Una rotta per unire Armenia e Russia (passando dall’Azerbaigian) (Insideover 18.02.21)

 

Da quando la seconda guerra del Nagorno Karabakh è terminata, l’Azerbaigian si è trasformato in un cantiere a cielo aperto dalle mille sfaccettature dove si incrociano le strade di operai impegnati nell’estrazione di gas naturale, nella restaurazione di complessi di raffinazione del petrolio, nella costruzione di parchi tecnologici, centrali solari e idroelettriche e nell’inaugurazione di tratte ferroviarie internazionali, come la Ankara–Baku–Mosca, la Jiaozhou–Baku e la Nakhchivan–Baku.

Naturalmente, il dopoguerra è stato vissuto in maniera differente in Armenia, dove il malcontento nei confronti dell’esecutivo ha alimentato la tensione per le strade e Nikol Pashinyan ha posticipato la fine della propria esistenza politica ripiegando su un riallineamento tout court in direzione del Cremlino. Contrariamente all’Azerbaigian, il vincitore sul cui carro desiderano salire persino gli (ex?) alleati di Pashinyan, in Armenia – per il momento – si prefigura la materializzazione di un solo progetto degno di nota: la linea ferroviaria Yerevan–Mosca.

L’idea della rotta

Quando una guerra termina in maniera definitiva, con un chiaro vincitore ed un inequivocabile vinto, è compito del negoziatore – qualora ve ne sia uno – corteggiare il primo ed evitare l’umiliazione totale del secondo. Nel caso del Nagorno Karabakh, il negoziatore, ovvero il Cremlino, ha accordato all’Azerbaigian una serie di concessioni inevitabili, dalla ricomposizione della zona contesa alla Nakhchivan–Baku, e all’Armenia la salvaguardia del corridoio di Lachin ed un collegamento ferroviario diretto con la Russia.

La rotta Armenia–Russia rientra nell’ambito degli accordi siglati lo scorso 11 gennaio a Mosca fra Vladimir Putin, Ilham Aliyev e Pashinyan. I tre statisti si erano incontrati per discutere dei progressi avvenuti nel dopo-cessate il fuoco e concordare un piano d’azione comune che migliorasse le relazioni bilaterali fra Yerevan e Baku e incidesse positivamente sulle dinamiche postguerra nel Karabakh Superiore. Il vertice si era concluso con la firma di una dichiarazione congiunta riguardante lo sviluppo di progetti infrastrutturali nella regione contesa, fra i quali, appunto, una linea ferroviaria per connettere Armenia e Russia attraversante il territorio azero.

Da Yerevan a Mosca (attraverso Baku)

Il 15 febbraio, partecipando alla posa della prima pietra della tratta ferroviaria Horadiz–Agbend, nel distretto (nuovamente) azero di Fuzuli, Aliyev è tornato sull’argomento del collegamento armeno-russo spiegando come da parte azera vi sia la piena volontà di concretare il progetto e inquadrarlo nella rete di comunicazione regionale. Nello specifico, il presidente azero ha dichiarato che “i progetti di trasporto nella regione dovrebbero svolgere un ruolo speciale nello sviluppo a lungo termine della stessa, garantendo stabilità, riducendo a zero il rischio di guerra e facendo in modo che tutti i Paesi partecipanti ne traggano vantaggio”.

Inoltre, ha proseguito ancora Aliyev, “l’Azerbaigian sta avviando il collegamento con la repubblica autonoma di Nakhchivan e la Turchia. Allo stesso tempo potrebbe essere aperta una ferrovia dalla Russia all’Armenia. Questa linea può passare solo attraverso il territorio dell’Azerbaigian. Ci sarà anche un collegamento ferroviario tra Russia e Iran attraverso il territorio del Nakhchivan e un altro fra Iran e Armenia. Ci sarà un collegamento ferroviario tra Turchia e Russia. Ovvero tutti i Paesi della regione ne trarranno vantaggio”.

La linea, in realtà, potrebbe aggirare l’Azerbaigian e passare dalla Georgia – cosa che la renderebbe meno esposta alle turbolenze politiche e più efficace in termini di tempi di percorrenza –, ma le dichiarazioni del presidente azero sono da leggere come un promemoria alla controparte armena circa il contenuto degli accordi dell’11 gennaio: o via Baku, o progetto abortito.

Curiosamente, ma non casualmente, l’intervento di Aliyev avviene alla vigilia della bilaterale tra i ministri degli esteri di Russia e Armenia, Sergej Lavrov e Ara Ayvazyan, che si incontreranno a Mosca il 17 per discutere di “questioni nell’agenda bilaterale, regionale e internazionale […] [dedicando] particolare attenzione alle dichiarazioni trilaterali del 9 novembre e dell’11 gennaio”. I due capi diplomatici, in breve, parleranno (anche) della Yerevan–Mosca e Aliyev, pur non presenziando, ha lasciato nella loro segreteria il proprio messaggio.

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Fuga senza ritorno L’esodo del Nagorno Karabakh (Insideover 18.02.21)

Un esodo di migliaia di cittadini e case date alle fiamme per non lasciare i ricordi di sempre ai vincitori del conflitto: sono queste le immagini che hanno raccontato, meglio di tutte, la fuga di quasi 100mila persone dal Nagorno Karabakh pochi giorni prima della firma del cessate il fuoco.

Il fronte, nei primi giorni di novembre, era sempre più vicino a Stepanakert, la città di Shushi, lontana soltanto 8 chilometri dalla capitale, era cinta d’assedio e, nelle ore precedenti alla tregua, la gran parte dei cittadini dell’Artsakh abbandonava le proprie case e fuggiva in Armenia percorrendo il corridoio di Lachin.

Una casa in fiamme nel villaggio di Karmiravan, mentre gli armeni lasciano la zona prima che le forze azere prendano il controllo della regione separatista del Nagorno-Karabakh, giovedì 19 novembre 2020. Un cessate il fuoco mediato dalla Russia per fermare sei settimane di combattimenti sul Nagorno-Karabakh ha stabilito che l’Armenia ceda all’Azerbaigian il controllo di alcune aree che detiene al di fuori dei confini del territorio separatista. Gli armeni sono costretti a lasciare le loro case prima che la regione venga consegnata al controllo delle forze azere ( Foto AP/Sergei Grits)

“Eravamo in automobile, bloccati. Macchine e furgoni ovunque: davanti a noi, dietro di noi, ai lati; da tutte le parti. C’erano così tanti veicoli che si era formata una coda lunga chilometri“.

Nagorno-Karabakh, gli armeni costretti a lasciare le loro case (LaPresse)

È così che Roubina Margossian giornalista di Evn Report, e che ha coperto il conflitto in Karabakh sin dalle prime fasi della guerra, ricorda quel momento divenuto una rappresentazione iconica della tragedia umanitaria che ha colpito il Karabakh. “La cosa più impressionante è stata vedere le colonne di fumo che si alzavano dalle case che la gente stava incendiando. È stato davvero scioccante. Non una casa, non due, ma decine di case e fattorie, lungo tutta la strada che dal Karabakh porta in Armenia, bruciavano. Uomini e donne stavano dando fuoco alle proprie abitazioni per non lasciare nulla ai soldati azeri. Un momento che mi ha lasciata attonita, un gesto estremo che è difficile da commentare: dare fuoco a ciò che di più prezioso si ha, al luogo dove sono conservati i propri ricordi, la propria vita affinché la sacralità del proprio passato, della propria storia non possa essere violata e oltraggiata da nessuno: è un gesto molto doloroso che fa comprendere meglio di tanti altri l’assurdità e la disperazione che le guerre provocano”.

