Libertà di stampa: Gariwo, oggi iniziativa a Milano per ricordare i Giusti dell’informazione (SIR 03.05.21)

“I giornalisti sono il tramite fondamentale per spingere la società e la politica sorda e distratta a mobilitarsi contro le ingiustizie nel mondo, a condizione che non si resti indifferenti, accantonando le verità scomode da loro rivelate e vanificando così il loro lavoro di inchiesta”. È il senso dell’incontro tenuto stamattina per celebrare i “Giusti dell’informazione” in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, dedicata quest’anno dall’Unesco all’informazione come bene pubblico.
L’iniziativa, organizzata dalla Fondazione Gariwo, ha reso omaggio a figure simbolo della battaglia per la libertà di espressione, onorate nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo nel Parco del Monte Stella: Liu Xiaobo, autore della Carta 08, premio Nobel per la pace; Raif Badawi, blogger saudita condannato a mille frustate per aver difeso il dialogo tra fedi e culture diverse; Samir Kassir, giornalista libanese, ucciso per aver difeso la libertà di espressione; Hrant Dink, assassinato per aver difeso la memoria del genocidio armeno in Turchia; Anna Politkovskaja, che ha perso la vita per aver denunciato i massacri di civili in Cecenia.
Per loro hanno parlato Paolo Pobbiati, già presidente di Amnesty International Italia, l’editorialista del Corriere della Sera Antonio Ferrari, il console onorario della Repubblica d’Armenia Pietro Kuciukian e la giornalista Anna Zafesova. In rappresentanza della stampa italiana è intervenuto Alessandro Galimberti, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, ricordando che “esiste un diritto all’informazione per i cittadini e un dovere che fa capo ai giornalisti. Un dovere che ha un obiettivo chiaro: la verità, che è un percorso faticoso, di sofferenza. E la verità rende soli i giornalisti. Penso a Fava, Francese, Siani, Alfano e quei colleghi morti nel disinteresse e nella solitudine nel loro percorso di verità”. A nome dei corrispondenti stranieri presenti in Italia, è intervenuta Tatjana Dordjevic Simic, consigliere delegato dell’Associazione Stampa estera di Milano.
Per rendere realmente onore ai giornalisti che hanno pagato con la loro vita l’impegno per la verità è necessario tradurre in iniziativa politica il loro esempio, ha dichiarato il presidente di Gariwo, Gabriele Nissim, lanciando un appello ai giornalisti italiani: “Appoggiate la nostra proposta di dedicare un giorno dell’attività del Parlamento, in una commissione apposita, a rendere pubbliche le informazioni sui possibili segni di nuovi genocidi e sulle atrocità di massa in corso”. A questo fine Gariwo ha chiesto la nomina di un advisor dei genocidi che, sulla base del lavoro di inchiesta dei giornalisti e degli osservatori internazionali, possa fare ogni anno un rapporto dettagliato all’opinione pubblica affinché queste informazioni dai giornali possano entrare nelle nostre istituzioni.

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Artsakh (Carmillaonline 03.05.21)

di Sandro Moiso

Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del capitale nazionale e internazionale.

Si tratta della guerra esplosa nel Nagorno Karabakh, apparentemente tra le forze azere e armene ma, sostanzialmente, in nome dell’espansione del novello impero turco verso Oriente e del controllo militare, politico ed economico di una delle zone cerniera comprese tra il Medio Oriente e l’Asia centrale: il Caucaso. Ma non solo, poiché, l’opuscolo edito da Tabor mette bene in luce che:

nonostante lo scenario sia contraddittorio e intricato, nonostante non ci siano i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ciò nonostante la posta in gioco è chiara e inequivocabile. Due ragioni si affrontano sul campo: da una parte (quella azera e turca) c’è il diritto di uno Stato nazione
all’integrità del proprio territorio e all’imposizione dei propri confini; dall’altra (quella armena) c’è il diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa di un popolo che resiste a secoli di oppressione e di tentativi di genocidio1.

Poco dopo aver conseguito la propria indipendenza nazionale, all’inizio degli anni Novanta, il popolo armeno riuscì a conquistare anche l’indipendenza de facto dell’Artsakh, o Nagorno Karabakh, enclave armena montanara incastrata dentro i confini dell’Azerbaijan.
Oggi, dopo trent’anni, fomentato e sostenuto dall’espansionismo turco, l’Azerbaijan ha scatenato una nuova guerra di aggressione che, oltre a migliaia di morti e di sfollati, ha gettato le basi di una nuova pulizia etnica ai danni del popolo armeno, costantemente minacciato di genocidio. Così, mentre l’“Occidente” mostra la sua totale irrilevanza, la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin – come già in Siria e in Libia – si spartiscono le rispettive aree di influenza in quella vera e propria “linea di faglia” tra imperi che tornano a essere i monti del Caucaso.

