L’ARMENIA DOPO IL NAGORNO-KARABAKH. INCONTRO CON L’AMBASCIATRICE TSOVINAR HAMBARDZUMYAN (Notiziegeopolitiche 18.03.21)

L’Armenia ricorderà a lungo l’anno 2020. La nazione infatti non solo ha dovuto confrontarsi con la pandemia mondiale, ma ha anche dovuto fronteggiare una guerra nel Nagorno-Karabakh, che l’ha vista sconfitta contro l’avversario azero con importanti conseguenze nel sistema sociopolitico interno. In seguito a sei settimane di combattimenti il bilancio di quella che i media hanno definito la Guerra del Nagorno-Karabakh è drammatico, per la sconfitta subita e per l’alto numero di vittime civili e militari.
Il 10 novembre 2020 a Mosca, alla presenza del presidente Vladimir Putin, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ed il presidente azero Ilham Aliyev hanno firmato un accordo di pace, evento che ha portato al sollevarsi di manifestazioni antigovernative a Yerevan.
Ad oggi, secondo quanto riportato dai media locali ed internazionali, la Repubblica caucasica è attraversata da una crisi politica interna che si somma alla recessione economica causata dall’erompere della pandemia e alla gestione delle conseguenze del conflitto nel Nagorno-Karabakh.
Abbiamo incontrato Tsovinar Hambardzumyan, ambasciatore della Repubblica di Armenia in Italia, per discutere le relazioni bilaterali italo-armene e la politica estera perseguita da Yerevan in seguito al conflitto.

– L’Italia e l’Armenia hanno sempre avuto forti relazioni diplomatiche, culturali e storiche, ma recentemente, a causa della crescita esponenziale che l’Azerbaijan ha avuto nel settore dell’oil & gas, qualcosa è cambiato. Qual è lo stato attuale delle relazioni italo-armene tenendo conto che l’Italia (come molti paesi europei) sembra più interessata al settore energetico azero e non ha supportato attivamente l’indipendenza di Artsakh nel recente conflitto?
“Prima di tutto vi ringrazio per l’interesse e per questa intervista. Parlando onestamente non sono del tutto d’accordo con le vostre affermazioni. Gli interessi italiani nel settore energetico azero sono evidenti, ma non adombrano in alcun modo le relazioni italo-armene. È difficile che si possa trovare un qualunque altro paese del mondo dove sono stati siglati così tanti documenti in supporto all’indipendenza della Repubblica di Artsakh. Penso che ci siano più di quaranta municipalità e due importanti regioni, la Lombardia ed il Piemonte, che hanno approvato mozioni per il riconoscimento di Artsakh. Siamo veramente grati e non lo dimenticheremo mai.
L’Armenia ha altresì apprezzato la posizione bilanciata del governo italiano. L’Italia è a conoscenza delle criticità nella regione e speriamo che il paese mantenga la sua posizione equilibrata nelle sue dichiarazioni e azioni riguardanti il conflitto del Nagorno-Karabakh.
Siamo determinati a elevare le nostre relazioni economiche al livello del nostro dialogo politico. Gli investimenti italiani in Armenia crescono di anno in anno. Attualmente in Armenia ci sono più di 170 compagnie con la partecipazione di capitali italiani. Sta crescendo anche l’interesse degli imprenditori italiani in Armenia, gli investimenti effettuati nell’ultimo periodo fanno riferimento ai settori tessile, ceramico ed energetico.
Negli ultimi tre anni, il nostro fatturato commerciale è costantemente aumentato. Purtroppo, a causa della pandemia da coronavirus, lo scorso anno abbiamo registrato una piccolissima diminuzione del fatturato commerciale di circa il 12%.
L’adesione dell’Armenia all’Unione Economica Eurasiatica, così come il Comprehensive and Enhanced Partnership Agreement firmato con l’Unione Europea ed entrato in vigore il 1 marzo, offrono nuove opportunità per l’espansione della cooperazione tra Armenia e Italia nella sfera economica. Investendo in Armenia gli imprenditori italiani potranno accedere, senza dazi doganali, a un mercato dell’Unione Economica Eurasiatica forte di 180 milioni di consumatori.
Le nostre interazioni culturali hanno radici storiche profonde: il primo libro stampato in lingua armena fu pubblicato a Venezia nel 1512. Per i cristiani armeni è di immenso valore che le reliquie di San Gregorio l’Illuminatore, il primo Patriarca, il Catolicos della Chiesa Apostolica Armena, sono conservati nelle chiese di San Gregorio Armeno a Napoli e Nardò.
Uno dei centri più importanti della rinascita della cultura armena in epoca moderna è l’isola di San Lazzaro a Venezia, dove esiste da quasi tre secoli la Congregazione dei Padri Mechitaristi. È un importante centro di armenologia, che ha dato il suo inestimabile contributo all’arricchimento del patrimonio scientifico e culturale armeno e mondiale. A tal proposit, l’Italia ospita il maggior numero di centri di armenologia al mondo. Il centro di armenologia più sviluppato in Europa è stata la Congregazione Mechitarista Armena sull’isola di San Lazzaro, ma anche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, nelle Università di Firenze, Milano, Bologna, Pisa e il Pontificio Istituto Orientale di Roma.
I legami fra i nostri popoli sono così forti e profondi che dopo l’indipendenza dell’Armenia dall’URSS non ci sono voluti particolari sforzi per stabilire eccellenti relazioni interstatali con l’Italia”.

– Prima e durante il conflitto Bruxelles non ha svolto un ruolo attivo, ma dopo l’accordo di pace firmato a novembre, l’Unione Europea ha avviato una grande campagna diplomatica e di investimenti a favore dei progetti socioeconomici azeri in Nagorno-Karabakh (ad esempio, il progetto “The European Union for Azerbaijan”). Come percepiscono oggi il suo paese e gli armeni l’Unione europea?
“L’Unione Europea e l’Armenia hanno costantemente ribadito il loro impegno a rafforzare e approfondire la loro cooperazione in tutte le aree possibili. L’Unione Europea è sempre stata il nostro principale partner nel campo delle riforme e della modernizzazione. Come ho già accennato, il 1 marzo è entrato in vigore l’Armenia-European Union Comprehensive and Enhanced Partnership Agreement (CEPA). Questo accordo porta le relazioni bilaterali tra l’Armenia e l’Unione Europea a un nuovo livello di partenariato e regola il dialogo nella sfera politica ed economica, nonché la cooperazione settoriale.
Il CEPA è un documento inclusivo, che crea una solida base giuridica per il partenariato Armenia-Ue, delineando la cooperazione in vari ambiti, che vanno dalla giustizia, la sicurezza, l’economia, l’agricoltura e le infrastrutture all’ambiente, il clima, l’istruzione, la scienza, la cultura, la salute, eccetera.
L’efficace attuazione dell’accordo porterà risultati tangibili ai nostri cittadini promuovendo la democrazia, la stabilità politica, economica e sociale attraverso ampie riforme, migliorando così la qualità di vita dei nostri cittadini.
Tutti hanno bisogno di petrolio e gas, calore ed elettricità, senza dubbio. Tuttavia, quando si tratta di diritti umani e questioni umanitarie, l’Unione Europea è schietta. Consentitemi di menzionare che ci sono stati annunci in difesa del rilascio immediato e incondizionato dei prigionieri di guerra, degli ostaggi e di altre persone detenute con la forza a tutti i livelli possibili, da parte del Parlamento europeo, del Servizio europeo per l’AzioneeEsterna e dell’Istituto del Mediatore europeo”.

Veduta di Erevan. (Foto: Notizie Geopolitiche / EO).

