28 gennaio, giorno della memoria delle vittime del pogrom di Sumgait. Il 35° anniversario dell’orrore (Korazym 26.02.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 26.02.2023 – Pietro Kuciukian [*]] – I massacri di Armeni a Sumgait, una città a mezz’ora di macchina da Baku, la capitale dell’Azerbajgian, sono avvenuti alla luce del sole e sono testimoniati da numerose persone che hanno assistito ai fatti e da passanti. Il picco delle atrocità commesse dagli esecutori materiali si è verificato tra il 27 e il 29 febbraio 1988. Gli eventi furono preceduti da un’ondata di diffusione di informazioni anti armene e da raduni in tutto l’Azerbajgian nel febbraio del 1988.

Un gruppo di Azeri si precipita verso il quartiere armeno a Sumgait, febbraio 1988.

L’Izvestia Daily del 20 agosto 1988 riporta una dichiarazione del deputato sovietico e inquirente capo Katusev, il quale ha detto che quasi tutta l’area di Sumgait, una città con 250.000 abitanti, era diventata teatro di pogrom di massa non impediti. Gli esecutori materiali che fecero irruzione nelle case degli Armeni furono aiutati da liste contenenti i nomi dei residenti. Erano armati di barre di ferro, pietre, scuri, coltelli, bottiglie e taniche piene di benzina. Secondo le testimonianze, alcuni appartamenti furono saccheggiati da gruppi di 50/80 persone. Gruppi simili (fino a 100 persone) si riversavano sulle strade.

Ci furono dozzine di feriti e 53 assassinati, la maggior parte di questi bruciati vivi dopo essere stati attaccati e torturati. Centinaia di innocenti furono feriti e resi inabili. Molte donne, comprese ragazze adolescenti, furono stuprate. Più di 200 appartamenti furono saccheggiati, dozzine di automobili bruciate, numerosi negozi ed officine razziati. Gli assalitori gettavano mobili, frigoriferi, apparecchi TV e letti dai balconi e poi li bruciavano. Il risultato diretto e indiretto di questi orrori furono decine di migliaia di profughi.

Queste furono le perdite umane. Politicamente è stato quanto mai spaventoso e rivelatore il fatto che né la polizia né i soccorritori volontari di emergenza siano intervenuti. Il testimone S. Guliev descrive così gli eventi: «La polizia lasciò la città in balìa della gentaglia. Non si è vista da nessuna parte. Non ho visto in giro nessuna polizia». Al processo, il testimone Arsen Arakelian riferì sulla malvagità dei medici delle ambulanze rifiutatisi di venire in aiuto a sua madre che soffriva di commozione cerebrale, ossa fratturate, emorragia e ustioni; non gli permisero nemmeno di portarla all’interno dell’ospedale.

L’esercito arrivò a Sumgait il 29 febbraio. Si limitò tuttavia a difendersi con scudi dalla plebaglia scatenata che lanciava sassi ai soldati e fece poco per proteggere gli Armeni. «Non abbiamo l’ordine di intervenire», fu la risposta dei soldati alle richieste di soccorso delle vittime, secondo il testimone S. Guliev.

L’assalto di un governo sovrano contro i propri cittadini continuò. Nel maggio 1988 a Shushi, le autorità locali diedero il via alla deportazione di Armeni che vivevano in quella città sulla collina dalla quale la città più grande del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, sarebbe stata con facilità cannoneggiata per diversi anni successivi. A settembre 1988 gli ultimi Armeni erano stati espulsi da Shushi. Quello stesso anno, Armeni furono uccisi e feriti nel villaggio di Khojali. Nel novembre e dicembre 1988, un’ondata di pogrom di Armeni percorse l’Azerbajgian. I peggiori ebbero luogo a Baku, Kirovabad (Ganja), Shemakh, Shamkhor, Mingechaur e Nakhichevan. La stampa sovietica descrisse come, a Kirovabad, gli esecutori materiali fecero irruzione in un ospizio per anziani, catturarono e successivamente ammazzarono 12 anziani inermi, uomini e donne armeni, compresi i disabili. Nell’inverno del 1988 tutti gli Armeni furono deportati da dozzine di villaggi armeni nell’Azerbajgian. Lo stesso destino toccò a più di 40 insediamenti armeni nella parte nord del Nagorno-Karabakh – al di fuori dei confini della regione autonoma che aveva richiesto l’auto-determinazione – comprese le regioni montane di Khanlar, Dashkesan, Shamkhor e le province del Kedabek. I 40.000 Armeni della terza città più grande dell’Azerbajgian, Ganja, furono pure mandati via con la forza dalle loro case. Alla fine erano rimasti meno di 50.000 Armeni a Baku, su una popolazione totale precedente di 215.000.

Durante tutto l’anno 1989, attacchi sporadici, pestaggi, saccheggi e massacri a Baku ridussero quel numero a 30.000 – per lo più persone anziane che non avevano la possibilità di lasciare Baku. Nella prima parte di gennaio 1990, i pogrom a danno di Armeni a Baku si intensificarono e divennero più organizzati. Il 13 gennaio, una folla forte di 50.000 persone si staccò da un raduno, si divise in gruppi ed iniziò metodicamente, casa per casa, a “pulire” la città dagli Armeni. I pogrom continuarono fino al 15 gennaio. Il numero totale di uccisi nei primi tre giorni raggiunse le 33 persone. La stampa sovietica pubblicava rapporti quotidiani di indescrivibile orrore – corpi tagliati a pezzi, sventramenti di donne incinte, persone bruciate vive – con un conto giornaliero di assassinii perfettamente noto alle autorità. La rivista sovietica Soyuz ha dato notizia di un uomo letteralmente fatto a pezzi e cui resti furono gettati in un cassonetto della spazzatura. Secondo varie fonti furono uccisi centinaia di Armeni. Quelli rimasti, per lo più anziani, furono mandati via con la forza – molti morirrono durante e dopo la deportazione. I pogrom continuarono fino al 20 gennaio quando furono mandate a Baku truppe dell’esercito. Ma a quel punto la città era stata completamente “liberata” da “elementi armeni”, fatta eccezione per un paio di centinaia di Armeni di matrimonio misto. Durante il conflitto militare nel Nagorno-Karabakh questi ultimi furono letteralmente “ripescati” per essere scambiati con azeri prigionieri di guerra.

Il ruolo attivo delle autorità fu sempre evidente. Gli ospedali stilarono innumerevoli certificati di morte per Armeni morti per “ipertensione” “diabete” e “collasso cardiovascolare”. Veicoli della polizia non erano mai lontani dai saccheggiatori, pronti a trasportare cose di valore ingombranti. Poco tempo dopo i pogrom, uno dei leader del Fronte Popolare Azero, E. Mamedov dichiarò in una conferenza stampa: «Io personalmente sono stato testimone dell’assassinio di due Armeni non lontano dalla stazione della ferrovia. Una folla si radunò, gettarono loro addosso del combustibile e li bruciarono. La stazione della polizia locale era distante circa 200 metri, e c’erano da 400 a 500 agenti che pattugliavano nella zona dove bruciavano i corpi. Non ci fu nessun tentativo di recintare l’area, salvare le vittime o disperdere la folla».

Il 7 luglio 1988 il Parlamento Europeo adottò la seguente risoluzione:
«Considerando, che il Nagorno-Karabakh fu storicamente una parte dell’Armenia, che attualmente oltre l’80 % della sua popolazione è costituita da Armeni, che questa regione fu annessa dall’Azerbajgian nel 1923 e che nel febbraio 1988 gli Armeni hanno subito un massacro nella città azera di Sumgait,
Considerando, che l’aggravarsi della situazione politica, che ha già provocato uccisioni di massa di Armeni a Sumgait e atrocità a Baku è pericolosa per gli Armeni che vivono in Azerbajgian,
Condanna la brutalità e la pressione esercitata contro le manifestazioni di protesta armene in Azerbajgian».

Mentre è stato fatto tutto il possibile per nascondere e distorcere i crimini commessi a Sumgait, prove basate su documenti, deposizioni di testimoni ed altri fatti raccolti fino ad oggi portano ad una chiara conclusione: i pogrom furono organizzati e realizzati dalle autorità dell’Azerbajgian sovietico.

George Soros ha parlato di questo nello Znamya Journal di Mosca (fasc. n. 6, 1989). In pratica ha confermato che i primi pogrom a danno di Armeni in Azerbajgian furono istigati da bande locali manipolate dall’allora Primo Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista e futuro Presidente dell’Azerbajgian, Heydar Aliyev.

La leadership azera, allora e adesso, non ha mai espresso rimorso per la pulizia etnica e i massacri degli Armeni dell’Azerbajgian o degli Armeni del Nagorno-Karabakh. Secondo Ilias Izmailov, Pubblico Ministero Capo dell’Azerbajgian per i pogrom di Sumgait «gli esecutori materiali dei pogrom ora rivestono incarichi e siedono in Parlamento» (Zerkalo, 21 febbraio 2003).

Lo Stato azero e la sua leadership né allora e né adesso si è preso cura della sicurezza e del benessere dei suoi cittadini Armeni.

Date le azioni compiute dagli Azeri prima e dopo l’indipendenza, non c’è ragione di dubitare che, se gli Armeni del Nagorno-Karabakh non avessero chiesto l’auto-determinazione nel 1988, oggi avrebbero subito lo stesso destino toccato agli Armeni del Nakhichevan.

Ci sono stati profughi e perdite territoriali da ambedue le parti. La parte armena ha ospitato circa 400.000 profughi dall’Azerbajgian – cifra quasi uguale ai profughi azeri fuggiti in Azerbajgian, a seguito dello scambio di popolazioni. Territori totalmente popolati da Armeni, quali Shahumian e il Nord Martakert, un tempo facenti parte della regione indipendente del Nagorno-Karabakh, sono sotto controllo degli Azeri. In realtà, fatti sul tappeto oggi sono la conseguenza di un ciclo di violenza e intolleranza cominciata con il rifiuto dell’Azerbajgian di accettare le richieste di auto-determinazione di una popolazione pacifica.

[*] Dott. Pietro Kuciukian è Console Onorario della Repubblica di Armenia a Milano.

Il 28 febbraio 2022, in occasione del 34° anniversario del pogrom di Sumgait, il Presidente della Repubblica di Artsakh, Arayik Harutyunyan, ha visitato il complesso commemorativo di Stepanakert e ha deposto fiori al monumento alle vittime innocenti.

Foto di copertina: monumento alle vittime del pogrom di Sumgait presso il complesso commemorativo di Stepanakert, Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh. Il pogrom di Sumgait prese di mira la popolazione armena della città di Sumgait nella Repubblica Socialista Sovietica di Azerbajgian dal 27 al 29 febbraio 1988.
Il 28 febbraio è stato designato giorno festivo in Armenia nel 2005 come “Il giorno della memoria delle vittime dei massacri nella SSR azerbaigiana e della protezione dei diritti della popolazione armena deportata”.
Il pogrom di Sumgait ha avuto luogo durante le prime fasi del Movimento del Karabakh. Le questioni territoriali nel Caucaso meridionale oggi sono le conseguenze di un ciclo di violenza e di intolleranza che è iniziato con la soppressione da parte dell’Azerbajgian degli inviti alla pacifica auto-determinazione degli Armeni dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. La violenza contro gli Armeni a Sumgait ha cambiato la natura del conflitto del Karabakh. Il conflitto divenne militarizzato. Quando il popolo del Nagorno-Karabakh intraprese tutte le necessarie azioni legali al fine di optare per l’auto-determinazione in conformità con la legislazione del tempo, la risposta fu un’aggressione militare. È molto significativo che un governo sovrano abbia risposto ad azioni democratiche dei propri cittadini con l’uso delle armi. Inoltre, la violenta risposta militare all’inizio non fu nemmeno diretta contro la popolazione del Nagorno-Karabakh, ma contro gli Armeni di Sumgait e Baku, chilometri lontano dal territorio e dalla popolazione dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. L’Azerbajgian oggi è la vittima della sua aggressività e gli Armeni sono le vittime dell’aggressione azera.

Settantasettesimo giorno del #ArtsakhBlockade. I dittatori vanno buttati nella pattumiera della storia, se tutti vogliamo vivere in pace (Korazym 26.02.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 26.02.2023 – Vik van Brantegem] – Oggi è il giorno 77 dell’assedio della dittatura di Aliyev dell’Azerbajgian della Repubblica armena di Artsakh/Nagorno-Karabakh (che si era proclamata indipendente dall’URSS prima ancora dell’Azerbajgian nel 1988, 35 anni fa). Purtroppo, anche oggi, nelle “preoccupazioni” di Papa Francesco è assente l’interesse per il popolo armeno cristiano. La diplomazia della Santa Sede è fortemente collegata con l’autocrazia degli idrocarburi azera che sponsorizza molti programmi di restauro di proprietà vaticane. Quindi, solo silenzio. Nella foto di copertina (di Marut Vanyan, giornalista freelance a Stepanakert, che oggi in un post su Twitter scrive: «Spero che il 1° marzo il Corridoio di Lachin sia aperto»): la capitale dell’Artsakh Stepanakert ieri sera. Nota quanto sono fioche le luci a causa della mancanza di elettricità per l’interruzione della linea ad alta tensione dall’Armenia sul territorio dell’Artsakh occupato dall’Azerbajgian. Per un guasto, per un sabotaggio? In ogni caso, le forze armate di occupazione azere non hanno consentito l’accesso per la riparazione.

L’informazione diffusa sui social media, fomentata da troll azeri, secondo la quale sarebbe stata aperta il Corridoio di Berdzor (Lachin), informa l’Info Center del governo dell’Artsakh. L’Azerbajgian continua il blocco dell’Artsakh con il pretesto ambientale. L’Info Center ha fatto sapere che in caso di apertura della strada verrà diffuso un messaggio ufficiale, esortando le persone a non cedere alla disinformazione.

Come abbiamo riferito ieri, Lusine Avanesyan, il Portavoce del Presidente della Repubblica di Artsakh, ha comunicato che il 24 febbraio si è svolto un incontro tra i rappresentanti ufficiali dell’Artsakh e dell’Azerbajgian, mediato dal Comando delle truppe di mantenimento della pace russe di stanza nella Repubblica di Artsakh. Avanesyan ha spiegato che sono state discusse le questioni relative alla revoca del blocco dell’Artsakh, alla fornitura stabile e ininterrotta di gas naturale ed elettricità. Durante l’incontro è stato raggiunto un accordo per garantire il funzionamento ininterrotto del gasdotto Armenia-Artsakh, la riparazione dell’unica linea ad alta tensione di 110 kV Shinuhair-Stepanakert e il ripristino dell’alimentazione di elettricità. “Stiamo aspettando misure adeguate da parte dell’Azerbajgian, che consentiranno ai nostri specialisti di raggiungere il luogo dell’interruzione dell’alimentazione, valutare il danno e iniziare i lavori di riparazione. Per quanto riguarda la rimozione del blocco stradale, secondo i nostri dati, la parte russa continua a compiere sforzi in quella direzione e speriamo che ci sia un cambiamento positivo in tal senso in un breve periodo di tempo”, ha sottolineato Avanesyan.

Il Ministero dell’Istruzione, della Scienza, della Cultura e dello Sport della Repubblica di Artsakh informa che dal 27 febbraio il processo educativo riprenderà completamente in tutte le istituzioni educative prescolastiche (scuole materne) che operano nella Repubblica di Artsakh.

