dell’ortodossia orientale, ed è una delle più antiche istituzioni cristiane, poiché il regno di Armenia fu il primo ad adottare il cristianesimo col re Tiridate III, all’inizio del IV secolo. Secondo la tradizione, questa Chiesa ebbe origine dalle missioni degli apostoli Bartolomeo e Taddeo di Edessa nel I secolo. La Chiesa armena ha raggiunto la piena autonomia da Roma e Costantinopoli nel IV secolo dopo aver respinto la formula cristologica calcedoniana. Intorno alla Chiesa si stringe, oltre alla religiosità – ancora molto praticata dal popolo – anche l’identità nazionale. La Chiesa resta molto influente politicamente nel paese.

L’attuale Catholicos Karekin II ha dunque chiesto decisamente le dimissioni di Pashinyan. Negli ultimi anni la Chiesa apostolica armena è stata spesso criticata per il suo, ben percepito, sostegno ai governi precedenti a quello di Pahinyan, nonostante sussista la separazione formale tra stato e Chiesa. Con il corrente governo non si è instaurato lo stesso tipo di rapporto.

Politiche dell’Unione Europea
  • E i diritti umani – di cui lei si occupa – come vanno in Armenia?

L’Armenia ha ottenuto l’indipendenza nel 1991, dopo il disfacimento dell’Unione Sovietica. Come tutti gli stati che ne facevano parte, ne porta tuttavia ancora molti segni nella forma di governo. L’Unione Sovietica non prevedeva evidentemente un sistema di protezione dei diritti umani.

La cultura del pluralismo politico – presente e vivace in molte regioni successivamente incorporate nell’Unione – è stata sradicata. In alcuni stati post-sovietici non ha affatto recuperato la sua forza e la necessaria assertività per una sana democrazia. Di conseguenza, la maggior parte degli stati post-sovietici sta ancora lottando contro esecutivi dotati di poteri dilaganti e assai poco tolleranti.

In tale contesto si può considerare l’Armenia che, nonostante certi risultati conseguiti in termini di modernizzazione e di democratizzazione del paese negli ultimi trent’anni, soffre ancora di una vita politica turbolenta, in cui lunghi periodi di stagnazione (ad esempio la leadership politica del partito repubblicano dal 1998 al 2013) si susseguono ad episodi di rivolta e di violenza.

La demonizzazione degli oppositori e la scarsa comprensione delle regole di base del pluralismo politico minano ancora la qualità del dibattito e talvolta minacciano la sicurezza personale degli stessi politici, degli attivisti e dei manifestanti. Particolarmente critica è la posizione delle minoranze sessuali, in un paese estremamente conservatore, in cui l’omosessualità è stata decriminalizzata solo nel 2003. La posizione delle donne è di grande vulnerabilità, la tutela per le vittime di violenza domestica molto lacunosa.

  •  L’Europa (con l’Italia), quanto si occupa o non si occupa dell’Armenia e del Caucaso in genere?

L’Europa gioca un ruolo in Caucaso solo dove vi sono interessi, come ad esempio in Georgia, ove l’UE ha mediato la fine del conflitto del 2008 e sta attualmente contribuendo a risolvere una profonda crisi politica interna. La Georgia ha espresso anche per via referendaria una spiccata propensione euro-atlantica.

Non si può dire lo stesso dell’Armenia, che con un clamoroso e inatteso voltafaccia – per iniziativa probabilmente personale dell’ex presidente Sargsyan – ha rifiutato di firmare l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea nel 2013. L’Armenia è poi entrata nell’Unione Euroasiatica, l’organizzazione regionale lanciata da Mosca; fa inoltre militarmente parte dell’Organizzazione russa del Trattato di Sicurezza Collettiva. I margini di cooperazione con l’Europa sono perciò ristretti da questo netto allineamento.

Permangono peraltro fra l’Armenia e l’Italia – nel contesto europeo anche con la Francia – profondi legami storici e culturali, a cui si può aggiungere una forte e positiva reciproca propensione.