Un uomo si trova vicino alla sua auto che ha preso fuoco durante la salita lungo la strada di un valico, vicino al confine tra Nagorno-Karabakh e Armenia, domenica 8 novembre 2020. (LaPresse)

Una strada immersa nella campagna armena conduce oggi da Yerevan ad Aparan dove vive Volodia Tadevosyan, cittadino della regione di Karvachar, uno dei distretti passati sotto controllo azero al momento della cessazione delle ostilità, che prima di abbandonare per sempre la terra dove è cresciuto ed è vissuto ha compiuto l’irremeabile gesto di dare fuoco alla sua casa e ai ricordi di sempre. “Dove ho trovato il coraggio di cospargere di benzina i muri di casa mia e poi dare fuoco a tutto? Dalla rabbia che c’è in me e dal fatto che era la sola cosa da fare per potere vivere ancora con una dignità”.

Fumo e fiamme si alzano da una casa in fiamme in una zona un tempo occupata dalle forze armene (AP Photo/Dmitry Lovetsky)

 

Sono frasi potenti, lapidarie e caustiche e Volodia proseguendo con il racconto spiega: “La casa dove vivevo è stata la casa che abbiamo costruito generazione dopo generazione mio nonno, mio padre ed io. Giorno dopo giorno, pietra dopo pietra. Non erano semplici muri quelli che formavano quella casa, erano il sudore, il sangue, i sacrifici e la storia di un’intera famiglia. Avevamo un orto, delle api, un piccolo terreno che lavoravamo tutti insieme…Potevo accettare che quella casa venisse oltraggiata, che dei soldati si facessero foto trionfanti e poi imbrattassero e distruggessero tutto? Potevo accettare e permettere tutto questo? No, ovvio che no. Dare fuoco a casa mia è stato estremamente doloroso, ma se non l’avessi fatto qualcuno avrebbe potuto violare la mia casa e la memoria dei miei genitori, e quello sarebbe stato molto peggio delle fiamme e io, difronte a un fatto del genere, non avrei più avuto alcuna dignità”.

 

 

È un presente scritto al passato remoto quello della famiglia di Volodia. Tutto sembra essere stato sepolto per sempre sotto un cumulo di cenere e macerie, e il futuro è un coacervo di incognite e interrogativi senza risposte. E lo stesso dramma di precarietà e paura lo vivono anche Alyona e Gagik, madre e padri di Maria e Lyova, di sette e cinque anni.

Un uomo smonta una croce dal tetto della sua casa nel villaggio di Karmiravan, mentre gli armeni lasciano l’area prima che le forze azere prendano il controllo della regione separatista del Nagorno-Karabakh, giovedì 19 novembre 2020. ( Foto AP/Sergei Grits)

La famiglia è originaria di Hadrut e, a causa della guerra, è fuggita in Armenia e ora vive tra gli sfollati a Masis. I genitori erano entrambi professori, oggi la madre però fa la parrucchiera e il padre è disoccupato, ma ciò che preoccupa di più la coppia, molto più della precarietà economica e di aver visto tutti i loro sforzi e sacrifici andare in frantumi, è il futuro dei loro bambini.

Un soldato mostra un kalashnikov ad un ragazzo del Dadivank, un monastero della Chiesa Apostolica Armena del IX secolo, mentre gli armeni lasciano la regione separatista del Nagorno-Karabakh per l’Armenia, sabato 14 novembre 2020 (Foto AP/Dmitry Lovetsky)

“Mia figlia, Maria, un giorno ha fatto delle ricerche in internet e ha visto un video di soldati azeri che entravano nel nostro villaggio. Ha visto le immagini della casa distrutta ed è scoppiata in un pianto isterico che io non sono riuscita a fermare”. Confida Alyona, la mamma, che proseguendo aggiunge: “La guerra ha toccato i bambini. Anche se non hanno una piena comprensione di ciò che è successo comunque il conflitto li ha segnati. E quando mi chiedono chi sono gli azeri dico loro che sono persone come noi.

Firuza Bakhchyan, sorvegliata dal marito Sergei, taglia i fili nei pressi della loro casa nel villaggio di Karmiravan, mentre gli armeni lasciano la zona prima che le forze azere prendano il controllo della regione separatista del Nagorno-Karabakh (Foto AP/Sergei Grits)

Quando mia figlia mi chiede perchè hanno rotto la sua bicicletta dico che non l’hanno rotta ma che stavano giocando e che quando torneremo a casa ne troverà una ancora più bella. Io e mio marito abbiamo tantissime incognite e paure per i nostri figli. Quale sarà il loro futuro?

 


Una rotta per unire Armenia e Russia (passando dall’Azerbaigian) (Insideover 18.02.21)

Da quando la seconda guerra del Nagorno Karabakh è terminata, l’Azerbaigian si è trasformato in un cantiere a cielo aperto dalle mille sfaccettature dove si incrociano le strade di operai impegnati nell’estrazione di gas naturale, nella restaurazione di complessi di raffinazione del petrolio, nella costruzione di parchi tecnologici, centrali solari e idroelettriche e nell’inaugurazione di tratte ferroviarie internazionali, come la Ankara–Baku–Mosca, la Jiaozhou–Baku e la Nakhchivan–Baku.

Naturalmente, il dopoguerra è stato vissuto in maniera differente in Armenia, dove il malcontento nei confronti dell’esecutivo ha alimentato la tensione per le strade e Nikol Pashinyan ha posticipato la fine della propria esistenza politica ripiegando su un riallineamento tout court in direzione del Cremlino. Contrariamente all’Azerbaigian, il vincitore sul cui carro desiderano salire persino gli (ex?) alleati di Pashinyan, in Armenia – per il momento – si prefigura la materializzazione di un solo progetto degno di nota: la linea ferroviaria Yerevan–Mosca.

L’idea della rotta

Quando una guerra termina in maniera definitiva, con un chiaro vincitore ed un inequivocabile vinto, è compito del negoziatore – qualora ve ne sia uno – corteggiare il primo ed evitare l’umiliazione totale del secondo. Nel caso del Nagorno Karabakh, il negoziatore, ovvero il Cremlino, ha accordato all’Azerbaigian una serie di concessioni inevitabili, dalla ricomposizione della zona contesa alla Nakhchivan–Baku, e all’Armenia la salvaguardia del corridoio di Lachin ed un collegamento ferroviario diretto con la Russia.

La rotta Armenia–Russia rientra nell’ambito degli accordi siglati lo scorso 11 gennaio a Mosca fra Vladimir Putin, Ilham Aliyev e Pashinyan. I tre statisti si erano incontrati per discutere dei progressi avvenuti nel dopo-cessate il fuoco e concordare un piano d’azione comune che migliorasse le relazioni bilaterali fra Yerevan e Baku e incidesse positivamente sulle dinamiche postguerra nel Karabakh Superiore. Il vertice si era concluso con la firma di una dichiarazione congiunta riguardante lo sviluppo di progetti infrastrutturali nella regione contesa, fra i quali, appunto, una linea ferroviaria per connettere Armenia e Russia attraversante il territorio azero.

Da Yerevan a Mosca (attraverso Baku)

Il 15 febbraio, partecipando alla posa della prima pietra della tratta ferroviaria Horadiz–Agbend, nel distretto (nuovamente) azero di Fuzuli, Aliyev è tornato sull’argomento del collegamento armeno-russo spiegando come da parte azera vi sia la piena volontà di concretare il progetto e inquadrarlo nella rete di comunicazione regionale. Nello specifico, il presidente azero ha dichiarato che “i progetti di trasporto nella regione dovrebbero svolgere un ruolo speciale nello sviluppo a lungo termine della stessa, garantendo stabilità, riducendo a zero il rischio di guerra e facendo in modo che tutti i Paesi partecipanti ne traggano vantaggio”.

Inoltre, ha proseguito ancora Aliyev, “l’Azerbaigian sta avviando il collegamento con la repubblica autonoma di Nakhchivan e la Turchia. Allo stesso tempo potrebbe essere aperta una ferrovia dalla Russia all’Armenia. Questa linea può passare solo attraverso il territorio dell’Azerbaigian. Ci sarà anche un collegamento ferroviario tra Russia e Iran attraverso il territorio del Nakhchivan e un altro fra Iran e Armenia. Ci sarà un collegamento ferroviario tra Turchia e Russia. Ovvero tutti i Paesi della regione ne trarranno vantaggio”.