– In che modo il recente conflitto del Nagorno-Karabakh ha cambiato il quadro territoriale e geopolitico del Caucaso meridionale?
“L’Armenia è sempre sinonimo di stabilità, pace e cooperazione nella regione, tuttavia, per il suo funzionamento efficace, prima di tutto, è necessario creare un clima di fiducia, che chiaramente manca tra i paesi della regione. Sfortunatamente, la Turchia e l’Azerbaigian non fanno distinzione fra i mezzi per portare avanti la loro politica aggressiva e stanno costantemente intraprendendo misure per trasformare la nostra regione in un focolaio di terrorismo. Il livello di armenofobia sta stabilendo nuovi “record”. Decine di prigionieri di guerra armeni sono ancora in Azerbaigian; L’Azerbaigian ha occupato i territori dell’Artsakh vero e proprio e la distruzione del patrimonio storico-culturale armeno continua.
L’articolo 9 della dichiarazione trilaterale sul cessate il fuoco del 9 novembre recita che “tutti i collegamenti economici e di trasporto nella regione saranno sbloccati”, il che è di per sé un passo positivo verso la creazione della stabilità regionale, così come le prospettive di cooperazione. Lo sblocco delle comunicazioni andrà non solo a vantaggio dell’area armeno-azera, ma anche di una regione molto più ampia. Tuttavia senza fiducia e un’atmosfera adeguata tale provvedimento è destinato al fallimento. Come immagina la circolazione sicura delle persone e lo scambio di merci quando ci sono ancora diverse dozzine di prigionieri di guerra detenuti nelle carceri azere, sottoposti a trattamenti disumani, torture e sofferenze con accuse assolutamente fasulle?
Diversamente è naturale che lo sblocco delle comunicazioni economiche e del trasporto possa creare nuove opportunità per lo sviluppo economico e l’integrità dell’intera regione. Inoltre, in tal caso, potrebbe esserci l’opportunità di stabilire collegamenti di trasporto tra il Golfo Persico e il Mar Nero. Naturalmente, la creazione di questa rete servirà gli interessi di tutti gli stati coinvolti”.

– I media internazionali e locali hanno sottolineato l’impatto decisivo della pandemia e del conflitto sulla politica interna armena. Potrebbe descrivere quale strategia ha stabilito il governo per superare i problemi socioeconomici e politici?
“L’Armenia ha dovuto affrontare gravi problemi socioeconomici a causa del COVID-19 e dell’aggressione dell’Azerbaigian contro l’Artsakh, che non potevano essere affrontati efficacemente con i mezzi tradizionali. Partendo da questo presupposto, il governo ha abbracciato l’idea di sviluppare il Government’s Economic Response Program e di renderlo effettivo. Il programma mira a raggiungere almeno due obiettivi prioritari specificati nel piano d’azione pubblicato il 18 novembre 2020: superare gli shock causati dalla pandemia globale e dalla guerra, e poi ripristinare e riportare l’economia sui binari dello sviluppo sostenibile. Il programma prevede 38 attività, tra le quali:
> Coltivazione e trasformazione di colture agricole ad alto valore aggiunto: una di queste
soluzioni è la coltivazione di nuovi tipi di colture, in particolare la canapa industriale, che non solo è preferibile ed economica in termini di prezzo, ma è anche una fonte di materie prime di alta qualità. Può essere utilizzato nell’industria tessile, nella produzione di carta e materiali da costruzione, nell’esportazione di semi di colture e olio.
> Introduzione di uno strumento provvisorio di emergenza nelle procedure di appalto pubblico: lo scopo di questa attività è promuovere la partecipazione delle imprese locali agli appalti pubblici. Attraverso un tale strumento, il governo sovvenzionerà le aziende locali che utilizzeranno la manodopera locale e le risorse di produzione per fornire i loro servizi. Ciò si tradurrà in un maggiore interesse delle aziende locali per gli appalti pubblici e renderà il processo più competitivo. Inoltre, le imprese riceveranno un sostegno effettivo dal governo tramite sussidi. Con questo provvedimento, infatti, il governo contribuirà anche alla crescita della produzione locale e all’attivazione del mercato del lavoro del paese. Questa attività mira alle risorse armene interne di manodopera e merci e cercherà di sostenere il produttore locale.
> Continuare e trasformare il programma di risposta COVID-19: il governo armeno ha adottato 25 misure per contrastare il suo impatto negativo, alcune delle quali devono essere rilanciate in linea con le realtà odierne. La portata dei beneficiari sarà ampliata: circa 8mila entità del settore agricolo, circa 500 entità economiche, circa 100 piccole e medie imprese saranno supportate in diverse direzioni. In altre parole, le misure per neutralizzare l’epidemia si stanno trasformando secondo le attuali esigenze, mirando alla ripresa e allo sviluppo sostenibili di alcuni settori dell’economia.
> Lancio di progetti di sviluppo urbano su larga scala a Yerevan e in altri comuni armeni: uno dei punti chiave del programma di risposta economica è il lancio di progetti di sviluppo urbano su larga scala. Allo stesso tempo, il governo mostra la sua volontà e disponibilità a lanciare progetti strategici che copriranno una vasta area. Questo è un messaggio in termini di stabilizzazione del contesto imprenditoriale nel nostro Paese, che troverà una risposta da parte degli investitori esteri, aprendo promettenti opportunità.
Con questo programma anticrisi, il Governo sta cercando di stabilizzare la situazione economica nel nostro Paese con un complesso di misure mirate, per ravvivare le aspettative dei cittadini e preparare solide basi per uno sviluppo continuo”.

Giuliano Bifolchi è analista geopolitico e dottore in Storia dei Paesi Islamici, si è laureato in Scienze della Storia e del Documento presso l’Università Tor Vergata di Roma ed ha conseguito il master in Peacebuilding Management presso la Pontificia Università San Bonaventura. Direttore di ASRIE Analytica, si occupa di Open Source Intelligence ed è specializzato nell’analisi della situazione politica, economica, socioculturale e della sicurezza dello spazio post-Sovietico e della regione MENA.
** Silvia Boltuc è analista specializzata in relazioni internazionali, energia e conflitti nello spazio post-Sovietico, in Medio Oriente e Nord Africa. Attualmente ricopre il ruolo di direttore del programma di ricerca “Eurasian Energy Market” presso ASRIE Analytica ed è responsabile del dipartimento energia e nuove tecnologie presso il CeSEM – Centro Studi Eurasia Mediterraneo.

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A Roma, sino al 21 marzo, il Festival del Film Francofono: presente anche l’Armenia, con un film sulla guerra del Nagorno – Karabakh (Vivere Roma 18.03.21)

Da mercoledì 17 marzo, sino a Domenica 21, l’Institut français – Centre Saint-Louis dell’ Urbe ha aperto le porte della sua sala virtuale con l’XI edizione del Festival del Film Francofono di Roma, organizzato in collaborazione con le Ambasciate dei Paesi membri del Gruppo delle Ambasciate francofone a Roma e patrocinato dal Festival International du Film Francophone de Namur (FIFF).

La rassegna presenta15 film, per far viaggiare gli spettatori nel cuore della diversità delle culture francofone. Sono 15 lungometraggi, provenienti da altrettanti Paesi membri della Francofonia: Albania, Armenia, Belgio, Bulgaria, Burkina Faso, Canada-Québec, Francia, Libano, Lussemburgo, Marocco, Romania, Senegal, Svizzera, Tunisia.

Anche quest’anno, ricorda l’ Associazione della Comunità Armena di Roma e del Lazio, l’Armenia è presente al Festival. “Yeva” è il titolo del film inedito armeno della regista Anahit Abad (2018, durata 1:34’, drammatico): che sarà proiettato oggi, 18 marzo. La pellicola era stata già selezionata dall’Armenia per il Premio Oscar 2018, nella categoria Best International Feature Film.

Trama: Sospettata dell’omicidio di suo marito, Yeva fugge con la figlia Nareh in un villaggio dove ha lavorato come medico durante la guerra del Nagorno-Karabakh tra l’Azerbaigian e l’Armenia, sperando di non essere riconosciuta. I ricordi della guerra, però (che, iniziata dai primissimi anni ’90, col crollo dell’ URSS e l’indipendenza dei 2 Paesi, si sta riaccendendo periodicamente dal 2016, N.d.R.), e il suo passato tornano senza offrire vie di scampo.

Tutti i film (tranne “Atlantique” e “Siberia nella ossa”), in versione originale sottotitolati in italiano, sono gratuiti previa la registrazione alla piattaforma FestivalScope (https://www.festivalscope.com/it/page/francofilm/). La versione online del festival permette gli orari flessibili di visione, dalle ore 18.00 alle ore 24.00 del giorno indicato (per il film “Yeva”, l’accesso alla sala virtuale è il 18 marzo, dalle 18 e non oltre le 22.30, dato che ha la durata di 1 ora 34 min.). La sala virtuale ha una capienza limitata. Al termine di ogni proiezione – ricorda ancora la Comunità Armena di Roma e Lazio – il pubblico non dimentichi di votare per eleggere il film vincitore del Premio del Pubblico.