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«Tortura nelle carceri di Baku». La finta tregua in Azerbaigian (Avvenire 09.04.21)

La tregua dello scorso 9 novembre tra Armenia e Azerbaigian, con Mosca chiamata a fare da arbitro, non ha certo sopito aspre contese e velenose accuse fra Baku, la vincitrice, ed Erevan, la capitale armena da allora in una crisi politica di difficile soluzione. E la partita geopolitica in Nagorno-Karabakh segnerà una nuova, forse determinante mossa, con l’annunciata visita nella regione contesa di Recep Erdogan a metà maggio, appena concluso il Ramadan.
Il reís turco andrà nella città di Shusha – da sempre contesa e divisa a metà tra quartieri cristiani armeni e quartieri musulmani azeri – riconquistata dalle forze dell’Azerbaigian lo scorso novembre e che, posta su una collina strategica, consente il controllo di tutta l’enclave armena. Un passo importante, nella strategia neo-ottomana di Ankara, per realizzare un “corridoio turco” che, attraverso l’Azerbaigian, potrebbe sospingere l’influenza politica della Turchia fino alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
Una battaglia geopolitica che pare più ampia e che, ritornando al Nagorno-Karabakh a circa sei mesi dalla fine degli scontri si è concentrata sul rilascio dei prigionieri di guerra. Una preoccupazione cui papa Francesco, durante il messaggio “Urbi et Orbi” di Pasqua, ha dedicato un significativo passaggio chiedendo per «quanti sono prigionieri nei conflitti, specialmente nell’Ucraina orientale e nel Nagorno-Karabakh, di ritornare sani e salvi alle proprie famiglie».
A fine marzo un rapporto di Human rights watch (Hrw) – dopo aver esaminato video diffusi sui social e intervistato ex detenuti – accusava l’Azerbaigian di aver sottoposto ad «abusi» e «tortura» soldati e civili armeni, prigionieri di guerra tuttora detenuti in carcere. Di pochi giorni dopo è l’appello di alcuni intellettuali italiani – tra cui Antonia Arslan, Dacia Maraini e Carlo Verdone – che citando il dossier dell’organizzazione umanitaria con sede a New York, chiedevano al governo di Baku un rilascio immediato dei detenuti in base alla Convenzione di Ginevra e al cessate il fuoco del 10 novembre. I prigionieri, è stata la replica dell’ambasciatore azero in Italia Ahmadzada, sono stati tutti liberati, mentre gli almeno 67 detenuti di cui parla Hrw, fanno parte di un «gruppo di sabotaggio» entrato in Azerbaigian per «commettere atti di terrorismo» e che, colpevoli «dell’uccisione di civili e militari azerbaigiani», per questo sono detenuti e, precisa il diplomatico, trattati nel rispetto del diritto internazionale. L’ambasciatore Ahmadzada, sottolinea come l’Armenia «continua a violare il diritto di ritorno dei profughi azerbaigiani alle proprie terre» e in un recente intervento Hikmat Hajiyev, assistente del presidente dell’Azerbaigian, ha chiesto all’Armenia di consegnare le mappe dei «territori liberati» dove sono presenti mine anti-uomo che causano morti fra i civili.
«È solo uno degli argomenti narrativi del regime dell’Azerbaigian che, usando come scudo internazionale la Turchia, ha sempre attuato un chiaro negazionismo dei suoi crimini», la replica della scrittrice Antonia Arslan. In Nagorno Karabakh, «con enorme determinazione», è rientrata solo la metà dei 150mila armeni fuggiti durante gli scontri. «Una popolazione a rischio di un nuovo genocidio culturale e per cui non c’è nessuna forma di tutela internazionale.
L’unica tutela è quella di Mosca che non può permettere un predominio incontrastato di Erdogan nel Caucaso», conclude l’autrice del famoso romanzo La masserie delle allodole, dedicato al genocidio armeno del 1915.

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Guerra in Nagorno Karabakh, «decapitati prigionieri civili e militari» (Osservatoriodiritti 08.04.21)

Dopo aver conosciuto la guerra degli anni Novanta, Artak Beglaryan ha dedicato la sua vita a promuovere la pace in Nagorno Karabakh. E nel corso dell’ultimo conflitto tra Armenia e Azerbaijan ha denunciato i crimini perpetrati contro la popolazione. Ecco cosa ha raccontato a Osservatorio Diritti

Artak Beglaryandifensore dei diritti umani e capo dello staff presidenziale della Repubblica dell’Artsakh/Karabakh, per tutta la durata del conflitto dei 44 giorni, ha fatto conoscere al mondo i crimini che venivano commessi nella regione caucasica attraverso i suoi post su Facebook e Twitter. L’uomo, che da bambino ha perso la vista a causa dell’esplosione di una mina ed è rimasto orfano di padre durante la guerra degli anni Novanta, ha dedicato la sua vita alla lotta per il rispetto dei diritti umani e per la creazione di una politica di pace e convivenza nel Nagorno Karabakh.