La linea, in realtà, potrebbe aggirare l’Azerbaigian e passare dalla Georgia – cosa che la renderebbe meno esposta alle turbolenze politiche e più efficace in termini di tempi di percorrenza –, ma le dichiarazioni del presidente azero sono da leggere come un promemoria alla controparte armena circa il contenuto degli accordi dell’11 gennaio: o via Baku, o progetto abortito.

Curiosamente, ma non casualmente, l’intervento di Aliyev avviene alla vigilia della bilaterale tra i ministri degli esteri di Russia e Armenia, Sergej Lavrov e Ara Ayvazyan, che si incontreranno a Mosca il 17 per discutere di “questioni nell’agenda bilaterale, regionale e internazionale […] [dedicando] particolare attenzione alle dichiarazioni trilaterali del 9 novembre e dell’11 gennaio”. I due capi diplomatici, in breve, parleranno (anche) della Yerevan–Mosca e Aliyev, pur non presenziando, ha lasciato nella loro segreteria il proprio messaggio.

Yerevan Park: un nuovo parco di divertimento in Armenia (Parksmania 18.02.21)

Da un articolo di Bea Mitchell pubblicato su Blooloop.com:

Lo Yerevan Park, che è stato concepito per la prima volta nel 2016, sarà il più grande centro di intrattenimento della regione, riferisce Zartonk Media. Dal 2016, gli sviluppatori del parco a tema hanno lavorato al fianco di esperti del settore dei divertimenti, tra cui Jeroen Nijpels di JNELC.

Yerevan Park sarà caratterizzato da aree interne ed esterne, con 25 giostre e attrazioni. Queste sono state realizzate da vari produttori internazionali, tra cui Zierer, Vekoma e Zamperla. Il parco vanterà quattro montagne russe. Due di queste saranno per il target famiglie, mentre le altre due saranno decisamente più thrill. Yerevan Park presenterà anche una ruota panoramica alta 40 metri creata dall’italiana Technical Park.

Garegin Nushikyan, fondatore di Yerevan Park, sta creando un classico parco a tema in stile fiabesco. I personaggi e le attrazioni con radici armene attireranno i visitatori locali. Lo Yerevan Park si estenderà su 276.000 metri quadrati, con 196.000 metri quadrati di giardini e più di 20.000 alberi e piante. Yerevan Park è ora nelle fasi finali di costruzione, con aree interne ed esterne in programma per il debutto nella primavera del 2021.

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Un film sul Nagorno Karabakh, opera prima della regista armena Martirosyan (Euronews 17.02.21)

Cala il vento è l’opera prima di Nora Martirosyan, regista armena.

È incentrato sul Nagorno Karabakh, enclave armena, emersa dalla sfoldamento dell’ex URRS e autoproclamatasi unilaterlmente repubblica autonoma. Salita nel 2019 alla ribalta della cronoca.

Nora Martirosyan ci racconta come le è venuta l’ispirazione:

“Mi ha colpito la situazione, l’assurdità della situazione, un Paese che è di fronte a me, ma non esiste sulla carta, non esiste giuridicamente, nonostante tutto i suoi abitanti e il suo governo fingono di vivere in una situazione normale. E ho pensato che fosse incredibile. Ci è voluto molto tempo per scrivere, perché è complicato scrivere un film che parla di geopolitica senza metterla in primo piano. Il film racconta la storia di 30 anni di tregua, di finta pace. È particolare guardarlo oggi che ci sono nuove frontiere”.

Il racconto del film si conclude all’inizio del 2020 prima che le truppe azere entrino nell’autoproclamata repubblica sostenuta dall’Armenia.

La mediazione russa ha portato a un cessate il fuoco insabbiando definitivamente le rivendicazioni della piccola Repubblica.

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San Gregorio Armeno, l’omaggio di Nardò al patrono in era Covid (Corrieresalentino 17.02.21)

NARDO’ (Lecce) – Il Covid condiziona il consueto programma dei riti religiosi e civili in onore di San Gregorio Armeno, il patrono della città. Rispetto alla consuetudine, la festa patronale 2021 non contempla la processione e la fiera, ma la città ovviamente renderà comunque omaggio a San Gregorio Illuminatore con un più scarno calendario messo a punto dal Comitato Feste Patronali in collaborazione con la Diocesi di Nardò Gallipoli e il Comune di Nardò.

Domani, giovedì 18 febbraio, alle ore 19:30, nella Basilica Cattedrale Maria SS. Assunta, è in programma la presentazione di 20 febbraio 1743: Nardò, una città che trema, libro scritto da Giovanni De Cupertinis, Paolo Sansò e Andrea Vitale e edito da Edizioni Grifo con il patrocinio della Fondazione Fare Oggi, braccio operativo della Caritas Diocesana Nardò-Gallipoli, in cui si racconta, per la prima volta, la macchina dei soccorsi post terremoto.

Venerdì 19 febbraio, alle ore 18, nella Basilica Cattedrale, è in programma la solenne celebrazione eucaristica presieduta da S. E. mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti. La cerimonia è aperta al pubblico, sebbene con le solite restrizioni anti-Covid, ma potrà essere seguita anche in tv, su Radio System TV (canale 601 DTT), e sul web al canale Youtube della Diocesi Nardò Gallipoli, al sito web della stessa Diocesi (www.diocesinardogallipoli.it) e ancora in radio su Radio Centrale (canale 688 DTT e app).

Nelle ore del mattino di sabato 20 febbraio, San Gregorio Armeno, il Nuovo Concerto Bandistico Terra d’Arneo Città di Nardò farà un giro per le vie del centro storico, mentre nel corso della stessa giornata verranno sparati alcuni colpi secchi per omaggiare il patrono. Le luminarie, simboliche, impreziosiranno il breve cammino tra la Basilica Cattedrale e piazza Salandra.  Sempre sabato, nella Basilica Cattedrale, saranno celebrate le messe alle ore 7:30, 9, 10:30 e 18:30.

“Una festa diversa dal solito nelle forme e nei riti – dice il sindaco Pippi Mellone – ma non nell’essenza dell’omaggio al nostro patrono. Quest’anno, più che mai, vogliamo stare almeno idealmente più vicini, vogliamo sentirci un’unica e forte comunità, in grado di superare, come Nardò ha già dimostrato di saper fare, un momento complicato dal punto di vista sanitario, sociale ed economico”.

San Gregorio Illuminatore nacque in Armenia nel 257 circa, giovanissimo si rifugiò in Cappadocia per sfuggire a una persecuzione e in quella terra venne educato al cristianesimo. Rientrato in patria e divenuto monaco, visse la persecuzione di Tiridate nei confronti dei cristiani in Armenia, che nel frattempo Gregorio aveva conquistato con l’efficace campagna di predicazione. Fu imprigionato nella fortezza di Artashat, dove restò tredici anni. Una lunga malattia del re si risolse con l’intervento di Gregorio, che da quel momento ottenne la conversione di Tiridate e il riconoscimento della religione cristiana in Armenia. Nel 302 Gregorio ricevette la consacrazione a Patriarca d’Armenia, divenendo riferimento principale per la comunità cristiana.

Dopo un’intensa campagna di evangelizzazione decise di ritirarsi a vita anacoretica. Morì in un eremo sul monte Sepouh all’incirca nell’anno 328. I resti vennero portati nel villaggio armeno di Tharotan e alcune sue reliquie sono sparse in vari luoghi del mondo. A Nardò si trovava una parte dell’avambraccio con la mano benedicente (secondo la tradizione trasportata da monaci armeni in fuga da una persecuzione iconoclasta), contenuta in un reliquario in argento trafugato negli anni ’70. Fu sostituito con una copia contenente un metacarpo, donata alla città dal cardinale Corrado Ursi, già vescovo della città.

La tradizione vuole che la statua del santo, posta sul Sedile, si sia miracolosamente spostata, quasi a rivolgersi verso l’epicentro del sisma che alle ore 16:30 del 20 febbraio 1743 aveva colpito Nardò, con ingenti danni a persone e cose. Per i fedeli il numero dei morti e la devastazione sarebbero stati più ingenti senza l’intercessione del santo. Risulta da vari documenti che già prima di questo episodio la comunità neretina era intimamente legata alla figura del vescovo venuto dall’Oriente e lo aveva “eletto” a patrono.

