Col propagarsi della pandemia infuria anche la guerra in Nagorno-Karabakh (Globalvoices 11.03.21)

Nessuno può auto isolarsi in una zona di guerra.

E una zona di guerra è proprio ciò in cui si è trasformata Nagorno-Karabakh. Il 27 Settembre, sono scoppiati forti scontri nel mezzo di un attentato da parte dell’Azerbaijan per riconquistare il territorio a sud del Caucaso. La guerra in corso è ad oggi la più violenta dal 1994, quando un instabile cessate il fuoco ha lasciato Nagorno-Karabakh sotto il controllo delle forze etniche Armene come stato di fatto. Anche se il Nagorno-Karabakh non è riconosciuto dall’Armenia, Yerevan fornisce un ampio supporto economico e militare, e la maggior parte dei residenti nella regione sono cittadini armeni.

Le forze armate azerbaigiane hanno bombardato la capitale Stepanakert con artiglieria, droni, e secondo un recente report della Human Rights Watch (HRW), anche con munizioni a grappolo [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione]. Le vittimi civili sono state segnalate nella città, e molti dei 55.000 abitanti si sono spostati nella vicina Armenia. I pochi rimasti devono mettersi al riparo nei rifugi antiaereo e nei sotterranei. Vi è inoltre stata un’interruzione dell’alimentazione elettrica.

Fino ad ora, due cessate il fuoco umanitari mediati dalla Russia sono falliti. Le forze armate Azerbaigiane hanno fatto rapidi progressi nel sud del Nagorno-Karabakh, lungo il confine con l’Iran. Il 23 ottobre, i soldati azerbaigiani si trovano a vari chilometri dal principale punto di passaggio tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia, conosciuto come il Corridoio di Lachin’. [it]

Mentre gli scontri continuano, la domanda da porsi non è se Karabah possa fronteggiare una crisi umanitaria, ma come questa possa essere evitata. Questa guerra è stata combattuta nell’ombra di una pandemia — la COVID-19 incombe su uno stato non riconosciuto a livello internazionale, quasi separato dal suo unico collegamento con il supporto esterno, mentre si avvicina l’inverno.

Il 26 Settembre, il giorno prima che le ostilità iniziassero, Hetq, un media investigativo armeno, ha riportato le ultime cifre del Ministero della Salute di Nagorno-Karabakh. Afferma che sono stati registrati 421 casi di COVID-19 nel territorio. Quella settimana, anche i media armeni hanno riportato che il Nagorno – Karabakh ha registrato 12 nuovi casi di COVID-19 in un solo giorno; un grande aumento per un territorio di 140.000 abitanti.

Emerge che le autorità sanitarie non sono riuscite a stare al passo con le nuove statistiche sui casi di COVID- 19 da quando è iniziata la guerra.

Global Voices ha tentato di contattare il Ministero della Salute di Nagorno-Karabakh, ma senza successo. Tuttavia, il 22 ottobre, il Ministro della Salute Ararat Ohanjanyan indica all’agenzia Associated Press che molti degli operatori sanitari locali a Krabakh erano a conoscenza di essere stati infetti, ma hanno mantenuto il silenzio. “Non abbiamo avuto il tempo di rintracciare coloro che erano stati contagiati mentre Stepanakert veniva bombardata, e questo ha permesso una diffusione del contagio” afferma Ohanjanyan, che continua a lavorare nonostante sia risultato positivo al test.

Combattere efficacemente una pandemia mentre si cerca di sopravvivere ad una guerra risulta praticamente impossibile. Secondo un reportage di Euronews risalente al 21 Ottobre, alcuni dei pazienti affetti dalla COVID-19 a Stepanakert si sono dovuti riparare dalle bombe in alcuni scantinati insieme a persone non ancora infette, aumentando così il rischio di contagio.

“Oggettivamente e personalmente, nessuno può porre sufficiente attenzione alle misure di prevenzione”, ha spiegato il responsabile diritti umani in Nagorno-Karabakh, Artak Beglaryan durante una conversazione telefonica.

Lika Zakaryan, una giornalista di Stepanakert, in uno scambio con Global Voices, ha dichiarato senza tanti giri di parole che “a nessuno interessa della COVID-19 in questo momento. Molte persone probabilmente sono infette, date le ferite di guerra negli ospedali” ha dichiarato la giornalista di CivilNet, una testata giornalistica online armena.

Zakaryan inoltre aggiunge che per quanto è di sua conoscenza, la maggior parte degli ospedali in Nagorno-Karabakh, incluso il policlinico di Stepanakert, sono operanti. Mher Musaelyan, direttore del reparto di Clinica Medica del Republican General Hospital a Stepanakert, ha confermato a Global Voices, durante una conversazione telefonica, che non era a conoscenza di nessun monitoraggio su larga scala del tasso di infezioni da COVID-19. “Ad ora, il nostro compito principale è quello di curare i feriti”, ha spiegato il Dr. Musaelyan, sottolineando che i dottori faranno del loro meglio per curare tutti coloro che presentano sintomi della COVID-19.

Tuttavia, alcune strutture mediche sono state danneggiate dai bombardamenti. Per esempio, anche se è presumibile che i più grandi ospedali del territorio abbiano i loro generatori di corrente, un attacco azerbaigiano sulla principale centrale elettrica di Stepanakert ha portato alla perdita di elettricità nella città il 3 ottobre. Il 14 ottobre, invece, sono comparse alcune foto mostranti il bombardamento di un ospedale nella fortemente contestata città di Martakert, per le quali gli ufficiali Armeni affermano sia stato un attacco intenzionale, negato dalla controparte azerbaigiana.

Questa guerra arriva insieme ad un aumento dei casi di COVID-19 in tutto il Caucaso del Sud.

L’Armenia è stata quella più colpita duramente all’inizio. Il 22 ottobre, i media hanno riportato un incremento di 2306 casi di COVID-19 in un solo giorno – il dato peggiore dall’inizio della pandemia a marzo. Ma non sono buone le notizie neanche per l’Azerbaigian; il 21 ottobre la capitale Baku ha registrato il record giornaliero con 825 casi.

