Comabbio racconta l’Armenia: viaggio online con incontri nel Paese (Travelquotidiano 24.02.21)

Si comincia venerdì 5 marzo con “Armenia l’altopiano delle sorprese”, un’introduzione all’Armenia, venerdì 19 marzo sarà la volta di  “Ballata Caucasica”, mentre il 26 marzo lo chef Sedrak Mamulyan e Shushan Martirosyan ci parleranno di cucina tradizionale armena in collegamento dall’Armenia. Sabato 27 marzo Siobhan Nash-Marshall, professore di filosofia, affronterà i temi del genocidio armeno e del negazionismo turco. Venerdì 9 aprile l’architetto Paolo Arà Zarian racconterà il suo intervento per il restauro dei dipinti murali del monastero di Dadivank in Karabakh. Sarà dedicato a oltre due millenni di storia armena l’intervento del 16 aprile di Aldo Ferrari, professore di storia, lingua e letteratura armena all’Università Ca’ Foscari di Venezia, autore di numerosi saggi sul tema. Parlerà dell’attuale situazione politica e sociale in Armenia, anche alla luce delle conseguenze del recente conflitto per il controllo del Karabakh, il giornalista Simone Zoppellaro venerdì 23 aprile. Sabato 24 aprile – anniversario del genocidio armeno – il pianista e musicologo Alberto Nones ci condurrà in un piccolo viaggio musicale in Armenia con esecuzione di alcuni brani armeni interpretati dagli allievi del Conservatorio di Gallarate. Sarà invece un viaggio virtuale attraverso la Repubblica d’Armenia l’incontro del 30 aprile con Nadia Pasqual, autrice della prima guida di viaggio italiana interamente dedicata al Paese, e Shushan Martirosyan, che faranno conoscere i luoghi più interessanti da visitare sotto il profilo storico, culturale e naturalistico. Venerdì 7 maggio appuntamento con due insigni rappresentanti della diaspora armena in Italia, Pietro Kuciukian, Console onorario della Repubblica d’Armenia in Italia, e il prof. Baykar Sivasliyan, armenista e presidente dell’Unione Armeni d’Italia, che parleranno degli armeni, popolo di cerniera tra l’Occidente e l’Oriente.

La rassegna proseguirà poi con incontri dal vivo, alcuni dei quali già programmati, tra i quali segnaliamo quello di sabato 15 maggio con Mons. Levon Arciv. Zekiyan, che celebrerà la Messa Vespertina e terrà una conferenza. Sempre il 15 maggio si svolgerà un laboratorio sull’alfabeto armeno e verranno inaugurate le mostre dei fotografi Emanuele Cosmo e Marco Ansaloni. Previsti per domenica 16 maggio i concerti all’alba e al tramonto del trio Piovan-Fanton e un laboratorio sui khatchkar. Saranno, invece, programmati a breve gli interventi di Alberto Elli, studioso di lingue e religioni, autore di un volume dedicato ad arte, storia e itinerari dell’Armenia, lo scultore Mikayel Ohanjanyan, e l’architetto Gayanè Casnati. Già confermato invece per sabato 22 maggio lo spettacolo “Canta, gru, canta” reading-mise en espace della Compagnia CamparIPadoaN con la regia di Giulio Campari, interpretato dagli attori Natascha Padoan e Marco Balbi.

L’iniziativa “Comabbio racconta l’Armenia” nasce dal desiderio di Giusy Tunici, abitante del borgo sull’omonimo lago, di condividere le esperienze di due viaggi in Armenia. La rassegna si inserisce nell’ambito del progetto “Il paese racconta un Paese” del Comune di Comabbioe intende promuovere la conoscenza di un luogo attraverso la sua storia, la cultura, le tradizioni, le caratteristiche del territorio e della popolazione. Un progetto che nasce dalla consapevolezza che il livello di maturità di una società si misura anche dalla sua capacità di rapportarsi a ciò che è diverso per origini, cultura e religione. Ente capofila è il Comune di Comabbio, Assessorato alla Cultura, con la collaborazione della Biblioteca di Comabbio, la Parrocchia di Comabbio, il Borgo di Lucio Fontana, gli Amici della Santa Collina e la Compagnia CamparIPadoaN. La rassegna ha ottenuto il patrocinio dell’Unione Armeni d’Italia e Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena.

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L’Armenia vuole più militari russi nel suo territorio (Insideover.com 23.02.21)

La rivoluzione di velluto di Nikol Pashinyan è terminata ufficialmente la sera dello scorso 9 novembre, data in cui è stato firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha suggellato la vittoria dell’Azerbaigian nella seconda guerra del Nagorno Karabakh.