Incontrato nel suo ufficio di Stepanakert al termine dell’ultima escalation bellica, ha raccontato così a Osservatorio Diritti quali sono state le più evidenti ed efferate violazioni dei diritti umani commesse durante gli scontri.

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• Nagorno Karabakh: cosa ha lasciato la guerra tra Armenia e Azerbaijan
• Nagorno Karabakh: guerra feroce e senza uscita alle porte dell’Europa

nagorno karabakh guerra
Forze armene in Nagorno-Karabak nel 1994 – dI Armdesant (via Wikimedia Commons)

Quarantaquattro giorni di combattimenti e bombardamenti nel 2020: quali violazioni dei diritti umani si sono registrate nell’ultima guerra del Nagorno Karabakh?

La cosa più evidente è che sono stati colpiti e presi di mira obiettivi civili e persone civili. Al momento sono stati confermati 61 civili uccisi dal lato armeno: 40 cittadini hanno perso la loro vita proprio a causa dei bombardamenti, 20 risultano morti dopo essere stati fatti prigionieri o in seguito a colpi di arma da fuoco. Inoltre ci sono più di 40 persone che risultano disperse e temiamo che anche loro siano state uccise. Poi, nel computo totale delle vittime vanno annoverati anche 163 civili feriti in seguito a bombardamenti e occorre segnalare anche che oltre 5.000 case sono state distrutte e 4.000 infrastrutture ed edifici pubblici sono stati danneggiati.

Sono stati colpiti edifici protetti dal diritto umanitario internazionale?

Assolutamente sì. Tra gli edifici e le infrastrutture bombardate risultano esserci ospedali, scuole, asili e chiese, come la cattedrale di Shushi, che quando è stata colpita ospitava al suo interno degli sfollati. Più del 70% delle comunità del Karabakh è stata investita dagli scontri. Il solo motivo per cui ci sono stati pochi morti civili rispetto agli edifici colpiti è che appena sono iniziati i bombardamenti donne e bambini hanno lasciato il Nagorno Karabakh e chi è rimasto si è rifugiato a vivere negli scantinati e nei bunker.

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• Nagorno Karabakh: la fine della guerra non è l’inizio della pace
• Diritto umanitario di guerra e diritti umani: ecco come possono convivere

nagorno karabakh oggi
Baku, capitale dell’Azerbaijan

C’è stata violenza verso la stampa e i giornalisti? Si può parlare di violazione del diritto di informazione?

Da quando sono iniziate le ostilità 7 giornalisti sono rimasti feriti e un ragazzo armeno che li accompagnava è morto. In alcuni casi ci sono prove che i missili hanno colpito deliberatamente la stampa locale e internazionale. Le armi impiegate durante la guerra da parte azera erano estremamente sofisticate ed è difficile pensare che si sia trattato di incidenti.

Per quel che riguarda i prigionieri di guerra cosa ci può dire?

Abbiamo prove di decapitazioni nei confronti dei prigionieri civili e militari. C’è un’inchiesta aperta del The Guardian sulla decapitazione di due anziani civili armeni e c’è un’inchiesta in corso da parte di Bellingcat sull’uccisione di due civili armeni ad Hadrut. E ci sono anche prove, già mandate alle organizzazioni dei diritti umani, che rivelano come siano stati picchiati, umiliati e mutilati i prigionieri di guerra.

Ha fatto molto discutere anche l’utilizzo di armi proibite

È stato dimostrato da tutti i media che hanno coperto la guerra dei 44 giorni che sono state impiegate indiscriminatamente armi proibite. C’è stato un largo utilizzo di bombe a grappolo e poi abbiamo raccolto anche prove sull’impiego di fosforo bianco. I campioni prelevati sono stati inviati in diversi laboratori e stiamo aspettando l’esito delle analisi, ma molti medici, soprattutto quelli che lavorano al centro ustionati di Yerevan, dopo aver visto le ustioni riportate dai soldati hanno all’unanimità dichiarato che quel tipo di bruciatore sono compatibili in tutto e per tutto con quelle che provoca un agente chimico come il fosforo bianco quando viene utilizzato sulla popolazione. E poi siamo certi che siano stati impiegati anche droni kamikaze.