Dato l’elevato aumento di casi, gli ufficiali armeni iniziano a dubitare che il loro già tormentato sistema sanitario sia in grado di affrontare un incremento della richiesta. E quella richiesta è considerevole, dal momento che la guerra ha già portato migliaia di armeni da Nagorno-Karabakh a fuggire verso il sud dell’Armenia [ru]. Beglaryan stima che circa il 60% della popolazione del territorio sia già stata dislocata.

“Il nostro sistema sanitario potrebbe presto collassare se la situazione continua così, e potremmo non essere più in grado di ricoverare i casi più gravi. Al momento abbiamo 2000 pazienti negli ospedali,” ha segnalato l’epidemiologa Lusine Paronyan in una conferenza stampa il 22 ottobre. Paronyan, che dirige il Centro Nazionale di Controllo delle malattie del Ministero della Salute dell’Armenia, ha aggiunto che i servizi sanitari stanno lavorando con i militari per assicurare che, tramite il rintracciamento dei contatti, il virus non abbia raggiunto il fronte.

“Stiamo tracciando ogni singolo caso diagnosticato della COVID-19 per chiedere a tutti coloro che sono stati in stretto contatto di isolarsi. Questi dati sono forniti dal Ministero della Difesa della Repubblica di Armenia, così da essere in grado di impedire al virus di raggiungere le prime linee.” – Lusine Paronyan, Ministro della Salute.

Paronyan e i suoi colleghi, inoltre, hanno sollecitato gli armeni a ricordare che ora il paese si trova a fronteggiare due guerre, e che nessuna delle due è stata ancora vinta:

Ufficiale del Centro Nazionale per il Controllo delle Malattie e Prevenzione dell’Armenia: Dallo scoppio della guerra in Artsakh, i casi della COVID- 19 sono drasticamente aumentati del 13%. Ha chiesto alla gente di rimanere vigile e di seguire i protocolli di sicurezza.

Arsen Torosyan, il Ministro della Salute Armeno, insinua che la leadership dell’Azerbaigian sarebbe colpevole di qualunque incremento delle morti dovui alla COVID-19 in Armenia e Karabakh:

Le #aggressioni militari durante la #pandemia hanno raddoppiato la natura #terrorista della leadership azerbaigiana.

Le organizzazioni internazionali evocano sempre più la pandemia nei loro appelli per un ridimensionamento.

“L’Armenia non sta vincendo. L’Azerbaigian non sta vincendo. La COVID-19 sta vincendo. Dobbiamo fermarlo.” sollecita il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Gutierres il 21 ottobre.

Per Hans Klüge, capo dell’Organizzazione Mondiale della Salute (WHO), ulteriori ostilità contribuirebbero direttamente ad una seria diffusione dei casi della COVID-19.

“Non prevedo che la guerra abbia un impatto; già so che ce l’ha,” conclude Beglaryan, difensore dei Diritti Umani. “È chiaro che il conflitto ha influenzato negativamente la pandemia, molto negativamente. Non abbiamo i numeri esatti a causa del carico di lavoro che il sistema sanitario si trova a fronteggiare. Questo non sta testando e trattando i casi adeguatamente come faceva prima, quindi non abbiamo nemmeno delle statistiche generali. Sulla base delle mie conversazioni con i dottori e il Ministero della Salute, è abbastanza chiaro che i numeri sono aumentati svariate volte. Non due volte e nemmeno tre, ma probabilmente dieci o quindici. Si sta attivamente espandendo.”

Ma la nostra conversazione è stata interrotta.

“Stanno colpendo di nuovo” ha detto Beglaryan, e chiude la chiamata.

Questa sera, Stepanakert è stata attaccata ancora una volta.

Vai al sito

Madonna di Fatima, per la prima volta la statua originale in Armenia e Georgia (AciStampa 11.03.21)

Sarà a settembre e ottobre che l’immagine numero 2 della Vergine Pellegrina di Fatima sarà trasportata nel Caucaso, per un viaggio senza precedenti che ha anche la speranza di favorire venti di pace della regione. Oltre a Georgia e Armenia, la statua passerà anche in Azerbaigian.

La statua percorrerà dunque tutto il Caucaso, risiedendo in parrocchie e comunità cattoliche dei tre Paesi con il preciso intento di favorire “riconciliazione e pace” in una area difficile, dove restano dei conflitto congelati, ma anche conflitti caldi come quello azero-armeno riguardante il territorio del Nagorno Karabakh, che ha avuto come esito un accordo doloroso per l’Armenia e che rischia di sfociare in un genocidio culturale.

L’arcivescovo José Avelino Bettencourt, nunzio in Georgia e Armenia, ha fatto sapere che “i cattolici del Caucaso sono felici di apprendere della visita dell’Immagine di Nostra Signora di Fatima nella Regione”.

“Le parrocchie e le comunità cattoliche – ha detto ad ACI Stampa l’arcivescovo Bettencourt – stanno preparando con entusiasmo le celebrazioni.  È la prima volta che la statua internazionale della Madonna di Fatima visita il Caucaso meridionale”.

In Georgia, in particolare, i vescovi hanno consacrato tutto l’Anno Pastorale alla Madonna di Fatima, la cui statua girerà per tutte e 35 le parrocchie del Paese a maggioranza ortodossa.

Durante l’anno pastorale, c’è l’idea di offrire una serie di nuove iniziative, a partire dai progetti della Commissione Famiglia della Chiesa Cattolica Georgiana, che includono incontri sulle Sacre Scritture, incontri di preparazione alla famiglia e al matrimonio, un campo estivo per le giovani coppie.

La scultura della Vergine dei Fatima fu commissionata nel 1919 da Gilberto Fernandes dos Santos, un devoto di Torres Novas, alla Casa Teixeira Fanzeres di Braga.

La scultura è opera di José Ferreira Thedim, ed è ispirata ad una immagine di Nostra Signora di Lapa, modellata però secondo le visioni dei pastorelli nel mondo in cui qeste erano state trasmesse al sacerdote Manuel Formigao.