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>> San Gregorio Armeno, l’omaggio al patrono in era Covid (Ilpaesenuovo 18.02.21)

Dopo la guerra: ai confini dell’Armenia regna l’incertezza (Osservatorio Balcani e Caucaso 16.02.21)

“Tutti qui sono partiti volontari per la guerra. Anche chi aveva sessant’anni!”, racconta Vardan Hayrapetyan, dall’ufficio spartano del suo hotel nel sud dell’Armenia, vicino al confine iraniano. L’hotel si rivolge principalmente ai camionisti iraniani che trasportano gas e altre merci lungo la principale strada che attraversa la provincia di Syunik, una striscia di terra relativamente stretta che confina con il territorio azero su due lati, a est e ovest.

“La maggior parte degli uomini è andata a difendere il confine con il Nakhichevan e il sud del Karabakh”, ha aggiunto Vardan. “È lì che le battaglie sono state più cruente”.

Il Nakhichevan è l’enclave dell’Azerbaijan a ovest dell’Armenia, mentre il Nagorno-Karabakh è territorio conteso a est del paese. Per 44 giorni lo scorso autunno, l’Armenia ha combattuto con le unghie e i denti per difendere contro l’Azerbaijan il controllo del Nagorno-Karabakh, patria di migliaia di armeni (e prima di una guerra cataclismica negli anni ’90, patria di moltissimi azeri). Il 27 settembre, le forze azere hanno lanciato un’offensiva militare su vasta scala in Karabakh, costringendo i civili a lasciare le loro case con artiglieria e forze di terra e travolgendo le difese armene con l’aiuto di droni di fabbricazione turca.

Sono passati diversi mesi, migliaia di soldati sono morti o dispersi e molti civili sono sfollati. Sono stati documentati numerosi crimini di guerra. Un accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia, annunciato a novembre, ha provvisoriamente messo in pausa i combattimenti, riconoscendo le conquiste dell’Azerbaijan in Karabakh e nella “zona cuscinetto” dei territori che lo circondano. In sei settimane, quanto aveva guadagnato l’Armenia dalla guerra combattuta con l’Azerbaijan negli anni ’90 è stato in gran parte annullato.

In Armenia, la perdita di questi territori ha causato una significativa crisi politica: il governo riformista del paese è stato sottoposto a enormi pressioni per vincere la guerra. L’attuale primo ministro armeno Nikol Pashinyan è stato eletto in maniera schiacciante dopo la “Rivoluzione di velluto” del 2018, ma il sostegno a questo leader rivoluzionario, un tempo molto popolare, ha vacillato nel corso della guerra.

Le truppe azere sono ora di stanza nel cuore di quello che un tempo era il Karabakh armeno e nella “zona cuscinetto”, e sono ben visibili dai confini dell’Armenia. In poco tempo i confini un tempo porosi tra Armenia, Nagorno-Karabakh e la zona cuscinetto si sono irrigiditi.

Lo sviluppo economico e l’apertura di collegamenti di trasporto transfrontalieri offrono una potenziale via d’uscita da questa crisi. È una prospettiva potenzialmente attraente per l’Armenia, un paese senza sbocco sul mare i cui confini sono di fatto aperti – fin dagli anni ’90 – solo a due dei suoi vicini, Iran e Georgia. Diventare un hub di transito regionale per il Caucaso meridionale trasformerebbe la sconfitta in un’opportunità. Ma per riattivare le rotte di trasporto interrotte durante la guerra negli anni ’90 sarà necessaria una fiducia senza precedenti tra le società armena e quella azerbaijana.

Da nessuna parte questo è più rilevante che nella regione di Syunik nell’Armenia meridionale, dal momento che l’accordo di pace di novembre prevede per l’Azerbaijan un collegamento stradale che l’attraversi fino alla sua enclave di Nakhichevan.

In gennaio, nel primo loro incontro dopo l’accordo di novembre, i tre leader – l’armeno Pashinyan, più i presidenti azero e russo Ilham Aliyev e Vladimir Putin – hanno annunciato un gruppo di lavoro trilaterale per preparare lo “sblocco di tutti i collegamenti economici e di trasporto” nella regione.

Ma chi ne trarrà vantaggio? Come suggerisce una recente analisi pubblicata da Euractiv, la Turchia e l’Azerbaijan stanno spingendo per il corridoio attraverso l’Armenia meridionale, mentre la Russia mirerebbe a rilanciare i collegamenti ferroviari dell’era sovietica con l’Iran. Per alcuni, c’è la sensazione che questo programma di sviluppo, attualmente coperto dal segreto diplomatico, sia stato imposto all’Armenia dall’esterno: un’impressione che abbiamo riscontrato durante un nostro viaggio nella provincia di Syunik alla fine di dicembre 2020, dove abbiamo riscontrato sia sfiducia e delusione ma anche speranza per il futuro.

On the road

La strada principale che collega la capitale dell’Armenia, Yerevan, all’Iran passa a sud attraverso la provincia di Syunik, attraversando le città di Goris, Kapan e Meghri. Camion georgiani e iraniani ronzano lungo questo percorso fangoso e tortuoso che corre direttamente lungo il confine armeno-azero per alcuni chilometri, trasportando gas liquefatto, materiali da costruzione e altre merci.

Goris, la città più vicina al corridoio Lachin – è così denominato un passo di montagna tra l’Armenia e il Karabakh – è diventata frenetica dopo la guerra. In passato aspirava ad un futuro turistico, ora è divenuto il primo luogo sicuro per i civili in fuga dal conflitto.

Noi abbiamo viaggiato comodamente in una Lada guidata da Henrik, una persona del posto che usa spesso questa strada. Fino a poco tempo fa, durante al pandemia, era l’unica rotta transfrontaliera in tutta l’Armenia a rimanere permanentemente aperta al trasporto di merci.

Pochi chilometri a sud di Goris, Henrik ci ha indicato Shurnukh, un villaggio che si sviluppa tra la strada e il confine dell’Azerbaijan e dove ora sono stanziate truppe azere. Prima del crollo dell’Unione Sovietica Shurnukh era un villaggio in territorio armeno in gran parte popolato da azeri. I suoi abitanti dovettero abbandonarlo quando iniziò la prima guerra del Karabakh. “Il villaggio è stato preso dagli armeni negli anni ’90 e ora lo stiamo restituendo”, sottolinea Henrik.

Raggiunto Shurnukh, circa 20 residenti stavano bloccando il traffico, in segno di protesta contro la recente divisione del loro villaggio – e chiedevano un risarcimento finanziario per potersi trasferire in Russia. A dicembre, il primo ministro armeno ha riconosciuto che c’erano “alcune situazioni dolorose” a Shurnukh e Vorotan, un altro villaggio vicino colpito dalla demarcazione del confine con l’Azerbaijan e ha offerto sostegno finanziario alle persone costrette a lasciare le proprie case.

Tra di loro vi è Armen Haroutsounyan. Si è stabilito qui 30 anni fa. Originario di Goris, Haroutsounyan lavorava in una fabbrica militare, ma ora è un contadino. “Era meglio durante l’Unione sovietica, già allora queste case erano armene”, ci dice. “È meglio se il denaro del risarcimento [per la perdita di proprietà] va a coloro che sono stati feriti. Io comunque darà alle fiamme la mia casa prima di andarmene”. All’inizio di gennaio, l’amministrazione regionale di Syunik ha dichiarato che 11 case a Shurnukh erano situate sul lato azerbaijano della strada. Ai proprietari è fornito un ricovero temporaneo.

Dopo aver attraversato Shurnukh siamo arrivati ​​a un posto di blocco militare russo: una tenda presidiata da quattro soldati che controllano la strada diretta a sud, verso Kapan, la città successiva a Goris. Secondo sia il moderno GPS che le mappe dell’era sovietica, i prossimi tre chilometri di strada fanno parte del territorio dell’Azerbaijan e dalla guerra d’autunno sono sotto effettivo controllo azerbaijano. Alla fine di dicembre, lungo la strada, è apparso il cartello “Benvenuti in Azerbaijan”.