Naturalmente, per comprendere a fondo le ragioni di questo conflitto e di questa resistenza all’oppressione che motiva il popolo armeno, occorre fare un excursus, per quanto breve, nella storia plurimillenaria di un territorio e di un popolo che passa attraverso la formazione ed espansione dell’impero ottomano, la sua dissoluzione con la prima guerra mondiale, lo scontro tra quell’impero e quello zarista sulla frontiera del Caucaso, le trasformazioni avvenute con le conseguenze della rivoluzione bolscevica e di quella nazionalista dei Giovani Turchi di Kemal Atatürk, i maneggi di Stalin per conservare il controllo della regione creando conflitti territoriali tra gli abitanti dello stesso e, infine, gli interessi legati oggi allo sviluppo delle vie del gas e del petrolio che vedono, per ora, Erdogan e Putin sostanzialmente alleati in gran parte dello scacchiere mediorientale e nordafricano, mentre l’Occidente è costretto ad assistere, anch’esso soltanto per ora, a ciò che avviene a causa delle proprie divisioni e della propria fame di gas e combustibili fossili.

Senza dimenticare che anche l’italietta entra indirettamente nel gioco, grazie agli accordi per il TAP, mentre la società turca Yildirim si è di recente assicurata il controllo del porto di Taranto in nome del controllo di quella Patria Blu con il cui nome la Turchia di Erdogan definisce tutto il quadrante del Mediterraneo orientale (e forse non solo).

Al centro, naturalmente, rimane il tema del genocidio del popolo armeno portato avanti a più riprese dall’impero ottomano prima e dallo stato turco poi, tra il 1870 e la fine della prima guerra mondiale, che ha visto non solo milioni di armeni cadere a causa delle iniziative militari e repressive, oltre che oppressive turche, ma anche costretti ad emigrare a causa delle stesse. Un “olocausto minore” avvenuto nell’Asia Minore che coinvolse in quanto vittime anche gli assiri e i greci dell’ Anatolia e del Ponto, soprattutto tra il 1914 e il 1923. Genocidio che per alcuni autori è possibile additare tra quelli ispiratori della Shoa proprio a causa del coinvolgimento o almeno dell’assenso dato allo stesso dagli alleati tedeschi2.

Una lotta infine che per svolgimento e ruoli non può che rinviare a quella del popolo curdo e, soprattutto, al Rojava. In un crocevia dove gli inteeressi di Russia e Turchia incrociano quelli dell’Iran e anche di Israele, visto soprattutto l’appoggio militare dato dalle armi israeliane all’azione turca sotto forma di droni killer. Una questione lunga e complessa, ma non per questo meno chiara, che questo saggio, apparso, in due puntate e in versione leggermente ridotta, su «Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna» (nei numeri 58 e 59, autunno e inverno 2020-2021), aiuterà il lettore a comprendere ancor meglio.

N. B.

Per eventuali contatti e per ordinare delle copie:

tabor@autistici.org – www.edizionitabor.it

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Dopo il “sofagate” nessuna buona notizia (Carmillaonline 02.05.21)

Sono passate ormai poche settimane dal “sofagate” del Bosforo connotate da un incredibile carico di polemiche: dalla dissertazione infinita sui protocolli diplomatici, alle raffinate interpretazioni dei giornalisti nostrani sulle variabili del pensiero islamico che riguardano la condizione della donna e la situazione dei diritti umani nelle moderne società mediorientali.

Tuttavia una sottile e invincibile speranza ci aveva indotti a pensare che si sarebbe parlato con più severità del presidente Recep Tayyip Erdoğan, anche in virtù della coraggiosa quanto “mirabile” definizione del nostro primo ministro Mario Draghi riguardo al satrapo turco: “un dittatore con il quale si è costretti a dialogare”. Sono bastate poche ore perché tutto tacesse, incredibilmente e inesorabilmente. Nessuno più sottolinea che poche settimane fa la Turchia ha deciso di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul, che aveva come piattaforma di confronto “la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. Pochi ricordano che, dopo il deprecabile tentativo di colpo di stato del luglio del 2016, Recep Tayyip Erdoğan ha instaurato, con leggi emergenziali e rastrellamenti degni di una dittatura sudamericana, un sistema di incarcerazioni, torture e condanne a morte di migliaia di persone. Come la Storia più volte ci ha mostrato, in periodi di disordine o transizione politica, si assiste a una recrudescenza delle restrizioni e delle persecuzioni nei confronti dei dissidenti e degli oppositori politici. Il pretesto viene spesso ricercato in un’azione violenta o in una condizione sopravvenuta di forte contrapposizione sociale e politica per sentirsi legittimati ad attuare qualsiasi crimine nei confronti dei dissidenti, legittimando in questo modo le proprie azioni seppur compiute al di fuori delle leggi dello Stato e aggirando, all’occorrenza, anche i diritti umani delle persone. In Turchia lo sforzo governativo repressivo nei confronti della dissidenza si è caratterizzato piuttosto in una azione normalizzatrice, indirizzata allo spegnimento di un qualsiasi barlume di reazione alle misure autoritarie in ogni campo del sapere e nella quotidianità della vita civile dei cittadini.  Seppur estranei al tentativo di golpe, molte persone sono state colpite con una sistematica strategia del terrore con mezzi da squadrismo fascista. Negli ultimi mesi sono finiti dietro le sbarre i vertici di associazioni umanitarie come Amnesty International, schiere di giornalisti dissenzienti (più di 160), circa cinquemila magistrati, molti dei quali non si sono piegati alle imposizioni del regime; alcuni di loro sono stati dichiarati colpevoli per aver rivendicato processi giusti in cui le persone potessero almeno difendersi dalle accuse con strumenti e garanzie eque.