L’Info Center della Repubblica di Artsakh ha comunicato che a causa del blocco da parte dell’Azerbajgian dell’unica strada che collega l’Artsakh all’Armenia, 5 persone affette da malattie tumorali del Centro Medico Repubblicano del Ministero della Salute della Repubblica di Artsakh sono state trasferite in centri medici specializzati dell’Armenia oggi, 26 febbraio 2023, con la mediazione e l’accompagnamento del Comitato Internazionale della Croce Rossa. 8 pazienti medici, inviati in Armenia per cure, sono tornati in Artsakh con i loro accompagnatori. Gli interventi chirurgici pianificati continuano ad essere sospesi nelle strutture mediche che operano sotto il Ministero della Salute della Repubblica di Artsakh. Nell’unità medica Arevik, 2 bambini sono nelle unità di terapia intensiva e neonatale. Al Centro Medico Repubblicano, 6 pazienti sono nell’unità di terapia intensiva, 3 dei quali sono in condizioni critiche. “Fino ad oggi, un totale di 127 pazienti sono stati trasferiti dall’Artsakh all’Armenia con la mediazione e l’accompagnamento del Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Il Bollettino del 26 febbraio del Ministero della Difesa russo sulle attività delle truppe di mantenimento della pace russe nel Nagorno Karabakh informa che 49 cittadini stranieri (tra cui 6 bambini) sono stati evacuati dal territorio del Nagorno Karabakh alla Repubblica di Armenia. È stata inoltre assicurata la scorta di due convogli con carichi umanitari delle truppe di mantenimento della pace russe lungo la rotta Goris-Stepanakert.

«Non ho visto la BBC fare qualsiasi indagine sulla propaganda negazionista dell’Azerbajgian sul #ArtsakhBlockade in corso da 2 mesi e mezzo. La BBC gestisce solo programmi pagati da BP (British Petroleum)-Aliyev che promuovono il dittatoriale Azerbajgian come un grande centro turistico/commerciale, mentre i confini terrestri dell’Azerbajgian rimangono chiusi dal 2020. Ho visto uno “show” della BBC di 23 minuti sull’Azerbajgian. Pur aggiungendo generosamente aggettivi come “fantastico”, “unico”, “antico” ad ogni sostantivo, la moralmente in bancarotta Bettany Hughes ha anche visitato la città di Shushi etnicamente polita. Nessuna parola sulla cattedrale di Ghazanchetsots, crimini di guerra azeri o il patrimonio armeno» (Nara Matini).

«Supermercato vuoto ad Artsakh. La maggior parte dei prodotti alimentari non è più disponibile nei negozi» (Ani Balayan, fotografo in Artsakh QUI).

Mentre il mondo e i media parlano solo di guerra di Putin in Ucraina, Aliyev continua la sua guerra contra l’Artsakh con l’assedio, nel silenzio. Il popolo dell’Artsakh è al 77° giorno di blocco da parte dell’Azerbajgian, Basta appelli e richieste. Vogliamo azione. Vogliamo la pace in Artsakh, non solo in Ucraina. Le aggressioni dell’Azerbajgian hanno causato una grave crisi umanitaria in Artsakh. La Commissione Europea gas-dipendente non condanna mai la dittatura di Aliyev.

Caliber.az, agenzia stampa diretto da Timur Huseynov, con sede a Baku, quindi sotto controllo del regime dittatoriale di Aliyev e suo megafono, come viene dimostrato dalle “notizie” che diffonde, il 25 febbraio 2023 ha pubblicato questo post su Twitter: «Guarda la bellezza invernale della storica provincia azerbajgiana di Göyçə (Goycha) nell’Azerbajgian occidentale (moderno Armenia). Torneremo presto nelle nostre terre ancestrali … attraverso la pace». La pace simbolizzata dalla colomba strangolata dalla “eco-attivista” al blocco del Corridoio di Berdzor (Lachin) e invece di volare caduta stecchita a terra. Per Aliyev, non solo l’Artsakh (Qarabag) è Azerbajgian, ma anche l’Armenia (“Azerbajgian occidentale”). Non ne fanno un mistero che ci arriveranno… “attraverso la pace”.

Il futuro dell’Armenia e della popolazione armena dell’Artsakh è gravemente minacciato. «Dobbiamo costruire buoni rapporti con i nostri vicini nella regione. Aliyev, il nemico della democrazia, dovrebbe essere buttato nella pattumiera della storia. Sono per la pace, non voglio spargimenti di sangue. Aliyev è la più grande minaccia nella regione» (Orkhan Agayev).

«Qui c’è un altro “eco-attivista” di Aliyev al blocco illegale del Corridoio di Berdzor (Lachin)» (Lindsey Snell).

«Nel giorno 77 del blocco azero dell’Artsakh, intrappolando 120.000 persone al freddo, l’”eco-attivista” versa la benzina sul suo fuoco ecologico per stare al caldo» (Lindsey Snell).

Mentre la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite non ha i mezzi per imporre nulla all’Azerbajgian, quando deciderà il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – che ha i mezzi – a far rispettare la decisione della sua Corte di giustizia legalmente vincolante contro la dittatura di Aliyev dell’Azerbajgian e la farà scendere le sue stivali dalle terre armene nel Corridoio di Berdzorg (Lachin), dell’Artsakh (dove c’è una crisi umanitaria dovuta al #ArtsakhBlockade contro 120.000 Armeni) e dell’Armenia?

I media azeri, controllati dal regime dittatoriale di Aliyev, confermano che non esiste nessuna intenzione di togliere il #ArtsakhBlockade per le rivendicazioni “ecologiste” fake.

Lei non è una ragazza ucraina. Quindi, al mondo non interessa che lei insieme al altri 120.000 Armeni, tra cui 30.000 bambini, sono stati isolati in pieno inverno, privati di cibo, cure mediche, gas, elettricità e acqua calda dal 12 dicembre 2022.

Gli “eco-attivisti” azerbajgiani che continuano a bloccare il Corridoio di Berdzor (Lachin) oggi hanno portato manifesti per Kojaly al loro “protesta ecologica”.

Mentre tutti sanno che l’Azerbajgian ha commesso i massacri dei propri civili azeri a Kojali alla fine di febbraio 1992, l’apparato di menzogne e propaganda di Aliyev continua a sostenere la narrazione fake sulla colpa degli Armeni. Ne abbiamo parlato ieri, in conclusione dell’articolo del giorno sul #ArtsakhBlockade [QUI].

Invece, l’Azerbajgian commette orribili crimini di guerra, violazioni dei diritti umani, ha intrappolato 120.000 armeni con il #ArtsakhBlockade per 2 mesi e mezzo, nella totale impunità, diffondendo menzogne e disinformazione tramite il troll e gli ambasciatori azeri sui social media in piena attività con le loro menzogne su Kojaly, dove gli Azeri hanno assassinato la loro stessa gente e hanno dato la colpa agli Armeni.

Alcuni esempi di fake news diffuse in quantità industriali da Caliber.az. Notizia storica fuori contesto e una menzogna clamorosa. Il massacro di Kojali c’è veramente stato, però non fu commesso dagli Armeni, ma dal regime dittatoriale dell’Azerbajgian, che è stato dimostrato in modo inequivocabile e oltre ogni ragionevole dubbio.

Inoltre, “genocidio” è una parola speciale per ciò che i Tedeschi hanno fatto agli Ebrei e i Turchi hanno fatto agli Armeni. All’Azerbajgian non deve essere consentito di utilizzare questa parola linguaggio speciale per la propria propaganda.

Il monumento alle vittime del pogrom di Sumgait presso il complesso commemorativo di Stepanakert.

Il #ArtsakhBlockade e i massacri e lo sfollamento degli Armeni a Sumgait sono interconnessi e fanno parte di una tragica storia di violenze e persecuzioni da parte delle autorità azere che continua ancora oggi.

I massacri di Armeni a Sumgait, una città a mezz’ora di macchina da Baku, la capitale dell’Azerbajgian, sono avvenuti alla luce del sole e sono testimoniati da numerose persone che hanno assistito ai fatti e da passanti. Il picco delle atrocità commesse dagli esecutori materiali si è verificato tra il 27 e il 29 febbraio 1988. Gli eventi furono preceduti da un’ondata di diffusione di informazioni anti armene e da raduni in tutto l’Azerbajgian nel febbraio del 1988.

Il pogrom di Sumgait ha avuto luogo durante le prime fasi del Movimento del Karabakh. Le questioni territoriali nel Caucaso meridionale oggi sono le conseguenze di un ciclo di violenza e di intolleranza che è iniziato con la soppressione da parte dell’Azerbajgian degli inviti alla pacifica auto-determinazione degli Armeni dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. La violenza contro gli Armeni a Sumgait ha cambiato la natura del conflitto del Karabakh. Il conflitto divenne militarizzato. Quando il popolo del Nagorno-Karabakh intraprese tutte le necessarie azioni legali al fine di optare per l’auto-determinazione in conformità con la legislazione del tempo, la risposta fu un’aggressione militare. È molto significativo che un governo sovrano abbia risposto ad azioni democratiche dei propri cittadini con l’uso delle armi. Inoltre, la violenta risposta militare all’inizio non fu nemmeno diretta contro la popolazione del Nagorno-Karabakh, ma contro gli Armeni di Sumgait e Baku, chilometri lontano dal territorio e dalla popolazione dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. L’Azerbajgian oggi è la vittima della sua aggressività e gli Armeni sono le vittime dell’aggressione azera.

Per ricordare i massacri di Sumgait abbiamo pubblicato oggi l’articolo 28 gennaio, giorno della memoria delle vittime del pogrom di Sumgait. Il 35° anniversario dell’orrore[QUI].

Mercoledì scorso, la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite ha ordinato all’Azerbajgian di porre fine al blocco del Corridoio di Berdzor (Lachin), l’unico collegamento dell’Artsakh con l’Armenia e il resto del mondo. Dal 12 dicembre 2022 degli Azeri, fingendosi attivisti ambientalisti mobilitati contro le miniere nell’Artsakh, bloccano questo corridoio vitale per i 120.000 abitanti armeni, causando una crisi umanitaria. L’Azerbajgian nega di aver ordinato il blocco di questa strada della vita per l’Artsakh. L’Azerbajgian “deve adottare tutte le misure a sua disposizione per garantire il movimento senza ostacoli di persone, veicoli e merci lungo il Corridoio di Lachin in entrambe le direzioni”, ha ordinato la Corte Mondiale. C’è “urgenza” di porre fine al blocco che potrebbe causare “danni irreparabili”, ha aggiunto il Presidente della Corte, Joan Donoghue, durante l’udienza.

Per comprendere la posta in gioco con l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia e le sue conseguenze sul #ArtsakhBlockade, il 23 febbraio 2023 Marc Daou ha intervistato per France 24 Taline Papazian, docente presso Sciences-Po Aix e direttrice dell’ONG Armenia Peace Initiative. Riportiamo di seguito l’intervista nella nostra traduzione italiana dal francese.

France 24: Come analizza l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia? È puramente simbolico o è una vittoria per gli Armeni?
Talin Papazian: Questa decisione è molto importante, è lontana dall’ordine del simbolo. È cruciale nel senso che riconosce che il Corridoio di Lachin è sotto blocco, contrariamente alle affermazioni di Baku, e mette in guardia sulle conseguenze del mantenerlo. Anche se la Corte Internazionale di Giustizia non ha i mezzi per imporre nulla all’Azerbajgian, si può considerare il suo ordine come una piccola vittoria diplomatica per l’Armenia. Perché sappiamo bene che questo tipo di decisioni emanate dalle autorità giudiziarie, per la loro esposizione internazionale, hanno implicazioni e influenze dirette sulla percezione dei vari attori internazionali. Dico “piccola vittoria” perché deve essere considerata sulla scala della massa di sfide che l’Armenia e il Nagorno-Karabakh devono affrontare, ma è innegabilmente un passo importante. Yerevan conduce, dal 2021, una diplomazia del diritto internazionale che può consentirle di evidenziare il crescente background della politica razziale anti-armena applicata a tutti i livelli in Azerbaigian. Tuttavia, è un intero settore della diplomazia pubblica in cui avrebbe potuto imbarcarsi almeno dal 2004, vale a dire dalla decapitazione di questo ufficiale armeno, Gurgen Margaryan, da parte di un soldato azero, durante un programma di addestramento organizzato dalla NATO in Ungheria.

Sul posto la situazione è insostenibile per la popolazione, che vede peggiorare di giorno in giorno la crisi umanitaria. Cosa sta succedendo?
La popolazione regge ancora, ma gli effetti del blocco si fanno sentire duramente a causa della crescente penuria. In particolare mancano medicinali, generi alimentari, frutta, verdura e latte in polvere per i bambini. Anche prodotti per l’igiene. Da qualche settimana le truppe di interposizione russe hanno iniziato a fornire, di tanto in tanto, un piccolo aiuto umanitario. Ma in proporzioni che non sono in grado di soddisfare i bisogni di tutti gli abitanti o di allontanare lo spettro di una crisi umanitaria. Altro effetto del blocco: i pazienti ricoverati negli ospedali sono in pericolo di vita perché non possono essere trasferiti a Yerevan. Da parte loro, i bambini non hanno più accesso alle scuole che non hanno riaperto dopo la fine delle vacanze natalizie a gennaio, per non poter riscaldare adeguatamente le aule, a causa del razionamento del gas. In sostanza, gli armeni del Nagorno-Karabakh sono presi in una manovra a tenaglia tra le forze russe, che sono sotto tiro, e le forze armate azere che ora chiedono l’istituzione di posti di blocco, il che equivarrebbe a condizionare ogni entrata e uscita alla buona volontà di Baku. Anche se sul posto, agli occhi degli abitanti, la presenza dei soldati russi nella zona incarna, finora, un baluardo contro l’esercito azero.

È difficile immaginare una rapida uscita dalla crisi, nonostante l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia. Cosa dobbiamo aspettarci dalla Turchia, dove si è recentemente recato il Ministro degli Esteri armeno dopo il doppio terremoto del 6 febbraio?
È troppo presto per sapere se la decisione della Corte Internazionale della Giustizia peserà direttamente a favore di una rapida revoca del blocco. Da un punto di vista generale della situazione, rimaniamo sull’orlo di una possibile guerra, anche se la missione di osservazione dell’Unione Europea, schierata a inizio settimana al confine tra i due Paesi, la tiene lontana a breve termine. Se gli Armeni hanno resistito per 44 giorni contro forze infinitamente superiori nella guerra del 2020, lo squilibrio di forze a favore dell’Azerbajgian è troppo grande. Ciò significa che siamo lontani da una dinamica di negoziati sereni, costruttivi e pacifici tra due parti che vedrebbero la pace allo stesso modo e che vorrebbero costruire un futuro stabile nella regione. La Turchia può svolgere un ruolo? Se volesse, potrebbe. Ankara si trova dopo il doppio terremoto in una situazione che inevitabilmente rimescolerà le carte nei prossimi mesi a livello politico ed economico. Ma anche nei rapporti con partner occidentali e donatori internazionali, mentre il Paese è immerso in una grave crisi economica, e dovrà rispondere alle conseguenze socio-economiche dei terremoti. Quindi forse in questo grande sconvolgimento che sta per verificarsi, ci saranno opportunità per accelerare o indirizzare in una direzione positiva i tentativi di ristabilire le relazioni diplomatiche tra Turchia e Armenia – e, per estensione, influenzare la questione del Nagorno-Karabakh. Ma certamente non a breve termine.