Qual è la sua speranza a questo punto?

Spero che la comunità internazionale e l’Europa s’impegnino al massimo per investigare questi crimini per perseguirli e condannarli. Altrimenti l’impunità incoraggerà ulteriori crimini di guerra.

Mi auguro che la comunità internazionale usi tutti gli strumenti legali, economici, politici, finanziari e militari per prevenire ulteriori crimini di guerra, ovunque nel mondo.

Quali differenze ha riscontrato tra l’ultimo conflitto e quello degli anni Novanta?

L’utilizzo di armi più sofisticate ha reso molto più brutale la guerra e inoltre negli anni Novanta non c’era un livello così alto di discorsi di odio. Vivendo nell’epoca di internet e dei social network i messaggi di odio hanno avuto più visibilità e diffusione. Allo stesso tempo internet però ha anche permesso di controllare e scovare più video, foto e prove di violazioni dei diritti umani rispetto a quanto sia stato possibile fare in passato.

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Il premier armeno sotto accusa: i caccia Su-30SM privi di armi? (Analisi Difesa 08.04.21)

Non si placano le polemiche in Armenia circa le cause della sconfitta subita dalle forze armate nel conflitto contro l’Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh dello scorso autunno, con buona parte della opinione pubblica vede come responsabile il primo ministro Nikol Pashinyan.

Un acceso dibattito è sorto sui quattro nuovi caccia multiruolo Sukhoi Su-30SM acquistati recentemente dalla Russia e praticamente ininfluenti nello scontro contro le truppe azere, in grado di far volare persino dei vecchi Antonov An-2 convertiti in drone al fine di saggiare le difese aeree armene e rivelarne le posizioni agli UAV turchi Bayraktar TB2.

La risposta di Pashinyan in colloqui avvenuti coi residenti della provincia di Aragatsotn e poi pubblicata sul suo profilo Facebook è stata netta e spiazzante: – «Abbiamo acquistato i Su-30SM che sono stati consegnati a maggio dello scorso anno pochi mesi prima del conflitto, ma non siamo riusciti ad acquistare in tempo [prima del conflitto] le relative armi.»

Una risposta che conferma quello che anche Analisi Difesa aveva considerato un acquisto eccessivo, in primis per il ridotto spazio aereo dell’Armenia ma soprattutto per il costo dell’acquisizione dei nuovi caccia, ben superiore ad un’ipotetica dotazione di moderni MiG-29M/M2 tra l’altro acquistati recentemente da Egitto e Algeria, o ancora di un mix di addestratori armati/caccia leggeri Yak-130 ed elicotteri d’attacco Mil Mi-35M che avrebbe consentito l’acquisto anche di una corposa serie di armamenti aria-terra.

Pashinyan ha tuttavia accusato per quest’incredibile episodio il governo precedente che per 26 lunghi anni non ha acquistato alcun nuovo velivolo lasciando a lui l’onere di chiudere in poco tempo la realizzazione di uno squadrone di nuovi caccia Su-30SM con relativi armamenti.

Konstantin Makienko vicedirettore del Center for Analysis of Strategies and Technologies (CAST) sostiene che le parole di Pashinyan testimoniano la sua incompetenza: «In primo luogo gli aerei da combattimento, in particolare i caccia, non vengono quasi mai consegnati senza munizioni. È prassi normale fornire contemporaneamente al velivolo, in questo caso i caccia Su-30SM, un set standard di armi aeree.»

Makienko ha espresso fiducia nel fatto che Yerevan abbia ricevuto i caccia insieme ad una fornitura di missili e ha ricordato a tal proposito un vecchio post di Pashinyan su Facebook dove dichiarava testualmente: – «Il Su-30SM ha condotto i primi voli di addestramento testando missili aria-terra per operazioni offensive. Cosa aggiungere di più?» – ha proseguito Makienko.

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Sollevamento pesi, Europei 2021: l’armeno Avagyan si impone nei -89 kg per un’incollatura sul georgiano Davitadze (oasport 08.04.21)

La sesta giornata dei Campionati Europei Senior 2021 di sollevamento pesi si è aperta in quel di Mosca con lo svolgimento della finale della categoria maschile fino a 89 kg, evento non presente nel programma dei Giochi Olimpici di Tokyo 2021. Karen Avagyan ha vinto contro pronostico la classifica generale, conquistando il titolo continentale alla prima partecipazione della carriera in una rassegna continentale senior.