Per evitare che i soldati azerbaijani sparino sugli autotrasportatori i servizi di sicurezza armeni hanno istituito una linea telefonica diretta di emergenza. “Normalmente, sono i combattimenti a determinare i territori, non gli accordi”, ha commentato Henrik mentre passavamo.

Pochi chilometri dopo, quando abbiamo raggiunto Kapan, capoluogo della regione di Syunik, le truppe azere erano ben visibili subito fuori città, dall’altra parte dell’aeroporto. “Gli azeri continuano a comportarsi in modo aggressivo”, ci racconta in seguito Vardan Hayrapetyan, il proprietario dell’hotel. “Ci sono soldati azeri da Goris fino a Kapan. Non vediamo la fine di questa guerra”.

“Syunik, la spina dorsale dell’Armenia”

Dopo Kapan, abbiamo raggiunto Meghri, la città più vicina al confine con l’Iran. Nella piazza centrale era aperto un solo caffè. Assya Sarkissian, la proprietaria, è nata a Meghri e gestisce il caffè da quando è andata in pensione dal suo lavoro come guardia di frontiera per il Servizio di sicurezza federale russo (FSB), che controlla i confini dell’Armenia con la Turchia e l’Iran dagli anni ’90.

“Syunik è la spina dorsale dell’Armenia”, ci racconta Assya Sarkissian, spiegando che la regione è ora in difficoltà. “L’attività economica è diminuita durante il Covid, ma la guerra ci ha colpiti ancora di più”.

Come molte persone del posto, Assya è particolarmente preoccupata per la sicurezza. “Non sono più passata dalla strada per Yerevan dai tempi della guerra”, racconta. “Abbiamo paura dagli anni ’90: gli azeri sono imprevedibili. Chi garantirà la nostra sicurezza lungo quella strada?”.

Anche l’hotel di Armen Haroutsounyan è a Meghri e quest’ultimo condivide le preoccupazioni della sua concittadina. “È stato concordato che i russi garantiranno la sicurezza dei camion azeri che passeranno attraverso Meghri. Chi garantirà la sicurezza degli armeni che prendono la strada per Yerevan passando attraverso Nakhichevan?”, si chiede riferendosi alla recente presa di posizione del presidente armeno Pashinyan che ha chiesto che venga riaperta la strada che un tempo collegava Yerevan al confine iraniano dell’Armenia attraverso il Nakhichevan.

A gennaio, Mane Gevorgyan, addetto stampa del primo ministro armeno, ha annunciato che, nell’ambito dei negoziati diplomatici di Mosca, le parti stavano discutendo la possibilità di consentire all’Armenia di utilizzare una linea ferrovia – già esistente – che attraversa Nakhichevan fino a raggiungere l’estremità meridionale della provincia di Syunik. “Vorrei sottolineare che a Mosca non vi è stata alcuna firma su alcun documento che riguardi la questione del Karabakh o su qualsiasi questione territoriale”, ha aggiunto Gevorgyan.

Non è la prima volta che la regione di Syunik – e Meghri, in particolare – sono sotto i riflettori. Gayane Ayvazyan, un ricercatore che studia come l’Armenia si approccia al Nagorno-Karabakh, ci spiega che Meghri è stata al centro del contendere tra Armenia e Azerbaijan fin dai colloqui di pace ospitati negli Stati Uniti a Key West, in Florida, nel 2001.

“Allora si ipotizzava che l’Armenia cedesse Meghri come scambio territoriale in cambio della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’era sovietica. Armenia e Azerbaijan inizialmente erano d’accordo, ma Heydar Aliyev, all’ultimo, rifiutò di firmare”, sottolinea Ayvazyan. “Ricordo che al tempo chi viveva a Meghri era fortemente contrario all’idea”. Un piano di pace successivo, conosciuto come “I principi di Madrid”, tolse Meghri dalla discussione, ricorda Ayvazyan.

Confini sicuri consentirebbero lo sviluppo economico locale e nazionale, con Meghri a fungere da hub commerciale regionale. Oltre a rappresentare un punto di transito per il gas proveniente dall’Iran, il clima tropicale di Meghri fa si che vi siano fertili terreni agricoli dove si producono kiwi, fichi, melograni, cachi e frutta secca che riforniscono il resto dell’Armenia e vengono esportati in Russia. Nella regione vi sono anche miniere di rame.

Meghri è stata a lungo considerata la chiave per rafforzare i legami economici con l’Iran. Nel 2017, l’allora primo ministro armeno Karen Karapetyan annunciò che proprio a Maghri sarebbe stata istituita una zona economica franca. Investimenti diretti esteri non si sono però mai materializzati e nel 2019 il governo post-rivoluzionario dell’Armenia ha aperto un’indagine per corruzione che avrebbe riguardato la privatizzazione di terreni pubblici che sarebbero poi stati utilizzati per creare la zona franca.

“Abbiamo vissuto un lungo periodo di opportunità perse”, spiega Vahagn Khachatryan, economista ed ex sindaco di Yerevan. L’Armenia ha attualmente tre cosiddette zone economiche franche, che Khachatryan ritiene potrebbero essere utilizzate per stimolare la produzione locale. Meghri potrebbe essere particolarmente attraente per le aziende miste iraniano-armene, poiché entrambi i paesi fanno parte dell’Unione economica dell’Eurasia. Khachatryan aggiunge che tra le priorità vi dovrebbero essere la costruzione di una fonderia di rame a Meghri, in modo che il minerale estratto localmente possa essere lavorato piuttosto che esportato grezzo e lo sviluppo di infrastrutture idroelettriche sul fiume Araks, che corre lungo il confine iraniano.

Il vice primo ministro dell’Armenia, Mher Grigoryan, ha dichiarato a OpenDemocracy, via e-mail, che “un nuovo modus operandi per la Meghri FEZ [zona economica franca] è in fase di sviluppo da parte del ministero dell’Economia dell’Armenia e sarà annunciato nei prossimi giorni”.

Vahagn Khachatryan, che si è candidato al parlamento nel 2017 per una piattaforma politica che sosteneva la necessità di pace e la riconciliazione con i vicini dell’Armenia, è più cauto. “Mi rendo conto che non è molto facile, ma l’Armenia deve persuadere i suoi vicini che vogliamo solo vivere in pace e in collaborazione economica, il che sarebbe reciprocamente vantaggioso”. Pur riconoscendo che la società armena è ancora sotto shock per la guerra ed ha bisogno di tempo per prepararsi alla pace e al commercio.

Un’agenda poco chiara

Il corridoio di trasporto proposto che dovrebbe collegare l’Azerbaijan con la sua enclave di Nakhichevan si dovrebbe estendere da est a ovest attraverso la regione di Syunik, nel sud dell’Armenia. “Ma, oltre alla questione dell’ostilità al progetto da parte dell’opinione pubblica armena, non è ancora chiaro come funzionerebbe nella pratica il corridoio e come si conformerà al diritto internazionale”, afferma Taline Papazian, professoressa all’Università di Aix-Marseille in Francia e a capo dell’ong “Armenia Peace Initiative”.

“Chi ne garantirà la manutenzione e lo status legale una volta che la strada sarà completata? Chi controllerà la strada e quali valute vi potranno essere utilizzate? Quali tipi di merci, armi e personale potranno circolarvi? E forse la cosa più importante per Syunik: sarà collegata a Meghri o ad altre città armene?”, si chiede Taline Papazian.

Le risposte a queste domande saranno probabilmente determinate, almeno in parte, dalla Russia, il principale intermediario dell’accordo di pace. “Comprendiamo che la priorità per la Russia è aprire strade e ferrovie per consentire un trasporto rapido ed efficace per creare aperture nella regione”, aggiunge Papazian. Nell’immediato, tuttavia, lo sviluppo implica buone relazioni e una più stretta cooperazione tra Armenia e Azerbaijan. “Senza questo, gli effetti attesi dell’apertura – e questo riguarda tutti gli attori coinvolti – non si vedranno”, sottolinea Taline Papazian.