E la Russia, mediatore tradizionale del conflitto, che continua a voler mediare?
Questo blocco annulla un articolo molto importante dell’accordo di cessate il fuoco del 9 novembre 2020, firmato sotto l’egida di Mosca. Qualcuno potrebbe anche obiettare che l’accordo sul Corridoio di Lachin non funziona, la legittimità della presenza delle sue forze è messa in discussione. Tuttavia, già in grande difficoltà in Ucraina, la Russia non può permettersi di continuare a perdere l’equilibrio nel Caucaso meridionale. Quando il Cremlino non può più fare il poliziotto, un Paese come l’Azerbajgian, che ha tutti i mezzi della diplomazia sovrana grazie ai suoi idrocarburi, coglie l’occasione per rompere ancora un po’ i rapporti con Mosca. E l’Armenia, che non ha gli stessi mezzi ma che cerca in qualche modo di preservare i propri interessi, mette sempre più in discussione i suoi rapporti con i Russi. Il rischio per gli Armeni è essere preso tra i conflitti geopolitici dell’Occidente e della Russia. In ogni caso, quest’ultima, interessata come la Turchia all’istituzione nell’Armenia meridionale del Corridoio di Meghri, preteso dall’Azerbajgian [come “Corridoio di Zangezur”] per collegare il suo territorio al Nakhitchevan – enclave azerbajgiana -, non può più atteggiarsi a mediatore e alleato di Yerevan.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

La corte dell’Onu condanna l’Azerbaigian: «Riapra il Corridoio di Lachin» (Tempi 25.02.23)

La sentenza della Corte internazionale di giustizia accoglie le istanze dell’Armenia. Il parere è vincolante, ma senza la pressione internazionale difficilmente Baku rispetterà la decisione

La Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite ha accolto ieri la richiesta dell’Armenia e ha ordinato all’Azerbaigian di non ostacolare la libera circolazione di merci, persone e trasporti attraverso il corridoio di Lachin (Berdzor) in entrambe le direzioni. Con un’altra decisione, la Corte ha respinto la richiesta infondata dell’Azerbaigian sulla questione delle mine.

Il blocco del Corridoio di Lachin

Dal 12 dicembre l’Azerbaigian, per mezzo di presunti “attivisti per l’ambiente” ha bloccato l’unico collegamento tra l’Artsakh (Nagorno Karabakh) e l’Armenia, isolando di fatto 120.000 persone.

Solo alcuni convogli della Croce Rossa Internazionale e delle forze di pace russe riescono a superare il blocco per trasportare malati, qualche aiuto umanitario e favorire il ricongiungimento delle famiglie rimaste separate.

L’Azerbaigian rispetti la sentenza

Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” saluta con soddisfazione le due pronunce del Tribunale dell’Aja e si augura che finalmente la comunità internazionale agisca per spingere l’Azerbaigian a ripristinare il diritto degli armeni della regione.

Anche la sostituzione del ministro di Stato della repubblica di Artsakh, Ruben Vardanyan, particolarmente inviso ad Aliyev, è un segnale della volontà di pace della parte armena. Purtroppo, le prime risposte del regime azero sono state di scherno alle sentenze della corte dell’Onu.

«Ci auguriamo – riferisce un portavoce del Consiglio – che anche l’Italia riesca politicamente a sensibilizzare il partner azero e farsi protagonista di un tavolo di pace che garantisca agli armeni del Nagorno Karabakh il diritto a vivere liberi nella loro terra natale».

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L’Armenia: In Nagorno Karabakh intervenga la comunità internazionale (Exaudi.org 25.02.23)

Dall’ambasciatore di Armenia presso la Santa Sede Garen Nazarian riceviamo e pubblichiamo:

Egregio Signor Acali,
Spettabile Redazione,

Scrivo in merito all’intervista all’ambasciatore dell’Azerbaijan presso la Santa Sede, il sig. Mukhtarov, pubblicata sul vostro sito il 21 febbraio 2023. Vi sarei grato se poteste mettere a disposizione dei vostri lettori le mie opinioni in risposta al racconto dell’Azerbaijan.

Dissimulando le sue reali intenzioni, il signor Mukhtarov sotto il titolo “L’Azerbaijan tende la mano all’Armenia” ha tentato, nuovamente, di promuovere la sua propaganda di stato di stampo sovietico. In primo luogo, la sua intervista contiene una serie di fatti e presupposti alterati, falsità palesi sull’Armenia, sul Nagorno Karabakh e sul corso degli eventi e della geografia nella regione. Il signor Mukhtarov usa queste alterazioni senza molto riflettere sulla gravità e sulle ripercussioni di tali asserzioni.

Mukhtarov parla della cosiddetta “occupazione” senza mai citare ciò che ha preceduto quella “occupazione”. Nei fatti, essa è stata preceduta dal referendum condotto in Nagorno Karabakh, nel pieno rispetto delle norme e della legislazione allora vigenti nella regione. In risposta, le autorità azerbaijane lanciarono un’aggressione su vasta scala, una pulizia etnica e, in ultimo, una guerra totale contro gli armeni nelle città, nei paesi e nei villaggi dell’Azerbaijan.

La comunità internazionale ha assistito e confermato le innumerevoli atrocità e i crimini efferati perpetrati dalle autorità azere nei confronti della popolazione armena indifesa. Basti ricordare che esattamente 35 anni fa, in questi stessi giorni di febbraio, in risposta alla richiesta pacifica e costituzionale del popolo del Nagorno Karabakh di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione, le autorità azerbaijane organizzarono la folla armata che sferrò un pogrom contro gli armeni che vivevano nella città azerbaijana di Sumgait. Questi massacri furono il primo atto delle uccisioni di massa in seguito perseguiti penalmente dalle autorità sovietiche. Immediatamente dopo aver dichiarato la propria indipendenza dall’Unione Sovietica, tuttavia, l’Azerbaijan liberò i colpevoli di quei crimini e li salutò pubblicamente, attraverso gli organi di informazione, come eroi nazionali. I rapporti delle organizzazioni internazionali per i diritti
umani testimoniarono che quegli eventi avevano lo scopo di esacerbare la paura e l’orrore degli abitanti di etnia armena anche nel resto dell’Azerbaijan. I massacri a Ganja, Baku e in altre città tra il 1988 e il 1991 furono enormi e crudeli e portarono alla deportazione e alla pulizia etnica di oltre mezzo milione di abitanti di etnia armena. A queste atrocità seguirono, dal 1992 al 1994, offensive e operazioni militari azerbaijane senza precedenti pensate per raggiungere una soluzione militare alla questione del Nagorno Karabakh. Ancora una volta fu l’Azerbaijan a dare il via a un’aggressione armata contro il pacifico Nagorno Karabakh.

Nell’intervista il signor Mukhtarov ha anche fatto un pietoso tentativo di presentare il “multiculturalismo” come la forza dell’Azerbaijan. Durante la guerra contro il Nagorno Karabakh – storicamente noto come Artsakh – nell’autunno del 2020 e dopo la Dichiarazione Trilaterale del 9 novembre dello stesso anno, in diretta violazione del Secondo Protocollo alla Convenzione dell’Aia del 1954 e del diritto umanitario
internazionale consuetudinario, l’Azerbaijan ha intenzionalmente demolito e profanato i siti del patrimonio storico e culturale armeno in tutti i territori del Nagorno-Karabakh caduti sotto il suo controllo. La città di Shushi, di particolare valore storico per gli armeni, è stata “etnicamente” ripulita dall’Azerbaijan all’indomani della guerra dei 44 giorni. Nei giorni del conflitto la città è stata obiettivo costante di un bombardamento deliberato e pesante che ha preso di mira in particolar modo le sue chiese, i centri culturali e altri siti di rilevanza storica. Il mondo intero ha assistito ancora una volta all’atteggiamento
intollerante e razzista dell’Azerbaijan nei confronti del popolo armeno e del patrimonio religioso e storico-culturale armeno. I social media azerbaijani hanno pubblicato video e foto in quantità delle atrocità
contro la popolazione civile dell’Artsakh, degli atti vandalici contro khachkar (croci di pietra), siti e monumenti religiosi e della loro deliberata distruzione. La profanazione della chiesa del Santo Salvatore
a Shushi, diventata bersaglio della barbarie Azerbaijana, è, a questo riguardo, particolarmente oltraggiosa.

Oltre alla distruzione fisica o al vandalismo, l’Azerbaijan sta ora perseguendo una politica di falsificazione dei fatti storici e di appropriazione del patrimonio del popolo armeno, presentando i monumenti armeni in Artsakh come “albanesi caucasici”. La distorsione dell’identità del patrimonio armeno è un tentativo di “saccheggio culturale” e assieme una violazione gravissima degli strumenti giuridici internazionali pertinenti. Presentare le chiese armene come albanesi caucasiche è, infatti, una fase intermedia verso la loro “Azerbaijanizzazione”. Le migliaia di monumenti armeni, religiosi e non, nella regione furono eretti secoli prima della creazione dell’Azerbaijan nel 1918 e nulla hanno a che fare con l’identità azerbaijana. Tentare di estraniare i monumenti del popolo armeno non ha alcuna giustificazione storica, religiosa o morale.

Il clima anti-armeno in Azerbaijan e le azioni volte al completo annientamento di ogni traccia della presenza armena in Artsakh costituiscono una violazione evidente del diritto internazionale, contraddicono i valori universali e vanno severamente puniti. Condannando fermamente questa barbarie contro il patrimonio
dell’umanità, l’Armenia, in collaborazione con gli organismi internazionali competenti, continua a intraprendere misure concrete affinché i suoi autori ne siano giudicati responsabili e per impedire
del tutto simili azioni.

Oggi le popolazioni dell’Armenia e del Nagorno Karabakh si trovano ad affrontare sfide senza precedenti che continuano a minacciare la stabilità e la sicurezza della nostra regione e che sono state perfettamente sintetizzate nei recenti appelli lanciati da leader e parlamenti mondiali. In particolare, Papa Francesco nei messaggi del 18 dicembre 2022 e del 9 e 29 gennaio scorsi ha chiesto il rilascio dei prigionieri di guerra armeni e dei civili detenuti in Azerbaijan e la revoca del blocco del corridoio di Lachin. Queste voci forti si sono sentite in Armenia e nel Nagorno-Karabakh e spero siano state sentite e ascoltate anche a Baku.

In tale contesto, gli appelli forti e mirati della comunità internazionale, ivi compresi i media, sono davvero importanti. Da due anni a questa parte, l’Armenia persegue un’agenda di pace e, avendo la volontà politica di normalizzare le relazioni con l’Azerbaijan, si è impegnata in buona fede nei colloqui. In risposta, l’Azerbaijan non solo ha sollevato nuove rivendicazioni territoriali ma ha anche cercato di giustificare la sua ultima aggressione con la falsa argomentazione secondo cui il confine con l’Armenia non è delimitato. A tutt’oggi l’Azerbaijan sta utilizzando ogni possibile strumento di pressione: dalla detenzione illegale di prigionieri di guerra armeni come ostaggi alla diffusione di matrice statale dell’incitamento all’odio contro gli armeni, dalla retorica guerrafondaia all’uso concreto della forza. È altrettanto chiaro che finora le azioni dell’Azerbaijan, incluso il disumano blocco del corridoio di Lachin, hanno dimostrato nuovamente
l’assoluta necessità di un impegno internazionale per affrontare le questioni dei diritti e della sicurezza della popolazione del Nagorno-Karabakh.

In questo preciso momento, la popolazione del Nagorno Karabakh rimane sotto un assedio disumano a causa del blocco illegale del corridoio Lachin, l’ancora di salvezza, l’unica strada che collega il Nagorno-Karabakh con l’Armenia. Creando condizioni di vita insopportabili, l’Azerbaijan mira a costringere la popolazione del Nagorno-Karabakh a lasciare le case e le terre ancestrali. La recente dichiarazione del Presidente dell’Azerbaijan che suggerisce la deportazione di quegli armeni che non vogliono diventare cittadini dell’Azerbaijan viene a dimostrare ancora una volta la loro intenzione di pulizia etnica.

Proprio nei giorni scorsi la Corte Internazionale di Giustizia, il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, ha emesso un’ordinanza con effetto vincolante per tutti gli Stati membri. La Corte in particolare stabilisce che “l’Azerbaigian, in conformità con gli obblighi derivanti dalla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, deve adottare tutte le misure a sua
disposizione per garantire la libera circolazione di persone, veicoli e merci lungo il corridoio di Lachin in entrambe le direzioni”.

Poiché la crisi umanitaria nel Nagorno-Karabakh sta peggiorando di giorno in giorno, non possiamo rimanere a guardare mentre una popolazione lentamente muore di fame a causa di giochi politici e forse
considerazioni geopolitiche. È necessario l’intervento immediato della comunità internazionale per garantire un accesso umanitario senza ostacoli al Nagorno Karabakh. Bisognerebbe spiegare all’Azerbaijan che ci sono delle precise regole internazionali alle quali tutti devono attenersi.

Prendiamo atto della lunga dichiarazione dell’ambasciatore Garen Nazarian. Non spetta certamente a noi stabilire chi ha ragione e chi ha torto in un conflitto che ha radici antiche e complesse. Da parte nostra l’unico contributo possibile può essere quello di farci megafono delle parole del S. Padre e rilanciare l’invito ad Armenia e Azerbaigian a cercare veramente una pace duratura per il bene della popolazione civile, mettendo da parte, per quanto difficile, rancori e rivendicazioni che non possono favorire un clima di dialogo e di recupero di reciproca fiducia.

A.A.

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Settantaseiesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Il riconoscimento internazionale dell’Artsakh significa prevenire massicce violazioni dei diritti del popolo dell’Artsakh (Korazym 25.02.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 25.02.2023 – Vik van Brantegem] – I troll e gli ambasciatori dell’Azerbajgian continuano a diffondere fakenews esilarante sui social media, perché tutte le persone che detengono un’alta posizione sotto il regime di Aliyev devono ripetere la sua narrazione e menzogne o affrontare le conseguenze di essere gettate in prigione o giustiziati. La verità è che «oggi è il 76° del #ArtsakhBlockade illegale e disumano del regime di Aliyev. Le organizzazioni internazionali pertinenti hanno esortato l’Azerbaigian a rispettare l’ordine legalmente vincolante della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite di aprire il Corridoio di Lachin. Il regime di Aliyev ha ignorato gli appelli dal primo giorno, quindi dovrebbe essere costretta a farlo» (Tigran Balayan, Ambasciatore della Repubblica di Armenia nel Regno dei Paesi Bassi e nel Granducato del Lussemburgo).

I rappresentanti dell’Azerbaigian e dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh si sono incontrati sotto la mediazione del contingente per il mantenimento della pace russo e con i negoziati è stato raggiunto un accordo per riprendere la fornitura stabile di elettricità e gas all’Artsakh. Le linee di alta tensione che vanno dall’Armenia all’Artsakh sono state danneggiate il 9 gennaio di quest’anno e le forze armate azere che controllano l’area che attraversano non hanno permesso le squadre di riparazione dell’Artsakh di accedere nell’area.