La scultura fu realizzata con cedro del Brasile, ed è alta 1,04 metri. Fu benedetta il 13 maggio 1920 dal parroco di Fatima, padre Manuel Marques Ferreira, e portata alla cappella delle apparizioni solo un mese dopo, perché allora le manifestazioni religiose erano proibite dal regime repubblicano.

Vai al sito

ARMENIA: Pashinyan pronto alle dimissioni (Esat Journal 11.03.21)

Dopo la sconfitta nella seconda guerra in Nagorno-Karabakh, l’Armenia è entrata in una fase di grave instabilità interna. Il primo ministro, Nikol Pashinyan, è il capro espiatorio di una crisi i cui germi fermentavano ormai da tempo, le pressioni dell’opposizione, le tensioni con l’esercito e le drammatiche condizioni economico-sociali del paese rendono la sua capitolazione sempre più probabile, al punto che lui stesso, il primo marzo scorso, ha ventilato la possibilità di indire elezioni anticipate.

Il cessate il fuoco – un paese sotto shock

Con il cessate il fuoco del 9 novembre, Erevan ha perso il controllo di molti territori, che, dopo quasi trent’anni di occupazione, sono ritornati sotto l’effettivo controllo azero. La repubblica non riconosciuta del Nagorno-Karabakh si trova adesso in una situazione di grande vulnerabilità e isolamento e l’unica possibilità per i suoi abitanti di raggiungere l’Armenia è il corridoio di Lachin, al momento controllato dalle forze di peacekeeping russe. Tale esito, tanto in patria quanto tra la diaspora, è stato percepito come un’inaccettabile tragedia. Il sempre più stretto sodalizio tra Istanbul e Baku, l’assenza di qualsiasi tipo di relazioni tra Armenia e Turchia – il cui confine è chiuso dagli anni ‘90 – e la retorica di guerra non aiutano il popolo armeno a superare il senso di persecuzione che si porta dietro dai tempi del genocidio. Al tempo stesso, l’amputazione territoriale non può che esacerbare un sentimento revanchista in un paese che non ha mai smesso di sognare il mito di una  “Grande Armenia”.

Queste emozioni, che certamente richiedono particolare attenzione da parte di Erevan, devono convivere con l’emergenza sociale portata dalla guerra in un paese già provato da un problema cronico di povertà diffusa e dalle conseguenze della pandemia. A una situazione dunque già complessa, si aggiungono ora la necessità di assistere i cittadini che hanno abbandonato i territori occupati e una ripresa economica che non lascia spazio ad aspettative ottimistiche. Per dare un’idea della gravità della situazione, a gennaio ha avuto particolare risonanza la triste storia di un’anziana signora di 70 anni che, non potendosi permettere il riscaldamento, è morta nel sonno, assiderata.

La polemica sui missili Iskander e la reazione dell’esercito

Ad accendere la miccia delle tensioni interne è stata un’affermazione dell’ex presidente Serzh Sargsyan, che, criticando la gestione della guerra da parte di Pashinyan, ha accusato il primo ministro di non aver saputo fare buon uso dei missili russi Iskander, acquistati nel 2016. Pashinyan, dal canto suo, ha raccolto la provocazione, dichiarando pubblicamente che tali missili sarebbero stati usati nel recente conflitto, ma si sarebbero rivelati inutili. Secondo il premier, infatti, non solo tali dispositivi spesso non esplodevano in seguito all’impatto, ma, quando succedeva, producevano solo il 10% degli effetti sperati.

La risposta, prevedibile, dei vertici dell’esercito non si è fatta attendere; il generale Tigran Khachatrian ha rilasciato un’intervista in cui definisce “prive di senso” le affermazioni del primo ministro. In tutta risposta, Pashinyan ha chiesto al presidente, Armen Sarkissian, di rimuovere il generale dal suo incarico. A questo punto, lo scontro tra potere politico e forze armate era inevitabile. Il 25 febbraio 40 alti ufficiali dell’esercito hanno diffuso una nota in cui chiedevano le dimissioni  del primo ministro, che dal canto suo ha rifiutato di rassegnarle e ha disposto il licenziamento del capo di stato maggiore dell’esercito, denunciando un tentato golpe.

Gli scontri tra esercito e potere politico non sono mai un buon sintomo, specie in un paese sconfitto e prostrato dalla guerra: appare evidente che, se Pashinyan vorrà restare al potere, dovrà accettare di ricucire i rapporti con l’apparato militare.

La reazione della Russia 

Nella polemica sui missili Iskander, il Cremlino è stato automaticamente chiamato in causa dalle accuse di Panishyan. Il ministro della Difesa russo ha dichiarato che nessuno di quei missili è stato utilizzato nella guerra in Nagorno-Karabakh e il primo ministro si è scusato, ammettendo di essere stato “male informato”.  Le scuse sono state accettate e, con le parole di Dimitri Peskov, la “verità ristabilita”.

Tuttavia, nel pomeriggio del 25 febbraio, si è verificato un evento piuttosto strano, che potrebbe far sospettare un coinvolgimento russo più attivo nelle vicende degli ultimi giorni: mentre la folla gremiva le piazze della città e Panishyan denunciava il golpe, un jet militare ha per più volte sorvolato la città a bassa quota. Secondo la Piattaforma di Investigazione dei Fatti, un’organizzazione indipendente dedita al fact checking, si trattava di un MiG-29, velivolo che l’Armenia non possiede, ma di cui sono appostati alcuni esemplari nella base militare russa di Gyumri. Il ministro della Difesa armeno ha subito spiegato che si era trattato di una mera coincidenza e che Mosca stava semplicemente svolgendo un’esercitazione militare.

Elezioni anticipate

Dopo aver dichiarato pochi giorni prima di non avere alcuna intenzione di rassegnare le dimissioni, Pashinyan il primo marzo ha aperto la prospettiva di elezioni anticipate, chiedendo all’opposizione di accettare il compromesso. Tornare alle urne potrebbe in realtà essere una scelta ragionevole per il primo ministro. Infatti, nonostante la sconfitta militare abbia gravemente scalfito i suoi consensi, la coalizione di governo è in testa ai sondaggi con il 33% dei consensi.