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Energia: accordo Socar-Gazprom per forniture temporanee gas all’Armenia attraverso l’Azerbaigian (Agenzianova 17.03.21)

Baku, 17 mar 10:44 – (Agenzia Nova) – L’azienda statale degli idrocarburi azerbaigiana Socar e la compagnia energetica russa Gazprom hanno firmato un accordo a breve termine sul trasporto di gas russo. Quest’intesa consentirà di proseguire l’erogazione delle forniture di gas ai consumatori in Armenia attraverso il territorio dell’Azerbaigian durante i lavori di riparazione programmati del gasdotto Caucaso settentrionale-Transcaucasia. L’accordo è stato firmato tra le due parti ieri e prevede che il gas venga consegnato ai consumatori attraverso il territorio dell’Azerbaigian sino al confine georgiano durante i lavori di manutenzione preventiva programmata della parte russa della conduttura. I lavori di riparazione possono richiedere circa tre settimane. Dopo il completamento dei lavori, il gas verrà nuovamente trasportato attraverso il gasdotto del Caucaso settentrionale-Transcaucasia. (Rum)

Storia degli armeni, di Aldo Ferrari e Giusto Traina (Treccani 16.03.21)

Lo storico latino Tacito (Ann., 13.34.2) definiva gli armeni «gente di dubbia lealtà» in virtù della posizione, geograficamente e dunque (in un certo senso di conseguenza) psicologicamente di frontiera tra il mondo romano e quello partico che essi occupavano, facendo uso di una terminologia che altre fonti ‒ greche come latine ‒ avrebbero a più riprese impiegato per parlare, non a caso, degli ebrei e più tardi dei cristiani. Un paio di millenni dopo, pianificandone lo sterminio su scala europea al momento di invadere l’URSS, Hitler avrebbe riproposto il paragone, tranquillizzando i propri luogotenenti circa l’opposizione delle altre potenze al trattamento che i nazisti si proponevano di riservare alla popolazione ebraica facendo loro notare che, a nemmeno trent’anni di distanza, nessuno si ricordava (e – fatto assai più importante – a nessuno interessava) degli armeni.

Tanto la storia millenaria quanto le vicende estremamente travagliate che hanno segnato il destino della (delle) comunità che con tale storia si sono identificate così come l’inesistenza – fino a tempi assai recenti – di uno Stato a fronte di una popolazione tanto gelosa quanto orgogliosa delle proprie tradizioni giustifica la scelta da parte della comunità scientifica di studiare il passato dei popoli d’Armenia e di Israele più che quello dei rispettivi Paesi (intesi nel senso di comunità geopolitiche), ed aiuta dunque a comprendere come mai il recente volume curato da Giusto Traina e Aldo Ferrari (due insigni studiosi, specialisti rispettivamente dell’evo antico e di quello moderno, uno sotto il profilo storico, l’altro sotto quello linguistico e letterario, di questo popolo) si intitoli, a buon diritto Storia degli armeni.

Dal momento infatti che, con le eccezioni del regno Pakraduni (giunto al termine nel 1118 d.C.), della cosiddetta prima repubblica (1918-1920), di quella sovietica e dell’attuale Stato indipendente, la storia millenaria della cultura armena non ha mai conosciuto qualche cosa di anche lontanamente comparabile a un’autonomia territoriale iuxta propria principia, l’intento primario degli autori è stato comprensibilmente quello di offrire al pubblico italiano (nel territorio della cui repubblica, ad oggi, sono insediati – e perfettamente integrati – all’incirca 3.000 esponenti di questo ricco e interessantissimo mondo) un profilo allo stesso tempo informato e autorevole ma accessibile e sintetico (200 pagine corredate di numerose illustrazioni e carte) delle vicende di una cultura e di una lingua i cui portatori hanno saputo attraversare, se non indenni certamente con uno straordinario spirito di abnegazione e resilienza, la storia di regni e imperi, dall’Assiria a Stalin.

Il posizionamento dei territori ancestrali armeni, incuneati nel Caucaso lungo uno snodo di importanza cruciale tra Turchia, Iran e Russia, è stato nel corso dei secoli croce e delizia della popolazione in esso insediata: in ragione dell’interesse strategico essi funsero non di rado da catalizzatore dell’attenzione delle superpotenze dell’epoca in virtù del proprio ruolo a cavaliere tra più mondi, cerniera tra Oriente e Occidente e dunque avamposto fondamentale di qualsiasi potere dalle ambizioni egemoniche nella zona. Essi furono però allo stesso tempo costantemente esposti al rischio di venire sacrificati (e con essi la popolazione ivi insediata) sull’altare della geopolitica euroasiatica (da Roma alla NATO), con conseguenze nefaste per uomini e donne i quali, forse per lo meno dall’ascesa del califfato (capp. 7 e 8, pp. 71-90) hanno dovuto fare di necessità virtù, sviluppando (ancora una volta in sorprendente analogia con il popolo ebraico) doti non comuni di diplomazia, spirito di adattamento e mobilità che ne hanno allo stesso tempo garantito il successo nei Paesi di emigrazione (l’elemento diasporico è infatti una costante della storia degli armeni), ma anche, paradossalmente, un punto debole facilmente sfruttabile in chiave xenofoba (al mito della «plutocrazia giudaica» si potrebbe dunque affiancare, ed è stato fatto, quello di una «plutocrazia armena»).

Una recensione non dovrebbe mai proporsi di riassumere (dunque banalizzandolo) il contenuto di un libro, e ciò tanto meno nel caso – come questo – in cui il volume in questione risponda al genere letterario del profilo di storia (politica, culturale, letteraria o di altro genere). Varrà tuttavia la pena sottolineare che, nel ripercorrere le vicende del popolo armeno (meno di 30.000 km2 per neanche 3 milioni di abitanti tra le montagne del Caucaso – da Erodoto a Puškin e Lermontov terra per eccellenza di, per quanto nobili e fieri, barbari), Traina e Ferrari riescono nella non banale impresa di condurre il lettore in viaggio attraverso letteralmente i cinque continenti, seguendo le orme di religiosi, mercanti, uomini di guerra e intellettuali che riuscirono a conquistare non di rado con le sole arti della cultura e della competenza diplomatica, spazi di manovra notevolissimi dagli Stati Uniti a Manila e dall’Iran all’Australia.

Inquadrando «dall’interno» la storia armena in un contesto storico e geopolitico quanto più ampio possibile, attirando costantemente l’attenzione del lettore sulle interazioni delle formazioni statali armene con i propri vicini senza con questo perdere di vista le logiche peculiari della storia di questo popolo, il volume assolve così al meritorio compito di orientare tanto la comunità scientifica quanto il pubblico interessato alla storia di questa regione del mondo, a torto per lungo tempo relegata ai margini, verso un’ottica autenticamente globale alle vicende della comunità di destino armena e dei suoi luoghi di memoria, come del resto si addice a un popolo che, come argomentato persuasivamente da Lori Khatchadourian nel suo splendido Imperial Matter (2016), si è sempre dimostrato pervicacemente in grado ‒ dai «delegati» ritratti sulle scalinate dell’apadāna ad Anastas Mikojan ‒ di giostrarsi tra i confini degli imperi che sull’Armenia nel corso dei secoli avanzarono pretese egemoniche e i centri decisionali di essi senza mai perdere del tutto il proprio potere di influenza. Escaping without leaving, nelle parole della studiosa, sopravvivendo con coraggio e dignità tanto a prove immani quanto, fatto notevole, a molti di quegli stessi imperi che si illusero di averne domato la resistenza. Con buona pace di Hitler (e di Erdoğan) la memoria dell’Armenia e degli armeni è ancora lungi dallo svanire, ed è anche per questo motivo che non è tempo perso conoscerne (meglio) la storia.

A. Ferrari – G. Traina, Storia degli armeni, Bologna, il Mulino, 2020, pp. 223

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Il segreto di Giorgio Petrosyan: “Mi faccio il c..o in palestra. Può bastare?” (Gazzetta.it 15.03.21)

Segreti per essere il numero uno non ne ha, dice alzando la guardia. Kickboxer di professione, Giorgio Petrosyan sa solo di aver cominciato a darci dentro coi guantoni a 13 anni, quando per allenarsi bastavano un sacco da prendere a pugni, una sbarra per trazioni e poco altro. Il fisico è diventato d’acciaio col tempo, tra soddisfazioni e vittorie sul ring, per ora 104 in 110 incontri. “Mi faccio il c… in palestra, direi che può bastare”, racconta sorridendo a Gazzetta Active.

Aveva le idee chiare fin da subito…

“Ho sempre visto il mio futuro sul ring, non ho mai immaginato la mia vita senza questo sport. A sedici anni il primo incontro, vittoria dopo vittoria mi è piaciuto sempre di più. A 18 anni ho capito che poteva diventare il mio lavoro “.

Il 26 febbraio l’ultimo combattimento. Com’è stato tornare sul ring dopo un anno così particolare?

“La situazione è tosta, ma per me è cambiato poco. Abito a duecento metri dalla mia palestra, mi sono sempre allenato. Andavo, aprivo e ci davo dentro. Il difficile è stato semmai lavorare senza incontri fissati e date certe”.

Allenamenti duri, vero?

“Dal lunedì al sabato, due volte al giorno. Al mattino focus su lavoro fisico e forza. Bilancieri, pesi, squat. Nel pomeriggio tecnica. Il cardio non manca mai, anche se di solito corro poco. Ripetute di trenta secondi, per esempio. Adesso ho ancora un po’ di dolore alle tibie per l’ultimo match, ma sto riprendendo pian piano”.

Si diverte in palestra?

“Qua parliamo di botte, non è come nel calcio. Se ti prepari a un incontro, tutti gli allenamenti sono pesanti. Forse solo ora, perché ho gareggiato da poco, posso lavorare in maniera più blanda e scherzare con i compagni”.

I colpi precisi le sono valsi il soprannome di “The Doctor”. Quando hanno cominciato a chiamarla così?

“Nel 2004, dopo un match contro il francese Anis Kabouri. Gli tirai quattro o cinque low kick in serie, fino a mandarlo giù. L’arbitro scattò delle foto. Guardandole notò che erano tutte uguali, con calci a segno nello stesso punto. In quel momento, diventai il chirurgo”.

Cosa scatta quando ufficializzano la data di un incontro?

“Eh (ride, ndr)… Non puoi più scherzare. Inizi a studiare l’avversario, costruisci gli allenamenti su di lui per lavorare sui suoi punti forti e deboli. A tavola poi, niente errori. Anche se sei stanco a livello fisico e mentale, non puoi fermarti”.

Cosa si mangia per restare a livelli così alti?

“A colazione, almeno negli ultimi tempi, mangiavo uno yogurt proteico, duecento grammi di frutta e un pezzo di cioccolato fondente, integrando con vitamine varie. A pranzo, dopo il primo allenamento, 100 grammi di riso, 120 grammi di pollo e verdure. Finita la sessione del pomeriggio, una barretta e un frutto per merenda, mentre per cena 60 grammi di riso uniti a pollo, carne rossa o pesce. Prima di andare a dormire non deve mancare mai lo spuntino, il fisico ne ha bisogno. Negli ultimi giorni ho sgarrato un po’, ma ogni tanto ci vuole”.

Come cambia l’alimentazione a ridosso di un incontro?

“Si mangia di meno e si soffre. Tiro via i carboidrati perché in ONE Championship (l’organizzazione per cui combatte, ndr) non c’è il taglio del peso, bisogna fare 70 kg naturali”.

Anche suo fratello Armen è un lottatore. Com’è condividere una passione-lavoro così in famiglia?

“Ci alleniamo insieme da vent’anni. Mi fido di lui perché mi conosce e ama questo sport. Quando combatto è sempre all’angolo a sostenermi. E io faccio lo stesso quando tocca a lui. Non ci siamo mai incazzati l’uno con l’altro. Io sono calmo e tranquillo, lui è l’opposto. Forse andiamo d’accordo per questo”.

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Alfonso Di Riso nominato ambasciatore d’Italia in Armenia „Alfonso Di Riso nominato ambasciatore d’Italia in Armenia“ (Avellino today 15.03.21)

Il Ministero degli Esteri ha ufficializzato una serie di nomine nelle ambasciate italiane all’estero. Tra queste, compare la nomina di Alfonso Di Riso, nolano doc di origini irpine, scelto come nuovo ambasciatore d’Italia in Armenia. Classe 1965, Di Riso ha frequentato il liceo classico “G.Carducci di Nola” per poi conseguire ben due lauree, la prima in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli nel 1988 e la seconda nel 1991 in scienze politiche all’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Nel 1998, si è trasferito a Siena dove ha ottenuto il Dottorato di Ricerca in diritto istituzionale. Da qui, per Alfonso Di Riso si sono aperte le porte della carriera diplomatica. Fino al 2017, ha ricoperto l’incarico di ambasciatore d’Italia in Costa D’Avorio.

A complimentarsi con Alfonso Di Riso il Sindaco di Domicella, paese d’origine di suo padre: “Il caro papà buonanima Francesco Di Riso,professore di latino e greco,di origini Domicellesi,oggi sarà orgoglioso di lui come lo è Domicella. Le mie più sentite congratulazioni”.

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Oltre il nazionalismo con un lucido antimilitarismo (Umanitanova 15.03.21)

Intervista a Guillaume Davranche a cura dell’UCL Montreuil

Vicken Cheterian, insegnante e giornalista del settimanale armeno Agos, era a Yerevan a gennaio. Risponde alle domande di Alternative Libertaire sull’attuale crisi politica e discute le prospettive di un processo di pace e una soluzione politica tra Armenia e Azerbaigian.

Dalla sua sconfitta in Azerbaigian a novembre, dopo sei settimane di una guerra che ha provocato più di 3.000 morti per parte, l’Armenia è precipitata in una violenta crisi politica. Il primo ministro Nikol Pachinian, portato al potere nel 2018 da un movimento sociale anti-corruzione, è accusato di “tradimento” dai nazionalisti per aver firmato l’armistizio. Il personale dell’esercito, che da novembre ha rotto la neutralità, ha recentemente chiesto le sue dimissioni. Nelle strade, pro e anti-pachiniani manifestano a migliaia.

Alternative libertaire: Accusato di aver perso la guerra, minacciato di un colpo di stato militare, Nikol Pachinian rimarrà Primo Ministro? Chi chiede la sua destituzione e chi lo sostiene?

Vicken Cheterian: Dall’armistizio del 9 novembre, la situazione di Nikol Pachinian è stata precaria. L’opinione pubblica, mobilitata dallo sforzo bellico e non riuscendo a comprendere la portata del rovesciamento dei fatti da parte della propaganda, è rimasta scioccata dall’armistizio. Diversi territori precedentemente sotto il controllo armeno sono stati restituiti all’Azerbaigian, come Kelbadjar e Agdam. All’epoca, per protestare contro l’armistizio, il Parlamento fu preso d’assalto da militanti legati al “vecchio regime” ed ai circoli di governo scossi dalla rivolta popolare del 2018. Gli stessi che, oggi, sono a favore del fatto che l’esercito rovesci il primo ministro.

Pachinian, infatti, non è riuscito a tirare fuori il Paese dalla profonda crisi causata dalla sconfitta. Aveva quasi tre mesi per delineare una tabella di marcia invece di procrastinare, un passo avanti, due passi indietro. Dopo aver discusso di elezioni parlamentari anticipate, ha abbandonato l’idea affermando che, poiché l’opposizione non le voleva, non aveva senso convocarle. Lui e i suoi sostenitori hanno anche rifiutato categoricamente l’idea di dimettersi – persino per cedere il potere a un membro del suo gruppo – che probabilmente avrebbe placato la situazione. Il problema è che dopo aver escluso questi diversi scenari di uscita, Pachinian non è riuscito a trovare nient’altro. Va aggiunto che negli ultimi mesi ha irritato moltissimo vari circoli di potere, compreso il personale dell’esercito.

Detto questo, Pachinian gode ancora di un forte sostegno. Un sostegno attivo da parte dei gruppi a lui fedeli ma anche un appoggio passivo, più ampio, da parte della popolazione che non vuole il ritorno della “vecchia guardia”. Quanto ai gruppi di sinistra e antimilitaristi che conosco, chiedono elezioni parlamentari anticipate, per avere un parlamento che rifletta la situazione del dopoguerra.

Alternative libertaire: Come si posizionano i gruppi di sinistra e pacifisti rispetto a Pachinian?

Vicken Cheterian: Lo hanno sostenuto nei giorni in cui era un simbolo della lotta contro l’oligarchia. Dopo la sua ascesa al potere nel 2018, hanno preso le distanze per due motivi. Tanto per cominciare, il dossier Nagorno-Karabakh e Azerbaigian. Inizialmente, Pachinian ha tenuto un discorso pacifista e democratico, evocando la pace non solo tra i governi ma tra i popoli. Quindi, senza spiegazioni, ha preso una linea nazionalista dura, dicendo che non ci sarebbe stato alcun compromesso con Baku. Andando anche oltre, ha rimesso in discussione il quadro dei negoziati sul Karabakh, condotti per decenni sotto l’egida del gruppo di Minsk.[1] Questo voltafaccia è abbastanza difficile da spiegare. Sicuramente è stato fatto sotto la pressione dei circoli dominanti cacciati dalla rivolta del 2018, che hanno continuato ad accusare Pachinian di essere “antinazionale”, di voler ripristinare i territori occupati e di abbandonare il Nagorno-Karabakh. In ogni caso, non doveva adottare questa posizione nazionalista: molto popolare, com’era all’inizio del suo mandato non aveva bisogno di dimostrare di non essere “debole”. Eppure l’ha fatto.