Il vice primo ministro dell’Armenia ha rifiutato di commentare i piani specifici previsti per i prossimi incontri con i rappresentanti azeri e russi. “L’obiettivo è trovare la formula migliore e più efficiente per la cooperazione che alla fine contribuirà ad aumentare le esportazioni, a promuovere gli investimenti e a ridurre i prezzi delle importazioni”, ha affermato Mher Grigoryan. “In questa fase, stiamo considerando e valutando tutte le possibili opzioni”.

Gerard Libaridian, accademico ed ex diplomatico, ha dichiarato a Open Democracy che proprio le rotte di trasporto sono viste da Russia, Turchia e Azerbaijan come fondamentali, il che spiega la loro importanza nell’accordo di novembre. Questioni come il futuro status del Karabakh e il destino dei prigionieri di guerra armeni sono state finora relegate in secondo piano nei negoziati.

Più importante per l’Armenia, ha detto Libaridian, ex consigliere del primo presidente del paese Levon Ter-Petrosian, è la domanda “Cosa fare per limitare la sconfitta e la diminuzione del livello di sovranità dell’Armenia?”. Per l’Armenia – continua Libaridian – potenziali opportunità economiche dovrebbero essere viste “contesto politico-strategico all’interno del quale queste sono diventate possibili”.

Una tabella di marcia per la crisi elaborata dai rappresentanti della società civile armena a dicembre si è concentrata sulle conseguenze della guerra in Armenia e suggerisce che l’autostrada Nakhichevan-Azerbaijan dovrebbe essere negoziata “solo alla fine”. Libaridian ha affermato che la situazione attuale può essere meglio definita come assenza di guerra e come “processo di pace” più imposto che negoziato.

La rivoluzione ha raggiunto la regione di Syunik?

A Syunik, l’ansia per ciò che verrà è mitigata da un senso di autosufficienza nei confronti dei centri urbani dell’Armenia. Alcune persone che abbiamo incontrato scherzavano dicendo di star ancora aspettando che la rivoluzione del 2018 – guidata dall’attuale primo ministro Nikol Pashinyan – raggiungesse la regione (nel 2018, ad esempio, gli elettori del capoluogo Kapan hanno eletto un sindaco indipendente invece di un candidato sostenuto da Pashinyan).

Diverse persone che abbiamo incontrato hanno espresso la preoccupazione che gli interessi dei residenti di Syunik – che sono particolari, a causa della loro vicinanza a diversi confini – fossero trascurati dai leader armeni e che fosse necessaria una qualche forma di convivenza con l’Azerbaijan.

“Occorre smetterla di farsi prendere dal panico e avere pazienza per capire qualcuno che vive vicino ai confini”, afferma Assya Sarkissian, la proprietaria del caffè a Meghri. Hayrapetyan. Il direttore dell’hotel è stato ancora più schietto: “La guerra è un problema della politica elitaria”, ha detto. “Ci prendiamo cura dei nostri figli proprio come gli azeri si preoccupano dei loro. Ero un ingegnere edile e ho lavorato con gli azeri. La gente di Yerevan fa affari all’estero con gli azeri in Russia. Dobbiamo vivere con i nostri vicini, dobbiamo costruire la pace. Abbiamo già avuto 30 anni di tensione. Non possiamo andare avanti così per altri 30 anni”.

Henrik, il nostro autista, non è stato meno diretto: “Riceviamo meno aiuti del Karabakh”. Due dei suoi fratelli hanno combattuto a Jabrayil, una parte del Karabakh occupata dagli armeni fino ad una battaglia particolarmente cruenta nello scorso ottobre.

Tatevik Hovhannisyan, una politologa originaria di Kapan, ha dichiarato a OpenDemocracy che il governo armeno non è riuscito a tenere adeguatamente informato il pubblico sulla guerra e le sue conseguenze, il che – nella regione di Syunik – ha portato al panico e alla sfiducia. “C’è una mancanza di comunicazione tra il governo e le istituzioni, [o con] le autorità elette locali, così come con il pubblico in generale”, ha sottolineato. “Ai cittadini non viene detto cosa aspettarsi e cosa fare”.

A metà gennaio, il governo armeno ha istituito una task force interministeriale per “gestire le attività per individuare i problemi esistenti nella regione di Syunik e per affrontarli in modo operativo” dopo la guerra. Solo uno dei 16 membri della task force, Melikset Poghosyan, governatore di Syunik recentemente nominato, proviene dalla regione. Gli altri sono viceministri o funzionari di altri organismi statali. “Nessuno a Syunik sa di questo nuovo ente”, afferma Tatevik Hovhannisyan. “Questo la dice lunga anche sulla mancanza di comunicazione”.

Un portavoce dell’amministrazione regionale di Syunik ha rifiutato di commentare la situazione nella regione, affermando solo che molte questioni erano diventate molto delicate. “Quando c’è un cambiamento significativo nella vita, è ovvio vi siano delle preoccupazioni”, ha dichiarato Karen Hambardzumyan, ex governatore di Syunik ed ora parlamentare della coalizione “Il mio passo”, che governa l’Armenia. “In generale, tuttavia, posso dire che nella regione di Syunik non siamo né irrequieti, né spaventati e nemmeno depressi”.

Fine della strada

Nell’area in cui la strada da Yerevan raggiunge il confine iraniano, incontra il fiume Araks, che scorre vicino al confine. Dominato da una serie di torri di guardia, il fiume – che dalla Turchia scorre attraverso Nakhichevan e lungo il confine con l’Iran – è protetto da una recinzione originariamente costruita per impedire alle persone di fuggire dall’Unione Sovietica. Prima della pandemia, gli agricoltori armeni locali vendevano i loro prodotti nel mercato iraniano, immediatamente dall’altra parte del confine.

In una trattoria che si affaccia sulla piazza centrale del villaggio di Agarak, al valico di frontiera con l’Iran e vicino all’enclave di Nakhichevan dell’Azerbaijan, Anna Vardanyan prepara il pranzo ai camionisti di passaggio. “Non importa dove verranno tracciati i confini, sarò sempre io a lavare i piatti”, ci dice.

“Fin dalla rivoluzione Pashinyan ha guardato alla gente comune”, continua. “Tutti ricevono regolarmente la pensione e sono quindi in grado di pagare le proprie bollette. Prima della rivoluzione dovevamo pagare le tasse senza che le nostre pensioni di vecchiaia venissero pagate per mesi”.

In una stanza separata del ristorante, tre uomini stanno pranzando mentre fumano. Aram Hayrapetyan, Gor Lachinyan e Leo Zakaryan, armeni, appena ventenni, per vivere trasportano salumi da Kapan ad altre zone della regione di Syunik. Durante la guerra hanno combattuto anche a Jabrayil. “Utilizziamo la strada Goris-Kapan anche se è pericolosa. Gli affari devono andare avanti”, commenta Aram Hayrapetyan.

A dicembre, i partiti di opposizione hanno promosso una manifestazione di massa a Yerevan chiedendo le dimissioni del primo ministro Pashinyan, per protestare contro l’accordo di pace di novembre. La gente nella trattoria di Anna Vardanyan si arrabbia contro chi manifestò allora. “Non si vergognano?”, dice Anna. “’Sono stati i governi precedenti che non sono riusciti a prepararci per questi droni [forniti dalla Turchia all’Azerbaijan]. Non c’era niente che il governo armeno potesse fare contro di loro. Pashinyan ha fatto bene a fermare quello che sarebbe stato un bagno di sangue”.

Leo Zakaryan, uno dei tre camionisti, è ancora più diretto: “Chi protesta porta alla rovina l’intero paese”. Nelle elezioni politiche anticipate annunciate prima della fine dell’anno i residenti della regione di Syunik avranno presto la possibilità di esprimere un giudizio su Pashinyan e sull’agenda dello sviluppo economico del dopoguerra. Tornando a Meghri, Assya Sarkisyan lancia un appello per l’unità: “Quello che mi preoccupa di più è la lotta per la carica di primo ministro. Occorre mostrare intelligenza e fermare queste lotte di potere. Abbiamo bisogno di qualcuno che sia forte nelle proprie azioni e nella propria strategia”.