Il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev è in visita ufficiale in Turchia. Tra le cose in discussione ci sono le relazioni Armenia-Azerbajgian. Alcuni esperti prevedono che la Turchia possa declassare la sua capacità di politica estera nel Caucaso meridionale a causa di gravi problemi interni a seguito del devastante terremoto che ha colpito il paese il 6 febbraio di quest’anno. Oltre a questo, un’altra possibile modificazione della situazione geopolitica potrebbe venire da un nuovo governo non allineato con Erdoğan dopo le elezioni nel maggio di quest’anno, che potrebbe potenzialmente modificare le relazioni bilaterali tra Azerbajgian e Turchia.

Un’immagine da un filmato di CCTV mostra gli “eco-attivisti” che mantengono il blocco con le forze speziali dell’Azerbajgian che fiancheggiano il Corridoio Berdzor (Lachin) che connette l’Artsakh/Nagorno-Karabakh con l’Armenia e il resto del mondo.

Altre foto dal posto di blocco nel Corridoio di Berdzor (Lachin) nonostante la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite ha obbligato l’Azerbajgian a togliere il blocco.

Si è svolta il 24 e 25 febbraio 2023 una conferenza scientifica e pratica in occasione del 35° anniversario del movimento del Karabakh dal tema L’imperativo del riconoscimento internazionale della Repubblica dell’Artsakh a Yerevan, la capitale della Repubblica di Armenia, presso il Matenadaran, il cui nome ufficiale è Istituto Mesrop Mashtots di manoscritti antichi, un’istituzione culturale che custodisce una collezione di manoscritti antichi in lingua armena e in moltissime altre lingue. Si trova in cima ad un imponente viale che porta, come la stessa biblioteca, il nome di Mesrop Mashtots, celeberrimo inventore dell’alfabeto armeno. Per via del suo patrimonio, che conta più di 17.000 manoscritti e circa 100.000 documenti di archivio, medievali e moderni, si tratta di uno dei luoghi essenziali per l’elaborazione e la trasmissione della memoria nazionale in Armenia. Matenadaran, in armeno classico, è un termine polivalente, in quanto significa «biblioteca» ma qualifica anche un luogo che funge pure da scriptorium e dove, pertanto, veniva organizzata ed eseguita l’opera di trascrizione dei codici; in quanto tale, diversi monasteri armeni erano dotati di un loro matenadaran.

La conferenza si è svolta con la benedizione della Santa Sede di Etchmiadzin della Chiesa Apostolica Armena, in assenza del governo, con la partecipazione di organizzazioni e gruppi pubblici e politici attivi nella questione dell’Artsakh.

Durante l’evento, il Ministro degli Esteri della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, Sergey Ghazaryan, ha pronunciato un discorso di apertura in cui ha sottolineato che la comunità internazionale dispone di motivi giuridici, storici e politici sufficienti per il riconoscimento della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh. Il riconoscimento internazionale è sempre stato rilevante nell’agenda della politica estera dell’Artsakh, ha affermato. Al momento, ha proseguito il Ministro Ghazaryan, le autorità azere, bloccando per più di 70 giorni 120.000 abitanti dell’Artsakh, stanno tentando di attuare una politica di pulizia etnica. In effetti, questa politica criminale di Baku è stata confermata dalle sentenze della Corte Internazionale di giustizia, che ha registrato fatti di odio e discriminazione razziale nei confronti del popolo dell’Artsakh da parte delle autorità dell’Azerbajgian. In questo contesto, il riconoscimento internazionale della Repubblica di Artsakh è un mezzo per prevenire sistematiche e massicce violazioni dei diritti del popolo dell’Artsakh. A sua volta, l’entità dei crimini dell’Azerbajgian contro il popolo dell’Artsakh, commessi a livello statale, il programma criminale di pulizia etnica sono un’altra ragione per riconoscere l’indipendenza della Repubblica di Artsakh. Tenendo conto degli sviluppi geopolitici globali, ha proseguito il Ministro Ghazaryan, e delle nuove tendenze legali e politiche che sono apparse, oltre a una serie di altre questioni, il problema deve essere discusso dalla comunità professionale. A questo proposito, il Ministro Ghazaryan ha sottolineato l’importanza di unire le capacità professionali e di lobbying dell’Armenia, dell’Artsakh e della diaspora.

L’Artsakh sta affrontando cambiamenti molto seri, come accadde nel 1988, quando iniziò il movimento del Karabakh, ha detto l’ex Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, Ruben Vardanyan, alla conferenze attraverso una videocollegamento da Stepanakert.
Vardanyan ha detto che l’indipendenza viene prima di tutto dal desiderio del popolo e non dalle organizzazioni internazionali. «Sono stato in Artsakh negli ultimi sei mesi e posso dire con certezza che è così che pensa la maggior parte degli Artsakhiani, non possono immaginarsi nessun’altra opzione se non quella di essere indipendenti. Allo stesso tempo, abbiamo un problema, le persone hanno perso la fiducia in se stesse, la fede per la giustizia, la leadership e il futuro. È molto difficile lottare se non hai fede», ha detto Vardanyan.
«Trentacinque anni fa abbiamo discusso non solo della nostra indipendenza, ma anche dei nostri valori e principi, per i quali eravamo pronti e per i quali non eravamo pronti. Quelle erano domande molto serie, e non possiamo decidere la nostra strada verso il futuro senza rispondere.
È successo così che abbiamo un’Armenia indipendente, una diaspora, abbiamo 120.000 armeni che vivono in Artsakh, che vogliono unirsi all’Armenia, ma allo stesso tempo abbiamo un obiettivo che in questa situazione il primo passo che dobbiamo fare è portare il percorso dell’indipendenza e dell’auto-determinazione dell’Artsakh fino al suo legittimo completamento.
Questo percorso potrà essere percorso solo quando la questione del riconoscimento internazionale dell’Artsakh e dell’esercizio del suo diritto all’auto-determinazione diventerà il lavoro più importante e quotidiano per l’Armenia, l’Artsakh e la diaspora armena. Il Paese ha gravi problemi, e il più grave è quello della sicurezza, con problemi economici e sociali di cui tenere conto».
Vardanyan ha affermato che le difficoltà verranno superate solo quando questa sarà la priorità per tutti, ogni giorno. «E dopo aver trascorsi questi sei mesi, dopo aver acquisito questa esperienza, da un lato sono sicuro che abbiamo fondati motivi per cui l’Artsakh rimarrà armeno, l’Artsakh rimarrà indipendente e l’Artsakh non si arrenderà», ha detto Vardanyan.
Come 35 anni fa, l’attuale situazione in Artsakh richiede la mobilitazione della forza e dello spirito del popolo, ha affermato l’ex Ministro di Stato dell’Artsakh.
«Sono sicuro che l’indipendenza dell’Artsakh significhi non solo il riconoscimento internazionale, ma anche il nostro desiderio di continuare la nostra lotta, e siamo pronti a fare del nostro meglio per questo», ha aggiunto Vardanyan.
«Ognuno può avere la sua opinione, ma dobbiamo essere unanimi sull’Artsakh. Non abbiamo il diritto di perdere l’Artsakh. Dovremo affrontare seri problemi, ma sono sicuro che ce la faremo grazie agli sforzi congiunti», ha concluso Vardanyan.

L’ex vice ministro degli Esteri Shavarsh Kocharyan – che si era dimesso il 10 novembre 2020, durante la crisi politica causata dall’accordo di cessate il fuoco del Nagorno-Karabakh del 9 novembre 2020 – ha detto durante la Conferenza che le tragiche perdite del popolo armeno sono avvenute durante i periodi di cambiamento nel sistema delle relazioni internazionali e che ora siamo di nuovo nella fase dei cambiamenti nel sistema delle relazioni internazionali. Ha osservato che durante il cambiamento del sistema delle relazioni internazionali, le guerre iniziano senza dichiarazione e finiscono con un fragile cessate il fuoco. “L’accordo di pace è in realtà un’idea dei tempi antichi, e operava con il diritto della forza, quando in un trattato di pace il forte imponeva tutte le sue condizioni al debole. Oggi, quando dicono “trattato di pace”, Turchia e Azerbajgian sono guidati da questo. Successivamente, vengono applicati tutti quei meccanismi: pressioni politiche, diplomatiche, psicologiche, propagandistiche, il cui scopo è che tu sottometti la leadership dello stato opposto alla tua volontà, devono essere guidati dalla tua volontà. Successivamente, dovresti fare di tutto per dividere e demoralizzare le persone. Questo viene fatto prima di iniziare un’operazione militare. Tutto questo è vicino a noi, e in queste condizioni è ovvio che abbiamo bisogno di consolidamento, e dovrebbe essere intorno a obiettivi chiari. In questo caso, il riconoscimento dell’Artsakh diventa proprio quell’obiettivo, che è anche un incentivo per i due stati armeni a lavorare in modo più efficiente”, ha affermato Kocharyan.
In riferimento all’importanza del diritto all’auto-determinazione, Kocharyan ha detto: “Se la base del conflitto del Nagorno-Karabakh è l’autodeterminazione, allora l’aggressore è l’Azerbajgian, se non c’è auto-determinazione, allora l’aggressore è l’Armenia. Se rifiuti l’auto-determinazione, ti prendi la colpa dell’aggressore Azerbaigian. Nell’ambito della responsabilità dell’aggressore, esistono meccanismi di responsabilità, comprese le riparazioni finanziarie, materiali, del territorio sovrano. Ad esempio, oggi la Polonia chiede alla Germania 1,3 trilioni di euro di risarcimenti per la Seconda Guerra Mondiale. Ora immagina cosa ci succederà se l’Armenia venisse etichettata come aggressore. Implica anche l’individuazione e il perseguimento dei criminali di guerra, il controllo della vita interna, in modo che il revanscismo non alzi la testa. Immagina, il gruppo di Minsk ricomincia a lavorare, se non c’è il diritto all’auto-determinazione, allora di cosa si tratta? Oggi molte persone dicono che il gruppo di Minsk non funziona perché la Russia non lo vuole. E perché dovrebbe volerlo, se l’Armenia dice apertamente che rifiuta l’auto-determinazione? In altre parole, su cosa negozierà la Russia, sul fatto che le sue truppe non sono necessarie lì? Se definisci chiaramente i tuoi interessi e obiettivi, avrai alleati e potrai anche avere avversari. Se non lo fai, sei la monetina di tutti gli altri. Stiamo perdendo i nostri alleati e li perderemo fino a quando non dichiareremo chiaramente i nostri interessi”, ha affermato Kocharyan.
Per quanto riguarda le attuali autorità della Repubblica di Armenia, ha osservato: “Il gruppo di persone che è salito al potere ha il chiaro obiettivo di cacciare la Russia, e questo significa che la Turchia colmerà il vuoto”.

Il nostro attuale governo è pronto a rinunciare oggi al diritto all’auto-determinazione dell’Artsakh, ha affermato Avetik Chalabyan. “Le dichiarazioni fatte da loro a Praga e Sochi sono in realtà questo. Sono pronti a ridurre lo status dell’Artsakh come problema dei diritti della minoranza etnica in Azerbajgian e a parlarne apertamente. È una ritirata fondamentale rispetto a ciò che avevamo ottenuto come risultato di quella lotta. L’attuale governo giustifica le sue azioni con la sfavorevole situazione geopolitica e la sconfitta militare. Sta cercando di giustificare oggi che non c’è alternativa e la lotta per il riconoscimento internazionale dell’Artsakh mette in pericolo l’Armenia, che lascia aperti i confini tra Armenia e Azerbajgian e, nelle condizioni di supremazia di forze dell’Azerbajgian, può portare al fatto che perde i suoi territori e, alla fine, la sovranità dell’Armenia”, ha detto.
Chalabyan ha posto una domanda. “Tuttavia, la situazione è davvero così disperata, una momentanea situazione sfavorevole non può essere motivo per noi di voltare oggi con trepidazione questa pagina della storia e, di fatto, chiudere la storia della nazione armena? Sopportiamo il fatto che non abbiamo un futuro nazionale, che stiamo diventando una parte insignificante e senza volto della civiltà mondiale e continuiamo a vivere così. Abbiamo davvero esaurito le nostre forze? Ci siamo riuniti qui oggi per cercare di mettere in campo le nostre forze, per cercare di unire il nostro potenziale mentale. Dobbiamo trovare nuove idee, nuova forza, nuove soluzioni per continuare questa lotta. Dobbiamo porci le domande più profonde. La lotta per l’Artsakh è una lotta per il nostro essere”.

Il riconoscimento internazionale dell’Artsakh è un requisito da tempo, ha detto ai giornalisti il capo della frazione parlamentare di opposizione “Armenia”, l’ex ministro della Difesa Seyran Ohanyan. Ha detto che il fatto che l’Artsakh si trovi oggi in una situazione così difficile è il risultato del lavoro dell’attuale governo. L’intero potenziale diplomatico è stato praticamente distrutto, le “linee rosse” di cui parla costantemente l’opposizione sono state distrutte. «Durante il crollo dell’URSS, l’Artsakh si è auto-determinato sul suo territorio storico, come l’Armenia e l’Azerbajgian. Dobbiamo ammettere che l’Artsakh si è auto-determinato. La prossima linea rossa è che l’Armenia non ha il diritto di “lavarsene le mani”. L’Armenia ha l’obbligo di garantire lo sviluppo sicuro e stabile del popolo dell’Artsakh. L’opposizione deve fare di tutto affinché il governo non firma documenti che danneggeranno il nostro Stato», ha concluso Ohanyan.
Il politico ha anche toccato le dimissioni del Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan: «Questa decisione avrà conseguenze negative per Artsakh», ha sottolineato Ohanyan, aggiungendo che conosce Vardanyan come uomo d’affari e filantropo di successo e che osserva le sue attività in Artsakh principalmente da un punto di vista patriottico.

Destituire Ruben Vardanyan dal suo incarico è stato un passo riprovevole e sconsiderato, ha affermato il movimento socio-politico alternativo “Insieme” in una dichiarazione: « Il movimento politico-culturale alternativo “Insieme” esprime la sua profonda preoccupazione in occasione delle recenti azioni avviate dal Presidente della Repubblica di Artsakh. Il licenziamento di Ruben Vardanyan, Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh, su richiesta delle autorità azere, è un passo riprovevole e sconsiderato, che crea un pericoloso precedente per fare ulteriori concessioni distruttive e rinunciare alla sovranità della Repubblica di Artsakh sotto la pressione della politica genocida e offensiva attuata dalla parte azera. Durante i 112 giorni molto difficili del suo mandato, Ruben Vardanyan, insieme ai membri del governo, è riuscito a indicare modi autosufficienti ed efficaci per internazionalizzare la questione dell’Artsakh, sviluppare l’economia assediata, infondere speranza e fiducia negli armeni dell’Artsakh nella loro forza. In questo periodo difficile e responsabile del blocco genocida dell’Artsakh e della prigionia del popolo dell’Artsakh, quando le autorità armene non solo non adottano misure efficaci per fornire il necessario sostegno all’Artsakh, ma servono anche l’agenda dei paesi ostili, noi consideriamo inaccettabile e distruttivo una simile intromissione nella vita politica interna dell’Artsakh, da parte di un criminale internazionale dell’Azerbaigian, che è il risultato della repressione da parte del governo. Chiediamo a tutti i rappresentanti del governo della Repubblica di Artsakh, funzionari e dipendenti pubblici, di concentrare tutte le loro forze e capacità per la resistenza degli Armeni dell’Artsakh e la sopravvivenza dell’Artsakh come entità indipendente dall’Azerbajgian».

ArmInfo ha scritto in precedenza che le dimissioni di Ruben Vardanyan erano una richiesta dell’Azerbajgian e della Turchia. È interessante notare, ha osservato ArmInfo, che nel dicembre dello scorso anno, le fonti di informazione collegate al Presidente della Repubblica di Artsakh hanno riferito che i rapporti tra Arayik Harutyunyan e Ruben Vardanyan erano diventati tesi.

Il Primo Vicepresidente del Comitato della Duma di stato per gli affari della CSI, l’integrazione eurasiatica e le relazioni con i compatrioti della Federazione Russa, Konstantin Zatulin, ha collegato le dimissioni di Ruben Vardanyan alle pressioni della parte azera. In una conversazione con una emittente radiofonica, il parlamentare russo ha osservato che, giunto alla carica di Ministro di Stato, l’imprenditore “ha sollevato speranze tra la popolazione sofferente del Nagorno-Karabakh”, che ora sarà costretta a “votare con i piedi”, lasciando la regione: «Certo, lo valuto come conseguenza della pressione esercitata, prima di tutto, dall’Azerbajgian, non solo su Ruben Vardanyan e sul Nagorno-Karabakh, ma anche sulla parte armena in linea di principio, che non ha difeso Vardanyan. Sono molto dispiaciuto, perché l’apparizione di Vardanyan era importante non solo di per sé, ma anche perché dava speranza alla popolazione sofferente del Nagorno-Karabakh di non essere abbandonata, ha sollevato queste speranze e le sue dimissioni, ovviamente, danneggeranno questo e incoraggiare molti a votare con i piedi, cioè a lasciare il Nagorno-Karabakh, lasciando la terra dei loro antenati. Questo è un tragico risultato, non il primo nella storia del popolo armeno. Non voglio fare affermazioni personali a Vardanyan – probabilmente ha dovuto soppesare tutti i problemi prima di accettare questo incarico. A quanto pare, ha sottovalutato il grado di pressione su di lui».
La parte russa “si è lavata le mani” sul destino di Vardanyan, ha aggiunto Zatulin: «Vorrei sottolineare che qui puoi anche applicare la tua goccia di catrame alla Federazione Russa, a cui è stata rivolta all’infinito la richiesta di costringere Ruben Vardanyan a partire da lì. Dopo che Vardanyan ha rinunciato alla cittadinanza russa per diventare cittadino armeno, abbiamo avuto una risposta ufficiale che non avevamo nulla a che fare con Vardanyan, con i suoi piani. Credo che anche in questo caso abbiamo dato risposte formali e non abbiamo voluto litigare con la parte azera, ci siamo lavati le mani come Ponzio Pilato. Nel Caucaso, la posizione di chi si lava le mani in futuro, purtroppo, non porta benefici a chi si lava le mani. Ciò non ha rimosso i sospetti delle parti azera e turca, hanno continuato a insistere su questo e hanno persino collegato l’apertura del Corridoio Lachin alla condizione che Vardanyan avrebbe lasciato il suo posto. Questo requisito aveva in effetti un carattere semi-ufficiale. Penso che ora, dopo tutto quello che è successo, possiamo scoprire se è davvero così, se il Corridoio di Lachin verrà aperto, se i cosiddetti ecologisti dell’Azerbajgian, che, ovviamente, non sono ecologisti di alcun tipo, e vengono controllati da Baku, si ritirano».

Il Ministro degli Esteri dell’Azerbajgian, Jeyhun Bayramov, ha assicurato ancora una volta che l’Azerbajgian si sta battendo per l’instaurazione della pace e della normalizzazione nella regione in conformità con i principi del diritto internazionale relativi all’integrità territoriale e alla sovranità dei Paesi. Tuttavia, ha taciuto sul fatto che l’Azerbajgian interpreta questo diritto a suo piacimento, ignorando completamente i suoi principi fondamentali, tra cui il diritto all’auto-determinazione dei popoli e il diritto alla vita. Poi, come di consueto, ha accusato l’Armenia di aver silurato la normalizzazione. “Se l’Armenia vuole davvero raggiungere la pace, allora deve correggere il suo corso”, ha detto, minacciando di ritenere l’Armenia responsabile di presunti crimini di guerra contro l’Azerbajgian. Allo stesso tempo, Bayramov ha dimenticato che dallo scorso settembre il mondo intero è diventato testimone oculare dell’aggressione azera contro l’Armenia. Ci sono stati molti fatti di questa aggressione diffuso da account azeri sui social media, tra cui la tortura di un’infermiera militare armena e l’esecuzione di soldati armeni disarmati.

Un mese fa Suren Sargsyan ha pubblicato dati declassificati dagli organismi competenti americani riguardanti gli eventi intorno al Nagorno-Karabakh nei primi anni ’90. E lì si nota che i fatti del presunto massacro di Azeri da parte degli Armeni a Khojali non sono stati confermati. Cioè, questo è un altro fatto che contradice la narrazione azera sui tragici eventi di quei giorni. Va notato che la parte armena ha ripetutamente sottolineato che le stesse autorità azere hanno commesso la strage di civili per trasferire successivamente la responsabilità alla parte armena. Le autorità dell’Artsakh hanno ripetutamente affermato che prima dell’attacco a Khojali avevano lasciato un corridoio per la ritirata dei civili.

L’Azerbajgian conduce da diversi anni una campagna di disinformazione sui fatti di Khojali, anzi sul “genocidio” di Khojali come i media e le istituzioni azere amano definire la morte di alcune centinaia di civili nel 1992 in quella località del Nagorno-Karabakh. Già l’uso di questo termine suona “anomalo”; non solo per il numero di vittime (oltretutto in un contesto bellico) ma anche e soprattutto perché usato come accusa nei confronti di un popolo, quello armeno, che esso sì ha effettivamente subito un genocidio.

Khojali (oggi Ivanian), prima ancora che l’Azerbajgian scatenasse la guerra contro la neonata Repubblica di Nagorno-Karabakh, era diventata un avamposto dell’artiglieria azera che quasi quotidianamente bombardava la capitale Stepanakert da est mentre da ovest (e dall’alto) i colpi di mortaio arrivavano da Shushi.  Solo nel mese di febbraio 1992, a guerra appena iniziata, erano morti sotto i bombardamenti azeri più di duecentoquaranta Armeni. Con lo scoppio del conflitto Khojali è infatti divenuta la spina nel fianco per la difesa armena e uno dei primi obiettivi che essa si pone è quello di neutralizzare le batterie lancia missili Grad che morte e distruzione stanno arrecando alla popolazione.

All’epoca la cittadina di 6.000 residenti era abitata quasi esclusivamente da azeri e turchi meshketi (ossia provenienti dalla Meshketia nel sud ovest della Georgia) fatti affluire negli ultimi quattro anni dal governo azero fino a triplicare la popolazione residente nel quadro di una politica demografica finalizzata a diminuire la percentuale di Armeni della regione. Nonostante questo, le autorità della Repubblica di Nagorno-Karabakh, avendo come unico obiettivo il solo annientamento della postazione militare, preavvisano la popolazione riguardo l’imminente attacco e la invitano a lasciare la città.

Gli Armeni decidono così di agevolare la fuoriuscita della popolazione e di aprire un corridoio umanitario che la conduca in territorio azero, oltre confine. Una scelta di civiltà, pur nell’asprezza del conflitto, ma anche di tattica militare per consentire ai reparti armeni di avere campo libero e potersi concentrare unicamente sul nemico in divisa. Per una settimana le autorità di governo del Nagorno-Karabakh avvisano quelle municipali e la popolazione, ma l’invito non viene raccolto. Invero gli abitanti avrebbero volentieri lasciato Khojali e gli stessi funzionari locali ripetutamente si appellano a Baku perché favorisca l’esodo, ma dalla capitale dell’Azerbajgian arriva una secca risposta negativa: gli abitanti devono rimanere là dove si trovano; la teoria degli “scudi umani” trova dunque una delle sue prime applicazioni.

La sera del 25 febbraio 1992, i soldati armeni lanciano la preannunciata offensiva contro le postazioni avversarie e in cinque ore di combattimento riescono ad avere la meglio sul nemico. Decine di soldati nemici cadono, molti scappano nelle retrovie e si mescolano alla popolazione. Le batterie lanciamissili sono finalmente silenziate. Circa settecento sono i prigionieri e, secondo le fonti armene, si contano solo undici civili fra le vittime dell’attacco.

A quel punto la popolazione civile, e mescolati ad essa numerosi soldati in fuga, si riversa su quel corridoio umanitario che comunque gli Armeni avevano garantito. Questo percorso di fuga si dirige verso est, alla volta di Agdam in Azerbajgian. Poco oltre confine, in territorio azero, si sarebbe consumata la carneficina di civili. Precisamente nei pressi del villaggio di Nakhichevanik, fuori dal corridoio umanitario predisposto. Qui numerosi soldati azeri in fuga si sarebbero scontrati con forze di difesa locali, in territorio, come detto, fuori dal controllo della Repubblica di Nagorno-Karabakh.

Il 28 febbraio, ossia tre giorni dopo l’operazione militare su Khojali, giornalisti turchi e azeri filmano, in territorio azero, un numero imprecisato di cadaveri.

Il Presidente azero Mutalibov (che in un’intervista alla Nezavisimaya Gazeta il 2 aprile confermerà la notizia del corridoio umanitario lasciato aperto dagli Armeni) denuncia un  complotto contro di lui organizzato dal Fronte Popolare e ritiene i morti di Khojali un attacco al suo potere.

Due giorni dopo le prime riprese dei cadaveri, alti giornalisti vengono invitati a esaminare i corpi; l’organizzazione del “tour” non è perfetta e una giornalista ceca (Dana Mazalova) riceve per errore un secondo pass e si accorge quindi che molti dei corpi che aveva visto nei giorni precedenti sono stati “arrangiati” per mostrare un accanimento sulle vittime.

Il Fronte Popolare spinge per le dimissioni di Mutalibov a causa delle disfatte militari che l’esercito azero sta collezionando; il Presidente è costretto a dimettersi il 6 marzo. Poi poco alla volta il caso Khojali prende un’altra piega: con il passare dei mesi il numero dei morti aumenta fino a superare quota seicento nonostante non vi sia un solo scatto fotografico o un solo filmato che mostri più di qualche decina di cadaveri.

Da problema interno il massacro si trasforma in arma di propaganda e negli ultimi anni (a partire dal ventennale del pogrom anti armeno di Sumgait del 1988) l’Azerbajgian cerca di coprire le proprie responsabilità per i tanti eccidi prima e durante la guerra addebitando agli armeni il “genocidio” di Khojali.

La prima domanda che ci si deve fare parlando di Khojali è per quale motivo gli Armeni, dopo aver preannunciato per una settimana l’operazione e aver ripetutamente invitato la popolazione ad abbandonare la città avrebbero poi dovuto accanirsi contro gli abitanti in fuga?

Il secondo interrogativo è ancora più stringente: perché dopo un’operazione militare certamente non facile, costata impegno, fatica, e vittime anche fra le propria file, gli Armeni sarebbero dovuti andare a inseguire gli abitanti in fuga e colpirli in un territorio sotto controllo azero, a pochi chilometri di distanza dalle caserme di Agdam dove stazionavano centinaia, se non migliaia di soldati nemici? Che senso aveva tutto questo? Dopo cinque ore di combattimento, nel cuore della notte (la battaglia cominciò intorno alle 23 e si concluse verso le quattro della successiva gelida mattina di febbraio) perché mai gli Armeni avrebbero dovuto mettere a repentaglio ulteriormente le proprie vite per andare a inseguire qualche decina o qualche centinaio di civili in fuga?

Anche la dislocazione dei corpi a uno dei fotografi lascia aperti inquietanti dubbi sulla dinamica dei fatti. A parte la composizione “postuma” dei cadaveri, documentata dalla giornalista ceca, le poche immagini a disposizione sembrano confermare che le vittime siano state raggiunte da colpi d’arma da fuoco frontali. Quindi cerchiamo di capire: gli Armeni dopo aver conquistato le postazioni militari nemiche, si mettono all’inseguimento dei civili in fuga, li sopravanzano e in territorio controllato militarmente dal nemico a meno di venti chilometri dal quartier generale azero li fronteggiano (spalle all’esercito azero!) per farne fuori alcune decine… Che follia è questa? Eppure la propaganda azera, rilanciata dal cerchio magico di amichetti, questo afferma.

E ancora: perché tutti i giornalisti azeri che hanno provato a indagare a fondo sui fatti di Khojali sono stati arrestati o uccisi? Perché sui siti azeri dedicati a Khojali vengono postate foto che nulla hanno a che fare con tale località e che mostrano corpi di vittime di terremoti o di pulizie etniche nei Balcani? Domande rimaste senza risposta mentre la campagna sul “genocidio” di Khojali si ripropone ogni anno con gli stessi interpreti pronti a recitare il consueto mantra dei diritti umani, della verità storica e della giustizia per Khojali. Siamo solidali con loro. Non deve essere facile assumere posizioni serie ed accademiche su un argomento di cui si conoscono poco o nulla i dettaglia, solo per sentito dire, da fonte azera.

L’Azerbajgian aveva appena iniziata la guerra a fine gennaio dopo la proclamazione di indipendenza della Repubblica di Nagorno-Karabakh, le forze armene erano poche e mal equipaggiate, nessuno avrebbe scommesso un rublo sul successo di Stepanakert e il neonato stato sembrava destinato a essere spazzato via; e invece… I partigiani armeni avevano subito dimostrato di vender cara la loro pelle e che per la libertà di quel pezzetto di terra avrebbero combattuto fino alla morte; “pensavano che non saremmo stati capaci di prendere  Khojali e invece…”. Che suona molto diversamente da come gli Azeri cercano di far intendere la cosa.

Due mesi dopo a Maragha, piccolo villaggio della regione di Martakert quasi al confine con l’Azerbajgian, squadracce azere con la complicità di alcuni carristi russi compiono una strage di civili armeni: oltre una cinquantina sono decapitati, un centinaio viene rapito e di loro non si avrà più alcuna notizia. Il comandante del gruppo, Shanin Tagiyev, viene insignito a giugno del titolo di “eroe nazionale” dell’Azerbajgian; quindici anni più tardi il collega Safarov decapiterà a Budapest l’ufficiale armeno Margaryan. Stesso stile, stessa barbarie, stesso riconoscimento nazionale.

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Santa Sede: basilica di San Pietro, lunedì mons. Gugerotti presiede una messa nella memoria liturgica di San Gregorio di Narek (SIR 25.02.23)

Lunedì 27 febbraio alle 16, l’Ambasciata della Repubblica d’Armenia presso la Santa Sede organizzerà nella basilica di San Pietro, nella Cappella del Coro dei canonici, una celebrazione eucaristica in occasione della commemorazione liturgica di San Gregorio di Narek, abate e dottore della Chiesa. Sarà mons. Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, a presiedere la celebrazione alla presenza di S. B. Raphael Bedros XXI Minassian, Catholicos, patriarca di Cilicia per gli armeni cattolici, e di Paruyr Hovhannisyan, vice ministro degli Esteri d’Armenia. I membri del corpo diplomatico, dei media e i rappresentanti delle chiese e della comunità armena sono stati invitati a unirsi alla celebrazione.
Gregorio di Narek è stato un poeta, un monaco, un teologo, un filosofo, un mistico e un santo (951-1010). È ampiamente venerato come una delle figure più significative del pensiero religioso e della letteratura armena medievale. “Il Libro della Lamentazione” è considerato il suo capolavoro. Conosciuto anche come Narek, si compone di 95 preghiere dette “Colloqui con Dio dal profondo del cuore”. Un tema centrale dell’opera è la separazione dell’uomo da Dio e la sua ricerca per ricongiungersi con Lui.
Nell’aprile 2015, durante la messa della Divina Misericordia, Papa Francesco ha proclamato il grande teologo “Dottore della Chiesa universale”. La proclamazione solenne ha avuto luogo durante i riti iniziali della Messa in cui si è commemorato il centenario del Genocidio armeno. Nel giugno del 2016 alla veglia di preghiera ecumenica per la pace in Piazza della Repubblica a Yerevan (Armenia), Papa Francesco ha descritto San Gregorio di Narek come “l’offripreghiera di tutto il mondo”. Nel gennaio 2021 a seguito del decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Papa Francesco ha iscritto il 27 febbraio come il giorno di San Gregorio di Narek nel Calendario Romano Generale.
L’ambasciatore d’Armenia presso la Santa Sede, Garen Nazarian, farà un breve discorso introduttivo alla celebrazione.

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Firewing, pubblicano una canzone tributo al popolo armeno (Metalhammer 25.02.23)

FireWing hanno rivelato il loro nuovo cantante, Jota Fortinho, in un nuovo, ammaliante singolo intitolato “Last Gasp”. La band, con sede negli Stati Uniti, è composta da musicisti brasiliani e nordamericani formatisi al rinomato Berklee College of Music, ed è un universo musicale concettualizzato nelle storie mitologiche e culturali del popolo armeno. Caio Kehyayan, chitarrista e fondatore del gruppo, unisce le sue forze a quelle di eccezionali musicisti di tutto il mondo.
Dopo l’acclamato album di debutto della band, Resurrection (2021, Massacre Records), il loro nuovo singolo “Last Gasp” (disponibile su tutte le piattaforme digitali QUI) è una canzone concettuale ultra coinvolgente basata sulle mitologie armena e greca, che crea un’allegoria che immortala i ricordi degli antenati armeni.

Caio commenta:
“Comporre canzoni dei FireWing è un viaggio alla ricerca di diventare eterni sulla terra e lasciare l’eredità del popolo armeno immortalata in questo piano. Con questa canzone intendo inviare un messaggio forte a tutta la diaspora armena. Dopo il genocidio, migliaia di armeni sono fuggiti in diversi angoli del mondo e attualmente ci sono più armeni fuori dall’Armenia che nel Paese stesso, che si trova nella regione del Caucaso”.

La proposta della band è di unire i concetti storici del suo universo cinematografico con le sue composizioni musicali. FireWing unisce suoni, ritmi, fatti storici e mitologici di diverse culture per contestualizzare la trama e creare un’esperienza musicale che porterà un nuovo colore al progressive symphonic metal.

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Dopo 15 anni in una gabbia il leone più triste del mondo inizia la sua nuova vita in un santuario (Greenme 24.02.23)

Un leone di nome Ruben ha trascorso tutta la sua vita in una gabbia in uno zoo in Armenia e gli ultimi 5 anni in completa solitudine dopo che la struttura ha chiuso i battenti. Ora verrà trasferito in un santuario in Africa dove potrà vivere libero sotto osservazione degli esperti

Ha 15 anni Ruben, un leone nato in cattività e detenuto all’interno di una piccola gabbia di uno zoo in Armenia fin quando la struttura non ha chiuso al pubblico. Mentre gli altri animali sono stati trasferiti in altri parchi zoologici, lui è rimasto per 5 anni in completa solitudine.

In tantissimi lo hanno soprannominato il “leone più triste del mondo”, lasciato indietro nella sua gabbia in Armenia, l’unico ambiente che ha sempre conosciuto, ma nel silenzio più profondo. Non ha sentito altri suoni se non il suo ruggito e i passi di qualcuno che lo nutriva. Non conosce null’altro se non le sbarre e il cemento.

Ha i denti rotti e incrinati, problemi neurologici e le suo ossa scricchiolano. Non c’è da sorprendersi viste le condizioni in cui è stato detenuto finora. Tutto questo ha reso ancora più urgente il suo salvataggio. A seguire Ruben è stata l’associazione Animal Defenders International che si è occupata del suo trasferimento in una fondazione per orsi in Armenia dove trascorrerà un periodo di quarantena prima di arrivare in Sudafrica.

Nel continente africano, la terra a cui Ruben appartiene, la ONG gestisce un santuario per grandi felini sottratti da zoo e circhi. Qui il leone potrà osservare i suoi simili e relazionarsi passo dopo passo con loro.

Ruben avrà un habitat con più sezioni in modo che possa avere costantemente accesso a più spazio man mano che i suoi movimenti migliorano. Avremo bisogno di ricostruire le piattaforme e altri arricchimenti per soddisfare i suoi bisogni immediati, ad esempio gradini bassi e larghi attorno alle piattaforme, e smettere di usare alcuni giocattoli fino a quando il collo e la colonna vertebrale non saranno stati valutati, scrive ADI.

I suoi problemi di salute non gli impediranno di iniziare una nuova vita. Nel santuario camminerà sull’erba per la prima volta, ascolterà i suoni della natura, si sdraierà al sole e sentirà il vento sulla sua criniera.

I rappresentanti di Animal Defenders International contano che Ruben possa arrivare in Sudafrica intorno a marzo. Bisognava infatti organizzare il viaggio una volta in possesso dei permessi di importazione ed esportazione CITES e il trasporto verso il santuario.

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Settantacinquesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Se gli Armeni perdono l’Artsakh, gireranno l’ultima pagina della loro storia. Non dire dopo: “Non lo sapevo” (Korazym 24.02.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 24.02.2023 – Vik van Brantegem] – Oggi ricorre il 75° giorno dell’illegale e sadico #ArtsakhBlockade da parte del regime genocida e dispotico di Ilham Aliyev, ispirato dalla sua decennale impunità. Il blocco del Corridoio di Berdzor (Lachin) che tiene sotto assedio la Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, provoca una crisi umanitaria per la popolazione dell’Artsakh. Sono passati 75 giorni di carenza dei beni di prima necessità, di cibo e di medicine. Sono passati 75 giorni di interruzioni di luce e di gas. Sono stati 75 giorni senza accesso al resto del mondo.

Questa è una storia di resilienza. La sto seguendo da 75 giorni, giorno dopo giorno, con il dolore nel cuore per il popolo dell’Artsakh, 120.000 Armeni tra cui 30.000 bambini.

Nonostante la decisione giuridicamente vincolante della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, la dittatura dell’Azerbajgian continua la sua guerra silenziosa contro il popolo armeno dell’Artsakh, che rimane sotto blocco e vuole solo vivere in pace nella propria terra. L’Artsakh e l’Armenia vogliono la pace. L’Azerbajgian vuole l’Artsakh e l’Armenia. Non possiamo permetterlo. Va ricordato che l’Artsakh non ha mai fatto parte di un Azerbajgian indipendente. Il terrore, l’aggressione, le bugie e la propaganda dell’Azerbajgian non cambia questo fatto storico.

È ora di agire e aprire il Corridoio di Lachin senza indugio o condizioni. È ora di porre fine all’impunità e di sanzionare il regime del dittatore Ilham Aliyev. È ora di inviare una forza di interposizioni delle Nazioni Unite nel Corridoio di Berdzor (Lachin) e in Artsakh. La decisione legalmente vincolante della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite apre la strada a tutti gli attori internazionali (Russia, Francia, USA, Unione Europea, ONU, OSCE) capaci di agire e di aprire immediatamente la via della vita dell’Artsakh.

«Nessuno può influenzarci. Potrebbero esserci delle chiamate, potrebbero esserci alcune dichiarazioni, non è necessario prestare loro attenzione. Rispondo a queste chiamate semplicemente per cortesia politica. Ma questo non cambierà minimamente la nostra posizione» (Ilham Aliyev, Presidente e Comandante in capo delle forze armate dell’Azerbajgian).

Quando l’Azerbaigian afferma di prendere tutte le misure in suo potere e a sua disposizione per garantire un passaggio sicuro degli Armeni, si prega di notare che le foto qui sopra mostrano l’aspetto reale della ”eco-protesta” azera, che blocca l’autostrada interstatale Goris-Berdzor (Lachin)-Stepanakert lungo il Corridoio di Berdzor (Lachin) internazionalmente riconosciuto. Sono le stesse forze speciali che hanno decapitato i civili armeni nel 2020 e che oggi sono schierato lungo la strada acconto agli “eco-manifestanti”.

Filmati sui social media dell’Azerbajgian mostrano gli “eco-attivisti” organizzati dal governo azero, nel 75° giorno del blocco azero del Nagorno-Karabakh. Al posto di blocco nel Corridoio di Berdzor (Lachin) in Artsakh cantano l’inno nazionale e sventolano la bandiera dell’Azerbajgian mentre intrappolano, tormentano e sequestrano 120.000 Armeni dell’Artsakh. L’Azerbajgian non ha alcuna intenzione di togliere il blocco che nega di aver imposto, ma i video mostrano dei militanti del RİİB e il RİİB è fondato da e fa parte della Fondazione Heydar Aliyev, quindi dipende dal governo dell’Azerbajgian. Nessun cambiamento nella situazione, tutti i transiti civili continuano ad essere bloccati.

Un’altra foto che mostra le forze speciali azere, proprio dietro la recinzione, a pochi metri di distanza degli attivisti che cantano dall’altra parte lungo la strada, inneggiando ai soldati azeri, “i migliori soldati del mondo”.

Il video [QUI] dal canale Telegram del contingente di mantenimento della pace russo in Artsakh/Nagorno-Karabakh mostra i militari russi insieme ai volontari del progetto multinazionale “Siamo uniti ” nella regione di Martakert a nord-est della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh mentre svolgono un’azione umanitaria per 672 famiglie dell’Artsakh che si sono trovate in una situazione sociale difficile.

Secondo Rahman Mustafayev, l’Ambasciatore della Repubblica di Azerbajgian nel Regno dei Paesi Bassi, già Ambasciatore in Grecia, Albania, Francia e presso la Santa Sede, gli “eco-attivisti” azeri che bloccano il Corridoio di Berdzor (Lachin) e intrappolano 120.000 Armeni nell’Artsakh “possono continuare a esercitare i loro diritti”. I loro diritti. In Azerbajgian. Dove le autorità arrestano ogni due giorni delle persone per aver pubblicato video su TikTok.

L’esercito di troll dell’Azerbajgian cerca di negare qualcosa che 120.000 Armeni dell’Artsakh dicono da 75 giorni, mentre Amnesty International, Human Rights Watch, Corte Internazionale di Giustizia, USA e Unione Europea confermano le conseguenze umanitarie del genocida #Artsakhblockade. E vuole che crediamo le menzogne e falsità dei rappresentanti diplomatici del regime azero.

Questa è una foto che dimostra – secondo la narrazione di Aliyev – che il Corridoio di Lachin non è bloccato, visto che i camion delle forze di mantenimento della pace russe schierate nell’Artsakh e nel Corridoio transitano liberamente sulla strada (Foto di Tofik Babayev/AFP).

Fatti “divertenti” su “inesistente” #ArtsakhBlockade che la Corte Internazionale di Giustizia ha così erroneamente condannato. Secondo Maria Zakharova, Portavoce del Ministero degli Esteri della Federazione Russa, dal 12 dicembre 2022 sono state consegnate all’Artsakh in totale oltre 2,5 tonnellate di merci umanitarie. Si tratta di una media di 0,3 grammi per persona al giorno. Quanta è la razione giornaliera di Maria Zakharova? Prima del blocco venivano consegnate 400 tonnellate di merci AL GIORNO.

Sulla prestigiosa rivista The New York Review of Books [QUI], nell’articolo La strada per l’Artsakh. Il blocco dell’Azerbajgian dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh è un’atrocità al rallentatore, Susan Barba scrive: «C’è una vecchia barzelletta su una tartaruga rapinata da un gruppo di lumache. Quando gli viene chiesto di descrivere gli aggressori, la tartaruga dice che non è sicuro, è successo tutto così in fretta. I blocchi deformano il tempo in modo simile: il dolore che infliggono è sia immediato che prolungato. (…) Il Nagorno-Karabakh confina su tutti i lati con l’Azerbajgian, che nel 2020 ha avviato una guerra contro l’enclave che si è conclusa con un cessate il fuoco mediato dalla Russia. Ora i 120.000 Armeni che vi abitano sono completamente isolati, non possono entrare o uscire liberamente dalla regione e gli è negato l’accesso a cibo, carburante e forniture mediche. Il blocco è una violazione del diritto umanitario internazionale da parte dell’Azerbajgian e un atto di aggressione contro gli Armeni del Nagorno-Karabakh. La Corte Internazionale di Giustizia ha stabilito che, ai sensi della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, l’Azerbajgian deve “assicurare un movimento senza ostacoli” attraverso il Corridoio. La sentenza arriva dopo più di due mesi di sofferenza silenziosamente crescente. È iniziato il 12 dicembre 2022, quando manifestanti sostenuti dal governo azero che affermavano di essere attivisti ambientalisti hanno bloccato la strada con una protesta contro l’estrazione di risorse naturali nella regione. (L’Azerbaigian continua a negare la responsabilità.) Le forze di mantenimento della pace russe incaricate di proteggere il Corridoio non hanno fatto alcun tentativo di disperdere i manifestanti. Il giorno successivo, l’Azerbajgian ha interrotto la fornitura di gas naturale al Nagorno-Karabakh, lasciando la popolazione bloccata senza riscaldamento in pieno inverno. Da allora, nessuno dei camion che percorrono quotidianamente l’autostrada Goris-Stepanakert con quattrocento tonnellate di beni di prima necessità è stato autorizzato ad entrare nella regione. Al Comitato Internazionale della Croce Rossa è stato concesso solo un accesso minimo. Nel frattempo, i veicoli corazzati e il personale delle forze di pace di mantenimento della pace russe continuano a proteggere l’uno dall’altro i manifestanti azeri e la popolazione armena, formando di fatto una propria barricata».

Ruben Vardanyan destituito dalla carica di Ministro di Stato dell’Artsakh

Come abbiamo riferito ieri [QUI], Ruben Vardanyan è stato destituito dal suo incarico di Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh dal Presidente Arayik Harutyunyan. Annunciando la sua decisione durante la riunione del governo, Harutyunyan ha elogiato Vardanyan per il suo ruolo nella supervisione dell’emergenza e per la sensibilizzazione in tutto il mondo riguardo all’Artsakh e al blocco del Corridoio di Lachin. Harutyunyan non ha affrontato il motivo per cui ha destituito Vardanyan, ma ha sottolineato che la decisione non era in risposta alle critiche dell’Azerbajgian e del Presidente Ilham Aliyev a Vardanyan. Però, è un fatto che la destituzione avviene cinque giorni dopo che Aliyev aveva chiesto la rimozione di Vardanyan come Ministro di Stato dell’Artsakh alla Conferenza sulla Sicurezza di München lo scorso 18 febbraio. Secondo Simon Magakyan – che aveva anticipato la destituzione nei giorni passati – Ruben Vardanyan è stato licenziato dal suo incarico di Ministro di Stato per dare al regime di Ilham Aliyev una copertura di “successo” per attuare l’ordine della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite di porre fine al #ArtsakhBlockade. Se questo è il collegamento e che fosse vero che l’Armenia da ascolto ad Aliyev, allora Aliyev continuerà semplicemente a fare ciò che vuole. Non che non sia già stato in grado di fare quello che vuole prima.

Dopo la sua destituzione, Vardanyan ha affermato: “L’Artsakh/Nagorno Karabakh è la mia casa. È stato un onore servire come Ministro di Stato per il nostro popolo, la nostra Repubblica e la nostra incrollabile lotta per un Artsakh libero… Non vedo l’ora di continuare a servire l’Artsakh/Nagorno Karabakh in modo da poter raggiungere i nostri obiettivi comuni”.

Il ruolo di Ruben Vardanyan in Artsakh è sempre stato messo in discussione non solo dall’Azerbaigian ma anche da determinati ambienti in Armenia, in particolare in riferimento al motivo per cui si trova in Artsakh. Comunque, pare che sia lì perché ha davvero a cuore quella terra e vuole contribuire il più possibile a realizzare i cambiamenti necessari per il futuro dell’Artsakh. E per questo merita rispetto, soprattutto perché un uomo con la sua ricchezza, ora potrebbe essere in qualsiasi altra parte del mondo, piuttosto che in un Artsakh bloccato e in pericolo di sopravvivenza. La sua destituzione lascia un senso di profonda tristezza.

Comunicando la destituzione di Ruben Vardanyan dalla carica di Ministro di Stato, il Presidente Arayik Harutyunyan ha comunicato che ha offerto al Procuratore Generale della Repubblica, Gurgen Nersisyan, di assumere le funzioni di Ministro di Stato, tenendo conto delle sue qualità professionali e umane, della professionalità, correttezza, principi e patriottismo dimostrati nel suo operato.

Il Presidente Harutyunyan ha espresso il suo apprezzamento degli sforzi di Vardanyan sia per aumentare la consapevolezza internazionale sull’Artsakh sia per risolvere molti problemi interni durante l’assedio in corso. “Ruben Vardanyan ed io siamo stati insieme durante tutto questo tempo, seguendo quotidianamente gli eventi e gli sviluppi che accadono sia in Artsakh che nel mondo esterno, ci siamo costantemente scambiati idee sulle soluzioni alla situazione esistente. Sono grato al Signor Vardanyan per il fatto che ha sempre cercato di condividere la responsabilità con me nella massima misura sia nelle relazioni amichevoli che in quelle di partenariato e non ha cercato di addossarmela facendo riferimento alle norme costituzionali. Ma d’altra parte, era consapevole e comprensivo della portata e dell’entità della mia responsabilità personale per la situazione creatasi in Artsakh e per tutti i problemi futuri”, ha sottolineato il capo dello Stato.

Nella riunione ieri del governo della Repubblica di Artsakh, presieduto dal Presidente Arayik Harutyunyan, è intervenuto anche Ruben Vardanyan con una lunga dichiarazione nella quale parla, appassionatamente, dei 112 giorni del suo incarico come Ministro di Stato, con riconoscenza e con grande amore per la patria, ma anche con qualche stilettata per comportamenti che non giudica consoni alle circostanze in cui versa l’Artsakh a causa del blocco azero. Riportiamo di seguito il contenuto del suo intervento, nella traduzione italiana a cura di Iniziativa italiana per l’Artsakh.

«Lavorerò qui, starò al tuo fianco. Grazie, Signor Presidente, per tutto. Anche se abbiamo delle contraddizioni nei diversi approcci, l’idea generale è che abbiamo “linee rosse” che nessuno dovrebbe oltrepassare. Queste linee rosse sono molto importanti per la nostra dignità, al fine di mantenere Artsakh armeno, indipendente e dignitoso. Sono fiducioso che insieme supereremo questa strada.
Prima di tutto, vi ringrazio per il modo in cui siamo passati insieme e per la fiducia che il Signor Presidente ha riposto in me. È stata una grande esperienza per me.
Sai che vengo in Artsakh da decenni, avevo ottimi contatti, ma all’inizio di settembre ho dichiarato di essere venuto perché sentivo che ci trovavamo sull’orlo di un precipizio, situazione non visto pienamente consapevole.
Per me era Sardarapat [battaglia fondamentale per la stessa esistenza del popolo armeno dopo il genocidio]. Quando dico Sardarapat, capisco la crisi, un’agenda diversa, e mi percepisco come un soldato che fa tutto il necessario per salvare la nostra patria. Quindi, quando ho ricevuto questo invito, è stato inaspettato per me, perché mi ero dato la mia parola che non sarei entrato nel governo, ma ho capito che se sono un uomo di parola, andando a difendere la mia patria, non posso non essere “voglio, non voglio, posso, non posso”. Se deve essere fatto, allora deve essere fatto.
È stata, ovviamente, una decisione difficile per me.
D’altra parte è stato facile, perché ho deciso da solo che ero qui, sarei rimasto, non sarei andato da nessuna parte, e se fossi stato necessario in questa direzione, allora avrei lavorato in questa direzione, se potessi essere utile in patria in un’altra direzione, lavorerei in un’altra direzione.
Da questo punto di vista, potrebbe essere più facile per me sia accettare la posizione sia rinunciarvi. Siamo in guerra e abbiamo dovuto lottare in quella direzione, spero che la mia lotta ci abbia in qualche modo aiutato a superare insieme queste difficoltà.
Devo rispondere ad alcuni punti di discussione.
Primo, perché non mi sono dimesso. Voglio essere chiaro: pensavo di essere un soldato, non posso dimettermi. Se necessario, il Comandante in Capo Supremo dovrebbe sollevarmi dal mio incarico.
In secondo luogo, sono sicuro che abbiamo svolto un lavoro molto importante in un periodo molto difficile, e voglio ringraziare tutte le persone che hanno lavorato in questa difficile crisi, dalle 7 del mattino alle 2 di notte, senza luce e gas, dimostrando che, come squadra, sono pronti a tutto. È stata un’esperienza molto importante per me, per la quale sono molto grato.
Terzo, c’era davvero molta pressione dall’esterno. Il Signor Presidente ha più informazioni e comprende la situazione. Ma abbiamo un mondo esterno e un mondo interno. Mi è sembrato che la pressione dall’esterno non ci aiuti internamente ad avere una situazione tale da farci sentire in grado di combattere più duramente quella pressione. Ho presentato al Signor Presidente il lavoro del Governo in 110 giorni, e sono pronto a presentarlo al pubblico in modo più dettagliato.
Per fare il lavoro, devi prima redigere un piano, avere uno schizzo, gettare le fondamenta, costruire i muri interni. Abbiamo compiuto passi in varie direzioni, che, ovviamente, in condizioni di crisi erano difficili, ma siamo felici di trasmettere i risultati del lavoro svolto al Signor Nersisyan e speriamo che continui a lavorare su queste direzioni.
So che c’è una certa pressione su di me per rimanere in Artsakh, ma vorrei sottolineare che non solo non me ne andrò, ma non riesco a immaginarmi fuori dall’Artsakh. Sono felice di continuare il lavoro che ho fatto prima. La nostra fondazione, l’agenzia “Noi siamo nostre montagne” ha già realizzato molti progetti. Vorrei dire che è stato un esempio molto importante di cooperazione tra Stato e settore privato, Armenia, Diaspora e ONG armene e non armene. Penso che sia molto importante perché se parliamo di futuro, è molto importante che questa cooperazione continui.
Continueremo i nostri sforzi e faremo un ottimo lavoro affinché quanti più armeni possibile vengano in Artsakh, in modo che non solo gli armeni in Artsakh non si sentano soli, ma anche coloro che hanno lasciato l’Artsakh in tempi diversi, durante questa crisi, tornino e rafforzare ancora di più la nostra Patria.
Come ho già accennato, abbiamo problemi finanziari e gestionali, oltre al problema della preparazione al prossimo inverno. Durante questo periodo abbiamo acquisito molta esperienza, abbiamo compreso le nostre carenze e abbiamo registrato le carenze in quali aree di lavoro sono state svolte. È molto importante trarre insegnamenti da tutto ciò e fare di tutto affinché queste carenze non si ripetano né in termini di cibo, né di carburante, né in termini di altri problemi. Abbiamo un’idea molto migliore della situazione ora rispetto a prima del blocco.
Più importante delle questioni finanziarie, gestionali e di altro tipo era il fatto che l’Azerbajgian, che sperava di metterci in ginocchio, di spezzarci, si sbagliava crudelmente. L’Azerbajgian ha visto che siamo diventati più uniti.
E anche l’indifferenza è scomparsa. In effetti, è stato molto incoraggiante sentire persone in diverse comunità dire: siamo pronti a resistere senza gas e luce, solo non tradirci e continuiamo a combattere.
In effetti, la tua responsabilità di presidente, che è stato eletto quattro mesi prima della guerra, è molto pesante, ti trovi in una posizione molto difficile, avendo portato questo fardello per così tanto tempo.
Dico con sicurezza che per avere successo, l’approccio deve essere sistemico. Se non costruiamo un sistema, se non mettiamo in atto meccanismi trasparenti e coerenti, è molto difficile raggiungere il successo.
L’argomento della discussione è anche che nessun individuo è più importante della nostra patria.
Anche la fiducia è molto importante; Spero che la nostra parola, infatti, non abbia perso il suo valore. Ho rivisto i suoi discorsi prima della guerra: erano discorsi molto brillanti, profondi, Signor Presidente. Sono sicuro che ti rifarai alle tue parole anche adesso. Vorrei solo che trasformassi le tue parole in fatti. È molto importante che le persone non perdano la fiducia in queste parole.
Mi dispiace, ma a volte non possiamo davvero dire quello che vogliamo dire, o dobbiamo ricorrere alle allegorie. Tuttavia, le persone devono credere alle nostre parole e alle nostre azioni.
Come qualcuno che non ha lavorato nel sistema governativo fino a questi 112 giorni, mi sono reso conto che la maggioranza in Artsakh sono dipendenti pubblici dedicati. In ogni caso, le sfide esistenti non possono essere superate solo dagli sforzi del governo.
I problemi che abbiamo nelle sfere finanziaria, della sicurezza e dell’identità richiedono una cooperazione molto seria; quindi, spero che ne capiremo l’importanza quando cercheremo di utilizzare il potenziale della diaspora.
Il campo politico ha le sue leggi ed è possibile che se non fossimo in un blocco, guarderemmo tutto questo in modo diverso.
La cosa più difficile per me è che non sono riuscito a dimostrare e spiegare due cose: che questa non è una situazione normale e che la crisi ha le sue leggi. Questa è stata probabilmente una delle mie più grandi omissioni.
L’altra difficoltà è stata che non sono riuscito a spiegare che la lotta significa che dobbiamo capire ogni giorno quali sono i nostri punti deboli e i nostri punti di forza, come dobbiamo rafforzare la nostra posizione, come dobbiamo essere in grado di utilizzare le nostre risorse limitate.
La nostra lotta è sia nell’economia che nel campo dell’informazione. Questi 112 giorni hanno portato cambiamenti, che inevitabilmente hanno mostrato una nuova situazione, un nuovo Artsakh.
Da una parte eravamo tutti sulla stessa barca, e quella barca ci univa tutti. Ma d’altra parte, abbiamo visto gli esempi inaccettabili di cui parlavo, che alcune persone non hanno questa comprensione dell’inaccettabile, quando, per esempio, in una situazione di crisi mandi frutta e verdura a funzionari di alto rango, essendo un tu stesso funzionario di alto rango… La questione non è che sia un male. Il problema è che di quelle poche decine di persone, solo poche persone lo hanno rispedito indietro, trovando il fenomeno in sé inaccettabile. Mi dispiace che portare ananas o rose durante un blocco sia considerato normale, ma ovviamente so che il numero di queste persone è piccolo. Non è quello che hanno fatto che mi preoccupa molto di più, è quello che pensiamo sia normale. In secondo luogo, non esisteva alcun meccanismo per punire. Il signor Nersisian e io abbiamo discusso ampiamente di questo problema: cosa dovrebbe essere punito in questa situazione e cosa no.
Il mio approccio può essere stato molto duro, ma non me ne pento. Di recente ho letto il libro di Nzhdeh: è stato interessante vedere che 100 anni fa Nzhdeh scriveva della stessa cosa. Vorrei leggere un piccolo estratto dalle sue memorie: “Il destino degli armeni sarebbe stato diverso se i loro capi, invece di divorarsi a vicenda, avessero dichiarato guerra alle loro mancanze”. Io stesso so che non ero un leader perfetto, ho commesso degli errori, ma ero sincero, ero un patriota, pretendevo di più da me stesso che dagli altri.
Signor Presidente, voglio dire che siamo felici qui perché abbiamo una nazione fantastica. Questa nazione ha dimostrato di poter sopportare qualsiasi cosa, è pronta a combattere, pronta a seguirci ed è davvero un grande onore che io abbia avuto l’opportunità e comunicando con queste persone ho capito quanto sono forti gli Artsakhi, ho capito la differenza tra gli Artsakiani e gli armeni che vivono in altri luoghi. Questo è molto stimolante.
Sono fiducioso che possiamo superare la strategia del “salame” applicata dall’Azerbajgian, che è molto pericolosa. Sono sicuro che non solo una persona, o il Consiglio di sicurezza, o poche centinaia di persone dovrebbero avere il diritto di scegliere la strada, ma l’intero popolo dovrebbe prendere una decisione molto dura e responsabile, di cui abbiamo parlato prima del blocco, durante il blocco e durante la manifestazione.
Siamo tutti esseri umani che hanno i nostri difetti. Spero che se avrò offeso qualcuno senza rendermene conto sarò perdonato, se non ho fatto qualcosa o fatto qualcosa sono pronto ad ascoltare sia le critiche che i consigli, perché ho sempre imparato dagli altri».

Voci sul ritorno sulla scena politica in Artsakh del Generale Babayan

Corrono anche voci di un possibile ritorno sulla scena politica in Artsakh del Generale Samvel Babayan, già Eroi dell’Artsakh, nato a Stepanakert il 5 marzo 1965. Dopo essersi diplomato nella sua città natale, Babayan presta servizio militare nella Armata Rossa e viene stanziato nella Germania dell’est tra il 1983 e il 1985. Nel 1988 è arruolato in un’unità paramilitare e comanda una propria unità, dal 1989 al 1991 è comandante di una Compagnia Volontari a Stepanakert e membro di una centrale partigiana nella stessa città. Con il grado di tenente generale partecipa al conflitto dove mette in evidenza le sue capacità di comando. Partecipa alla pianificazione della battaglia di Shushi, alla liberazione del Corridoio di Lachin e alla battaglia di Kelbajar. Tra il 1992 e il 1993 diviene comandante del neonato Esercito di difesa del Nagorno-Karabakh dopo che il suo predecessore, Serzh Sargsyan diviene Ministro della Difesa dell’Armenia. Sotto il suo comando le forze armene hanno la meglio su quelle azere riuscendo a mantenere il controllo sul territorio originario dell’oblast karabako e anche a conquistare sette distretti circostanti che garantiscono tra l’altro contiguità territoriale fra i due stati armeni. È stato uno dei firmatari del cessate il fuoco del 1994 che pose fine alla prima guerra del Nagorno-Karabakh.

Dopo la conclusione vittoriosa della prima guerra del Nagorno-Karabakh, Babayan rimane al comando dell’Esercito di difesa del Nagorno-Karabakh (coincidente con il ruolo di Ministro della Difesa), incarico che ricopre fino al dicembre 1999 allorché è costretto a cedere l’incarico.