Purtroppo, però, le proteste – pur vedendo anche la partecipazione di partiti che hanno seggi in parlamento – sono organizzate dall’opposizione extraparlamentare, che al tema elettorale non è molto sensibile e continua a chiedere le dimissioni di Pashinyan cui dovrebbe seguire un governo ad interim che porti a nuove elezioni entro un anno. Il 9 marzo, Vazgen Manukian – già primo ministro nel 1990 e attualmente leader del partito di opposizione Salvezza dell’Armenia – ha incitato la folla a bloccare gli ingressi del parlamento.

“Che ne sarà di Pashinyan?” Questa è una delle domande che in questi giorni aleggia tra le vie di Erevan. Essa tuttavia ne sottintende un’altra, molto più importante: la rivoluzione di velluto finirà per essere travolta dalla storia? Qualora Pashinyan dovesse uscire sconfitto da questa impasse, potrebbe concludersi l’esperienza politica che nel 2018 ha portato alla destituzione di Sargsyan. Insomma, il cessate il fuoco è stato raggiunto, ma la vita politica armena nel breve termine non sembra destinata a trovare pace.

Vai al sito

Armenia: rappresentante Unicef Clark-Hatting accusata di spionaggio ha lasciato il Paese (Agenzia Nova 11.03.21)

La rappresentante dell’Unicef in Armenia Marin Clark-Hatting ha lasciato il Paese. A riferirlo la sua portavoce Zara Sargsyan all’agenzia di stampa “Armenpress”, secondo cui “l’ufficio continuerà il suo regolare lavoro, in attesa di un presidente ad interim”. In precedenza, la portavoce del ministero degli Esteri armeno, Anna Naghdalyan, aveva sottolineato alcune carenze della rappresentante dell’Unicef in Armenia, soprattutto per l’approccio di lavoro non sufficientemente collaborativo di Clark-Hatting. Di conseguenza, il governo armeno ha deciso di interrompere il suo mandato come rappresentante dell’Unicef. Tuttavia, secondo alcuni organi di stampa la vera ragione della sua estromissione è che le autorità armene avrebbero scoperto il suo coinvolgimento in attività di spionaggio e raccolto informazioni per conto dei governi dell’Azerbaigian e del Regno Unito. (segue) (Rum)

Silvio Magliano parla dell’Armenia (Russiaprivet-org 10.03.21)

Intervista al Consigliere della Regione Piemonte Silvio Magliano. Silvio Magliano torinese di nascita e di cultura nel 2011 è stato eletto nel Consiglio Comunale di Torino, nuovamente eletto nel giugno 2016. Dal 9 gennaio 2015 al febbraio del 2019 é stato Presidente di Vol.To, il Centro Servizi per il Volontariato del territorio della provincia di Torino, di cui è attualmente Vice Presidente. In precedenza è stato presidente del Centro Servizi per il Volontariato della Provincia di Torino V.S.S.P. Ha lavorato come Consulente per il Volontariato e le Politiche Sociali della Presidenza della Regione Piemonte. E’ tra i fondatori di Polis Policy – Accademia di Alta formazione. Attualmente é Capogruppo dei Moderati in Consiglio Comunale, Consigliere per la Lista Città di Città presso il Consiglio della Città Metropolitana di Torino e Presidente del Gruppo dei Moderati presso il Consiglio Regionale del Piemonte

Quali sono i motivi ispiratori della tua azione politica? Credo nelle persone, nel Volontariato, nella famiglia, nella solidarietà, nel dono, nell’accoglienza, nel costruire insieme la società che vorremmo, credo nel valore del lavoro di squadra, della condivisione.

Lei è riuscito recentemente a far approvare un importante ordine del giorno al Consiglio Regionale del Piemonte “PER UNA PACE DURATURA NELLA REGIONE DELL’ARTSAKH (NAGORNO KARABAKH)” di cosa si tratta? Ai sensi dell’articolo 18, comma 4, dello Statuto e dell’articolo 103 del Regolamento interno ho presentato un Ordine del Giorno per chiedere al Presidente e alla Giunta Regionale di avviare le opportune interlocuzioni con le Autorità nazionali per garantire che il popolo dell’Artsakh e la sua rappresentanza politica e istituzionale possano sedere al tavolo per la pace della Copresidenza del Gruppo di Minsk dell’OSCE. Ritengo cruciale un impegno istituzionale a tutti i livelli, regionale compreso, volto a spronare le Autorità nazionali affinché intervengano con ogni possibile iniziativa volta a ripristinare una verità storica e a creare le condizioni per una pace duratura, per la quale il riconoscimento dei diritti della popolazione dell’Artsakh costituisce un prerequisito.

Da cosa nasce questo ordine del giorno? La ragione è che per settimane – nel periodo compreso tra lo scoppio della guerra dell’Artsakh (27 settembre 2020) e il cessate il fuoco del 9 novembre 2020 – la popolazione civile e tutte le strutture (compresi gli ospedali, le scuole, le abitazioni e i centri di protezione civile) del territorio dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) sono state bersaglio degli attacchi missilistici da parte delle forze armate dell’Azerbaigian, con l’acclarato supporto dei militari dell’esercito della Turchia e con il dispiegamento di combattenti terroristi provenienti dal Medio Oriente.

Ha parlato con testimoni diretti? Sì, in questi anni ho conosciuto molti armeni che venivano a Torino per studio e mi hanno raccontato storie atroci. Lo scontro è tra un esercito moderno dotato di droni, quello azero, e un esercito di terra male armato e poco organizzatro, quello armeno. È stato uno scontro dagli esiti scontati e mi lascia molte perplessità il fatto che nessuno sia intervenuto. Tra i miei amici armeni alcuni sono morti nella guerra e questo mi addolora molto. Soprattutto mi fa soffrire la sensazione di impotenza di fronte a questa tragedia che non posso fermare.