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“Teniamo viva la memoria degli armeni” (Resto del Carlino 16.02.21)

Nel ’900 ci sono stati molti altri genocidi, cioè lo sterminio di un gruppo etnico. Tra i genocidi meno conosciuti, di cui si sta cominciando a prendere coscienza, c’è quello perpetrato dai turchi alla popolazione armena cristiana fra il 1915 e il 1923, quando si stima che morirono un milione e mezzo di persone, senza contare i bambini che vennero islamizzati e le donne costrette agli harem. Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo di quelli del XX secolo in quanto aveva l’obiettivo di sterminare una componente della popolazione turca di religione cristiana, la quale aveva assorbito gli ideali dello Stato di diritto di stampo occidentale e che con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo al progetto governativo della Turchia. A partire dal 1965 ventinove Paesi, fra cui l’Italia nel 2019, hanno riconosciuto quello degli armeni come uno dei grandi genocidi della storia; a tale ufficialità si è sempre opposto il governo turco, il quale ha giustificato il proprio operato in vari modi, non senza generare malcontento nella comunità internazionale che condanna tale negazionismo. Riconoscere e ricordare il genocidio degli armeni, la Shoah e i molti altri stermini del 1900 è importante in quanto bisogna tenere viva nei popoli la memoria di avvenimenti così terribili, perché essi non si ripetano più.

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Nagorno Karabakh: ecco cosa ha lasciato la guerra tra Armenia e Azerbaijan (Osservatoriodiritti 15.02.21)

La neve scesa durante la notte imbianca al mattino la collina di Yerablur, a Yerevan. Un luogo dove gli orrori del conflitto e le conseguenze della guerra del Nagorno Karabakh sono visibili in tutta la loro drammaticità e spietatezza. È su questa collina, infatti, che si trova il cimitero militare e vengono celebrati ogni giorno i funerali dei ragazzi caduti durante i combattimenti.

Guerra Naborno Karabakh: nel 2020 almeno 6 mila morti

Secondo le stime governative, i soldati armeni morti durante i giorni di scontri sono oltre 3.000, quelli azeri 2.800, ma in molti tra giornalisti e osservatori internazionali credono che le stime siano state arrotondate per difetto e che dal lato armeno siano almeno 5.000 le vittime militari.

Il conflitto del Nagorno karabakh è stato un Vietnam caucasico per l’Armenia e a simboleggiarlo oggi ci sono migliaia di tombe di giovani ragazzi che hanno perso la vita sulla linea del fronte. Le foto sulle lapidi sono quelle di uomini nati solo 18, 19, 20 anni fa e non c’è più la propaganda che incendiava la capitale nei giorni di guerra e nemmeno i proclami irredentisti che invitavano alla lotta ad oltranza in montagna. Ci sono invece madri e padri senza risposte e consolazione che abbracciano le lapidi, accarezzano i nomi dei propri figli incisi sul marmo, accendono incensi e depongono fiori.

Storia della guerra caucasica più violenta degli ultimi 20 anni: Azerbaijan contro Armenia

Il primo conflitto nell’epoca del nuovo coronavirus e il più violento scontro caucasico degli ultimi 20 anni ha avuto inizio il 27 settembre in seguito a un’aggressione da parte dell’Azerbaijan ai danni del Karabakh armeno.

Dopo 44 giorni, la guerra è terminata con la vittoria azera, il successo diplomatico russo e la sconfitta armena.

Nagorno Karabakh oggi: vinti e vincitori della guerra

In base agli accordi firmati, gli armeni si sono dovuti ritirare dai sette distretti contesi del Karabakh e anche la storica città di Shushi è rimasta sotto controllo azero.

Duemila soldati russi sono stati schierati nel corridoio di Lachin, la strada che collega l’Armenia con il Karabakh, con un incarico di cinque anni prorogabile di altri cinque e l’Azerbaijan ha ottenuto che venga costruita anche una strada di collegamento, attraverso il territorio armeno, con l’enclave del Nakhchivan e con la Turchia.

Il racconto di Karen e Lilith: «La guerra è un orrore assurdo e ingiusto»

«Mio figlio aveva diciott’anni, l’hanno chiamato sul fronte che ancora non aveva terminato il servizio militare ed è morto al quarantesimo giorno di combattimenti. Per chiamarlo a combattere non hanno avuto esitazioni, ma le autorità militari non hanno avuto il coraggio di dire a noi, che siamo i suoi genitori, che lui era morto».

Sono parole di dolore assoluto, inconsolabile, quelle di Karen e Lilith, padre e madre di Aren, ed è il papà a spiegare: «I politici chiamano eroe mio figlio, ma io non accetto questa retorica, non voglio che venga chiamato eroe, avrei preferito che fosse qui con noi ora e continuasse a studiare e vivere, piuttosto che essere un eroe».

E poi, soppesando ogni singola sillaba, Karen conclude così: «Io mando le mie più sincere condoglianze a tutti i genitori azeri che hanno perso i propri figli in guerra. Non posso dire che gli armeni siano buoni e gli azeri cattivi… soltanto che la guerra è un orrore assurdo e ingiusto».

Essere genitori dopo il conflitto in Nagorno Karabakh

Oggi sono i genitori coloro che devono sopportare il peso più grande del conflitto, in alcuni casi per tutti i giorni della loro vita dovranno affrontare l’incolmabile vuoto dettato dalla perdita di un figlio. E nessuna medaglia, nessuna celebrazione postuma, potranno mai risarcire e compensare il dolore subito.

In altri casi, ancora devono fronteggiare la responsabilità di dare ai propri figli la speranza di un futuro che il conflitto invece sembra avere loro negato. E poi ci sono mamme e papà che dei propri figli non sanno più nulla: dispersi sulla linea del fronte durante i combattimenti.

A Stepanakert ci sono due anziani genitori,  Angela e Nikolay Asryan che ogni mattina si recano al palazzo presidenziale per sapere se ci sono notizie di loro figlio Sasun di 31 anni, di cui nessuno sa più nulla da metà ottobre.

La madre ricorda le madri di Plaza de Mayo, dei desaparecidos argentini, e procede a passo lento e mostra a tutti la foto del suo ragazzo. «Non sappiamo nulla» e «se sapremo qualcosa vi varemo sapere», sono le risposte che da più di due mesi ricevono i genitori, unicamente queste.

«Mio figlio viveva a Shushi e amava andare a caccia, a pesca, a nuotare nel fiume, tante persone lo conoscevano», racconta Angela. Che aggiunge:

«Sasun non era sposato ma aveva una fidanzata che ogni giorno mi chiama e mi chiede se ci sono sue notizie. E io continuo a dirle che non so nulla e allora parliamo di lui e io le dico che mi sarebbe piaciuto che avessero avuto dei bambini».

I genitori non hanno più speranze che loro figlio sia vivo, ma vorrebbero almeno che venisse ritrovato il corpo per avere così una tomba su cui piangere e poter portare un fiore.

Una terra controllata da Russia e Azerbaijan

Oggi a Stepanakert i combattimenti sono cessati, decine di miglaia di persone sono tornate alle proprie abitazioni, i mercati hanno riaperto e frutta e carne sono esposti sui banchi. Ma la pace, quella ancora latita dal Nagorno Karabakh.