L’armeno classe 1999, campione europeo junior in carica, ha messo in mostra dei progressi davvero notevoli rispetto alle ultime gare disputate in era pre-Covid ed è stato in grado di avere la meglio sul quotato georgiano Revaz Davitadze al termine di un bellissimo duello. Avagyan si è imposto nella graduatoria di totale con 375 kg, precedendo di una sola lunghezza Davitadze, mentre il secondo armeno Andranik Karapetyan ha portato a casa il bronzo con 365 kg complessivi

Avagyan si è messo al collo anche la medaglia d’oro di strappo, grazie al suo ultimo tentativo valido da 175 kg, che gli ha permesso di guadagnare terreno sugli avversari più temibili in vista della seconda parte di gara. Il georgiano Davitadze, grande favorito della vigilia e terzo classificato agli ultimi Mondiali, ha ottenuto invece 171 kg dovendosi accontentare dell’argento di strappo davanti a Karapetyan (bronzo di specialità con 170 kg).

Davitadze ha poi cambiato passo nell’esercizio di slancio, assicurandosi la medaglia d’oro di specialità con 203 kg ma fallendo l’ultimo tentativo a quota 205 kg che gli avrebbe consentito di scavalcare Avagyan (argento di slancio con 200 kg) nella classifica di totale. Terza posizione e medaglia di bronzo nello slancio con 198 kg per il russo Roman Chepik, che ha chiuso al quarto posto nella graduatoria di totale con 362 kg.

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Nagorno-Karabakh: premier armeno Pashinyan, questione prigionieri di guerra non è ancora risolta (Agenzianova 07.04.21)

Mosca, 07 apr 15:31 – (Agenzia Nova) – La questione dei prigionieri e dei detenuti dopo la guerra fra Armenia e Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh non è ancora stata risolta. Lo ha detto il primo ministro armeno Nikol Pashinyan al presidente russo Vladimir Putin durante un incontro oggi a Mosca. “Voglio sottolineare che in questo contesto c’è una questione molto importante che non è stata ancora risolta: la questione dei prigionieri di guerra, ostaggi e altri detenuti. Come abbiamo più volte discusso, secondo la dichiarazione del 9 novembre 2020, tutti gli ostaggi, i prigionieri di guerra, gli altri detenuti devono ritornare in patria. Ma, sfortunatamente, abbiamo ancora detenuti in Azerbaigian”, ha detto Pashinyan. Il primo ministro armeno ha anche detto che Mosca e Erevan non hanno disaccordi su questo tema. (Rum)

Armenia-Turchia: premier Pashinyan, Ankara deve cambiare la sua politica aggressiva (AgenziaNova 06.04.21)

Erevan, 06 apr 12:50 – (Agenzia Nova) – Per mantenere una pace duratura “la Turchia deve moderare la sua politica aggressiva nei confronti dell’Armenia. Lo ha detto il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, in un’intervista all’agenzia di stampa “Interfax”. “La politica ostile di Ankara si è intensificata durante i 44 giorni dell’attacco dell’Azerbaigian contro l’Artsakh (così si definisce l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh)”, ha aggiunto Pashinyan. In particolare, la Turchia ha fornito supporto politico e tecnico-militare diretto all’Azerbaigian, trasferendo anche terroristi armati stranieri nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh. A questo proposito, per stabilire una pace ferma e garantire la crescita economica nella regione, la Turchia deve cambiare questa politica aggressiva nei confronti dell’Armenia”, ha affermato il premier armeno.
(Rum)

Diplomazia pontificia, verso l’Urbi et Orbi di Pasqua (AciStampa 03.04.21)

Di Andrea Gagliarducci – Città del Vaticano, 3 aprile, 2021

Dalla via di uscita alla pandemia ai conflitti nel mondo, dalla persecuzione dei cristiani all’attenzione per gli ultimi e gli emarginati: cosa aspettarsi dall’Urbi et Orbi di Papa Francesco nel giorno di Pasqua? Anche se il messaggio a Roma e al mondo non verrà, per il secondo anno consecutivo, pronunciato dal balcone della Loggia delle Benedizioni, ma all’interno della Basilica Vaticana, in una atmosfera meno festosa e meno partecipata, le parole del Papa alla città di Roma e al mondo intero hanno sempre un certo impatto.