La seconda ragione del disincanto dei gruppi di sinistra e pacifisti verso Pachinian è l’aborto delle riforme politiche ed economiche promesse. In assenza di un programma chiaro, il Primo Ministro si è accontentato di grandi discorsi populisti, fortemente venati di neoliberismo. Il minimo che possiamo dire è che ripetere queste antifone antiquate dopo tre decenni di riforme neoliberiste e capitalismo selvaggio non è stato, per un gruppo portato al potere dalla mobilitazione popolare, affatto convincente…

Alternative libertaire: Quando la crisi sarà finita, sarà possibile un processo di pace tra Armenia e Azerbaigian o la regione ricomincerà altri vent’anni di “tregua armata”?

Vicken Cheterian: Dopo le migliaia di vittime di questa guerra, l’opinione pubblica non è pronta per la pace. Ci vorrà molto tempo per sostituire la propaganda nazionalista con lucide argomentazioni antimilitariste. Uno di questi è che dopo queste due guerre Yerevan e Baku sono più deboli, la loro sovranità più limitata. L’Armenia è completamente dipendente dalla protezione militare russa, mentre l’Azerbaigian ha ora sul suo territorio soldati russi e turchi. Non sarebbe stato meglio negoziare piuttosto che combattere e provocare l’intervento diretto di eserciti stranieri?

Alternative libertaire: Cosa sostengono i pacifisti dei due paesi come soluzione politica?

Deve essere chiaro che i gruppi pacifisti, contro la guerra e antimilitaristi sono sempre stati deboli in Armenia, Azerbaigian e nel Caucaso in generale. Durante il lungo status quo tra la prima (1991-1994) e la seconda guerra del Karabakh (2020), l’opinione pubblica non si è mobilitata, da nessuna parte, per chiedere la fine di questo conflitto che implicava spese militari da capogiro. Gli stati post-sovietici impoveriti del Caucaso hanno sprecato il 5% del loro PIL per la difesa, quando questa ricchezza avrebbe potuto essere utilizzata per la salute, l’istruzione, le pensioni…

Prima dell’ultima guerra, i pacifisti – spesso individui, più raramente gruppi – hanno lottato per mantenere i contatti “nell’altro campo”. Le riunioni si tenevano, di solito, in Georgia. Sono stati realizzati progetti comuni: relazioni, film, ecc. – a volte beneficiando di finanziamenti esteri (europei, britannici, ecc.) che le autorità di Yerevan e Baku disapprovano. Se non venivano incarcerati, questa manciata di attivisti veniva prontamente etichettata come “traditori” dai politici e dai media.

Al presente, la sfida è attraversare ancora una volta la linea del fronte e riaprire il dibattito per rispondere a queste domande: qual è il passo successivo? Cosa fare dopo due guerre? C’è spazio per risolvere questo conflitto e normalizzare le relazioni?

Questa intervista è stata aggiornata il 27 febbraio 2021 dopo le minacce di colpo di stato del 25 febbraio. Una versione leggermente diversa è stata stampata su Alternative Libertaire dal marzo 2021.

Traduzione di Enrico Voccia

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Armenia, presidente e premier discutono possibilità di elezioni anticipate (Sputniknews 13.03.21)

Il presidente armeno Armen Sarkissian ed il premier Nikol Pashinyan hanno discusso oggi della possibilità di indire elezioni politiche anticipate sullo sfondo della grave crisi politica che attanaglia il Paese, ha riferito l’ufficio stampa del capo di Stato.

“Il presidente e il primo ministro hanno discusso della situazione attuale nel Paese e delle soluzioni alla crisi politica interna. L’organizzazione di elezioni anticipate è stata accennata come una possibile soluzione”, si afferma nel comunicato dell’ufficio

La crisi politica è scoppiata a Yerevan dopo che il vicecomandante dello Stato Maggiore armeno ha deriso il controverso commento di Pashinyan sul presunto flop dei missili Iskander consegnati in precedenza dalla Russia durante il conflitto nel Nagorno-Karabakh. Questo situazione ha provocato diversi congedi forzati tra i vertici delle forze armate.

Le forze armate hanno rilasciato una dichiarazione chiedendo le dimissioni dello stesso Pashinyan, il primo ministro ha considerato questo come un tentativo di colpo di stato e ha invitato i suoi sostenitori a scendere in piazza. La richiesta di Pashinyan di mandare in congedo Gasparyan è stata respinta dal presidente Sarkissian, tuttavia il premier ha detto che avrebbe presentato un’altra richiesta per chiedere l’allontanamento del generale dallo Stato Maggiore.

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Putin e leader di Armenia e Azerbaigian rilevano rispetto del cessate il fuoco nel Karabakh (Sputniknews 12.03.21)

Il presidente russo Vladimir Putin, il capo di Stato azero Ilham Aliyev ed il premier armeno Nikol Pashinyan hanno constatato che il cessate il fuoco nel Nagorno-Karabakh viene rispettato e la situazione nella regione resta stabile e tranquilla, ha riferito l’ufficio stampa del Cremlino.

Tra ieri e oggi il presidente russo Vladimir Putin ha avuto colloqui telefonici con Aliyev e Pashinyan, ha fatto sapere il Cremlino.

“È stato constatato con soddisfazione che il regime di cessate il fuoco viene rigorosamente rispettato e la situazione nella regione rimane generalmente stabile e tranquilla”, si legge nella nota.

Alla fine dello scorso settembre nel Nagorno-Karabakh si era riacceso il conflitto congelato nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, provocando vittime tra la popolazione civile. Le parti hanno intrapreso diversi tentativi per arrivare ad una tregua, alla fine l’accordo trilaterale tra Armenia e Azerbaigian con la mediazione della Russia raggiunto la notte del 10 novembre ha avuto successo. Le parti in conflitto, armeni e azeri, hanno messo fine alle operazioni militari, deciso di scambiarsi prigionieri ed i corpi delle vittime. L’Armenia ha inoltre ceduto a Baku i distretti di Kelbajar, Lachin e Aghdam della regione, cosa che ha fatto esplodere la rabbia dell’opposizione a Yerevan contro il premier Nikol Pashinyan. Inoltre l’accordo ha previsto il dislocamento delle forze di pace russe nella regione.

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L’acer in fundo di un’intervista diplomatica. Un Pontifex Maximus non può non essere consapevole della strumentalizzazione dei suoi discorsi e degli atti dei suoi ministri (Korazym 12.03.21)

Una delegazione interconfessionale della Repubblica dell’Azerbajgian, guidata dal Direttore esecutivo della Fondazione Heydar Aliyev, recentemente ha visitato lo Stato della Città del Vaticano, per la firma di un nuovo accordo di cooperazione tra l’Azerbajgian e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra del della Santa Sede sul restauro di antichi affreschi e dipinti cristiani del IV secolo nelle catacombe romane di Commodilla. Il sito islamico francese Musulmansenfrance.fr ha pubblicato il 9 marzo 2021 – il giorno dopo il ritorno di Papa Francesco dal suo Viaggio Apostolico in Iraq e questo è una “coincidenza”… – un’intervista a S.E. Rahman Mustafayev, Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian presso la Santa Sede, dal titolo La Santa Sede apprezza molto gli sforzi dell’Azerbajgian per rafforzare il dialogo interreligioso.

Leggendo questa prosa – anche solo diagonalmente, non serve la particolare vocazione alla lente – si comprende tante cose, oltre ogni ragionevole dubbio, circa il reale significato delle relazioni tra la Repubblica dell’Azerbajgian e la Santa Sede. Si è compreso, già con le informazioni che stiamo fornendo da mesi, e adesso anche visto la diplomazia con i proventi del gas azero che sono stati convogliati verso il Vaticano. Proponiamo in una nostra traduzione italiana dal francese dei passaggi più significativi dell’intervista, condotta secondo il classico copione propagandistico azero-turco. Il tutto servito nel tipico stile del diplomatico di turno, che deve vendere la merce (avariata) del suo Paese e soprattutto mettere in mostra la sua personale attività, così che il suo Ministro degli Esteri lo tenga presente per future promozioni.

Lunedì 28 settembre 2020 eravamo tra i primissimi (e in Italia, poco ne hanno parlato) a scrivere dell’aggressione – iniziata la mattina di domenica 27 settembre – dell’Azerbaigian di cultura turca e islamico, armato dalla Turchia islamica con il sostegno dei mercenari tagliagole ammazzacristiani jihadisti islamici, contro la Repubblica di Artsakh, a stragrande maggioranza cristiano armeno [Presidente Arayik Harutyunyan: non è l’Azerbaigian, è la Turchia che combatte contro l’Artsakh. Circa 4.000 jihadisti della Syria combattendo con i turchi dalla parte azera – 28 settembre 2020]. La volontà della Turchia espansionista di Erdogan (il 2 ottobre 2020 ha dichiarato che Gerusalemme appartiene alla Turchia…) è di finire il genocidio degli Armeni consumato dall’Impero islamico Ottomano nel 1915-16, allora una situazione nuova e scioccante per l’opinione pubblica mondiale (almeno quella parte che ne sapeva qualcosa allora), che oggi rimane in silenzio come fu per il genocidio degli Ebrei consumato dal Terzo Reich (“non lo sapevamo”). Solo per fare – al compimento dell’opera di sterminio nazista – giornate alla memoria (e per gli Armeni neanche questo).

Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan all’inizio di dicembre 2020 era andato a Baku per una visita di due giorni in Azerbajgian, dove il 10 dicembre ha partecipato alla “Parata della vittoria”, organizzata dalle autorità azere per celebrare le conquiste territoriali al termine dei 44 giorni di aggressione contro la Repubblica di Artsakh, sancite dall’accordo di cessato il fuoco imposto dalla Russia. Alla “Parata della vittoria” a Baku, Aliyev ha proclamato che l’area della capitale della Repubblica di Armenia Yerevan, il Zangezur (una striscia di terra montuosa che separa la provincia meridionale armena di Syunik e la Repubblica Autonoma di Nakhichevan in Azerbajgian) e la regione del lago Sevan (il più grande lago dell’Armenia e uno tra i più grandi laghi d’alta quota al mondo, nella provincia di Gegharkunik, ad est del Paese) sono terre storiche azere. La guerra continua, l’odio cresce, il dittatore azero-turco alza la posta. Per tutti gli Armeni si profila un ulteriore futuro di incertezza.

L’analisi del Difensore dei diritti umani dell’Armenia ha confermato, che le dichiarazioni e le espressioni di odio e ostilità incluse nei discorsi dei Presidenti azeri e turchi erano le stesse usate anche dai soldati azeri-turchi durante la recente guerra di aggressione dell’Azerbajgian mentre torturavano, uccidevano o trattavano in modo degradante i prigionieri armeni di guerra e civili prigionieri con eccessivo cinismo e umiliazione. “Questi sono stati i discorsi che hanno costituito negli anni il sistema di predicazione istituzionale in Azerbaigian, volto a diffondere e infliggere odio e ostilità contro gli Armeni in base alla loro etnia, avallando l’impunità esplicita e sostenendo tutto ciò al più alto livello ufficiale”, ha detto il Difensore dei diritti umani dell’Armenia, Arman Tatoyan.

“Nel periodo di settembre-novembre del 2020 i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi dalle forze militari azere sono stati oltre ogni immaginazione umana per il volume e il livello della loro crudeltà: queste sono state azioni che richiedono ulteriori ricerche scientifiche per capire cosa può essere l’estremo della crudeltà di cui un essere umano è capace “, ha affermato il Difensore dei diritti umani dell’Armenia.

Il Presidente turco nel suo discorso pieno di odio e minacce contro l’intero popolo armeno, ha ricordato che oggi è il giorno della glorificazione delle anime di Ahmed Jevad Pasha, Nuri Pasha, Enver Pasha e dei membri dell’Esercito islamico del Caucaso. “È un dato di fatto che queste persone sono i Giovani Turchi, che hanno organizzato e commesso il genocidio armeno nell’Impero ottomano, accompagnandolo con uccisioni, infliggendo danni alla salute, torture e stupri”, ha affermato Tatoyan. “Di questi, Enver Pasha in particolare, durante gli anni del genocidio armeno, fu tra gli organizzatori delle atrocità, nella sua posizione di Ministro militare dell’Impero Ottomano (1913-1918) e Jevad Bey, organizzò e commise le azioni genocide durante la Prima guerra mondiale, nella sua posizione di Comandante della città di Costantinopoli (ora Istanbul) e membro dell’organizzazione speciale statale turca “Teskilat Mahsume”, basata sull’ideologia del pan-turkismo. Inoltre, queste persone, in particolare Nuri Pasha, che era il fratello di Enver Pasha, come parte dell’Esercito islamico del Caucaso, hanno preso parte alle atrocità di massa del settembre 1918 commesse contro gli Armeni a Baku. Queste atrocità sono state anche accompagnate da torture e stupri”, egli aggiunto. “La glorificazione di queste persone dal Presidente turco e farlo con un discorso pubblico pronunciato durante una parata militare mostra espliciti intenti genocidi. Lo scopo di questo discorso è senza dubbio quello di instaurare più odio “, ha sottolineato il Difensore dei diritti umani dell’Armenia.

“Tutto questo è rafforzato da dichiarazioni schiettamente false, che incolpano gli Armeni per la distruzione del patrimonio o degli oggetti religiosi azerbajgiani o turchi”, ha aggiunto. “Questi discorsi sono minacce dirette rivolte alla vita e alla salute dell’intero popolo armeno, la popolazione civile armena, un terrorismo esplicito, che sono sotto il divieto assoluto stabilito dal diritto internazionale. I suddetti discorsi affermano anche la politica genocida dell’Azerbajgian applicata attraverso metodi di pulizia etnica e terrorismo durante questa guerra”, ha detto Tatoyan.

Il Difensore dei diritti umani dell’Armenia ha invitato la comunità internazionale a reagire e ad adottare misure preventive sostanziali riguardo a quelle questioni, che violano i principi fondamentali del diritto internazionale e minano l’intero sistema internazionale dei diritti umani e della protezione umanitaria.

Detto questo – e tenendolo presente mentre scorrono le affermazioni propagandistiche dell’Ambasciatore Mustafayev – ritorniamo all’intervista pubblicato da Musulmansenfrance.fr il 9 marzo 2021, in riferimento ad una recente visita nello Stato della Città del Vaticano di una delegazione interconfessionale della Repubblica dell’Azerbajgian, guidata dal Direttore esecutivo della Fondazione Heydar Aliyev.

La prima parte dell’intervista è un elenco di collaborazioni sul piano artistico, politico e del dialogo interconfessionale (accennando anche a non meglio specificati collaborazioni in ambiente scientifico ed educativo), intramezzata con una rievocazione delle ripetute visite ufficiali in Vaticano del dittatore azero e della sua consorte vicepresidente. La seconda parte ripete la consueta posizione azera, con il diavolo in fondo dell’intervista.

Il Cardinale Gianfranco Ravasi firma da Presidente il nuovo accordo di cooperazione tra l’Azerbajgian e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra del della Santa Sede sul restauro di antichi affreschi e dipinti cristiani del IV secolo nelle catacombe romane di Commodilla.

Iniziamo con la prima parte. Per quanto riguarda gli obiettivi, l’Ambasciatore Mustafayev afferma che “questa visita, mirava a firmare un nuovo accordo di cooperazione tra l’Azerbajgian e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra della Santa Sede sul restauro di antichi affreschi e dipinti cristiani del IV secolo nelle catacombe romane di Commodilla. Inoltre, uno degli obiettivi della visita è stato quello di vedere lo stato di avanzamento dei lavori relativi all’accordo concluso a febbraio 2019 tra la Fondazione Heydar Aliyev e la Fabbrica de San Pietro sui lavori di restauro del Santuario di Papa San Leone Magno (440 -461) nella Basilica di San Pietro”. L’Ambasciatore Mustafayev ricorda che “a seguito dei lavori di restauro eseguiti secondo la “Convenzione sul Restauro dei Sarcofagi delle Catacombe di San Sebastian” firmata il 23 febbraio 2016 tra la Fondazione Heydar Aliyev e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, una cerimonia di apertura delle catacombe restaurate si è svolta il 26 settembre 2018 nel complesso della Chiesa-Museo di San Sebastian con la partecipazione del Primo Vicepresidente Aliyeva. (…) Inoltre, il 28 febbraio 2019 è stata firmata la “Convenzione per il Restauro del Mausoleo nelle Catacombe di Santa Commodilla” tra la Fondazione Heydar Aliyev e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra”. (…) Ma ai miei occhi uno dei progetti più importanti con il Vaticano è l’“Accordo tra la Fondazione Heydar Aliyev e la Fabbrica di San Pietro in Vaticano sui lavori di restauro dell’acropoli sotto la Basilica di San Pietro e il Santuario di San Leone Magno”, firmato il 28 febbraio 2019. (…) Attualmente i lavori di restauro della basilica e dell’acropoli stanno volgendo al termine e mi auguro che nei prossimi mesi avvenga l’inaugurazione ufficiale dell’altare e dell’acropoli restaurati, che diventerà senza dubbio un evento importante nei rapporti tra i nostri Stati”.