In questi giorni sono sotto processo 17 dipendenti del quotidiano “Cumhuriyet”, un giornale di opposizione i cui giornalisti rischiano pene gravissime per terrorismo. I presunti “terroristi” sono amministratori e avvocati del quotidiano, editorialisti, corrispondenti, giornalisti accreditati. Nei mesi scorsi il gruppo musicale Yorum, fondato nel 1985, ha subito la morte di tre dei suoi componenti; tutti sono stati imprigionati nelle carceri turche perché accusati di essere esponenti della sinistra radicale, nonché di essere elementi pericolosi per la sicurezza pubblica. I primi a morire per uno sciopero della fame erano stati i due cantanti: la giovane Helin Bölek e Mustafa Koçak, che si rifiutavano di mangiare da circa 300 giorni. Il terzo a spegnersi lentamente e drammaticamente è stato İbrahim Gökçek. I musicisti erano stati accusati di collaborare con il “Fronte rivoluzionario della liberazione popolare”, una formazione politica di estrema sinistra tacciata come organizzazione terroristica. Già dal 2002, comprovando l’ossessione del regime turco nei confronti del Grup Yorum, vennero arrestate due donne: la cantante Selma Altin e la violinista Ezgi Dilanm. Le due furono torturate e picchiate ripetutamente dal momento dell’arresto, addirittura nelle autovetture delle forze speciali, dove alla prima fu rotto il timpano per le percosse sul volto, alla seconda le fu fratturato il braccio per non consentirle più di esibirsi in spettacoli musicali. Alle due veniva contestato il reato di aver chiesto, insieme ad altri 25 attivisti, la restituzione del corpo di un manifestante ucciso dalla polizia dopo un attacco a una questura del quartiere Gazi.

Da circa due anni con un’azione bellica definita cinicamente “Sorgente di luce”, le forze armate turche coadiuvate da altri elementi provenienti dalla galassia dell’integralismo islamico (dopo le vicende della guerra civile in Siria) e da gruppi di combattenti inquadrati come mercenari, hanno dato vita a un’operazione di invasione bellica e territoriale ai danni delle popolazioni curde al nord della Siria. Questa deriva criminale è una insopportabile violazione territoriale e una profanazione di luoghi in cui antichissime popolazioni vivono da millenni. L’obiettivo principale del dittatore “necessario” Recep Tayyip Erdoğan è la cancellazione, in quei luoghi, delle esperienze di autodeterminazione come modello di governo. Non è assolutamente marginale ricordare che la sete di espansionismo dei turchi non si è arrestata neppure dopo le condanne internazionali ai crimini del passato, gravissimi, ricordati come eccidi e genocidi a carico delle popolazioni armene verso cui si nutre un odio senza fine. La discriminazione delle etnie in territorio anatolico è un elemento quasi normale anche nei confronti delle minoranze religiose cristiane.