Chi sono gli abitanti del Nagorno Karabakh? La popolazione armena dell’Artsakh è un simbolo per tutto il popolo armeno, disperso nel mondo a causa del Primo Genocidio del XX secolo perpetrato dalla Turchia Ottomana. L’antichissima civiltà armena si è tramandata nei secoli e tra le montagne armene hanno preso avvio, in diversi momenti storici, iniziative di rinascita culturale e movimenti per l’autonomia e l’integrazione nazionale. La popolazione armena dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) da più di un secolo rivendica la propria annessione all’Armenia, dopo essere stata prima sotto la Repubblica Sovietica e da trent’anni ormai autodeterminatasi autonomamente.

Quali compiti ha la comunità internazionale? È fondamentale che si riconosca ufficialmente questo territorio – che è già de facto una Repubblica con la propria forma di Stato e di Governo con democratiche elezioni – e la sua popolazione.

Come ha reagito la comunità armena che vive in Italia? L’Unione degli Armeni d’Italia ha chiesto all’Italia di riconoscere questo piccolo Paese, affinché divenga un interlocutore diretto del nostro Governo; nel frattempo proseguono, pur tra notevoli difficoltà, le interlocuzioni e gli incontri del Gruppo di Minsk, nel tentativo di trovare una mediazione diplomatica.

Ci può spiegare cos’è il il Gruppo di Minsk? È una struttura di lavoro creata nel 1992 dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE), dal 1995 Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), allo scopo di incoraggiare una soluzione pacifica e negoziata dei conflitti nel Nagorno-Karabakh.

Da cosa nasce il suo interesse per l’Armenia? Ho letto “I quaranta giorni del Mussa Dagh” di Franz Werfel, romanzo che racconta l’inizio dello sterminio degli Armeni cristiani, perpetrato dal Governo dei Giovani Turchi.

Ciò che mi ha profondamente impressionato è che il piano criminale turco ha anticipalo lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Il parallelo è inevitabile. La piccola comunità di Armeni stanziati vicino al Mussa Dagh (Montagna di Mosè), una montagna nel Vilayet di Aleppo nell’Impero Ottomano è stata un esempio.

Si trattava di un gruppo di sette villaggi armeni di circa 5.000 persone, che non si sono arresi e hanno combattuto per difendere la loro terra e la loro identità. Mi ha fortemente emozionato che siano riusciti a resistere per 40 giorni all’esercito turco per poi essere salvati da una nave da guerra francese. Il fatto interessante è che la prima edizione del libro esce in Italia con la Mondadori nel 1935. Poi ho cominciato ad interessarmi della storia e delle tradizioni di questo popolo straordinario e tenace. Nel 301 l’Armenia, prima al mondo, ha adottato il Cristianesimo come religione di Stato; i missionari armeni diffusero la fede cristiana. Gregorio Illuminatore istituì la Chiesa Apostolica Armena, che si separò dalle altre chiese cristiane dopo il Concilio di Calcedonia del 451.

Santa Sofia è stata riaperta al culto islamico dalla preghiera del venerdì. Cosa rappresenta questa decisione nell’equilibrio dei balcani e del Mediterraneo? È la logica conseguenza del piano del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Il Premier turco il 31 marzo 2018 aveva recitato il primo versetto del Corano nella Basilica di Santa Sofia, dedicandola a “coloro che hanno contribuito a costruirla, ma in modo particolare a chi l’ha conquistata”. Un dichiarazione significativa e drammaticamente evocativa di un passato che si vuol riesumare Nel marzo 2019 il presidente Erdoğan ha dichiarato che avrebbe cambiato lo status di Hagia Sophia da museo a luogo di culto musulmano, aggiungendo che era stato un “errore molto grande” trasformarla in un museo. Il 10 luglio 2020 il Consiglio di Stato turco ha annullato il decreto di Atatürk del 1934, cancellando la trasformazione della moschea in museo. Erdoğan personalmente ha riaperto al culto islamico la Basilica con un decreto presidenziale e il 24 luglio successivo é stata celebrata la prima preghiera islamica del venerdì. In pratica il processo di modernizzazione iniziato con Mustafa Kemal Ataturk è stato interrotto con un’inversione di prospettive politiche e religiose.

Quali sono state le reazioni alla decisione di Erdogan? Tiepide, forse troppo. La ragione a mio parere è che l’Europa non ha una politica estera. Mi aspettavo molto di più sia dall’Europa, sia dell’Italia che dall’Unesco. Una voce isolata la Grecia, in una situazione molto difficile, ha definito la decisione del Consiglio di stato turco sulla riconversione di Santa Sofia in moschea «una provocazione al mondo civilizzato». Il ministro della Cultura di Atene, Lina Mendoni ha dichiarato che il verdetto del Consiglio di Stato «conferma che non c’è una giustizia indipendente» e che «il nazionalismo mostrato da Erdogan riporta il suo Paese indietro di sei secoli».

Cosa succederà adesso? Mi auguro come tutti che si torni a discutere e a trovare una soluzione pacifica anche se la situazione mi sembra complessa. Credo comunque che la buona volontà possa risolvere anche i conflitti più difficili. È un nostro dover sperare e lottare per la pace.

Vai al sito

Erevan, migliaia di manifestanti davanti al Parlamento armeno: chiedono le dimissioni di Pashinyan (Euronews 10.03.21)

Migliaia di sostenitori dell’opposizione armena hanno bloccato, martedì sera, il Palazzo del Parlamento nella capitale Erevan, chiedendo a gran voce le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan (45 anni).

Pashinyan, un eroe: appena tre anni fa. Poi…

Il premier, acclamato dalla folla appena tre anni fa come uomo del cambiamento (Euronews realizzò un servizio dal suo paese d’origine, Idjevan), ora è nell’occhio del ciclone, dopo l’accordo di pace di novembre, forzatamente accettato, che ha messo fine a sei settimane di combattimenti dell’Armenia con l’Azerbaigian per la regione contesa del Nagorno-Karabakh.

“Un tentativo di colpo di Stato”

Le tensioni politiche si sono ulteriormente intensificate da quando, a fine febbraio, un gruppo di ufficiali militari ha scritto una lettera, chiedendo al primo ministro di dimettersi. Pashinyan ha rifiutato e ha definito la lettera dell’esercito “un tentativo di colpo di Stato”, ordinando la rimozione dall’incarico del capo dello Stato Maggiore.