Affreschi di Commidilla.

Lo scopo di tutta questa premura per il patrimonio architettonico della Santa Sede è stato messo subito in chiaro dalle prime battute dell’intervista, con cui l’Ambasciatore Mustafayev ci tiene a “sottolineare che i rapporti con il Vaticano occupano un posto speciale nelle priorità di politica estera” del suo Paese e specifica che “lo sviluppo del dialogo e della cooperazione” con il Vaticano è “di particolare importanza” per gli azeri, “non solo a livello bilaterale ma anche internazionale”. L’Ambasciatore Mustafayev ha voluto ricordare che la cooperazione dell’Azerbajgian con il Vaticano nel campo della conservazione del suo patrimonio culturale e religioso si sta attivamente sviluppando dal 2011 e che “i progetti realizzati in Vaticano con il sostegno della Fondazione Heydar Aliyev contribuiscono a rafforzare ulteriormente i legami tra Azerbajgian e Vaticano, e costituiscono un esempio di dialogo e cooperazione tra Islam e cristianesimo, tra stati musulmani e cattolici”. Poi, L’Ambasciatore Mustafayev “segnala in particolare che la Fondazione Heydar Aliyev ha dato un importante contributo allo sviluppo delle relazioni con la Santa Sede. Il Presidente della Fondazione Heydar Aliyev, il Primo Vicepresidente della Repubblica dell’Azerbajgian Mehriban Aliyeva ha visitato la Santa Sede in sei occasioni (novembre 2011, giugno 2012, giugno 2014, febbraio 2016, settembre 2018 e febbraio 2020) in questi anni”.

L’area di cooperazione dei progetti per la conservazione del patrimonio culturale e religioso del Vaticano realizzati da parte azera “è la più dinamica tra le parti”, sottolinea l’Ambasciatore Mustafayev, “e un grande merito va alla Fondazione Heydar Aliyev e più personalmente al Primo Vicepresidente Mehriban Aliyeva”. Il riferimento ai lavori di restauro dell’acropoli sotto la Basilica di San Pietro e il Santuario di San Leone Magno l’Ambasciatore Mustafayev ci tiene a precisare che “l’importanza di questo progetto va ben oltre il semplice lavoro di restauro. Per la prima volta, un paese musulmano ha avuto accesso per intervenire nel ‘sancta sanctorum’ della Chiesa Cattolica Romana – la Basilica di San Pietro. È un segno di rispetto e riconoscimento dell’importante ruolo dell’Azerbajgian, della Fondazione Heydar Aliyev e personalmente del Primo Vicepresidente Aliyeva nella conservazione del patrimonio culturale e religioso mondiale, compreso il patrimonio della cultura cristiana e la Chiesa Cattolica Romana”.

La collaborazione dell’Azerbajgian con la Santa sede tocca anche altri ambiti, oltre alla realizzazione di progetti sulla conservazione del patrimonio culturale e delle aree della scienza e dell’educazione. L’Ambasciatore Mustafayev rileva che “certamente, il dialogo politico tra i capi dei nostri Stati è di particolare importanza nella nostra cooperazione. In questo contesto, vorrei sottolineare le visite dei Presidenti Heydar Aliyev nel settembre 1997 e Ilham Aliyev nel febbraio 2005, marzo 2015 e febbraio 2020 in Vaticano, nonché le visite dei papi Giovanni Paolo II nel maggio 2002 e Francesco a ottobre 2016 in Azerbajgian, che ha dato un importante contributo allo sviluppo delle relazioni tra i due Paesi”.

Il popolo armeno cristiano è stato oggetto di un genocidio all’inizio del secolo scorso. A tutt’oggi, la Repubblica caucasica, già appartenente all’Unione Sovietica prima della sua dissoluzione all’inizio degli anni ’90, è in conflitto con il vicino Azerbajgian, anche in virtù dell’annosa vicenda relativa al territorio conteso della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, culminato nell’aggressione militare dell’Azerbajgian, iniziato lo scorso settembre e durato “appena” 44 giorni solo grazie alla mediazione della Russia. Abbiamo riferito passo dopo passo di questa aggressione, con la violazione dei Diritti Umani subita dai civili e dovuta alle numerose violenze perpetrate dall’Azerbajgian tra settembre e novembre scorsi nell’Artsakh/Nagorno Karabakh, con un contorno drammatico fatto di macerie, famiglie distrutte e feriti gravi, difficilmente riparabili con l’apparente tregua ora vigente, imposta dalla Russia. Tutto questo non va dimenticato, mentre l’Ambasciatore parla di “dialogo politico” e di “rafforzare l’atmosfera di comprensione, rispetto e dialogo reciproci tra culture”.

Quale rispetto ha l’Azerbajgian – così premuroso per il patrimonio architettonico storico del Vaticano – per il patrimonio culturale e cristiano armeno nell’Artsakh/Nagorno-Karabakh, abbiamo esemplificato in diversi articoli in questi mesi, documentando numerosi casi di vandalismo e sistematica distruzione da parte dell’Azerbajgian del patrimonio armeno cristiano nei territori storici armeni, occupati con la forza degli armi. L’ultimo in ordine di tempo: Repubblica di Artsakh. A rischio i monumenti armeni per mano azera. Il Parlamento europeo condanna aggressione azera e ingerenza turca – 26 gennaio 2021.

Poi, arriviamo alla seconda parte dell’intervista. In cauda venenum, come nel caso dello scorpione, che in sé sarebbe poco pericoloso, ma che ha per l’appunto una coda altamente velenosa. In questo modo, l’Ambasciatore Mustafayev ha iniziato suo discorso in maniera melliflua, piazzando alla fine la stoccata finale.

L’intervistatore fa da apripista, chiedendo: “Quindi non è un caso che la Santa Sede abbia apprezzato così tanto gli sforzi della Fondazione Heydar Aliyev e personalmente del Primo Vicepresidente Aliyeva, per la tutela del patrimonio culturale del Vaticano e della Chiesa Cattolica Romana…”, a cui l’Ambasciatore Mustafayev risponde: “Sicuramente, nel quadro della visita ufficiale in Vaticano del Presidente della Repubblica dell’Azerbajgian Ilham Aliyev e di sua moglie Mehriban Aliyeva nel febbraio 2020, il Primo Vicepresidente dell’Azerbajgian, Mehriban Aliyeva, è stato decorato con la Gran- Croce – il grado più alto dell’Ordine di Pio IX. Istituito nel 1847, l’Ordine di Pio IX è la più alta onorificenza della Santa Sede che può essere ricevuta da un laico. Questo alto premio è un riconoscimento dell’eccezionale contributo personale del Primo Vicepresidente Mehriban Aliyeva allo sviluppo delle relazioni tra l’Azerbajgian e la Santa Sede, del ruolo attivo dell’Azerbajgian nella conservazione dei patrimoni culturali e della civiltà cristiana, rafforzando il dialogo tra culture. Come il Vaticano ha più volte notato, l’Azerbajgian, attraverso le sue azioni in quest’area, sta dando l’esempio che altri paesi possono seguire. Questa è una valutazione molto alta della politica interna ed estera del nostro paese e dei suoi governanti, specialmente nelle condizioni moderne, quando l’intolleranza religiosa ed etnica e le politiche aggressive diventano la norma nella vita nazionale e internazionale e quando il nazionalismo radicale e lo sciovinismo stanno guidando il liberalismo l’ideologia delle élite al potere in molti paesi del mondo”.

E togliendo ogni dubbio, l’Ambasciatore Mustafayev aggiunge: “Durante l’incontro con il Presidente dell’Azerbajgian, il Segretario di Stato Pietro Parolin ha osservato che ci sono ‘relazioni speciali tra l’Azerbajgian e il Vaticano, e la Santa Sede apprezza molto gli sforzi dell’Azerbaigian per rafforzare l’atmosfera di comprensione, rispetto e dialogo reciproci tra culture’. E il compito della nostra diplomazia è far sì che queste ‘relazioni privilegiate’ si sviluppino ulteriormente, ricche di nuovi contenuti e progetti”.

L’Ambasciatore per la stoccata finale parte da lontano. Inizia spiegando il motivo perché la delegazione azera era composta da rappresentanti di diverse comunità religiose in Azerbajgian, delle comunità cattolica, musulmana, ortodossa e delle due comunità ebraiche, gli ebrei di montagna e gli ebrei ashkenaziti “che hanno visitato per la prima volta il Vaticano in una tale composizione”: “Volevamo che tutti avessero un’idea dell’evoluzione della nostra cooperazione con il Vaticano, con lo Stato teocratico cattolico, e informassero i membri della Curia romana sulla situazione delle comunità religiose nel nostro Paese. Penso che siamo riusciti in questo compito: la visita è stata utile per entrambe le parti. I nostri amici vaticani hanno appreso in prima persona che la tolleranza, la pacifica convivenza e l’interazione tra le diverse comunità religiose non è una bella immagine dalla copertina della rivista, ma la realtà dell’Azerbajgian moderno”.

Poi, l’Ambasciatore Mustafayev prosegue il suo monologo: “Il Vaticano ha ripetutamente affermato di apprezzare molto la tolleranza religiosa ed etnica in Azerbajgian. In particolare, Papa Giovanni Paolo II durante la sua visita a Baku nel maggio 2002 ha detto: «Sono venuto in questo antichissimo Paese, portando nel cuore l’ammirazione per la ricchezza e la varietà delle sue culture. Ricco di diversità e di caratteristiche caucasiche, questo paese ha assorbito i tesori di molte culture, in particolare persiana e altai-turanica. Su questa terra c’erano e fino ad oggi ci sono grandi religioni: lo zoroastrismo coesisteva con il cristianesimo della Chiesa albanese, che ha svolto un ruolo così importante nell’antichità. L’Islam ha successivamente svolto un ruolo sempre più crescente e oggi è la religione della stragrande maggioranza del popolo azero. Da tempo immemorabile, il giudaismo, che gode ancora di grande stima, ha dato il suo contributo unico. Anche dopo che il lustro iniziale della chiesa si è indebolito, i cristiani hanno continuato a vivere fianco a fianco con i credenti di altre religioni. Ciò è stato possibile grazie a uno spirito di tolleranza e comprensione reciproca di cui questo Paese non può che essere orgoglioso».

Durante la Visita Apostolica di Papa Francesco a Baku il 2 ottobre 2016, è stato confermato l’alto apprezzamento della Santa Sede per la politica di tolleranza e benevolenza religiosa condotta dal nostro Paese, il rispetto per tutte le religioni e per i loro aderenti che lavorano in Azerbajgian. A questo proposito, vorrei ricordare le meravigliose parole del Pontefice: «Mi auguro vivamente che l’Azerbajgian prosegua sulla strada della collaborazione tra diverse culture e confessioni religiose. Possa l’armonia e la pacifica convivenza nutrire sempre la vita sociale e civile del Paese, nelle sue molteplici espressioni, assicurando a tutti la possibilità di dare il proprio contributo al bene comune». Mi auguro, rimarca Papa Francesco, «che grazie a Dio e grazie alla buona volontà delle parti, il Caucaso possa essere il luogo dove, attraverso il dialogo e la negoziazione, le controversie troveranno la loro soluzione e il loro superamento, affinché questa regione sia una “Porta tra Oriente e Occidente”, secondo la bella immagine usata da San Giovanni Paolo II».

Le basi di una così proficua collaborazione tra la Repubblica dell’Azerbajgian e la Santa Sede, l’Ambasciatore Mustafayev trova nel “principio più importante della politica interna ed estera dell’Azerbajgian, il sostegno al pluralismo religioso, etnico e culturale”. Poi, prosegue con l’operazione di strumentalizzazione già adoperato con i discorsi di San Giovanni Paolo II e Francesco: “Nella politica estera di Papa Francesco, che attribuisce grande importanza allo sviluppo del dialogo con il mondo musulmano, anche questo principio occupa un posto preponderante. Questa convergenza di due stati su una questione così importante fornisce una solida base per la cooperazione bilaterale. Vi invito a prestare attenzione agli accenti che il Sommo Pontefice ha espresso nei suoi discorsi durante la sua recente e storica visita in Iraq. Ha ripetutamente sottolineato che il pluralismo religioso, etnico e culturale contribuisce al benessere dei paesi e all’armonia della società. E viceversa, l’assenza di questo pluralismo genera terrorismo, violenza e odio. Penso che questa idea sia giusta non solo per il Medio Oriente, ma anche per la nostra regione del Caucaso meridionale. Infatti, il terrore contro i cristiani in Iraq da parte del cosiddetto ‘Stato islamico’, Daesh e la deportazione forzata di musulmani dall’Armenia nel 1987, poi il terrore contro gli azeri e altre minoranze etniche nei territori occupati dalla regione del Karabakh dell’Azerbajgian dall’Armenia nel 1991-1993 – sono manifestazioni della stessa ‘malattia’ – intolleranza religiosa e nazionale, impreparazione al dialogo interculturale e assenza di pluralismo religioso ed etnico”.

Quindi, gli Azeri musulmani strumentalizzano i discorsi di Papa Francesco in Iraq per accusare gli Armeni cristiani della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh di terrorismo e accreditare il Presidente-dittatore dell’Azerbajgian Ilham Alyev e la sua invasione militare con il sostegno della Turchia e dei mercenari jahadisti islamici siriani come benedetta dalla Santa Sede e in particolare dal Segretario di Stato, il Cardinale Pietro Parolin (costui di cui Papa Francesco disse sul Volo Papale Tallinn-Roma il 25 settembre 2018, parlando del sciagurato accordo segreto della Santa Sede con il regime dittatoriale comunista della Cina continentale firmato il 22 settembre 2018, “che è un uomo molto devoto, ma ha una speciale devozione alla lente: tutti i documenti li studia: punto, virgola, accenni. Questo mi dà una sicurezza molto grande”; il medesimo che disse: “Ma che persecuzioni! Bisogna usare le parole correttamente”, in risposto ad una domanda di Avvenire in merito all’accordo sulla nomina dei vescovi tra Cina e Santa Sede, rinnovato il 22 ottobre 2020 per altri due anni, negando che nella Cina comunista la Chiesa Cattolica Romana sia perseguitata con parole che purtroppo non sono suffragate dai fatti, andando oltre la consueta prudenza nelle dichiarazioni imposta dalla diplomazia, riuscendo ad essere offensive verso le sofferenze dei fedeli cinesi; degno erede del Cardinale Agostino Casaroli e la sua infausta “Ostpolitik”).

Tutto questo toglie qualsiasi dubbio sulla posizione della Santa Sede nella orribile vicenda dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. Non mi risulta che oltre alle poche parole generiche di Papa Francesco – durante l’Angelus seguito all’incontro con Karekin II, il Patriarca Supremo e Catholicos di tutti gli Armeni della Chiesa apostolica armena del 27 settembre 2020, Papa Francesco ha parlato della situazione delicata del Caucaso chiedendo il ritorno alla diplomazia ed un nuovo cessate il fuoco, seppur senza riferirsi esplicitamente alla situazione del Nagorno-Karabakh – la Santa Sede abbia preso sull’aggressione azera-turca-jihadista contro la Repubblica di Artsakh una posizione a favore degli armeni cristiani.

Evitare di prendere una posizione, è prendere già posizione. E questo sfonda le porte, spalanca le finestre e abbassa i ponti levatoi alla strumentalizzazione [*]. Lo dimostra in modo chiaro e limpido questa intervista all’Ambasciatore dell’Azerbajgian presso la Santa Sede Rahman Mustafayev. E visto la prassi della Santa Sede, è inutile attendere una protesta formale per le gravissime affermazioni e falsità contenute in questa intervista. Ormai i giochi sono fatti e gli Azeri-Turchi liberi a completare il genocidio armeno nel Nagorno-Karabakh.

Nel frattempo, il titolo dell’intervista è tragicomico (La Santa Sede apprezza molto gli sforzi dell’Azerbajgian per rafforzare il dialogo interreligioso), pensando al modo in cui l’esercito azero conduce il “dialogo interreligioso” con i cristiani armeni nelle loro terre che hanno occupato.

[*] Strumentalizzareverbo transitivo derivato di strumentale: servirsi di qualcuno o di qualcosa, o anche di un evento, di un fatto, di una situazione, esclusivamente come mezzo per conseguire un proprio particolare fine, non dichiarato ed estraneo al carattere intrinseco di ciò di cui ci si serve.

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