Dopo l’insediamento di Joe Biden, qualcosa sembra essere cambiato nel senso che il presidente americano ha dichiarato di riconoscere il genocidio perpetrato ai danni del popolo armeno, in un discorso che si è tenuto nel 106° anniversario dello sterminio nei territori dell’Impero Ottomano avvenuto nel 1915, quando furono massacrati secondo le stime degli storici circa un milione e mezzo di civili armeni. La scrittrice di origini armene Antonia Arslan ben chiarisce questa nuova dinamica: “È un passo importante […]. Gli altri presidenti americani non lo hanno mai fatto. Hanno usato sempre altre espressioni, ‘massacro’, ‘sterminio’, il termine armeno Metz Yeghern, ‘grande crimine’. Tranne Ronald Reagan, che una volta l’ha usata ma non nella occasione ufficiale del 24 aprile. Anche Barack Obama se n’era guardato bene, anche se aveva fatto l’errore di prometterlo in campagna elettorale alla comunità armena d’America, che sono un milione e mezzo di persone belle robuste”. […] “La parola genocidio come sappiamo è inventata di recente da un ebreo, Raphael Lemkin, che si riferiva non solo alla Shoah, di cui la sua famiglia è stata vittima, ma anche alla tragedia armena. Lemkin studiava il caso armeno dal 1921, il che denota chiaramente che alcuni intellettuali ebrei avevano capito la pericolosità di quello che era successo agli armeni già in tempi non sospetti. Biden usando questa parola, ne conosce le implicazioni”. Le implicazioni sono gravissime perché il genocidio è un crimine che non ha prescrizione ed è sanzionato dalle Nazioni Unite dalla dichiarazione del 1948. Pochi danno peso al conflitto in atto fra Armenia e Azerbaijan, in questo momento in una fase di stallo solo per un cessate il fuoco. La questione è che la politica estera di Erdoğan è guidata da una idea espansionistica neo-ottomana, come già asserito da storici e intellettuali turchi non oppositori del regime. Infatti in questo conflitto è in ballo una connessione territoriale con l’Armenia che il despota turco vorrebbe dividere per avere facile accesso in territorio azero fino ai confini con le repubbliche islamiche dell’Asia centrale, dove si cercano nuovi approdi e alleanze. Tutto questo sembra monitorato dai russi che storicamente sono alleati e protettori degli armeni e comunque guardano con sospetto questa invadenza turca sullo scenario internazionale.

Sono ancora vive nelle nostre menti le raccapriccianti e disumane immagini del corpo martoriato di Hevrin Khalaf. La donna di origini curde venne uccisa circa un anno fa da miliziani jihadisti legati alle forze di occupazione turche in territorio nord-siriano: la giovane curda era un’attivista per i diritti umani e di genere e segretaria generale del Partito del futuro siriano (Future Syria Party). La lotta contro l’autodeterminazione delle donne è uno dei target del governo di Erdoğan, sempre attento e preoccupato alla questione femminile, evidentemente percepita come elemento di instabilità sociale e politica. Un anno fa avevano fatto discutere le parole della massima autorità islamica della Turchia, assecondate e rafforzate dal presidente Erdoğan in persona, che recitava la possibilità concreta dell’omosessualità a “generare malattie” e “provocare un decadimento della discendenza”, legando questa presunta problematica alle diffuse forme di adulterio e di diffusione dell’HIV. Contro questa deriva, ancora una, contro i diritti umani delle persone, si era schierato l’ordine degli avvocati di Ankara, delle associazioni Lgbt e della comunità gay. Ancora una volta Erdoğan non si è smentito, andando in televisione e rivelando che “quel che ha detto il responsabile della Presidenza per gli affari religiosi è assolutamente giusto per chi si ritiene essere musulmano”. Tanto è bastato per l’apertura di un’inchiesta contro l’ordine degli avvocati perché si sono macchiati di una grave colpa: “offesa ai valori religiosi adottati da una parte della popolazione”.

Dopo 238 giorni di sciopero della fame nelle famigerate carceri turche è morta nell’ultima settimana di aprile Ebru Timtik. La giovane avvocata turca e attivista per i diritti umani era stata incarcerata perché condannata a 13 anni con l’accusa di terrorismo. È evidente che il fonema terrorismo per i “burocrati del Male” turchi assume un significato che comprende infinite e imperscrutabili variabili. Ebru Timtik aveva scelto lo sciopero della fame come protesta dal febbraio dell’anno scorso, alimentandosi solo con acqua zuccherata e vitamine, cercando inutilmente ascolto e appoggio nella rivendicazione di un processo equo. Infatti proprio insieme al collega e condannato Aytac Unsal, in sciopero della fame, la donna faceva parte dell’associazione contemporanea degli avvocati, particolarmente sensibile alla difesa di casi che riguardano i diritti umani delle persone. I due avvocati sono stati accusati di essere attivisti dell’organizzazione marxista-leninista radicale Dhkp-C. In questo quadro però, a Timtik non veniva perdonata la sua attività di difesa nei confronti della famiglia di Berkin Elvan: un giovane minorenne morto dopo il ferimento nella repressione delle proteste di Gezi Park nel 2013. Dopo la pronuncia del tribunale di Istanbul e della Corte Costituzionale in merito alla scarcerazione della donna, le sue condizioni si erano aggravate ed era stata trasferita in ospedale al fine di evitare il peggio. La sua morte sembra essere stata inutile. Il feretro dopo aver lasciato il Consiglio di medicina legale di Istanbul si è diretto verso il foro della città. Prima di giungere a destinazione senza che venisse concesso il permesso alla propria famiglia della donna di seguire il percorso sono scoppiati violenti tafferugli con la polizia dove la folla, che voleva omaggiarla, ha dovuto subire una dura repressione.