Di cosa parlerà dunque il Papa? Una idea si può avere dagli appelli che ha fatto recentemente al termine delle udienze generali e nelle preghiere dell’Angelus: c’è la difficile situazione in Nigeria, quella in Myanmar, anche il conflitto nel Caucaso. Ma c’è anche il Sud Sudan, sempre guardato da Papa Francesco con un occhio di riguardo; la costruzione del mondo post pandemia, con una particolare alla destinazione universale dei vaccini, in particolare dei più poveri; il conflitto israelo-palestinese, sempre menzionato dal Papa nei messaggi che hanno anche una ricaduta diplomatica. E ancora: il conflitto in Mozambico, il recente attentato della Domenica delle Palme in Indonesia. Alcuni dei temi si possono trovare nelle recenti attività della Santa Sede, delle nunziature, delle ambasciate presso la Santa Sede, di alcuni episcopati. Ecco i principali della scorsa settimana.

FOCUS CAUCASO

Armenia, il ministro degli Affari Esteri a colloquio con l’arcivescovo Gallagher

Il Ministero degli Affari Esteri armeno ha comunicato che lo scorso 31 marzo Ara Aivazian, ministro degli Affari Esteri, ha avuto una conversazione telefonica con l’Arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario delle relazioni con gli Stati vaticano.

Secondo il ministero, Aivazian ha “riaffermato che l’Armenia ha pronta ad approfondire ulteriormente e rafforzare le relazioni con la Santa Sede sulla base dei valori storici e universali che condividono pienamente. Hanno anche scambiato vedute sui passi da prendere per rafforzare il dialogo e i contatti di alto livello”.

Il ministero ha anche reso noto che durante la conversazione si è parlato anche “della sicurezza e della stabilità della regione”, e che il ministro degli Esteri ha ricordato come Papa Francesco abbia chiesto “la fine delle ostilità e la pace nel periodo post guerra”.

Aivazian – si legge ancora nella nota – ha spiegato all’arcivescovo Gallagher “i passi fatti per affrontare le questioni umanitarie” in quello che viene definita come “una aggressione turco-azera”; ha notato l’urgenza di “un sicuro rimpatrio dei prigionieri armeni”; ha “condannato con forza l’urgenza di preservare l’eredità religiosa e culturale armena nei territori sotto il controllo dell’Azerbaijan”; ha enfatizzato l’intervento della comunità internazionale”.

Sempre sul fronte del conflitto azero-armeno per i territori del Nagorno Karabakh (Artssakh in Armeno) è da segnalare che il Dipartimento di Stato USA ha pubblicato lo scorso 30 marzo il Rapporto 2020 sulle Pratiche Umanitarie, e ha dedicato anche una disamina alla situazione in Nagorno Karabakh.

Il rapporto parla di “significativi problemi umanitari” degli azeri, tra cui “uccisioni illegali o arbitrarie; torture; detenzione arbitraria; condizioni di detenzione difficili e a volte a rischio della vita”. Inoltre, il rapporto fa specifica menzione della situazione in Nagorno Karabakh, sottolinea che “il governo non ha sanzionato o punito la maggioranza degli officiali che hanno commesso abusi umanitari”,

Il rapporto del Dipartimento di Stato USA segnala anche due video diffusi riguardo degli abusi di alcuni soldati azeri “umiliati e uccisi” nella città di Hadrut, video considerato “genuino e autentico” da esperti e indipendenti, e lamenta “l’uso di missili di artiglieria, droni e bombe, nonché munizioni a grappolo che hanno colpito civili e zone civili nel Nagorno Karabakh”, accuse di aver colpito strutture civili “negate” comunque dal governo azero.

Il rapporto ha anche una sezione su “soldati e civili abusati dalle forze azere”, che si basa su rapporti definiti “credibili”, documentando un gran numero di persone e prigionieri di guerra.