Sempre colpa del Nagorno-Karabakh

Al centro dei disordini, l’accordo mediato dalla Russia, che Pashinyan ha firmato (annunciandolo con un post su Facebook…), e che ha messo fine ai combattimenti con l’esercito dell’Azerbaigian, sostenuto dalla Turchia, dopo che le forze armene aveva subito molte vittime e notevoli perdite territoriali sul campo di battaglia.

Hayk Baghdasaryan/PHOTOLURE
Nikol Pashinyan insieme alla moglie Anna Akobyan.Hayk Baghdasaryan/PHOTOLURE

In base all’accordo, l’Armenia ha ceduto il controllo su parti del Nagorno-Karabakh e su tutti i sette distretti circostanti l’Azerbaigian, che erano stati occupati dalle forze armene fin dai primi anni ’90.

Vai al sito

Comabbio racconta l’Armenia. A casa di Lucio Fontana si studia l’antica cultura mediorientale (artslife.com 10.03.21)

Ricco programma di incontri con scrittori, giornalisti, fotografi, armenisti, storici, musicisti, architetti, artisti provenienti da Italia, Armenia, Stati Uniti e Turchia

Negli ambienti culturali Comabbio è nota soprattutto per essere la cittadina di Lucio Fontana. Qui c’è il suo atelier, situato nella casa familiare dove visse gli ultimi anni della sua vita e dove morì nel 1968. E qui produsse i suoi ultimi Tagli, Attese, Concetti spaziali. Ma il centro del varesotto ora si candida ad un altro importante riconoscimento: quello di essere una delle capitale della cultura armena in Italia. Fino al 23 maggio infatti Comabbio promuove la rassegna “Racconta l’Armenia”, un ricco programma di incontri online, ai quali si aggiungeranno alcuni appuntamenti in presenza, compatibilmente con l’evolversi della pandemia.

Un progetto ambizioso che ha raccolto il contributo dei più importanti rappresentanti, studiosi e conoscitori della cultura armena. Scrittori, giornalisti, fotografi, armenisti, storici, musicisti, architetti, artisti e altre personalità provenienti da Italia, Armenia, Stati Uniti e Turchia. Tra i nomi più noti, la scrittrice di origini armene Antonia Arslan, autrice del romanzo “La Masseria delle Allodole”. Tradotto in oltre 20 lingue, ha riportato alla ribalta il tema del genocidio armeno.

 

Il Monastero Geghard (foto Nadia Pasqual)
Il Monastero Geghard (foto Nadia Pasqual)

Molto attesi anche gli interventi di Shushan Martirosyan, dalla capitale armena Yerevan, Siobhan Nash-Marshall del Manhattanville College di New York, e Monsignor Levon Zekiyan, Arcieparca degli armeni cattolici di Istanbul e di Turchia e Delegato Pontificio per la Congregazione Mechitarista. Fra gli interventi previsti quelli di Alberto Elli, studioso di lingue e religioni, autore di un volume dedicato ad arte, storia e itinerari dell’Armenia, dello scultore Mikayel Ohanjanyan e dell’architetto Gaianè Casnati.

https://comabbioraccontalarmenia.blog/

Vai al sito

Armenia: generale Gasparyan, processo per rimuovermi dall’incarico è incostituzionale (Agenzia Nova 10.03.21)

Erevan, 10 mar 10:10 – (Agenzia Nova) – L’intero processo volto a cercare di rimuovere dall’incarico il capo di Stato maggiore delle Forze armate armene, generale Onik Gasparyan, è incostituzionale. È stato lo stesso Gasparyan ad affermarlo in una nota diffusa dai vertici delle Forze armate, aggiungendo che quindi la sua posizione “resta invariata”. Secondo il generale, questa fattispecie “conferma ancora una volta che una soluzione patriottica alla crisi attuale può essere assicurata solo a seguito delle dimissioni del primo ministro e da elezioni parlamentari anticipate”. “Continuerò a servire la madrepatria e il popolo armeno con uno status differente”, ha aggiunto il generale. “La missione esclusiva delle Forze armate è garantire la sicurezza della patria, quindi vi esorto a continuare il vostro servizio disinteressato e patriottico esclusivamente alla patria e al popolo per lo sviluppo delle Forze armate e il rafforzamento dell’Armenia e dell’Artsakh (così si definisce l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh)”, ha aggiunto Gasparyan. Le sue parole giungono dopo che questa mattina il premier, Nikol Pashinyan, ha affermato che da oggi è ufficiale l’estromissione di Gasparyan. (Rum)

Il paese è spaccato in due dopo la sconfitta nel Nagorno Karabakh (Internazionale 10.03.21)

Nel novembre del 2020, dopo la devastante sconfitta dell’Armenia nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, il futuro politico del primo ministro armeno Nikol Pashinyan sembrava finito. Come è riuscito a rimanere al potere, nonostante le recenti proteste di piazza e le richieste di dimissioni da parte dei generali del paese, e nonostante sia diventato noto come l’uomo che è costato all’Armenia la maggior parte del territorio conteso e che ha infranto l’illusione della potenza militare del paese?

All’inizio di dicembre 2020, i leader di diciassette partiti di opposizione sono riusciti ad accordarsi e a eleggere un leader: Vazgen Manukyan, un veterano che aveva servito come ministro della difesa durante la prima guerra del Nagorno Karabakh tra il 1992 e il 1994, quando vennero conquistati i territori ora persi. L’opposizione unita aveva lanciato un ultimatum chiedendo le dimissioni di Pashinyan. Il primo ministro, tuttavia, si è limitato a ignorarlo.