Il primo ministro armeno è stato coartato ad accettare il nuovo status quo e a premunirsi per evitare una fine prematura del mandato, in quanto circondato da una piazza in subbuglioosteggiato da un’opposizione anelante alla sua sostituzione e testimone della volubilità di alleati come la Francia, vedendo nel rinsaldamento dei rapporti con il Cremlino l’unica soluzione in grado di tutelare simultaneamente la sua persona e la sicurezza nazionale dell’Armenia.

La base di Gyumri

La città di Gyumri, localizzata in prossimità della frontiera con la Turchia, è sede di una base militare russa che opera ininterrottamente sin dal 1941. La struttura, che ospita circa tremila soldati, fu costruita per volere di Stalin con l’obiettivo di contrastare un’eventuale invasione della Russia dal Caucaso meridionale e ha continuato le attività anche nel dopo-guerra fredda.

Pashinyan, pur avendo lottato contro l’ingresso di Erevan nell’Unione Economica Eurasiatica e lavorato per rafforzare i rapporti con Unione EuropeaStati Uniti e Alleanza Atlantica, non ha mai messo in discussione l’esistenza e l’utilità della base, che, nonostante i dissapori con il Cremlino ed alcuni incidenti che hanno coinvolto i soldati ivi stanziati, rafforza in maniera significativa l’ossatura della sicurezza nazionale armena.

L’obiettivo di Pashinyan: potenziarla

La seconda guerra del Nagorno Karabakh ha riaperto il dibattito sull’attualità della struttura, il cui nome ufficiale è 102sima base militare russa (102-я российская военная база), e sul suo potenziamento a scopo di deterrenza. Secondo quanto comunicato nella giornata del 22 febbraio da Vagharshak Harutiunyan, titolare del Ministero della Difesa armeno, “la questione dell’ampliamento e del rafforzamento della base militare russa sul territorio della repubblica armena è all’ordine del giorno”.

Harutiunyan, che ha parlato dell’argomento nel corso di un’intervista per l’agenzia di stampa russa Sputnik, ha dicharato che “le autorità di Erevan sono sempre state interessate a questo [ndr. l’ampliamento] per il semplice motivo che la base è inclusa a pieno titolo nel Gruppo delle forze unite delle forze armate armene e russe”. Inoltre, ha spiegato ancora il ministro, “espandere le capacità della base comporterebbe automaticamente l’aumento del potenziale del gruppo congiunto operante su base bilaterale nel Caucaso”.

In sintesi, l’esecutivo armeno è dell’idea che il potenziamento della struttura potrebbe beneficiare sia Erevan che Mosca, garantendo a quest’ultima una maggiore proiezione di forze nella regione. Il Cremlino, che per ora non si è espresso in merito, è stato informato della volontà del governo Pashinyan e, secondo Harutiunyan, avrebbe avuto una reazione positiva.

Non solo Gyumri

Nel corso dell’intervista, Harutiunyan ha parlato dei rapporti con la Russia e delle trattative in corso per espandere la collaborazione bilaterale nella sfera militare, dalla costituzione di associazioni temporanee per la produzione di armi alla “creazione e all’ampliamento della rete di centri certificati regionali per la manutenzione e l’ammodernamento di armamenti e attrezzature militari”.

I piani per la base di Gyumri e le offerte allettanti circa l’allargamento della cooperazione bilaterale, di cui si auspica un ritorno agli storici livelli di alta qualità, presentano un comune denominatore: il riposizionamento di Erevan in direzione di Mosca; un’inversione di tendenza che si è resa necessaria e d’obbligo a causa della sconfitta nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, della conseguente consacrazione di Baku quale prima potenza del Caucaso meridionale e dell’acquisita consapevolezza sulla volubilità dell’Occidente.

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Il Rotary Canosa per l’Armenia nel mese della pace (Canosanews24 22.02.21)

Il Rotary Club di Canosa ha inteso onorare il mese di febbraio, dedicato alla Pace e alla risoluzione dei conflitti, con una videoconferenza sulla “Questione Armena” che avrà luogo il prossimo mercoledì 24, a partire dalle ore 18:30.

Il popolo armeno, infatti, è stato oggetto di un genocidio all’inizio del secolo scorso e, a tutt’oggi, la Repubblica caucasica, già appartenente all’Unione Sovietica prima della sua dissoluzione all’inizio degli anni ’90, è in conflitto con il vicino Azerbaigian anche in virtù dell’annosa vicenda relativa al territorio del Nagorno-Karabakh.

Di questo ed altri temi parleranno più approfonditamente Sua Eccellenza Tsovinar HambardzumyanAmbasciatrice dell’Armenia in Italia, il dott. Carlo Coppola, presidente del Centro Studi “Hrand Nazariantz” di Bari, il dott. Simone Zoppellaro, giornalista freelance che ha trascorso diversi anni nella suddetta area, e il dott. Baykar Sivazliyan, