Radio Mariam: inaugurata la nuova sede ad Aleppo (Radio Mariam 01.09.25)

Con grande gioia e profonda gratitudine al Signore, sabato 16 agosto 2025 è stata inaugurata la nuova sede degli uffici di Radio Mariam ad Aleppo, alla presenza dei vescovi della città, dei loro vicari, dello staff e di numerosi volontari. È stato un momento di festa e di speranza, che ha visto riunita una comunità viva e desiderosa di annunciare il Vangelo anche in tempi difficili.

Un sentito ringraziamento va a tutti coloro che hanno contribuito, con generosità e dedizione, a rendere possibile questo progetto. La nuova sede non è soltanto un passo avanti per Radio Mariam Siria, ma rappresenta anche un dono prezioso per Radio Mariam Armenia, che troverà qui uno spazio dedicato. Grazie ai nuovi studi, sarà infatti possibile realizzare trasmissioni in lingua armena, sia in diretta che registrate, offrendo così una voce forte e chiara alla comunità armena cattolica di Aleppo e oltre i confini.

Durante la cerimonia, è stato affidato a Mons. Joseph Bezouzou, vicario episcopale, il ruolo di rappresentante di Radio Mariam Armenia ad Aleppo. Sarà lui, insieme a un gruppo di volontari, a coordinare e sostenere le attività, affinché la voce della Chiesa armena possa raggiungere il mondo intero attraverso le onde di Radio Mariam.

Questa inaugurazione è segno concreto della comunione che lega le emittenti della Famiglia Mondiale di Radio Maria: pur parlando lingue diverse, tutte collaborano per annunciare l’unica Parola di Dio e per portare un messaggio di fede, speranza e unità in contesti spesso segnati dalla sofferenza.

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Antonia Arslan: “L’Armenia è stata colpita dal genocidio, ma si parla solo di Gaza. L’accordo con l’Azerbaijan? C’è un agnello e un leone” (Il Riformista 28.08.25)

«Così si permette all’Azerbaijan di fare quello che vuole». Il trattato di pace firmato l’8 agosto, tra Armenia e Azerbaijan, di fronte a Donald Trump, è un chiaro tentativo del premier armeno, Nikol Pashinyan, di sopravvivere a qualunque costo. Antonia Arslan, già docente all’Università di Padova, ma ancor più scrittrice e profonda studiosa dell’Armenia e del genocidio del suo popolo, osserva i recenti accordi tra Yerevan e Baku e ne approfitta per riflettere sugli altri conflitti tra Medio Oriente e Asia centrale. Da ultimo Gaza.

Professoressa, regge l’accordo?

«Mi viene in mente quello che si diceva già due anni fa, con la fine degli scontri sul campo. In un qualsiasi tipo di pace tra l’agnello e il leone, è quest’ultimo a rimandare solo di un po’ il banchetto. Oggi, la sproporzione di forze tra i due Paesi è incolmabile. A decidere se ci sarà la pace sarà solo uno».

Immagino l’Azerbaijan, che fa la parte del leone.

«Certo che sì. Baku è supportato dalla Turchia, che ha tutto l’interesse che si faccia il cosiddetto “corridoio di Zangezur” (il collegamento che l’Azerbaijan rivendica attraverso il sud dell’Armenia, per unire la sua parte occidentale all’exclave di Nakhchevan e che, a seguito dei recenti accordi raggiunti alla Casa Bianca, potrebbe prendere il nome di Trump route for international peace and prosperity, Tripp, ndr). È questo il passaggio via terra che finora manca ad Ankara tra il proprio territorio e quello dell’Azerbaijan, suo cugino per etnia e fede. Solo in parte, però. Visto che i turchi sono sunniti e gli azeri sciiti. Grazie allo Zangezur, la Turchia realizzerebbe il suo sogno di collegarsi agli Stati musulmani ex-sovietici dell’Asia centrale: Uzbekistan, Tajikistan, eccetera».

Un ritorno all’impero ottomano che penetra nel cuore dell’Asia in funzione antirussa.

«Nel Nakhchevan, gli azeri, amici dei turchi e sotto l’egida degli Usa, hanno fatto un’operazione di “de-armenizzazione” senza precedenti. Hanno cancellato una storia di tredici secoli. Se lei sorvola quel territorio, dove un tempo c’erano chiese e luoghi di culto cristiani, oggi vede solo l’erba. Il Nakhchevan oggi è azero».

Ma da tutto questo, Trump cosa ci guadagna?

«Trump fa il suo mestiere. Cerca di ottenere un vantaggio strategico prima di tutto in funzione anti-Iran. L’Azerbaijan è il primo alleato di Israele nella regione. Baku è armata da Israele. È il suo unico appoggio in campo musulmano. Trump non poteva non tenere conto di questo».

Un paradosso, vista l’alleanza tra Baku e Ankara. Come anche la rivalità tra quest’ultima e Israele.

«Sono movimenti tellurici difficili da comprendere, in Occidente».

Però anche l’Armenia è amica di Israele. Come sta affrontando questo paradosso?

«Sul terreno, questo si traduce in villaggi che passano di mano e confini porosi. Dieci chilometri di frontiera spostati qua, altri cinque là. I contadini armeni scappano man mano che l’esercito azero avanza. Di vittime se ne registrano poche, per fortuna. Se con questo accordo tacciono le armi e si ha uno stop a questa erosione di territorio, è già un risultato».

Resta in sospeso il discorso dei prigionieri.

«Questo è il punto più oscuro. Nelle prigioni di Baku marciscono prigionieri di guerra armeni ancora dal 2020 che Erevan non se ne occupa, sebbene abbia liberato i prigionieri azeri. Al momento, ci sono poi almeno sessanta funzionari armeni in ostaggio del governo filo-azero del Nagorno-Karabach (dopo la vittoria azera che ha provocato l’esodo di decine di migliaia di abitanti armeni dalla regione, ndr) in quanto accusati di crimini di guerra. Di questo, nell’accordo della Casa Bianca, non se ne parla».

Pashinyan rinuncia a tutto questo in cambio di cosa?

«Della popolarità perduta. Il premier armeno vantava un sostegno popolare fortissimo (ancora nelle elezioni del 2018, era stato eletto con una maggioranza del 70,4%, ndr). Ora questo consenso è crollato. Pashinyan vuole a tutti i costi un accordo con l’Azerbaijan. Al punto da attaccare perfino la Chiesa armena, collante millenario del Paese. Un’ingerenza nelle questioni religiose che gli è proibita perfino dalla Costituzione».

Così però rischia di doversi buttare tra le braccia di Putin pur di sopravvivere?

«No, perché Pashinyan è salito al potere puntando su una rottura con Mosca e un avvicinamento all’Unione europea. Una scommessa per certi versi persa in partenza».

Perché?

«Perché Bruxelles non muoverà mai un dito per l’Armenia. Il Paese è piccolo. Una volta e mezza il nostro Veneto. È lontano. Né la Nato né l’Ue interverrebbero a suo fianco».

Un isolamento già vissuto e che ora è di facile accostamento con Israele.

«Da decenni, autorevoli studiosi affiancano il destino comune di ebrei e armeni. Questi ultimi, già nella stampa tedesca di fine Ottocento, venivano spesso chiamati “gli ebrei d’Oriente”. Isolati e destinati alla catastrofe. In qualche modo, i primi a subirla nel Novecento».

E qui arriviamo al punto: la parola «genocidio». Oggi è oggetto di strumentalizzazioni. La Shoah e il genocidio armeno rispondono a caratteristiche precise: un piano organizzato, programmato da un governo, con il coinvolgimento della popolazione civile. A Gaza non succede questo.

«Il termine “genocidio” viene coniato da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, a proposito proprio del caso armeno. Poi, dopo Auschwitz, la sua elaborazione trovò conferma. Alla base c’è l’idea che non si tratti di massacri occasionali, ma della distruzione programmata di un popolo. Un genocidio non è quello di Attila, che scende dalle Alpi e rade al suolo Aquileia. Perché i contadini vengono risparmiati. Ad Attila servono per le sue truppe e li fa lavorare nelle campagne. Ecco la differenza: nel genocidio c’è una volontà politica di eliminare l’intero popolo. Attenzione: armeni ed ebrei non hanno l’esclusiva di aver vissuto questa tragedia. Un genocidio è avvenuto in Cambogia e in Ruanda, ma anche in Ucraina all’inizio degli anni Trenta del Novecento, per volontà di Stalin. Tuttavia, non bastano guerre o stragi perché lo si possa decretare. Serve la volontà politica di effettuare uno sterminio integrale. Ecco perché parlare di “genocidio a Gaza” non è corretto. Manca l’organizzazione sistematica e, soprattutto, non c’è il coinvolgimento diretto della popolazione israeliana in un piano di eliminazione collettiva, come invece avvenne in Turchia e nella Germania nazista».

Che lezione si può trarre quindi dalla vicenda armeno-azera a beneficio del conflitto a Gaza?

«Trarrei la triste lezione che quando un popolo è piccolo ed è stato già molto maltrattato non se ne parla finché non si muove un circo mediatico come, al contrario, sta succedendo a Gaza, prendendo come oro colato qualsiasi dichiarazione di Hamas. Gli armeni però non hanno un sistema di comunicazione efficiente, né un impatto sull’opinione pubblica. E tantomeno uno strumento di ricatto come sono gli ostaggi che, dal 7 ottobre 2023, sono nelle mani dei terroristi palestinesi. Gli armeni sono condannati al silenzio da decenni. Il mio timore è che, anche con questo accordo, il Paese sia destinato a diventare una realtà del tutto ininfluente. Anche per responsabilità del suo governo. Pashinyan in prima persona. Mi auguro di sbagliarmi».

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Armenia: un viaggio di cuore, di mente e di fede (Corrierecesentae 29.08.25)

“Tutto lascia nel cuore il senso della fragilità umana, la potenza del potere che chiude gli occhi alle necessità della gente…”, dicono i coniugi Bartoletti Stella

Foto di gruppo per i pellegrini in Armenia guidati da don Gabriele Foschi, parroco a Sant'Egidio di Cesena
Foto di gruppo per i pellegrini in Armenia guidati da don Gabriele Foschi, parroco a Sant’Egidio di Cesena

Il racconto di un tour che rimarrà impresso nella memoriaUn popolo e una terra spesso martoriati

Abbiamo attraversato l’Armenia

Caro direttore, un viaggio è sempre un andare pieno di incognite, ma quando si torna, si è diversi… Un viaggio è movimento di cuore, di mente e di fede. È così che abbiamo attraversato l’Armenia, un paese ricco di storia, di lotte, dominazioni subite, ma anche di profonda fede fin da quando Gregorio armeno, l’Illuminatore ha portato nel 301, alla conversione del re Tiridate III rendendo il cristianesimo religione di stato, la prima nazione a essere cristiana. Una fede sofferta perché proprio san Gregorio fu imprigionato per 13 anni in un pozzo profondo sei metri nel monastero Khor Virap nel punto più vicino al biblico monte Ararat.

Un pellegrinaggio scandito dalla fede

Grazie all’eccellente organizzazione dell’agenzia Gattinoni (e di Cinzia in particolare), nonché della presenza di don Gabriele Foschi, il viaggio è stato un pellegrinaggio sapientemente scandito sui passi di una fede che col tempo ha lasciato un segno indelebile nel popolo armeno e in noi. Un popolo che ha vissuto il tremendo genocidio del 1915 da parte dei turchi ottomani, mai riconosciuto. Tanti i monasteri medievali, ognuno dei quali con la propria storia, come quello di Tatev, il più grande del sud dell’Armenia, di fondamentale importanza per la conoscenza dell’arte e della cultura medioevale armena, poi il monastero rupestre di Geghard (patrimonio mondiale Unesco), situato in una stretta gola e scavato nella roccia, il cui nome significa “lancia”, poiché qui venne custodita per secoli la lancia che trafisse il costato di Cristo sulla Croce, e poi il monastero di Haghpat del X secolo, oggi patrimonio Unesco, con la sua università molto famosa in tutto il mondo armeno e con la sua scuola di copisti e miniaturisti tra le più rinomate dell’Armenia.

Monumenti di pietra a croce

E chi conosceva i KhachkarMonumenti di pietra a croce, unici, patrimonio dell’umanità. Se ne contano 40.000 storici, di cui solo 900 nel cimitero di Noraduz, vicino al lago Sevan. Ma come sempre, la fede è anche cultura, archeologia, segna la sua impronta negli eventi geo-politici e di tutto si rimane a bocca aperta, constatando la propria personale ignoranza rispetto a un mondo che ci sovrasta, ma che è la nostra casa… Vedere a pochi metri i rigidi confini dell’Azerbajgian o della Turchia o approfondire il conflitto del Nagorno Karabakh… Tutto lascia nel cuore il senso della fragilità umana, la potenza del potere che chiude gli occhi alle necessità della gente… Come le tante strutture dismesse dal regime sovietico e lì lasciate avviluppate di erba e abbandono.

Il terremoto del 1988 con 25 mila morti

Inoltre, ce l’eravamo dimenticato, ma nel vicino 1988 l’Armenia ha subito ancora una volta un violento terremoto con 25 mila morti. La nostra guida locale Lilit è una sopravvissuta e, come lei, tutti si sono dovuti ricostruire una vita, il lavoro, le relazioni. Quando tocchi con mano il dolore e lo senti dai testimoni, solo il rispettoso silenzio ti fa essere partecipe, come presente. Il popolo italiano, ci hanno detto, ha aiutato molto l’Armenia in questa calamità. Insieme a Lilit, ha fatto la differenza la presenza di Mauro, corrispondente in loco, che ci ha accompagnato per tutto il tour dandoci il punto di vista di un italiano che vive in Armenia da 10 anni.

La storia antica prosegue nel presente

E poi il pane armeno, il lavash, patrimonio immateriale dell’Unesco, tirato ad arte dalle donne e cotto nelle pareti del forno a pozzo. Gesti tramandati da secoli e che hanno sostenuto e alimentato questo popolo. E che dire? Un gruppo motivato, solidale, unito ha ricordato che la storia antica prosegue con quella presente, con l’oggi delle buone azioni e relazioni e solo se saremo capaci di far tesoro di tutto il buono seminato nelle terre del mondo.

Floriana e Ivan Bartoletti Stella – Cesena

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Armenia in autunno: un viaggio che riserva tante belle sorprese (Masterviaggi 29.08.25)

L’autunno trasforma l’Armenia in un mosaico di boschi, vigneti e pascoli dai toni rossi e dorati. Il clima mite e l’aria frizzante rendono questo periodo ideale per esplorare i paesaggi cambianti e partecipare a varie attività all’aperto.

Tra ottobre e novembre, la visibilità è ottimale per ammirare il Monte Ararat e i suoi dintorni, con possibilità di vivere esperienze dall’alto come il “Discover Armenia from the Sky” International Balloon Festival a Yerevan, dove mongolfiere da tutto il mondo offrono voli panoramici.

Per gli amanti degli sport outdoor, il parapendio nelle zone di Tavush, lago Sevan e bacino di Azat regala prospettive uniche sul foliage autunnale.
Sul terreno, il Parco Nazionale di Dilijan e la regione di Lori invitano a escursioni tra boschi colorati e specie vegetali diverse, mentre itinerari verso Jermuk mostrano cascate e valli incontaminate.

L’autunno è anche stagione di eventi come l’Areni Wine Festival il 4 ottobre nella regione vitivinicola di Areni, sede della più antica cantina al mondo, risalente a circa 6100 anni fa.
L’evento prevede degustazioni, incontri con produttori e manifestazioni musicali. Nella stessa giornata si svolge la Maratona di Yerevan, evento sportivo che attraversa la città, che risale al 782 a.C.
A Yerevan, enoteche e ristoranti offrono la possibilità di assaggiare piatti tradizionali accompagnati da vini locali, mentre nelle cantine fuori città si può vivere la vendemmia partecipata.
Tra i piatti tipici spicca il ghapama, una zucca ripiena di riso, frutta secca, miele e burro, piatto simbolo delle festività autunnali.

In conclusione, l’autunno in Armenia coniuga natura, cultura, gastronomia e sport, presentando una proposta articolata che va oltre il turismo tradizionale e offre un’immersione autentica nel territorio e nelle sue tradizioni.

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Armenia-Azerbaijan: se vera pace sarà, non sarà per tutti (Haffington Post 28.08.25)

Show mediatico a parte – e pur con tutta la condivisibile cautela espressa da diversi analisti – l’accordo siglato a Washington è un passo importante di un percorso avviato dalla diplomazia dei due stati del Caucaso meridionale già prima dell’arrivo al potere di Trump. Se si rivelerà solo di un pessimo spettacolo, è presto per dirlo. C’è però un primo elemento, certamente negativo

28 Agosto 2025 alle 13:59

(di Simone Zoppellaro)

La guerra tra Azerbaijan e Armenia, che si trascina da oltre trent’anni ai confini dell’Europa con decine di migliaia di morti, pulizie etniche da entrambe le parti, interi paesi e città rasi al suolo, sembrerebbe aver trovato una conclusione. Dati i tempi in cui viviamo, forse una tragedia di tale portata non poteva che finire con una farsa. E così è stato. La conferenza stampa dell’accordo di pace firmato a Washington l’8 agosto scorso ha visto il presidente azero Ilham Aliyev, con l’approvazione del primo ministro armeno Nikol Pashinyan, proporre una candidatura per il Premio Nobel per la Pace a Donald Trump, seduto accanto a lui e visibilmente compiaciuto.

“Un miracolo,” come lo ha definito Aliyev, quello compito in pochi mesi per arrivare all’accordo dal presidente americano. Che ha contraccambiato lodando il lungo periodo di potere ininterrotto che il suo collega, con il pugno di ferro, ha saputo mantenere a Baku: “Ventidue anni: niente male. Significa che è intelligente e tenace,” ha detto Trump che, poco prima, sempre di fronte alle telecamere, discuteva con Aliyev l’eventualità di una sua terza candidatura.

Show mediatico a parte – e pur con tutta la condivisibile cautela espressa da diversi analisti – si tratta di un passo importante di un percorso avviato dalla diplomazia dei due stati del Caucaso meridionale già prima dell’arrivo al potere di Trump. In diciassette punti assai sintetici pubblicati pochi giorni dopo la firma, l’accordo vede il riconoscimento reciproco dei confini tra i due paesi sulla base di quelli che separavano, prima della dissoluzione dell’Urss, le repubbliche socialiste sovietiche di Armenia e Azerbaijan. Le parti si impegnano, inoltre, a “non avanzare alcuna rivendicazione […per la modifica dei confini] in futuro”. E ancora: i due stati, leggiamo, “non intraprenderanno alcun atto, compresa la pianificazione, la preparazione, l’incitamento e il sostegno di azioni che mirino a smembrare o a pregiudicare, del tutto o parzialmente, l’integrità territoriale o l’unità politica dell’altra parte”.

Non è un punto scontato: caduta la questione dell’autodeterminazione per gli armeni del Karabakh, dopo la disfatta militare armena del 2020 e l’ulteriore offensiva di Baku del 2023, restava aperta la questione delle crescenti rivendicazioni della propaganda azera circa un non meglio determinato “Azerbaijan occidentale,” ovvero i territori stessi dell’attuale Repubblica di Armenia. Inoltre, per quanto il documento pubblicato non tocchi esplicitamente il tema, i due governi hanno annunciato il raggiungimento di un accordo su quello che, negli ultimi anni, sembrava essere l’ostacolo maggiore per poter arrivare a una pace: la richiesta di Baku di un corridoio infrastrutturale tra l’Azerbaijan e la sua exclave del Nakhichivan che transiti in territorio armeno nei pressi del confine con l’Iran.

Battezzato ufficialmente come TRIPP, acronimo che sta per Trump Route for International Peace and Prosperity, questo offrirebbe per novantanove anni i diritti esclusivi di sviluppo e gestione a un consorzio statunitense, nell’auspicio di coniugare i profitti economici derivanti dalla costruzione di infrastrutture e dallo sfruttamento commerciale in un’ottica di sostenibilità economica e politica. In attesa di capirne di più, e sperando non si tratti solo – si perdoni il gioco di parole – di un bad trip, la prospettiva ha sollevato dubbi e proteste in Iran e in Russia, che temono di veder ridotta la loro influenza nella regione. Infine, come ha scritto lo stesso Trump sulla sua piattaforma Truth Social, “gli Stati Uniti firmeranno accordi bilaterali con entrambi i Paesi per perseguire insieme opportunità economiche, in modo da saper sfruttare appieno il potenziale della regione del Caucaso meridionale.”

Coniugando, alle solite, cinismo, narcisismo e un approccio brutalmente pragmatico che cerca in primis un immediato tornaconto tanto mediatico quanto economico, Trump porta a casa un risultato concreto che, nelle sue intenzioni, vorrebbe mettere in ombra il fallimento della sua diplomazia per quanto riguarda l’Ucraina. Nonostante le sue evidenti difficoltà ad azzeccare persino lo spelling di Azerbaijan e Armenia, l’accordo potrebbe rappresentare un ritorno in primo piano degli Stati Uniti nella regione. Se la Russia era stata protagonista indiscussa nella mediazione tanto del cessate il fuoco del 1994, che aveva posto fine alla prima guerra del Karabakh, sia di quello del 2020, che aveva determinato la sospensione dei combattimenti della seconda, fra l’altro dispiegando l’esercito russo in Karabakh in presunta funzione di peacekeeping, il fatto che l’accordo di pace sia stato firmato a Washington alla presenza di un presidente statunitense ha un impatto simbolico che non andrà sottovalutato, al di là alle prospettive economiche e politiche di cui si diceva. Non che gli USA fossero in precedenza assenti dallo scenario: a loro spettava, insieme a Russia e Francia, la copresidenza del gruppo di Minsk, struttura creata nel 1992 dall’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, per la mediazione del conflitto in Karabakh. Ma il salto di qualità è tangibile, e – con la sola eccezione dei due paesi coinvolti, ovvero Azerbaijan e Armenia – rischia di rappresentare uno smacco per gli altri attori in precedenza impegnati nella mediazione.

“È una terribile umiliazione per la Russia,” ha dichiarato il propagandista di regime Aleksandr Dugin su Telegram, poi ripreso da Deutsche Welle. “È una sconfitta totale, un disastro completo per la nostra politica nel Caucaso meridionale”. Toni drammatici a parte, e con il dovere di ricordare come, al contrario, l’influenza russa si sia assai rafforzata negli ultimissimi anni nel terzo paese della regione, la Georgia, il protagonismo trumpiano rappresenta un ulteriore passo indietro per una Russia sempre più impopolare in Armenia, proprio mentre assistiamo a una parziale rottura del regime di Aliyev con Mosca, dovuta anche al crescente ruolo di fornitore di energia di Baku per l’Unione Europea e alla sua ascesa diplomatica internazionale. Appaiono lontanissimi i tempi in cui analisti improvvisati – in Italia ciò era pressoché la regola – volevano ridurre, sbagliando, la guerra in Karabakh a un conflitto per procura tra Ankara e Mosca.

A perdere, senza dubbio, è anche l’Iran, i cui tentativi di espandere la sua influenza nella regione in passato avevano prodotto tensioni sia, in modo sensibile ma non troppo eclatante, con Mosca che, più apertamente, con Baku. E, a differenza della Russia, in questo caso più dimessa, Teheran si è affidata in questi giorni a una protesta più accesa. Con i toni un po’ truculenti tipici di chi non ha molte carte da giocare, Ali Akbar Velayati, ex ministro degli esteri della Repubblica Islamica tra 1981 e 1997 ed ora consigliere per le relazioni internazionali della guida suprema Ali Khamenei, ha dichiarato: “Questo corridoio non diventerà una porta d’accesso per i mercenari di Trump, ma il loro cimitero.” Per l’Iran, il fatto di avere un nuovo dispiegamento statunitense nei pressi dei suoi confini è uno smacco che va ad aggiungersi al recente netto indebolimento della sua posizione in tutto il Medio Oriente.

Non meno sensibile è il tracollo e, insieme, l’inanità dimostrata dalla diplomazia europea, la cui influenza nella regione va riducendosi ulteriormente. Il fallimento del Gruppo di Minsk, che a giorni dovrebbe cessare di esistere dopo trentatré anni di attività, è il coronamento di decenni di esitazioni, ipocrisie e fallimenti e, per quanto la notizia in questo periodo balneare non abbia raggiunto molti, rappresenta un segno epocale, paragonabile, su piccola scala, all’incapacità dimostrata dalle nostre diplomazie durante le guerre nella ex-Jugoslavia negli anni Novanta. In un conflitto ultratrentennale fra due paesi situati ai nostri confini, che sono parte del Consiglio d’Europa fin dal 2001 e che hanno rapporti vitali con le nostre economie (basti pensare al ruolo del gas e del petrolio azero in Italia), la voce dell’Europa è semplicemente irrilevante, assente, a tratti apertamente sbeffeggiata. Dopo il successo del Ministero del Made in Italy, sarebbe forse il caso ribattezzare i nostri affari esteri (non solo a Roma, ma in tutta Europa) con la denominazione più appropriata di Ministeri del Wishful Thinking.

Più complessa la lettura per quanto riguarda i paesi coinvolti. Per Yerevan e Baku, per diverse ragioni, l’accordo rappresenta un passo positivo verso una stabilizzazione interna, ma anche verso un consolidamento di potere che rischia di avere conseguenza negative in senso autoritario, soprattutto per l’Azerbaijan, dove la famiglia Aliyev è ai vertici del potere quasi ininterrottamente fin dal 1969. Non è per nulla una buona notizia, invece, per la sempre più esile e perseguitata opposizione azera, ormai sotto attacco quotidiano e con sempre meno supporto da parte della cosiddetta comunità internazionale. Discorso analogo si può fare per gli oltre centomila armeni del Karabakh, espulsi dalle loro case, in quella che il Parlamento Europeo, fra gli altri, non ha esitato a definire una pulizia etnica. È “come se non esistessimo,” ha scritto di recente in un articolo la giornalista Siranush Sargsyan.

Se Pashinyan ha discusso con Trump la questione dei prigionieri armeni nelle carceri dell’Azerbaijan, nulla di concreto è stato però intrapreso per loro, come per gli attivisti, ricercatori e giornalisti azeri che condividono la loro sorte, di cui non si è affatto parlato. Ma ciò è parte di questo terribile gioco, e la pace in salsa trumpiana ignora in modo sistematico le vittime e la società civile in toto, guardando esclusivamente a affari e potere.

Il conflitto, nato per il controllo del Nagorno-Karabakh, territorio da secoli a maggioranza armena attribuito da Mosca all’inizio degli anni Venti del secolo scorso all’Azerbaijan sovietico, era esploso negli anni Ottanta, quando la perestrojka aveva fatto riemergere rivendicazioni, tensioni e violenze che avevano già insanguinato in passato la regione. Dopo l’indipendenza di Armenia e Azerbaijan, la prima guerra, conclusa dal cessate il fuoco del 1994, aveva determinato la vittoria di Yerevan e la creazione di una Repubblica del Nagorno-Karabakh che, non riconosciuta da alcun paese al mondo, paradossalmente neppure da Yerevan, era proseguita fino al suo scioglimento, avvenuto il primo gennaio 2024. Un esito, questo, che è stato diretta conseguenza della seconda guerra del Karabakh, avvenuta nel 2020 e che, rovesciando gli esiti militari di quella precedente, aveva portato Baku a una riconquista della totalità dei territori perduti in precedenza, decretando al contempo l’espulsione dell’intera popolazione autoctona armena. L’attuale corrispondenza fra confini etnici e di stato dei due paesi, in netta controtendenza rispetto alla storia di un territorio estremamente composito da un punto di vista linguistico e religioso (“la montagna delle lingue”, così gli arabi chiamavano il Caucaso nel Medioevo) rappresenta purtroppo una sconfitta – l’ennesima – di un’Europa incapace di andare oltre le sue prediche e la sua falsa coscienza.

Si tratta di una pace vera o solo di un pessimo spettacolo, che avrà la durata effimera uno spot? Presto per dirlo. Se gli esperti si dividono, in questi tempi insidiosi e convulsi la prudenza è quantomai d’obbligo. Ma una cosa è certa, però, e non rappresenta affatto una buona notizia. Se pace sarà, non sarà per tutti. Oppositori, minoranze, attivisti per i diritti umani e giornalisti che non si piegano alla propaganda di regime: per loro, salvo un cambiamento di rotta radicale che al momento sembra poco probabile, la pace è nel Caucaso del Sud più che mai lontana.

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Armenia: Pashinyan presenta Torosyan come nuovo ministro del Lavoro e Affari sociali (Agenzia Nova 28.08.25)

Erevan, 28 ago 09:37 – (Agenzia Nova) – Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha presentato oggi Arsen Torosyan come nuovo ministro del Lavoro e degli Affari sociali, subentrato a Narek Mkrtchyan, nominato ambasciatore straordinario e plenipotenziario negli Stati Uniti. Pashinyan ha ringraziato Mkrtchyan per i quattro anni di mandato, durante i quali sono state realizzate “importanti riforme nel settore”, molte delle quali ancora in fase di attuazione. Il premier ha sottolineato che la nomina a Washington rappresenta una missione di rilievo “alla luce del partenariato strategico avviato quest’anno con gli Stati Uniti”. Presentando Torosyan, Pashinyan lo ha definito “uno dei rappresentanti più esperti del team politico” ed ha espresso fiducia che porterà “nuove idee e nuova energia al lavoro del Ministero”. Ha inoltre sottolineato l’importanza della componente formativa nelle politiche sociali: “Il nostro obiettivo è rendere ogni cittadino il più indipendente e libero possibile, anche attraverso formazione, riqualificazione e sviluppo di competenze professionali”. Mkrtchyan, nel suo intervento di congedo, ha ringraziato per l’opportunità di servire lo Stato in un periodo “pieno di sfide”, ricordando i programmi di sostegno ai profughi del Karabakh e assicurando il massimo impegno nel nuovo incarico diplomatico negli Stati Uniti. Torosyan ha infine ringraziato per la fiducia ricevuta e garantito la prosecuzione delle riforme: “Questo settore mi è naturalmente caro. Cercheremo di migliorare i programmi esistenti e avviare nuove riforme in stretta collaborazione con il governo”.
(Rum)

Processi politici in Armenia: repressione dell’opposizione in vista di una pace controversa (Marx21 28.08.25)

Nel 2025 l’Armenia sta assistendo a un’ondata di processi ad alto contenuto politico contro esponenti dell’opposizione, dai membri del movimento “Sacra Lotta” e della Federazione Rivoluzionaria Armena (ARF, Dashnaktsutyun) a importanti critici del governo. Questi procedimenti giudiziari, denunciati dai critici come motivati da ragioni politiche, coincidono con il tentativo del primo ministro Nikol Pashinyan di raggiungere un accordo di pace con l’Azerbaigian mediato dagli Stati Uniti. Gli osservatori sottolineano che le autorità armene hanno cercato di eliminare i principali dissidenti nei mesi precedenti la dichiarazione di pace dell’agosto 2025, un accordo che molti in Armenia considerano una capitolazione de facto alle condizioni dell’Azerbaigian. La tempistica e la natura di questi processi hanno sollevato serie preoccupazioni circa il regresso democratico e la repressione nel Paese.

Il movimento “Sacra Lotta” sotto processo

Uno degli obiettivi principali della repressione è stato il movimento di protesta “Sacra Lotta”, una campagna patriottica lanciata nel 2024 per opporsi a quelle che i suoi membri considerano concessioni inaccettabili all’Azerbaigian. Il suo leader, l’arcivescovo Bagrat Galstanyan, un alto prelato della Chiesa apostolica armena, è stato arrestato il 25 giugno 2025 insieme ad almeno 14 sostenitori (tra cui attivisti dell’ARF). Ora sono sotto processo a Yerevan con l’accusa esplosiva di “cospirazione per rovesciare il governo attraverso atti terroristici”. L’atto d’accusa si basa in gran parte su registrazioni audio delle conversazioni di Bagrat, divulgate dagli investigatori, che sostengono che il gruppo abbia pianificato una violenta rivolta, dagli omicidi al sabotaggio delle infrastrutture.

Galstanyan e i suoi coimputati negano con veemenza le accuse, definendole una montatura. Nella prima udienza del 19 agosto, l’arcivescovo, ancora vestito con la tonaca nera, ha aperto con il Padre Nostro e ha proclamato la sua innocenza. “Non siamo terroristi, ma siamo terrorizzati da coloro che adorano il denaro e il potere”, ha dichiarato Galstanyan alla corte, definendo il processo una punizione per la sua posizione patriottica. Gli avvocati della difesa sostengono che le registrazioni segrete siano state manipolate e estrapolate dal contesto dalle autorità intenzionate a mettere a tacere il dissenso. È da notare che nelle perquisizioni approfondite delle abitazioni dei sospettati non sono state trovate armi o materiali incriminanti; l’avvocato di Galstanyan ha definito il caso «nient’altro che una rozza messinscena politica» da parte del Servizio di Sicurezza Nazionale.

I gruppi di opposizione e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato i processi della Lotta Sacra come un palese tentativo di schiacciare il dissenso pacifico. Gli arresti sono stati accompagnati da raid su larga scala del NSS in oltre 90 luoghi, tra cui le case di attivisti dell’ARF e di un parlamentare dell’opposizione, nell’ambito di quella che il partito ARF Dashnaktsutyun definisce una “campagna diffamatoria volta a schiacciare il dissenso”. L’ARF e altre fazioni dell’opposizione hanno rilasciato dichiarazioni in cui denunciano la repressione come illegale e motivata politicamente, descrivendola come un tentativo di Pashinyan di “mettere a tacere i focolai della resistenza nazionale” in Armenia. I leader del Dashnaktsutyun sottolineano che l’unico “reato” dei loro membri è stato quello di opporsi a ulteriori concessioni territoriali all’Azerbaigian e accusano il governo di aver inventato accuse false per neutralizzare gli oppositori delle politiche di Pashinyan.

Clero e figure dell’opposizione bollati come “terroristi”

La repressione ha preso di mira in particolare esponenti di spicco del clero che si sono schierati con l’opposizione. All’arresto dell’arcivescovo Bagrat Galstanyan è seguito, due giorni dopo, il drammatico tentativo di arresto dell’arcivescovo Mikael Ajapahyan, il 27 giugno. Ajapahyan, altro critico schietto di Pashinyan, è stato infine accusato di“incitamento al rovesciamento violento dell’ordine costituzionale”, essenzialmente per aver suggerito in un’intervista che l’esercito destituisse l’attuale governo. Quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella cattedrale di Etchmiadzin per arrestarlo, centinaia di sacerdoti e fedeli indignati hanno bloccato fisicamente l’arresto. Il 61enne arcivescovo si è consegnato volontariamente dopo lo stallo e il suo processo è iniziato il 15 agosto sotto lo sguardo attento dell’opinione pubblica. La detenzione di Ajapahyan è stata prorogata nonostante i ricorsi della difesa, portandolo ad affermare con amarezza in tribunale che nemmeno il regime sovietico lo aveva arrestato per aver espresso la sua opinione, mentre «uno Stato che si definisce democratico sta ora limitando la libertà di parola attraverso la detenzione». La Santa Sede della Chiesa armena ha condannato il suo arresto come «vendetta personale» da parte della squadra di Pashinyan e prova di una «politica di persecuzione contro la Chiesa» guidata dal governo.

Questi sviluppi sono avvenuti nel mezzo di un confronto aperto tra Pashinyan e la Chiesa apostolica armena. A giugno, l’ufficio di Pashinyan ha lanciato una campagna per costringere alle dimissioni il Catholicos Garegin II, il patriarca supremo della Chiesa, accusandolo di irregolarità, tra cui la violazione del voto di celibato (vedi la nostra inchiesta sulla campagna di Pashinyan contro la Chiesa). Il 26 giugno, il giorno dopo l’arresto dell’arcivescovo Bagrat, Pashinyan ha persino minacciato di sfrattare con la forza il Catholicos dalla sua residenza di Etchmiadzin se non si fosse dimesso. Questo attacco senza precedenti alla leadership della Chiesa, combinato con l’incarcerazione di alti prelati, ha portato molti a concludere che il governo stia cercando di neutralizzare l’influente Chiesa come potenziale fonte di opposizione. I critici di Pashinyan affermano che le figure ecclesiastiche sono state prese di mira proprio perché stavano mobilitando l’opinione pubblica contro quelle che considerano pericolose concessioni ai nemici dell’Armenia. Pashinyan e i suoi alleati negano di perseguitare la Chiesa, sostenendo di starla semplicemente “riformando” rimuovendo quelli che definiscono ecclesiastici reazionari, una giustificazione accolta con grande scetticismo.

Gli attivisti dell’opposizione laica non hanno avuto sorte migliore. All’inizio di luglio, ondate di arresti hanno colpito giovani membri dell’ARF con accuse simili. Il 10 luglio, la polizia ha arrestato sette persone legate all’ARF Dashnaktsutyun, per lo più giovani attivisti, accusandole di preparare atti terroristici. Le autorità hanno diffuso le foto degli oggetti sequestrati (una bomba a mano, detonatori, radio), insinuando un complotto per un attentato dinamitardo, ma senza fornire alcuna prova di un piano concreto. Gli avvocati degli attivisti hanno ridicolizzato le accuse, spiegando che i dispositivi confiscati erano oggetti di scena per giochi di “strikeball” ( softair) e attrezzature legalmente possedute, non strumenti di terrorismo. Ciononostante, un attivista (il ventiduenne Andranik Chamichian) è stato accusato di “preparazione al terrorismo” e persino il figlio di un deputato dell’opposizione (Taron Manukian, figlio del parlamentare dell’ARF Gegham Manukian) è stato arrestato dopo un raid nella sua abitazione. Esponenti dell’ARF hanno denunciato questi arresti come infondati e orchestrati a fini politici, sottolineando che inizialmente agli avvocati era stato impedito di incontrare i detenuti. “Le continue repressioni sono il risultato della paura delle autorità stesse”, ha affermato il parlamentare Gegham Manukian, accusando il governo di “terrorizzare il popolo [e] cercare di creare false immagini” per diffamare i suoi oppositori. Anche alcuni degli arrestati a giugno insieme all’arcivescovo Galstanyan erano membri dell’ARF: ad esempio, il deputato dell’opposizione Artur Sargsyan è stato incriminato nello stesso caso, basandosi in gran parte sulle controverse intercettazioni telefoniche delle discussioni di Galstanyan.