Come riportato da qualche attento analista su alcune pagine dei giornali, l’aspetto più paradossale e kafkiano del sistema giudiziario turco è che, nella maggior parte dei casi, il difensore dell’imputato finisce in carcere con le stesse accuse di chi si vuol difendere. Una mostruosità in termini di giurisprudenza e della tutela dei diritti umani. Una situazione ai limiti della sopportazione se si pensa che vi è una sovrapposizione fra mandato difensivo e accuse del proprio assistito. Il sistema giudiziario turco e quello carcerario rappresentano una variante medioevale in termini di diritto che getta il Paese in una agghiacciante condizione di progressiva persecuzione e tortura verso chi dissente. Deve far riflettere quanto il sistema giudiziario sia sottomesso a quello esecutivo, quanto le stesse istituzioni di diritto vengano violate dall’arresto di avvocati e giudici “recalcitranti”, giornalisti, musicisti, persone che orbitano nel mondo dell’arte e della cultura, studenti e oppositori che subiscono continuamente tortura anche per le pene detentive propinate prima del processo.

Questo stato di cose viene sapientemente orchestrato dalle autorità mantenendo nell’ambiguità la definizione di “organizzazione terroristica armata”, la tutela della sicurezza dello stato, l’appartenenza a “gruppi illegali” che metterebbero in pericolo l’ordine costituito, tanto da determinare l’interpretazione più o meno ampia dei pubblici ministeri e dei giudici nei confronti degli accusati. Dunque le presunte violazioni vanno “naturalmente” a colpire giudici e avvocati che, sottoposti ad attenta analisi circa le loro ideologie e gli aspetti che riguardano i propri valori giuridici, subiscono le stesse restrizioni riservate ai presunti colpevoli, difesi o giudicati all’occorrenza. L’esempio più eclatante consiste nell’inversione dell’onere della prova per coloro i quali vengono accusati di essere responsabili di reati connessi al terrorismo in violazione al principio di presunzione di innocenza. L’elenco delle violazioni ai più elementari valori del diritto è così ricco di variabili che necessiterebbe una possente azione di condanna e protesta della comunità internazionale ai crimini di stato che, in Turchia, sono sempre più numerosi. Non bastano i rapporti di organizzazioni internazionali come quello della Commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa del febbraio 2020: in questo documento si sottolinea “l’erosione e la violazione dell’indipendenza della magistratura e l’ineffettività dei rimedi dinanzi alla Corte costituzionale turca a garanzia dei diritti fondamentali”. Nel 2016 dopo la deriva del colpo di stato in un rapporto delle Nazioni Unite si poneva l’accento soprattutto sull’aumento della durata delle detenzioni; ciò avveniva addirittura prima della formalizzazione delle accuse e si denunciava il controllo e la registrazione da parte della polizia dei colloqui fra detenuti e difensori, nonché la possibilità per le stesse autorità di arrestare il difensore. Alle stesse conclusioni giungeva il “Progress report” del 2019, cioè il rapporto della Commissione che ogni anno descrive “i punti di progresso” nei negoziati fra l’UE e i paesi candidati a farne parte.

Una deriva autoritaria che desta una preoccupazione senza eguali perché la Turchia è attore principale di una serie di azioni di destabilizzazione dell’intera area mediterranea. Nessuna buona notizia dalla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan.

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>> Biden nuovo alleato armeno contro la Turchia (Quinewspisa 01.02.21)

>> Perché l’immagine dei ‘due forni’ sembra perfetta per capire Erdogan (Ilfattoquotidiano 30.04.21)

Come mai i turchi insorgono quando si evoca il genocidio degli armeni e ne negano l’esistenza? Eppure è accaduto

Eppure è accaduto Approfittando della guerra mondiale nel 1915 l’impero ottomano eliminò un milioni di persone. Chissà se i tedeschi, loro alleati, presero da lì l’idea della Shoà. Gli armeni, essendo cristiani, erano più evoluti e, come gli ebrei in Germania, gestivano l’economia. La diplomazia mondiale non ha mai accennato a quella pulizia etnica. Per rompere quel tabù dovette arrivare Biden che, seppure anziano, è una novità per gli USA. È normale che, ci sia un lato buio nella storia di ogni paese. È come se noi negassimo le stragi di Marzabotto e di Sant’Anna di Strazzena. Tra gli autori c’erano italiani.