Si è affermato come l’uomo più potente del Nagorno-Karabakh all’indomani della prima guerra del Nagorno-Karabakh. Secondo Thomas de Waal, Babayan ha acquisito una ricchezza significativa vendendo materiale prelevato dai distretti azeri che circondano il Nagorno-Karabakh e stabilendo un monopolio sulle importazioni di sigarette e carburante nel Nagorno-Karabakh attraverso una società registrata a nome di sua moglie. Babayan usò la sua posizione per acquisire terreni, attività commerciali e privilegi fiscali. Dopo che il Presidente del Nagorno-Karabakh Robert Kocharyan ha lasciato la sua posizione per diventare Primo Ministro dell’Armenia (e poi dal 3 febbraio 1998 al 9 aprile 2008 Presidente), Babayan è diventato ancora più influente nella politica civile del Nagorno-Karabakh. Nel giugno 1998, ha costretto il Primo Ministro del Nagorno-Karabakh Leonard Petrosyan a dimettersi. In una sessione congiunta dei Consigli di Sicurezza dell’Armenia e del Nagorno-Karabakh nel gennaio 1998, su sollecitazione di Vazgen Sargsyan, Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, Babayan si espresse con forza contro il piano del Presidente dell’Armenia Levon Ter-Petrosyan di accettare le proposte del Gruppo di Minsk l’OSCE di restituire parte del territorio catturato dall’Azerbajgian durante la guerra e dispiegarvi forze di pace internazionali; Ter-Petrosyan è stato costretto a dimettersi un mese dopo. Babayan iniziò quindi a intervenire nella politica armena, finanziando il blocco Legge e unità nelle elezioni parlamentari armene del 1999, dove il blocco è arrivato terzo. Successivamente, il Primo Ministro armeno Vazgen Sargsyan e Robert Kocharyan decisero di frenare la crescente influenza di Babayan. Robert Kocharyan non è stato in grado di affrontare direttamente la questione Babayan a causa del caos politico in Armenia in seguito alla sparatoria del parlamento armeno nell’ottobre 1999, lasciandola al governo del Nagorno-Karabakh sotto il Presidente Arkadi Ghukasyan e alla nuova leadership dell’Esercito di difesa del Nagorno-Karabakh. Nel dicembre 1999, Babayan è stato costretto a rinunciare alla sua posizione di comandante dell’Esercito di difesa del Nagorno-Karabakh. Il 22 marzo 2000, Babayan è stato arrestato con l’accusa di aver lanciato un attentato contro Arkadi Ghukasyan, che ha lasciato il Presidente gravemente ferito ma vivo. Dopo l’arresto di Babayan, le autorità del Nagorno-Karabakh hanno confiscato i beni immobili di Babayan, nazionalizzato o chiuso le sue imprese e detenuto o rimosso dall’incarico centinaia di funzionari a lui fedeli.

Babayan è stato processato per aver organizzato l’attentato alla vita di Ghukasyan insieme a 15 dei suoi soci. Il processo è iniziato il 18 settembre 2000 e si è concluso il 26 febbraio 2001, quando Babayan è stato condannato a 14 anni di prigione, privato di decorazioni e gradi e privato del diritto di voto. Anche due suoi soci furono condannati a 14 anni e gli altri imputati furono condannati a pene minori.

Durante le indagini e mentre scontava la pena, la salute di Babayan è notevolmente peggiorata. Si diceva che soffrisse di epatite e altri disturbi che non potevano essere curati in prigione. Il 18 settembre 2004, Babayan è stato rilasciato dal carcere di massima sicurezza di Shushi per problemi di salute, con i termini del rilascio che includevano un periodo di prova e la continua privazione dei diritti civili.

Babayan è tornato in Armenia nel maggio 2016 dopo un esilio de facto a Mosca, poco dopo i grandi scontri sulla linea di contatto del Nagorno-Karabakh. Ha dichiarato: “Sia che fossi in Karabakh, in Armenia o all’estero, le preoccupazioni per la sicurezza del mio paese, la mia gente sono sempre state nella mia mente. Ho la piena comprensione della situazione militare, dei problemi in prima linea e possiedo tutte le informazioni necessarie”.

Nel marzo 2017, Babayan è stato arrestato dal servizio di sicurezza nazionale armeno con l’accusa di contrabbando di missili terra-aria ed euro contraffatti. Il 28 novembre 2017, Babayan è stato condannato a sei anni di carcere. È stato rilasciato dalla detenzione in seguito alla rivoluzione armena del 2018.

Il 29 maggio 2020 è stato nominato Segretario del Consiglio di Sicurezza dell’Artsakh. Durante la guerra dei 44 giorni del 2020, Babayan è stato coinvolto nella mobilitazione dei riservisti armeni dell’Artsakh e ha partecipato alla pianificazione di una serie di operazioni con il comandante dell’Esercito di difesa dell’Artsakh Jalal Harutyunyan. Dopo la fine della guerra, Babayan ha rivelato di essere stato coinvolto nella pianificazione della difesa di Shushi nell’ultima settimana di guerra, ma che tre battaglioni si erano rifiutati di eseguire i loro ordini. Ha anche rivelato dopo la guerra di aver proposto l’idea dell’operazione fallita avvenuta il 5-6 ottobre 2020, che era un tentativo di interrompere lo sfondamento azero vicino a Horadiz. Il 10 novembre 2020 si è dimesso da Segretario del Consiglio di Sicurezza della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh e ha rinunciato al titolo di Eroe dell’Artsakh a causa delle condizioni dell’accordo di cessate il fuoco del Nagorno-Karabakh del 2020, accusando sia i leader dell’Armenia che dell’Artsakh di tradimento e azioni criminali (Note biografiche da Wikipedia).

Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]

Armenia-Azerbaijan, una pace difficile (Osservatorio Balcani e Caucaso 23.02.23)

Speranza e tensione alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco mentre i leader armeno e azerbaijano si sono incontrati per discutere il trattato di pace. L’iniziale ottimismo per lo storico incontro ha ben presto lasciato spazio alle tensioni irrisolte fra Pashinyan e Aliyev

23/02/2023 –  Onnik James Krikorian

Secondo alcuni è stato un evento storico. Il 18 febbraio, durante la Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco in Germania, i leader armeno, azerbaijano e georgiano si sono incontrati per la prima volta dal crollo dell’Unione sovietica. Alla tavola rotonda “Spostare le montagne: come garantire la sicurezza nel Caucaso meridionale” era presente anche la Segretaria generale OSCE Helga Scmid.

Alla vigilia, tuttavia, si notava l’assenza del nome del primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Mentre alcuni hanno twittato la loro disapprovazione, altri hanno tirato un sospiro di sollievo, dato che l’ultima volta che Pahinyan aveva condiviso la scena con il presidente azerbaijano Ilham Aliyev, nel 2020, la discussione era rapidamente degenerata.

“Non fatelo mai più”, aveva twittato  all’epoca l’analista senior dell’International Crisis Group (ICG) Olesya Vartanyan.

E invece l’hanno fatto di nuovo, anche se in formato più allargato e anche se la presenza di Pashinyan è stata una sorpresa dell’ultimo minuto per tutti.

“Il suo nome non era citato nella proposta iniziale che mi è stata data”, ha dichiarato Aliyev ai giornalisti. “Probabilmente ha deciso di partecipare ieri sera. Penso che questo sia un buon sviluppo perché, finalmente, può essere avviata una cooperazione fra i tre paesi del Caucaso meridionale”.

Il presidente dell’Azerbaijan ha anche dichiarato ai media che si potrebbe discutere dell’istituzione di un formato regionale a Tbilisi, facendo eco al rappresentante speciale dell’UE per il Caucaso meridionale e la crisi in Georgia, Toivo Klaar.
“È molto importante che i tre paesi del Caucaso meridionale lavorino insieme e contribuiscano alla pace”, aveva affermato Klaar in un’intervista all’emittente pubblica georgiana dieci giorni prima. “E qui il ruolo della Georgia come ponte tra Armenia e Azerbaijan è molto importante”.

Nonostante le preoccupazioni per l’esito della tavola rotonda, ci sono stati anche segnali ancora più positivi.

Poche ore prima, il Segretario di Stato americano Antony Blinken aveva facilitato un incontro trilaterale con i leader armeno e azerbaijano a margine della conferenza. Ad accompagnarli c’erano il segretario del Consiglio di sicurezza armeno Armen Grigoryan, il ministro degli Esteri Ararat Mirzoyan, il suo omologo Jeyhun Baramov e il consigliere presidenziale azerbaijano Hikmet Hajiyev.

In sostanza, erano presenti i tre principali funzionari coinvolti nei processi negoziali armeno-azerbaijani. Ad accompagnare il Segretario di Stato americano c’erano anche l’Assistente del Segretario di Stato Karen Donfried e il nuovo Senior Advisor per i negoziati sul Caucaso, Louis L. Bono.

“Crediamo che l’Armenia e l’Azerbaijan abbiano un’autentica opportunità storica per una pace duratura dopo oltre 30 anni di conflitto”, ha detto Blinken ai media prima che l’incontro continuasse a porte chiuse.
Anche questa è stata senza dubbio un’occasione storica. Era la prima volta che l’amministrazione Biden riusciva a riunire i leader armeno e azerbaijano. L’anno scorso, Blinken aveva solo convocato una riunione dei due ministri degli Esteri, mentre il Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan aveva riunito Armen Grigoryan e Hikmet Hajiyev a Washington DC.

Aliyev ha definito costruttivi i colloqui e ha anche confermato che Baku aveva accolto gli ultimi commenti e suggerimenti di Yerevan sul testo di un possibile trattato di pace bilaterale, ma è chiaro che permangono divergenze.
“A prima vista ci sono progressi nella posizione dell’Armenia, ma non sono sufficienti”, ha commentato Aliyev, che ha anche annunciato che durante l’incontro aveva proposto a Yerevan di istituire controlli alle frontiere su una rotta ancora da aprire che collega l’Azerbaijan attraverso l’Armenia alla sua exclave di Nakhichevan. A sua volta, Baku introdurrà i propri posti di blocco sul corridoio di Lachin che collega l’Armenia al Karabakh attraverso l’Azerbaijan.

Definita nei circoli azerbaijani il “Corridoio Zangezur”, la rotta Nakhichevan è un punto critico nel processo negoziale da almeno un anno. È anche una delle possibili ragioni dell’attuale impasse nel Corridoio Lachin, parzialmente bloccato da sedicenti “eco-attivisti” azerbaijani.

Da oltre due mesi, i veicoli delle forze di pace russe e del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) possono viaggiare sul Corridoio di  Lachin o portare assistenza umanitaria alla popolazione di etnia armena del Karabakh. Questo tema è stato naturalmente sollevato nell’incontro con Blinken.

“Nikol Pashinyan ha sottolineato il blocco illegale del corridoio di Lachin da parte dell’Azerbaijan e la conseguente crisi umanitaria, ambientale ed energetica nel Nagorno Karabakh”, si legge in una dichiarazione ufficiale armena, che però termina anch’essa con una nota positiva. “È stata evidenziata la continuità del processo di pace tra Armenia e Azerbaijan”.

Nonostante quello che sembrava essere un ulteriore impegno in direzione di questo processo, l’atmosfera è successivamente peggiorata, anche se le osservazioni iniziali di Aliyev sono state incoraggianti.
“Abbiamo avuto la nostra guerra due anni fa, che è durata 44 giorni”, ha affermato. “Sappiamo quale tragedia la guerra porta alle persone. L’Azerbaijan e l’Armenia devono dimostrare quanto sia importante la pace. Attualmente stiamo lavorando ad un accordo di pace. E questo può essere un buon esempio di come la pace possa porre fine al dolore e alle tragedie dei conflitti”.

Eppure alle domande del moderatore, il presidente della Conferenza sulla sicurezza di Monaco Christoph Heusgen, il clima tra Aliyev e Pashinyan si è rapidamente deteriorato, lasciando il primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, scomodamente nel mezzo. Il nodo della discordia era, ovviamente, Lachin.

“La continuazione della crisi può causare conseguenze umanitarie irreversibili per gli armeni del Nagorno Karabakh”, ha accusato Pashinyan, riferendosi al lungo stallo. Per tutta risposta, Aliyev ha chiesto che il termine “Nagorno Karabakh” non fosse più utilizzato negli ambienti internazionali.

Pashinyan ha ribattuto che il termine era nella dichiarazione di cessate il fuoco del novembre 2020 e anche che il corridoio di Lachin non era stato posto sotto il controllo dell’Azerbaijan.

A sorpresa, Pashinyan ha poi fatto riferimento alle affermazioni di Baku secondo cui dozzine di moschee erano state distrutte dalle forze armene durante i quasi tre decenni in cui controllavano di fatto sette regioni adiacenti all’ex regione autonoma del Nagorno Karabakh (NKAO). Quei territori sono stati restituiti a Baku dopo la guerra del 2020, ma Aliyev non aveva sollevato la questione delle moschee.

“Sembra che l’Azerbaijan stia cercando di dare a tutta questa situazione un contesto religioso. Ma non c’è un contesto religioso in questo conflitto. C’è una minoranza musulmana in Armenia e abbiamo una moschea funzionante”, ha affermato Pashinyan, presumibilmente riferendosi ai minuscoli resti di ciò che resta della comunità curda musulmana dell’Armenia e alla Moschea Blu nel centro di Yerevan.

Tuttavia, Pashinyan ha tentato di concludere con una nota più costruttiva.

“Abbiamo una storia molto complicata”, ha detto. “E anche questo è un incontro storico, ma a che scopo vogliamo usarlo? Per fomentare intolleranza, odio, retorica violenta? O, al contrario, vogliamo utilizzare questa piattaforma per migliorare la situazione?”.

Anche Aliyev, in risposta ad una domanda del pubblico, ha ribadito l’impegno di Baku nei confronti del processo di Bruxelles dei colloqui di pace con Yerevan, facilitati dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Tuttavia, in precedenza aveva anche giustificato la devastante guerra del 2020 che ha causato la morte di oltre 6.000 persone.

“I negoziati di pace a volte richiedono troppo tempo. Il nostro è durato 28 anni. Questo andava bene per l’Armenia e i suoi sostenitori, che volevano continuare l’occupazione delle nostre terre”, ha detto, riferendosi anche alla dichiarazione di cessate il fuoco del novembre 2020 che ha posto fine alla guerra lo stesso anno come “un atto di capitolazione”, facendo arrabbiare gli spettatori armeni.

Nonostante i problemi tecnici con la diretta, quella che avrebbe potuto rivelarsi un’opportunità costruttiva e storica per i tre leader del Caucaso meridionale per discutere di cooperazione e sicurezza regionale ha invece messo a nudo ancora una volta le divisioni che affliggono la regione da oltre trent’anni.

Tuttavia, il Segretario di Stato americano Antony Blinken si è mantenuto positivo riguardo al proprio incontro con i leader. “Lieto di sentire che il processo di pace Armenia-Azerbaijan è sulla buona strada e che i negoziati tra le due parti stanno continuando”, ha twittato  il giorno successivo, glissando sulle tensioni emerse.

In una conferenza stampa del 22 febbraio, anche il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price è apparso ottimista e ha detto ai giornalisti che le parti armena e azerbaijana “si riuniranno a Bruxelles nei prossimi giorni nei colloqui ospitati dal presidente UE Michel. […] ci sono stati progressi significativi di cui abbiamo preso nota. Faremo tutto il possibile affinché i progressi continuino”.

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