L’opposizione ha poi pianificato a lungo un’ambiziosa protesta per il 20 febbraio. Ma alla fine il numero effettivo dei partecipanti è stato di 13-20mila persone, e la colpa è stata attribuita al cattivo tempo. La sera sono seguite diverse piccole manifestazioni. Il 25 febbraio è poi arrivata quella che è sembrata la resa dei conti, quando i generali armeni hanno firmato una lettera collettiva che chiedeva le dimissioni di Pashinyan. Ma anche questa mossa non ha avuto alcun effetto. E Pashinyan è riuscito a far scendere in piazza i suoi sostenitori in un numero almeno uguale a quelli dell’opposizione.

Il primo ministro ha definito le proteste un “tentato colpo di stato militare”, ma tutto è nato da una sua stessa gaffe. Pashinyan aveva detto in un’intervista che, durante l’ultima guerra con l’Azerbaigian, i missili russi Iskander usati dalle forze armate armene “o non sono esplosi affatto o lo hanno fatto solo al dieci per cento”. Non è chiaro se intendesse dire che era esploso solo un missile su dieci, o che la maggior parte delle componenti di un missile non era riuscita a esplodere.

Con ogni probabilità non era vera nessuna delle due cose. L’Azerbaigian non ha mai denunciato di essere stato attaccato con missili Iskander, anche se ha parlato diffusamente di altri missili. E la risposta del ministero della difesa russo all’affermazione di Pashinyan è stata che non è stato registrato nessun lancio di Iskander, e che tutti i missili sono rimasti nei depositi di armi armeni.

Un vicecapo di stato maggiore armeno, interpellato dai giornalisti per spiegare la dichiarazione di Pashinyan, l’ha liquidata con una risata. Pashinyan lo ha licenziato, provocando il “colpo di stato” che alla fine si è ridotto alla lettera collettiva. Il primo ministro ha anche cercato di licenziare il capo di stato maggiore, ma senza successo: il presidente della repubblica, Armen Sarkissian, ha fatto valere il suo diritto di respingere l’ordine.

Le dichiarazioni di Mosca suggeriscono che il Cremlino rimarrà fuori dalla crisi armena, a condizione che il cessate il fuoco resti in vigore

Nessuna delle due parti è stata in grado di fare ulteriori progressi. L’opposizione ha chiesto una sessione straordinaria del parlamento per revocare la legge marziale e far dimettere Pashinyan, ma senza successo: i sostenitori del primo ministro sono ancora la maggioranza in parlamento.

Una teoria diffusa in Armenia è che i generali si siano espressi contro Pashinyan per volere di Mosca, che si sarebbe infuriata a causa delle critiche del primo ministro alle sue armi. Tuttavia, se fosse così, i generali non si sarebbero limitati a una lettera. Inoltre, quella stessa sera, il presidente russo Vladimir Putin ha parlato con Pashinyan e ha fatto un appello a “mantenere la pace e l’ordine” e a “risolvere la situazione in maniera legale”.

Le dichiarazioni di Mosca suggeriscono che il Cremlino rimarrà fuori dalla crisi armena, a condizione che l’accordo di cessate il fuoco del 9 novembre 2020 rimanga in vigore: e non ci sono ragioni per dubitare che sarà così. Il Cremlino sta cominciando a vedere l’Armenia come vede il Kirghizistan e l’Abkhazia: può darsi che la situazione nel paese non sia chiara, ma non c’è pericolo che prendano il potere dei politici non graditi a Mosca. Il Cremlino riconosce Pashinyan come il politico più popolare d’Armenia, e desidera quindi mantenere lo status quo.

I sondaggi mostrano anche che Pashinyan mantiene un buon livello di sostegno nel paese: nonostante l’atmosfera tesa, la società armena non è unificata dall’odio per il regime attuale. Regna, piuttosto, l’apatia. Anche lo scorso novembre, quando le emozioni per la sconfitta erano al massimo, circa il trenta per cento della popolazione sosteneva Pashinyan. I risultati di un recente sondaggio sono ancora più interessanti. Agli intervistati è stato chiesto di valutare i politici su una scala da 1 a 5: Pashinyan ha ricevuto un punteggio di 2,8, contro il 2 dell’ex presidente Robert Kocharyan, l’1,7 di un altro ex presidente, Serzh Sargsyan (entrambi gli ex presidenti avevano espresso sostegno ai generali), e all’ 1,6 del leader dell’opposizione Manukyan (che si è alleato con Kocharyan).

In altri termini, può darsi che Pashinyan non sia molto popolare, ma i suoi rivali lo sono ancora meno. Una delle ragioni principali è l’incapacità dell’opposizione di proporre una reale alternativa politica.

Basta con la guerra
Anche se l’opposizione riuscisse a esautorare Pashinyan, non sarebbe in grado di cambiare i risultati della seconda guerra del Nagorno Karabakh: non solo a causa delle circostanze geopolitiche ma anche perché il popolo armeno non vuole più essere in guerra.

I sondaggi mostrano che solo il 31 per cento degli armeni è favorevole a cercare di riconquistare i territori persi nella guerra. Il 28 per cento è disposto ad accettare una “stabilizzazione nel quadro dei confini esistenti”, e un altro 3 per cento sarebbe pronto a cedere Stepanakert, capitale dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh controllata dagli armeni, solo per porre fine al conflitto.

Per questo l’opposizione non era entusiasta all’idea di organizzare elezioni anticipate, una prospettiva che subito dopo la sconfitta sembrava inevitabile e logica. Ma l’opposizione ha capito che se il duo Kocharyan-Manukyan dovesse salire al potere, dovrebbe andare avanti nel solco segnato da Pashinyan. I compiti che riserva il futuro sono complessi: delimitare un nuovo confine con l’Azerbaigian in villaggi che appena sei mesi fa erano a settanta chilometri dalle posizioni azere; coordinare le vie di trasporto verso l’exclave azera di Nakhchivan e verso la Turchia attraverso l’Armenia; e trovare un compromesso sulle aree rimanenti del Nagorno Karabakh per mantenere una qualche presenza armena in loco.

In un momento come questo, è meglio rimanere all’opposizione che mettere a repentaglio la propria posizione nelle stanze del potere. L’opposizione preferirebbe che fosse Pashinyan a fare il lavoro pesante.