Seppure Draghi sia considerato una rara eccellenza italica piovono le peggiori critiche sul governo. Io ne so più di lui!
Da qualche giorno tutti protestano. Dopo la breve cotta, l’amore è già in crisi per un errato concetto della libertà. È che noi italiani siamo volubili. Non sappiamo neppure che cosa vogliamo. Da qualche giorno nulla va più bene. Fino a poco fa si esultava. Ora si litiga per un’ora in più di coprifuoco. Tutti si lamentano. Qualcuno offende. Si parla addirittura di decreti demenziali. Persino gli scienziati sarebbero fuori di testa. Anch’io sono critico. Ma in un momento di lucidità mi chiedo se un ignorante come me ne ha il diritto. Però, il popolo tace perché occupato a vigilare sulle sorti del Calcio.

Continua lo sciacallaggio televisivo su chi subisce violenza. I talk show sono a caccia di scoop sulla pelle delle vittime
Ormai i processi si celebrano in TV con l’intento di influenzare il magistrato oltre che la pubblica opinione. Ovviamente, colpevole è sempre la vittima, soprattutto se è una donna, ed è consentito aggredirla di nuovo. Le istituzioni impotenti non proteggono i cittadini dalla crudeltà di programmi e conduttori senza coscienza che speculano sulla sofferenza della gente. C’è un continuo scaricabarile delle responsabilità. Non si sa se il controllo dipenda dal governo o dalle autorità di garanzia. Quindi, non interviene nessuno. Dopo duemila anni Erode e Ponzio Pilato sono più vivi che mai.

Il Diario non è mai tenero con i politici, ma molte accuse di parte non sono oneste neppure nei confronti dei lettori
Solo per chi è all’opposizione è giustificato, seppure ingiusto, criticare Speranza e chiederne la sfiducia. Chi, invece, fa parte del governo dovrebbe essergli solidale in un momento di crisi senza precedenti. Le persone probe dovrebbero riconoscere che non era facile fare meglio. Ma in politica non c’è coscienza né onestà e neppure lealtà. Si legge che dei 120mila decessi per Covid il maggiore responsabile è addirittura il ministro. In Francia si dà la colpa a Macron e alla Merkel in Germania? In Italia ai lettori piace essere raggirati con notizie false e, in questo caso, persino inverosimili.

Macron cancella l’era Mitterrand e consegna all’Italia assassini i cui crimini ora la Francia non considera più politici

Tanto di cappello a Draghi. Che sia lui l’uomo forte che aspettiamo? Lo immaginiamo erroneamente rude e ignorante, perché così erano quelli che abbiamo conosciuto. Ci sbagliavamo. Oggi può essere colto e raffinato. Ci voleva lui perché finisse la libertà dei criminali che per più di 40 anni hanno goduto dell’ingiusta complicità della Francia. I governi di destra non erano riusciti a ottenere l’estradizione dei terroristi. Eppure ce ne sono stati tanti ma non dell’autorevolezza e prestigio di Draghi. Solo con uomini come lui l’Italia può riacquistare il rispetto nel mondo. La gente lo avrà capito?

Ogni volta che succede un delitto in famiglia, si dice che non c’è da stupirsi perché ce ne sono sempre stati. Ed è vero
Ma non con la frequenza odierna. L’omicidio dei genitori, come pure quello nei confronti dei figli sono crimini orribili che, però, accadono da millenni. Sofocle racconta il parricidio di Edipo. Cominciai la carriera occupandomi di cronaca nera. I delitti in Sicilia non mancavano. Non me ne capitò mai uno del genere, anche se raramente ne sentivo parlare. Da un po’ di tempo ogni giorno ragazzi, spesso con la complicità di fidanzati, uccidono i genitori che ostacolano il loro rapporto. Forse oltre al Corona, c’è un altro virus non ancora isolato che oggi agisce sul cervello degli esseri umani.

In che mondo viviamo?! Leggi troppo permissive in una società così crudele. Ogni nostra figlia può rimanerne vittima
Sono amici e lei si fida quando la invita a una festa. Ha 18 anni e con lui fa l’amore volentieri. Quando arrivano il cugino e tre amici, si accorge che è un agguato. E per la povera ragazza comincia l’incubo. La violentano tutti a turno. Dopo alcune ore, sconvolta e piena di lividi, la riaccompagnano a casa. L’indomani lei li denuncia. Gli stupratori minacciano la famiglia, costringono il padre a prendere le loro difese. Mia figlia è una poco di buono, era consenziente. Quando poi si vergogna della propria viltà, torna dai carabinieri, che avevano già capito. Ora due sono in prigione e due ai domiciliari Eppure è accaduto Approfittando della guerra mondiale nel 1915 l’impero ottomano eliminò un milioni di persone. Chissà se i tedeschi, loro alleati, presero da lì l’idea della Shoà. Gli armeni, essendo cristiani, erano più evoluti e, come gli ebrei in Germania, gestivano l’economia. La diplomazia mondiale non ha mai accennato a quella pulizia etnica. Per rompere quel tabù dovette arrivare Biden che, seppure anziano, è una novità per gli USA. È normale che, ci sia un lato buio nella storia di ogni paese. È come se noi negassimo le stragi di Marzabotto e di Sant’Anna di Strazzena. Tra gli autori c’erano italiani.