Gli osservatori internazionali sottolineano che questa ondata di casi di “terrorismo” contro membri del clero e dell’opposizione non ha precedenti nell’Armenia post-sovietica. Il momento in cui sono stati compiuti ha suscitato particolare indignazione: le retate e le incriminazioni di giugno-luglio 2025 sono avvenute proprio mentre Pashinyan si avvicinava alla conclusione di un accordo di pace con l’Azerbaigian. Infatti, il 10 luglio, lo stesso giorno in cui sono stati arrestati i sette giovani Dashnak, Pashinyan era all’estero per incontrare il presidente azero Ilham Aliyev ad Abu Dhabi, dove stava definendo gli ultimi dettagli di un accordo di pace mediato dagli Stati Uniti. I leader dell’opposizione sostengono che non si tratti di una coincidenza. Ritengono che Pashinyan abbia cercato di prevenire qualsiasi protesta di massa o resistenza incarcerando in anticipo i patrioti più accesi. “Questi arresti fanno parte della repressione in corso contro tutti i critici che resistono ai piani [del governo] di fare ulteriori concessioni all’Azerbaigian”, ha affermato una dichiarazione dell’ARF, definendo le accuse motivate da ragioni politiche. Anche i media locali e la società civile hanno messo in guardia che l’Armenia sta assistendo a “una preoccupante erosione della libertà”, poiché il governo utilizza le forze di sicurezza e i tribunali per mettere a tacere i dissidenti con il pretesto della sicurezza nazionale.

Il caso di Samvel Karapetyan: da oligarca a prigioniero politico

Forse la figura più in vista coinvolta in questa campagna è Samvel Karapetyan, un imprenditore miliardario e filantropo. Karapetyan, presidente del conglomerato russo Tashir Group e uno dei più ricchi benefattori dell’Armenia, è stato arrestato in modo drammatico il 18 giugno 2025 dopo aver reso pubblici alcuni commenti in difesa della Chiesa apostolica armena nel suo scontro con l’amministrazione Pashinyan. Aveva rilasciato una dichiarazione al vetriolo in cui criticava il trattamento riservato dal governo alla Chiesa e ad altre istituzioni nazionali. Nel giro di un giorno, le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nella residenza di Karapetyan a Yerevan; il magnate è stato arrestato e accusato di “incitamento pubblico all’usurpazione del potere”, essenzialmente accusato di aver incitato un colpo di Stato (vedi la nostra inchiesta su questo caso).

I critici sottolineano lo straordinario zelo con cui il governo di Pashinyan ha poi agito contro gli interessi commerciali di Karapetyan. Subito dopo l’arresto, il primo ministro Pashinyan ha dichiarato che era giunto il momento di nazionalizzare la società di servizi pubblici di Karapetyan, Electric Networks of Armenia (ENA). Il partito al potere ha rapidamente approvato una legge che autorizza lo Stato a sequestrare i beni dell’ENA, una mossa ampiamente vista come punitiva e di ritorsione. In risposta, la famiglia di Karapetyan ha presentato una richiesta di arbitrato d’urgenza all’estero. Un arbitro della Camera di Commercio di Stoccolma è intervenuto per congelare l’azione del governo armeno, avvertendo che la confisca dell’ENA avrebbe violato i trattati di investimento e ostacolato qualsiasi futuro risarcimento dei danni. Questa reprimenda legale internazionale ha costretto le autorità armene a sospendere, almeno temporaneamente, il loro progetto di nazionalizzazione.

Nel frattempo, Samvel Karapetyan rimane dietro le sbarre a Yerevan e il suo calvario legale si fa sempre più intricato. Dopo il suo arresto iniziale, gli investigatori hanno aggiunto una seconda serie di accuse, accusando Karapetyan di riciclaggio di denaro, dopo aver condotto approfondite verifiche e perquisizioni nelle sue aziende. Gli avvocati di Karapetyan contestano con forza queste accuse e hanno ottenuto alcune vittorie: l’11 agosto, la Corte d’appello penale armena ha stabilito che l’arresto di Karapetyan del 18 giugno era illegale, sottolineando che era stato detenuto senza un motivo valido per oltre nove ore. In precedenza, un tribunale aveva anche giudicato illegale la perquisizione della sua abitazione. Tuttavia, nonostante queste sentenze, l’uomo d’affari non è stato rilasciato. Le autorità hanno rapidamente presentato ricorso contro le decisioni e hanno mantenuto Karapetyan in custodia cautelare per oltre due mesi, semplicemente detenendolo sulla base delle nuove accuse per aggirare le conclusioni del tribunale. Questa manovra ha sollevato allarmi sullo stato di diritto, suggerendo che quando i tribunali non danno la risposta “giusta”, la procura cambia semplicemente tattica per garantire che un critico del governo rimanga in carcere.

Il caso Karapetyan ha attirato l’attenzione e la condanna della comunità internazionale. A metà agosto, il famoso avvocato internazionale Robert Amsterdam ha visitato l’Armenia e ha definito il procedimento un “spettacolo politico” e un atto di vendetta, del tutto inadeguato a un paese democratico. “Qualsiasi procedimento legale che si svolge qui è come uno spettacolo”, ha detto Amsterdam in una conferenza stampa a Yerevan, sottolineando che il procuratore generale che conduce il caso è strettamente allineato con l’ufficio del primo ministro. Ha avvertito che il comportamento del governo armeno “attirerà l’attenzione di tutti i partner politici ed economici” e ha promesso di sollevare la questione di Karapetyan davanti agli organismi giuridici internazionali. L’arresto di Karapetyan ha infatti causato attriti diplomatici: il miliardario ha sia la cittadinanza russa che quella armena e il Cremlino ha apertamente espresso la preoccupazione che egli sia oggetto di “accuse di natura politica”. Per molti in Armenia e nella diaspora, lo spettacolo di un uomo d’affari patriottico, noto per i generosi contributi alle cause nazionali, incarcerato e con le sue aziende minacciate, invia un messaggio agghiacciante. Sottolinea fino a che punto il governo di Pashinyan è disposto a spingersi per mettere a tacere le voci influenti che contestano la sua narrativa. Come ha lamentato una figura dell’opposizione, il destino di Karapetyan “è ampiamente visto nei circoli dell’opposizione come parte di una più ampia repressione del dissenso” da parte di un regime che sta scivolando verso l’autoritarismo.

Accordo di pace o capitolazione? Zittire il dissenso prima degli accordi di Washington

Questi processi politici si svolgono sullo sfondo di un controverso processo di pace tra Armenia e Azerbaigian. L’8 agosto 2025, il primo ministro Pashinyan e il presidente Aliyev dell’Azerbaigian si sono incontrati alla Casa Bianca a Washington D.C., sotto l’egida del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, per firmare una dichiarazione di pace congiunta volta a porre formalmente fine al conflitto decennale. Pashinyan ha accolto con favore gli accordi di Washington come una “svolta storica” che inaugura una “nuova era” per la regione. In un discorso televisivo del 18 agosto, ha affermato che l’accordo segna la fine ufficiale del conflitto e ha persino annunciato che lui e Aliyev nomineranno congiuntamente Trump per il Premio Nobel per la Pace per averlo mediato. I termini dell’accordo, ora resi pubblici, prevedono la riapertura delle vie di trasporto e la delimitazione dei confini sulla base delle linee dell’era sovietica, con l’Armenia che riconosce apparentemente la sovranità dell’Azerbaigian sulle zone contese, tra cui la più dolorosa è il Nagorno-Karabakh (Artsakh), la regione popolata da armeni persa nel 2020 a favore dell’Azerbaigian. Secondo Pashinyan, si tratta di un accordo “vantaggioso per tutti” che farà uscire l’Armenia dall’isolamento, porterà investimenti (tramite una proposta iniziativa denominata “Peace Crossroads/Trump Path”) e consentirà agli armeni di “vivere in un’Armenia completamente diversa”, libera da conflitti perpetui (vedi la nostra inchiesta su questo accordo di pace).