La regione contesa è infatti oggi militarizzata e presidiata dalle truppe arrivate dalla Russia e il Cremlino ha fatto della regione contesa una propria satrapia caucasica. Sono i peacekeepers russi, in sinergia con i soldati azeri che presidiano tutti gli ingressi ai territori conquistati, a decidere chi entra e chi esce e ovunque si vedono svnetolare le bandiere russe, mentre le mezzalune di Baku e di Ankara garriscono prepotenti dai bastioni della storica città di Shushi

Nagorno Karabah oggi: le conseguenze della guerra

La pace manca in tutti coloro che convivono e dovranno convivere per sempre con l’eredità del conflitto. Nell’ospedale militare gestito dall’ong Support for wounded soldiers (Sostegno ai soldati feriti) si incontrano i giovani soldati che sono rimasti feriti e mutilati durante i combattimenti. Oltre 200 ragazzi sono ospitati nella clinica, alcuni hanno perso entrambi gli arti, altri non riescono più a camminare a causa dei danni che hanno riportato, altri ancora hanno lesioni al sistema nervoso e devono reimparare i più elementari gesti, come impugnare una posata o alzarsi e sedersi su una sedia.

«La maggior parte dei ragazzi che sono qui ricoverati ha tra i 18 e i 20 anni. Hanno iniziato da poco la loro vita adulta e sono in queste condizioni. Noi diamo loro anche supporto psichiatrico perché molti hanno gravi problemi psichici a causa di ciò che hanno visto e vissuto».

A spiegare la situazione è la dottoressa Lucine Poghosyan. Che aggiunge: «Un ragazzo è stato portato qua che non aveva più le braccia, neppure le gambe e gli mancava anche una parte del ventre. Lui era cosciente e noi non sapevamo come aiutarlo. È stato terribile. La guerra è terribile».

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Il genocidio degli armeni nei telegrammi del suo “architetto” (Unione Sarda 14.02.21)

Tra il 1914 e il 1916, approfittando della distrazione della diplomazia internazionale per lo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Impero ottomano compì una delle maggiori atrocità del Novecento. Si tratta del genocidio degli armeni.

L’etnia armena, di religione cristiana, apparteneva all’Impero ottomano dal XV secolo e aveva sempre goduto di una situazione di tolleranza. Tuttavia, dal XIX secolo il governo imperiale operò per imporre la supremazia dell’etnia turca e della religione musulmana nell’impero e, soprattutto, in Anatolia dove risiedevano gli armeni. Le prime persecuzioni degli armeni avvennero alla fine del XIX secolo; successivamente nel 1909 il governo dei Giovani Turchi – un movimento fortemente nazionalista – scatenò una seconda ondata di violenze contro questo popolo: la Cilicia e l’Armenia furono teatro di massacri e arresti di massa ad opera dell’esercito. Nei due eccidi si contarono circa 300.000 vittime su una popolazione di 2 milioni di armeni.

L’occasione per regolare definitivamente i conti con gli armeni venne data alle autorità ottomane dalle sconfitte subite dalle armate turche nelle fasi iniziali della Prima guerra mondiale, nell’inverno tra il 1914 e il 1915. Gli armeni divennero il capro espiatorio della disfatta militare, perché accusati di simpatizzare con il nemico russo, con il quale veniva condivisa la comune fede cristiana. La classe dirigente armena fu eliminata immediatamente mentre il resto della popolazione venne condotto verso le regioni centrali dell’Anatolia o i deserti della Siria: durante il trasferimento iniziarono i massacri, gli armeni furono sterminati o abbandonati alla morte per fame. La persecuzione provocò la morte di quasi 1.500.000 persone, in gran parte donne, vecchi e bambini.

Per decenni dello sterminio degli armeni si è parlato poco e ancora oggi la Turchia nega che sia mai avvenuto. Soprattutto il governo turco, ma anche la stragrande maggioranza degli studiosi turchi tende a delegittimare le tante testimonianze e prove che oramai esistono sullo sterminio.

Ad aggiungere un mattone importante al consolidamento della verità storica arriva ora il volume Killing Orders (Guerini e Associati, 2020, pp. 388) che presenta per la prima volta in italiano, ma soprattutto mette al vaglio della critica più accurata i telegrammi di Talat Pasha, il Ministro degli interni considerato l’architetto del genocidio degli armeni.

Taner Akçam (foto @ClarkUnivesity)
Autore del volume è Taner Akçam, un coraggioso intellettuale e storico turco, che da anni vive esule negli Stati Uniti a causa delle minacce ricevute dal governo di Ankara. Akçam ha lavorato su preziosi ed eloquenti documenti originali inediti, restituendo con precisione al lettore, passo dopo passo, istruzione dopo istruzione, le varie fasi di preparazione, innesco e divampare dello sterminio. In questo modo ha messo con le spalle al muro i molti tentativi di negare o ridimensionare i crimini di cui si sono rese responsabili le autorità ottomane un secolo fa.

A confermarcelo è la scrittrice di origine armena Antonia Arslan, che ha curato l’edizione italiana del libro:

“Killing Orders ci mostra la cosiddetta ‘pistola fumante’ del genocidio perpetrato contro gli armeni, come mi ha detto proprio Taner Akçam un paio di anni fa, quando il volume uscì negli Stati Uniti. Nel libro non troviamo testimonianze di sopravvissuti o di testimoni, ma i documenti ufficiali di come venne pianificato il primo genocidio del Novecento”.

Perché questi documenti sono tanto importanti?

“Proprio perché sono documenti ufficiali. Per molto tempo questi telegrammi sono stati messi in discussione da storici appoggiati dal governo turco e sono stati a lungo accantonati. Taner Akçam li ha potuti recuperare, studiare in maniera attenta grazie alla conoscenza della lingua ottomana antica e fare delle analisi critiche approfondite. Ha controllato il tipo di carta usato, i codici cifrati in uso al tempo… insomma non ha lasciato nulla al caso”.

La copertina del libro
La copertina del libro

Il libro è uscito due anni fa in inglese. Quali reazioni ha provocato da parte del governo turco?

“Le reazioni abituali. Le autorità turche in questi casi comprano le copie dei libri considerati ‘pericolosi’ per farle sparire dalla circolazione e far passare tutto sotto silenzio. Fanno, inoltre, pressioni perché non si parli degli studi sul genocidio come quello di Taner Akçam e a volte riescono nel loro intento. Akçam, però, conosce i metodi del governo di Ankara e non si fa intimorire più che tanto. È stato in carcere in Turchia per i suoi scritti, ha vinto una causa internazionale perché le autorità turche facevano pressioni sulle università americane perché non gli rinnovassero i contratti o non lo chiamassero a insegnare. Ora ha una cattedra alla Clark University nel Massachusetts solo grazie all’appoggio ricevuto dalla comunità armena statunitense”.

La posizione delle autorità turche è sempre negazionista in merito al genocidio degli armeni?

“Assolutamente… e le cose sono peggiorate negli ultimi tempi. C’erano state delle aperture sulla questione armena anni fa, anche sull’onda dell’emozione per l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso nel 2007. Dink era una persona straordinaria, voleva arrivare a una riconciliazione tra turchi e armeni e per questo era stato minacciato più volte. Però non arretrava fino a che non lo hanno ucciso con un colpo alla nuca, di fronte agli uffici del suo giornale. Al suo funerale erano presenti migliaia di turchi con cartelli con la scritta ‘Siamo tutti Hrant Dink’. Sono cose che però lasciano il tempo che trovano. Con Erdogan al potere il genocidio è tornato a essere un tabù. Chi ne parla perde il lavoro oppure finisce direttamente in carcere”.

Paura in Armenia per una forte scossa di terremoto (Sputniknews 14.02.21)

I testimoni hanno riferito che il terremoto ha interrotto le connessioni dei telefoni cellulari e Internet.

Paura in Armenia per una forte scossa di terremoto che ha fatto tremare la capitale. Il sisma di magnitudo 4,7 ha colpito Yeravan, secondo quanto riferito sabato dal Centro sismologico europeo-mediterraneo, che ha localizzato l’epicentro a 13 chilometri a sud della città armena. La scossa è stata registrata alle 15:29 (orario locale) ad una profondità di 2 chilometri.

​Tuttavia, secondo i servizi di emergenza locali il sisma si è prodotto ad una profondità di 10 chilometri.

Secondo quanto riferisce un corrispondente di Sputnik Armenia, i grattacieli sono stati evacuati e i residenti si sono riversati per strada durante le scosse di assestamento.

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