Il popolo armeno può probabilmente percepire questa mancanza di una vera alternativa, ed è per questo che delle proteste propagandate come storiche hanno una partecipazione così limitata. Ciò che spinge la gente in piazza è la visione di un futuro migliore: un futuro in cui non c’è corruzione, il governo ascolta il popolo e i nemici sono sgominati. Pashinyan aveva promesso questa “Armenia del futuro” nel 2018. Non è stato all’altezza delle aspettative, ma è anche difficile credere che chi è venuto prima di lui avrebbe potuto costruire un simile paradiso terrestre.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Vai al sito

Il corridoio di Zangezur, la chiave per la pace tra Armenia e Azerbaigian (Insideover 09.03.21)

Il futuro del processo di pacificazione tra Armenia e Azerbaigian non si sta giocando soltanto nel sensibile Nagorno Karabakh, perché, invero, c’è un’altra vena scoperta, facile al sanguinamento, che ha storicamente complicato le relazioni tra i due Paesi: lo Zangezur.

Adeguati rimedi – in questo caso un corridoio di trasporto internazionale – se accompagnati da una ferrea volontà d’azione risolutoria, potrebbero trasformare questa fonte secondaria di conflitto e divisione (letterale) in un potente magnete in grado di attrarre mutui benefici in termini di prosperità, investimenti, crescita e, soprattutto, pace.

Le origini del corridoio di Zangezur

Fra le clausole presenti nella dichiarazione tripartita del 9 novembre, che ha determinato la fine delle ostilità nel Nagorno Karabakh a mezzo dell’entrata in vigore di un cessate il fuoco permanente, una risalta in maniera particolare. Questa condizione, la numero nove, ha gettato le basi per il ritorno in funzione di tutti i collegamenti economici e di trasporto attraversanti tutta la regione contesa e spinto l’Armenia a garantire all’Azerbaigian l’agognata costruzione di una connessione via terra con l’exclave azerbaigiana della Repubblica autonoma di Nakhchivan.

Trascorsi i mesi di novembre e dicembre, fra malumori di piazza a Erevan e schermaglie intermittenti in alcune zone dei territori liberati dell’Azerbaigian, nella giornata dell’11 gennaio aveva avuto luogo un’ulteriore trilaterale fra Vladimir PutinIlham Aliyev e Nikol Pashinyan, allestita a Mosca, per discutere del concretamento del fatidico punto nove della dichiarazione di cessate il fuoco.

Il vertice si era concluso con la firma di una dichiarazione congiunta riguardante lo sviluppo di progetti infrastrutturali nella regione contesa, fra i quali una linea ferroviaria per connettere Armenia e Russia traversante il territorio azero e la nascita di un gruppo di lavoro congiunto con l’obiettivo di monitorare e gestire ogni fase della loro implementazione. I lavori di ripristino dei canali di trasporto su gomma e rotaia, a partire da quel momento, hanno ricevuto un impulso significativo, specialmente nel territorio azero, e la ragione è una: il corridoio di Zangezur.

Il corridoio, che cos’è

Lo Zangezur è il paragrafo della regione più ampia di Syunik, la provincia armena che funge da parete divisoria permanente fra l’Azerbaigian e la sua exclave, sul quale dovrebbe sorgere l’agognata linea ferroviaria Baku–Nakhchivan. Se non politicizzato dalle parti in gioco, e i rischi in tal senso provengono sostanzialmente dall’Armenia – la quale vede il corridoio come una manifestazione del panturchismo sul proprio territorio –, lo Zangezur sarebbe in grado di generare ricadute benefiche la cui portata andrebbe ben al di là della dimensione puramente sudcaucasica.

Connettere Nakhchivan e Baku attraverso lo Zangezur equivale a creare un collegamento potenzialmente inglobabile nella già esistente Baku–Tbilisi–Kars (BTK), che, a sua volta, è inserita in una realtà infrastrutturale di gran lunga più estesa, poiché di caratura transcontinentale, connessa ai mercati russo (attraverso la Ankara–Baku–Mosca), cinese (tramite la Cina–Azerbaigian), turkestano (a mezzo del corridoio dei lapislazzuli, ma non solo) e indo-iranico (mediante il Corridoio Nord–Sud).

Lo Zangezur è, in estrema sintesi, la migliore esemplificazione di quel che è il Caucaso meridionale: la geografizzazione letterale del concetto geopolitico di pivotalità. Perché Azerbaigian e Turchia potrebbero commerciare ad alti livelli anche senza il corridoio di Zangezur, come dimostra la BTK, ma il soprascritto elenco (parziale) di potenziali ripercussioni ne illustra e spiega l’importanza.

Quali sarebbero i benefici per l’Armenia

L’Armenia teme per la propria sovranità, perché preda di un comprensibile stress post-traumatico, o meglio post-guerra, sotto forma di sindrome di Alamo, ma il corridoio di Zangezur potrebbe rappresentare la chiave di volta per una stabilizzazione durevole ed egualmente benevola per ogni attore ivi coinvolto.

In primo luogo, avallando i lavori di unificazione infrastrutturale tra Baku e Nakhchivan, Erevan dimostrerebbe al proprio garante (Mosca) affidabilità, rispettando i patti, e propensione alla pace, sostituendo lo scontro con l’incontro. In secondo luogo, mettendo momentaneamente da parte le animosità politiche, l’Armenia potrebbe cogliere una verità incontestabile e per nulla trascurabile: i benefici superano di gran lunga i costi.

Erevan è rimasta diplomaticamente isolata dopo l’occupazione dei territori dell’Azerbaigian e, soprattutto, è stata esclusa dai processi trasformativi che stanno plasmando e riscrivendo la realtà economica, commerciale e infrastrutturale del Caucaso meridionale, globalizzandolo per mezzo di reti transregionali collegate o collegabili ad Anatolia, Asia centrale, Russia, Medio Oriente, Asia meridionale e Cina. L’Armenia potrebbe entrare a far parte di questo nuovo mondo, di cui il Caucaso meridionale rappresenta l’ombelico, in luogo di esserne estranea e di essergli ostile, iniziando a commerciare in maniera significativa con un mercato sterminato.

Vai al sito