Tuttavia, gran parte dell’opinione pubblica armena e della diaspora considera la cosiddetta pace poco più che una capitolazione mascherata. Per molti, la firma di Pashinyan a Washington consolida essenzialmente la vittoria dell’Azerbaigian, costringendo l’Armenia a ingoiare compromessi difficili senza garantire giustizia o sicurezza agli armeni dell’Artsakh. I critici accusano Pashinyan di “vendere la sconfitta come pace”. “Ciò che viene venduto al popolo armeno come ‘pace’ potrebbe, in realtà, essere una sconfitta riproposta, che rischia di cancellare la giustizia, legittimare l’aggressione e abbandonare coloro ai quali non sono state mantenute le promesse”, ha scritto senza mezzi termini un commentatore. In nessuna parte dell’accordo viene affrontata la difficile situazione dei 120.000 armeni sfollati dell’Artsakh; Pashinyan ha esplicitamente rifiutato di insistere sul loro diritto al ritorno, definendo l’idea stessa “pericolosa” e esortando gli armeni a “dimenticare” l’Artsakh in nome della pace. Questo drastico cambiamento ha indignato le figure dell’opposizione. “Dichiarando permanente la spoliazione della patria, lo Stato sta condizionando i suoi cittadini ad accettare la cancellazione”, ha avvertito Metakse Hakobyan, deputata dell’Artsakh, secondo la quale la retorica della “vera Armenia” di Pashinyan è essenzialmente una “filosofia della capitolazione” che insegna al pubblico ad accettare la perdita come realismo. Lei e altri temono che se oggi si insegna agli armeni ad accettare la perdita dell’Artsakh, «domani la stessa logica potrebbe applicarsi a qualsiasi parte dell’Armenia».

In questo contesto, la tempistica della repressione del governo armeno nei confronti delle voci dell’opposizione assume un significato particolare. Tutti gli arresti più importanti – Galstanyan, Ajapahyan, Karapetyan, i giovani dell’ARF e altri – sono avvenuti tra la fine di giugno e l’inizio di luglio 2025, poche settimane prima del vertice di Washington e della dichiarazione. Pashinyan ha efficacemente rimosso o intimidito molti dei potenziali leader delle proteste di massa che avrebbero potuto scoppiare in risposta a un accordo di pace considerato un tradimento degli interessi nazionali. Infatti, quando Pashinyan è tornato in patria e ha elogiato la “stabilizzazione della pace” a metà agosto, le strade di Yerevan erano relativamente tranquille, secondo i critici in gran parte perché i principali organizzatori dell’opposizione erano dietro le sbarre o impegnati in procedimenti giudiziari. “La repressione all’interno dell’Armenia stessa [sta] crescendo”, ha osservato Hakobyan, citando i “processi politici, gli arresti e la persecuzione dei dissidenti – genitori di soldati caduti, membri del clero e parlamentari in carica” che si sono moltiplicati negli ultimi mesi. Questa ondata di repressione, ha osservato, sta modificando radicalmente il panorama politico armeno, creando un “nuovo ordine politico” in cui opporsi alla linea del governo può portare alla prigione. Altri leader dell’opposizione sono stati ancora più diretti: “Se un Paese ha prigionieri politici, quel Paese è sotto occupazione”, ha affermato Hakobyan, sostenendo che l’Armenia sotto Pashinyan sta sacrificando la sua sovranità e dignità sotto le spoglie della “pace”. A loro avviso, Pashinyan ha prima capitolato davanti all’Azerbaigian e ora sta usando l’apparato statale per garantire che anche gli armeni capitolino alla sua narrativa, mettendo a tacere chiunque si rifiuti di tacere sulla sconfitta.

Una svolta critica

I processi politici in corso in Armenia hanno messo in luce l’impegno del governo nei confronti delle norme democratiche in un momento critico della storia della nazione. Il primo ministro Pashinyan, salito al potere come riformatore nella “Rivoluzione di velluto” del 2018, è ora accusato di tattiche autoritarie che ricordano un’epoca più buia. I partiti di opposizione, i gruppi della società civile e gli osservatori internazionali avvertono che perseguire il clero, i giornalisti, gli imprenditori e gli attivisti dell’opposizione con leggi antiterrorismo discutibili è un grave abuso di potere. Sostengono che le autorità armene, nel tentativo di imporre una pace impopolare, hanno calpestato la libertà di espressione e il giusto processo, minando la democrazia stessa che le ha portate al potere.

Mentre l’Armenia affronta un futuro incerto nel Caucaso meridionale post-bellico, questi processi sollevano interrogativi inquietanti: a quale costo è stata raggiunta la “pace”? E una pace fondata sul silenzio dei dissidenti potrà davvero essere sostenibile? Per ora, i sostenitori del movimento “Sacra Lotta” e i membri dell’ARF Dashnaktsutyun languiscono nei tribunali e nelle celle delle prigioni, proclamando con sfida il loro patriottismo anche se bollati come criminali. “Presto la nostra sicurezza esterna sarà ricostruita”, ha scritto Samvel Karapetyan dalla sua cella, esprimendo fiducia nel fatto che l’Armenia supererà l’attuale tumulto. Il suo ottimismo è condiviso da molti armeni comuni che credono che l’anima della loro nazione sia messa alla prova. Ai loro occhi, la vera lotta non riguarda solo un trattato di pace o un governo, ma il carattere stesso dello Stato armeno: se rimarrà pluralistico e libero o scivolerà ulteriormente nella repressione. L’esito di questi processi politici potrebbe plasmare il destino dell’Armenia per gli anni a venire, determinando se il Paese potrà raggiungere una pace reale senza perdere la democrazia e la giustizia per cui il suo popolo ha lottato a lungo.

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26° Festival del Circo d’Italia: i primi artisti in gara (Circusnews 27.08.25)

Dal 16 al 20 Ottobre 2025 a Latina, la 26^ edizione dell’International Circus Festival of Italy. Sciolta la riserva sui primi quattro numeri ammessi alla competizione.

Provengono da Armenia, Ucraina, Ungheria e Stati Uniti d’America i primi artisti ai quali spetterà l’onere di rappresentare i loro Paesi d’origine nell’ambitissima pista di Latina.

VARDANYAN BROTHERS

Armenia – Mano a mano

UNA PIATTAFORMA MOBILE ASSEGNA UNA INCONSUETA DINAMICA VERTICALE AL NUMERO DI MANO A MANO.

Formati alle discipline circensi dal loro zio fin dall’età di 9 anni, i fratelli Vardanyan provengono dall’Armenia dove debuttarono nel 1999 sulla pista di un Circo. Negli anni hanno proseguito la loro preparazione atletica ed artistica da autodidatti fino ad acquisire notevole visibilità attraverso numerose partecipazioni televisive in Russia, Regno Unito, Italia, Spagna e Germania. Tra le esibizioni di mano a mano, quella dei fratelli Vardanyan si distingue per l’impiego di una speciale piattaforma mobile che assegna alla performance una inconsueta dinamica verticale. Il trucco finale, poi, vede l’impiego di coltelli a rendere il numero ancora più audace.

KATERINA KORNEVA

Ucraina – Palo aereo

IL PALO AEREO: LA GRAZIA DELLA DANZA SI COMBINA CON LE COMPETENZE PROPRIE DELL’ACROBATICA.

Era il 2001 quando la giovane artista ucraina Katerina Korneva iniziava la propria carriera artistica e professionale. Era stata sua madre ad accompagnarla per la prima volta in una Scuola di Circo nella città di Donetsk. Negli anni Katerina ha viaggiato in tutto il mondo esibendosi con un numero di cerchio aereo presentato anche a Monte-Carlo in occasione della diciannovesima edizione del Festival Premier Rampe. Pur rimanendo fedele alle performance a distanza da terra, Katerina Korneva si esibisce oggi nella disciplina denominata palo aereo: una contaminazione raffinata tra la grazia della Danza e le competenze proprie dei numeri acrobatici.

CHRISTOPHER EÖTVÖS

Ungheria – Magia

UN’UNICA PERFORMANCE CHE RACCHIUDE IN SÉ UNA SEQUENZA SERRATA DI NUMEROSI TRUCCHI DI MAGIA.