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Gli Usa hanno riconosciuto il Genocidio armeno per usarlo come arma contundente contro la Turchia? (Faro di Roma 02.05.21)

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan lunedì scorso ha denunciato il riconoscimento del genocidio armeno da parte del presidente Biden come privo di fondamento e pericoloso per i rapporti bilaterali. In un discorso televisivo, il presidente turco ha ricordato la storia della schiavitù negli Stati Uniti e le persecuzioni dei nativi americani. Secondo Erdogan le affermazioni del presidente americano sono “infondate e inique”, ma soprattutto avranno un impatto pregiudiziale sulle relazioni bilaterali.

Gli armeni ritengono – sostenuti da vari storici e studiosi – che durante la Grande Guerra un milione e mezzo di persone morirono nel genocidio. Ankara ammette che nello scontro delle forze ottomane con la Russia zarista trovarono la morte innumerevoli armeni. Tuttavia respinge l’idea che si sia trattato di un piano premeditato volto a distruggere un popolo in quanto tale.

Biden ha tentato di stemperare l’inevitabile risentimento turco nel primo incontro telefonico dal suo insediamento in gennaio, ma Erdogan ha dichiarato lunedì che Biden “dovrebbe guardarsi allo specchio” prima di parlare di genocidi durante il XX secolo. “Non possiamo tacere della segregazione, del Vietnam e neanche dei nativi americani”.

La stampa turca ha rilanciato le accuse del presidente, spiegando che gli Usa sono fondati sul genocidio della popolazione indiana, autoctona, e sull’asservimento dei neri importanti come merce dall’Africa. Il prestigioso Yeni Şafak ha scritto che “non c’è nulla di più assurdo che la pretesa degli Usa di fare la morale ad altri paesi”:

“La pulizia etnica ai danni dei nativi americani, la schiavitù e il razzismo sono sinonimo degli Usa, molto semplicemente perché la ricchezza del paese è stata eretta sulle terre da cui vennero cacciati gli indiani d’America e sul lavoro schiavistico degli africani deportati dalle loro case. Del resto ancora oggi, la violenza poliziesca contro gli afroamericani è all’ordine del giorno nell’America di Biden”.

La Turchia sabato scorso ha convocato l’ambasciatore americano per lamentare che Biden ha aperto una ferita nelle relazioni tra i due Paesi che sarà difficile sanare. A Washington erano pronti ad una “decisa” replica turca. L’ambasciata ad Ankara ha ammonito i cittadini americani in Turchia di “evitare le aree attorno a edifici del governo americano, e di prestare attenzione a situazioni in cui possono raccogliersi americani o occidentali”.
Dozzine di cittadini turchi “risentiti” lunedì scorso urlavano slogan, manifestando nei pressi del Consolato americano ad Istanbul.

“Reagire alle menzogne americane” recitava uno striscione. Un altro chiamava i turchi ad “assaltare” la base aerea di Incirlik, da decenni usata dalle forze USA in Turchia e sospettata da Ankara di essere stata il punto di partenza del golpe contro Erdogan di qualche anno fa.

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Covid: Armenia riceve 100 mila dosi di vaccino CoronaVac dalla Cina (Agenzianova 02.05.21)

Erevan, 02 mag 15:10 – (Agenzia Nova) – L’Armenia ha ricevuto 100 mila dosi di vaccino CoronaVac dalla Cina. Lo ha reso noto il ministero della Salute di Erevan, che in un comunicato pubblicato su Facebook precisa che i vaccini sono stati forniti dal governo cinese gratuitamente. L’Armenia, che ha finora confermato 216.863 casi di coronavirus e 4.139 decessi dall’inizio dell’epidemia, prevede di vaccinare 700 mila dei 2,9 milioni di abitanti entro la fine dell’anno con Sputnik V, AstraZeneca e ora anche con CoronaVac. (Rum)

Mkhitaryan Inter, contatti con Raiola: la situazione (Direttagol 01.05.21)

Le problematiche della Roma potrebbero spingere l’armeno Mkhitaryan a rivedere i propri piani per il futuro. Dopo un ottimo avvio di stagione, il giocatore ha un po’ perso quel magnifico smalto che aveva mostrato da trequartista e da finto centravanti in alcune partite. Complice anche il calo della Roma e gli alti e bassi che si sono succeduti nell’arco degli ultimi mesi, l’ex Arsenal e United starebbe riflettendo sul proprio futuro. L’Inter ci starebbe pensando come potenziale pedina a costo zero: il jolly del centrocampo e dell’attacco sarebbe un giocatore fondamentale per Conte, che potrebbe impiegarlo sia al posto di Eriksen, sia come trequartista dietro le punte (o la punta) o come seconda punta, ruoli che potrebbe svolgere senza particolari problemi considerate le sue incredibili qualità.