La posizione dell’Azerbaijan

Ma come nasce il conflitto armeno-azero in Nagorno Karabakh? La regione, a maggioranza armena, era stata data all’Azerbaijan su decisione di Stalin. Nel momento in cui l’Azerbaijan aveva deciso di lasciare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un referendum aveva costituito il nuovo stato della federazione. Gli azeri reagirono militarmente, e ci fu un accordo di cessate il fuoco nel 1993. Da allora, le tensioni sono rimaste latenti, e sono arrivate quasi ad un aperto conflitto lo scorso agosto, e poi ad un vero e proprio conflitto che si è concluso con un accordo doloroso per gli armeni, i quali hanno visto molti monasteri storici passare sotto la giurisdizione azera.

Da allora, è stata lamentata una perdita del patrimonio cristiano nella regione, secondo una distruzione considerata sistematica da diverso tempo. Recentemente è stata segnalata da un reportage della BBC la scomparsa di una chiesa armena nei territori ora sotto il controllo azero.

Mammad Ahmadzada, ambasciatore di Azerbaijan presso l’Italia, ha voluto sottolineare che la regione del Nagorno Karabakh ha anche una storia che lo lega all’Azerbaijan. “Dai tempi antichi fino all’occupazione dell’Impero zarista nel 1805 con il trattato di Kurakchai – scrive Ahadzada – questa regione era parte di diversi stati azerbaigiani, da ultimo il khanato di Karabakh. Nel 1828, alla firma del trattato di Turkmanchay, al termine della guerra Russia- Iran, seguì un massiccio trasferimento di armeni nel Caucaso del Sud, in particolare nei territori dei khanati azerbaigiani di Irevan (attuale Yerevan, capitale dell’Armenia) e di Karabakh. Il flusso migratorio è proseguito fino all’inizio del XX secolo”.

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L’ambasciatore lamenta che lo Stato di Armenia è stato “creato nel territorio dell’Azerbaijan”, e “ampliato durante il periodo sovietico a spese della superficie azerbaijana”, mentre la provincia del Nagorno Karabakh fu creata nel 1923 con “confini amministrativi definiti in modo che gli armeni fossero etnia maggioritaria”.

L’amabasciatore accusa l’Armenia di “non aver riconosciuto autonomia per la minoranza azerbaijana”, e anzi ha promosso “un clima di intolleranza”, fino nel 1988 ad avviare “rivendicazioni territoriali contro l’Azerbaijan”, deportando allo stesso tempo tutti gli ultimi azerbaigiani (più di 250 mila) in Armenia dalle loro terre natali”.

Per Ahmadzada “le radici del conflitto sono dunque nel trasferimento degli armeni nei territori azerbaigiani, oltre che nella decisione di creare una provincia autonoma nella parte montuosa della regione del Karabakh dell’Azerbaigian”.

L’ambasciatore parla di una “occupazione armena” dei territori azeri dopo la dissoluzione dell’URSS, denuncia “un genocidio contro civili azerbaigiani nella città di Khojali”, sottolinea che il conflitto ha “causato più di un milione di rifugiati e profughi azerbaigiani, senza lasciare un singolo azerbaigiano nei territori occupati”.

Ahmadzada afferma che l’ultimo conflitto nasce da provocazioni armene, che ora l’Azerbaijan ha già avviato nei territori acquisiti al termine del conflitto “un’imponente opera di ricostruzione, nel pieno rispetto e protezione della cultura e della diversità religiosa”.

Riguardo la chiesa scomparsa, l’ambasciatore sottolinea che “la cappella è stata costruita nel 2017 durante il periodo in cui l’Armenia stava distruggendo le case e il patrimonio culturale degli azerbaigiani a Jabrayil e in altri territori occupati dell’Azerbaigian, da dove tutti gli azerbaigiani erano stati espulsi dall’esercito dell’Armenia”.

La cappella – dice l’ambasciatore, citando l’OSCE – era stata costruita “come parte di un complesso militare a Jabrayil”, e per questo “non può essere considerata parte della storia culturale”. Piuttosto, l’ambasciatore lamenta le distruzioni armene nella regione, denunciando che l’Armenia “ha condotto una pulizia culturale e numerosi crimini di guerra nei territori un tempo occupati, inclusa la distruzione di 927 biblioteche, più di 60 moschee, 44 templi, 473 siti storici, palazzi e musei”, e allo stesso tempo “non ha permesso alle missioni internazionali di visitare i territori occupati”, nonostante l’Azerbaijan abbia chiesto all’UNESCO una missione di accertamento.

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