Christopher Eötvös è un giovane artista ungherese e rappresenta l’ottava generazione della sua famiglia circense. Educato alla pratica delle discipline dello spettacolo fin dalla più tenera età, Christopher ha debuttato come artista professionista all’età di 18 anni e ad oggi, oltre che nel suo Paese, si è già esibito in Francia, Austria, Germania e Danimarca. La sua specialità è la magia: Christopher allestisce performance estremamente dinamiche durante le quali numerosi trucchi si susseguono a ritmo serrato. In occasione della sua partecipazione al Festival di Latina, Christopher ha previsto il coinvolgimento di un intero corpo di ballo.

HALEY ROSE VILORIA

Stati Uniti d’America – Cinghie aeree

È COSÌ CHE IN PISTA UN’ARTISTA PUÒ RACCONTARE LA FINE DI UN AMORE E L’ELABORAZIONE DEL DOLORE.

Haley Rose Viloria è un’artista statunitense autodidatta di origini californiane. In scena dal 2009, Haley Rose si è esibita sia nei circhi tradizionali americani che sulle navi da crociera prima di approdare alle grandi produzioni del Cirque du Soleil. La sua struggente esibizione alle cinghie aeree vede Haley Rose quale interprete ed al tempo stesso ideatrice e coreografa: l’azione scenica risulta dall’elaborazione di un’esperienza dolorosa della protagonista, legata alla fine di una storia d’amore. Il titolo della performance, ‘The stages of grief’, rimanda proprio alla sequenza ordinata di condizioni emotive che l’artista intende evocare: dal dolore alla negazione, dalla rabbia alla contrattazione, per giungere poi alla definitiva accettazione.

Tra Armenia e Italia, legami di pietra e memoria (VaticanNews 27.08.25)

L’artista Mikayel Ohanjanyan esplora i legami invisibili dell’esistenza attraverso la scultura. Dalla formazione accademica alle grandi esposizioni internazionali, la sua ricerca si nutre di connessioni culturali e interiori, trasformando la materia in un campo di riflessione sul presente

Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano

Nelle sculture di Mikayel Ohanjanyan la materia sembra custodire tensioni invisibili, come se fosse attraversata da forze che trattengono e al tempo stesso spingono verso l’inconoscibile. Pietra, piombo e acciaio diventano strumenti per interrogare i legami che uniscono l’essere umano a sé stesso, agli altri, alla natura e all’universo. Una ricerca che nasce dal dialogo fra due culture, quella armena e quella italiana, e che trova espressione in un percorso artistico riconosciuto a livello internazionale.Radici e appartenenza

Nato nella capitale armena Yerevan, Ohanjanyan ha compiuto i primi studi nella sua città per poi trasferirsi in Italia nel 2000, dove si è formato all’Accademia di belle arti di Firenze. Questo passaggio è stato decisivo: l’incontro con la tradizione rinascimentale e con l’arte contemporanea gli ha permesso di ripensare le proprie origini in una dimensione di costante riflessione. “È come un rispecchiamento continuo tra la cultura da cui provengo e il mondo nuovo in cui vivo”, racconta.

Ascolta l’intervista a Mikayel Ohanjanyan

Legami

Il nucleo della sua ricerca si concentra sull’essere umano e sulle sue relazioni, un interesse coltivato fin dall’infanzia. Da questa attenzione nasce il tema dei Legami, che oggi connota molte delle sue opere. Legami interiori, sociali, spirituali: un intreccio che si traduce formalmente in blocchi di pietra serrati da cavi d’acciaio, superfici attraversate da scritture, tensioni che diventano segni concreti nello spazio.

La soglia

L’installazione E se non ci fosse la scrittura?, presentata a Milano, affronta ad esempio il valore e i limiti della scrittura come soglia da superare. Blocchi di basalto informi, stretti da funi metalliche che li afferrano al suolo, sono metafora dell’essere umano trattenuto, incapace di “volare”. Le schegge fuse in piombo recano incisa la domanda che dà il titolo all’opera: una provocazione che interroga la memoria e la capacità di vivere il presente.

La scultura come filosofia

La scultura, osserva Ohanjanyan, è “una filosofia tridimensionale”, capace di catalizzare la vibrazione del tempo. Non un gesto isolato, ma un processo che assorbe la dimensione sociale, politica e culturale in cui viviamo. “Credo che la scultura sia un tentativo di catalizzare la vibrazione da cui si genera ogni cosa”, afferma, sottolineando come le sue opere siano al tempo stesso memoria delle origini e riflessione sul presente.

Percorsi per andare lontano

Questa visione ha trovato spazio in contesti internazionali: dalla Biennale di Venezia, dove nel 2015 ha partecipato al Padiglione dell’Armenia premiato con il Leone d’Oro, al Frieze Sculpture Park di Londra, che nel 2016 ha presentato Diario, oggi parte della collezione permanente dello Yorkshire Sculpture Park. Nel 2018 l’opera La soglia è la sorgente è entrata nel Museo dell’opera del duomo di Firenze, vincendo il Premio Internazionale Marinelli. E ancora Parigi, con il progetto Fiac-on Site, o Carrara, dove la città lo ha invitato a dialogare con gli spazi pubblici. Accanto a questi riconoscimenti, resta centrale la riflessione personale: le sue opere si offrono come strumenti per rivelare tanto la presenza quanto la mancanza di legami. “È una denuncia della scarsa consapevolezza dei rapporti che viviamo, ma anche un modo per segnare l’importanza dell’unità, anche se frantumata, anche se in attrito”, spiega l’artista.

Incontro e memoria

Nel 2024 Ohanjanyan è stato invitato dal Dicastero per la cultura e l’educazione alla Biennale di Venezia, ospitata nella casa di reclusione femminile della Giudecca, dove ha incontrato Papa Francesco. Un ricordo che definisce “molto emozionante, molto simbolico… un ricordo empatico, profondo”, a conferma di quanto lo sguardo dell’artista sia guidato dal cuore, dalle esperienze umane e spirituali oltre che artistiche.

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Striscia di Gaza: Chiese cristiane di Gerusalemme a senatori Usa, “profonda angoscia per Gaza” (AgenSir 27.08.25)

Presso il Patriarcato ortodosso di Gerusalemme, il patriarca Teofilo III, insieme ai leader delle Chiese armena, francescana, latina e anglicana, ha ricevuto ieri i senatori degli Stati Uniti, Chris Van Hollen e Jeff Merkley, per una “solenne dichiarazione sulle gravi tribolazioni che i cristiani devono affrontare in Terra Santa”. Secondo quanto riferito dalla Custodia di Terra Santa, dopo aver ringraziato i due senatori per il loro impegno a garantire la libertà di culto a Gerusalemme e in tutta la Terra Santa, Teofilo III ha dichiarato: “Ogni difesa della santità del culto rafforza la testimonianza viva del Vangelo nella stessa città in cui la Parola fu proclamata per la prima volta e da dove si diffuse tra le nazioni”. Nel corso dell’incontro i leader delle Chiese cristiane, tra cui anche il custode di Terra Santa, padre Francesco Ielpo, hanno denunciato “i ripetuti attacchi alle chiese di Gaza e all’ospedale Al-Ahli a Gaza City (gestito dalla Comunione anglicana di Gerusalemme, ndr.), la grave minaccia rappresentata dalla tassa israeliana ‘Arnona’, (che i Comuni incassano sulle proprietà immobiliari, ndr.) e i crescenti pericoli che le famiglie cristiane affrontano a Taybeh e in tutta la Cisgiordania”. Le Chiese cristiane hanno espresso “profonda angoscia per quanto sta accadendo a Gaza, dove bambini, deliberatamente affamati, gridano per il pane, gli innocenti versano in una sofferenza incessante e lo spettro incombente di uno sfollamento di massa grava su famiglie già sull’orlo della disperazione”. L’incontro si è chiuso con l’appello di Teofilo III: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Lanciamo questo appello affinché la vita sia preservata e la dignità sostenuta”. Dal canto loro i due senatori si sono impegnati a riferire le “urgenti preoccupazioni” delle Chiese al Dipartimento di Stato e all’Ambasciata degli Stati Uniti.

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