Mkhitaryan Inter, contatti con Raiola: la situazione

La Roma rischia di perderlo e tramite l’agente Raiola ha bloccato le trattative per il rinnovo; vuole, infatti, attendere l’evolversi della situazione in campionato e in Europa League, poiché se non dovesse esserci la qualificazione in Champions sarebbe orientato ad andare via. Come scritto sopra, l’Inter sembra particolarmente interessata a prenderlo e sarebbe un colpo importante in entrata a livello economico e tecnico: essendo un giocatore molto duttile da utilizzare sia a centrocampo sia in attacco, per Conte sarebbe fondamentale per il campionato e per l’Europa. Con lui potrebbe arrivare anche Dzeko, pronto a liberarsi e disposto a valutare nuove offerte per accasarsi altrove.

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>>Rinnovo Mkhitaryan, ora l’armeno ci pensa: la situazione (Siamolaroma)

La comunità armena elogia il sindaco Fabbri (La Nuova Ferrara 01.05.21)

Anche la comunità religiosa armena di New York ha ripreso e rilanciato le parole dei sindaco di Ferrara Alan Fabbri che si è opposto alla richiesta dell’ambasciatore turco Murat Salim Esenli di «riconsiderare la posizione» e di «correggere un errore nella programmazione» in relazione all’evento, mandato in onda il 24 aprile dal Teatro comunale della città estense, dal titolo “Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni tra memoria, negazioni e silenzi”.

Sul sito della Diocesi Orientale della Chiesa Apostolica Armena – il centro spirituale del cristianesimo armeno negli Stati Uniti orientali, con sede a New York – sono state riprese le dichiarazioni del primo cittadino.

«Alan Fabbri ha respinto le proteste dell’ambasciatore turco», è scritto sul sito della comunità, che riprende anche la notizia della cittadinanza onoraria ad Antonia Arslan a cui Fabbri ha annunciato la prossima assegnazione del riconoscimento .

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>> Da New York la comunità armena rilancia le parole sul caso Ferrara-Turchia (Estense.com 01.05.21)


>> COMUNITÀ ARMENA A NEW YORK RILANCIA LE PAROLE DEL SINDACO ALAN FABBRI: “HA RESPINTO LE PROTESTE DELL’AMBASCIATORE TURCO” (Cronacacomune 30.04.21)


 

Le foto dimenticate che raccontano com’era Gaza una volta (Vice.com 30.04.21)

Da oltre 1.700 anni, la Terra Santa è patria di una piccola comunità armena. Nel 400, cristiani e monaci armeni si sono stabiliti a Gerusalemme dopo aver compiuto un pellegrinaggio in città e hanno formato quello che oggi è noto come il quartiere armeno.

A Gerusalemme, poi, la comunità armeno-palestinese ha continuato a crescere in seguito alla diaspora innescata dal genocidio armeno, durante il quale si stima che l’Impero ottomano abbia ucciso un milione e mezzo di armeni, tra il 1915 e il 1923.

Negli anni Quaranta, il fotografo Kegham Djeghalian, che era fuggito dall’Armenia a Gerusalemme durante il genocidio, si è stabilito a Gaza, che all’epoca era una semplice città palestinese sulla costa mediterranea.

Ottant’anni e numerosi conflitti più tardi, Gaza e i suoi dintorni sono diventati uno dei posti più difficili in cui vivere sulla faccia della Terra. La maggior parte dei residenti non ha un lavoro e ha accesso limitato ad acqua, elettricità, cibo e cure mediche. Inoltre, ovviamente, non può andarsene.

Ma prima che il blocco riducesse Gaza in ginocchio, prima che Hamas salisse al potere, prima dei conflitti, c’erano le foto di Djeghalian. Molti anni dopo, il nipote Kegham Djeghalian Jr, che ha 36 anni e lavora come direttore artistico, artista visivo e stylist in Francia, ha trovato tre scatole contenenti alcuni rullini di negativi del nonno e vecchie fotografie, nella casa di suo padre in Egitto.

Così, 40 anni dopo la sua morte, il lavoro di Djeghalian è stato trasformato in una mostra all’Access Art Space del Cairo, la città in cui parte della sua famiglia è scappata durante la guerra dei sei giorni del 1967.

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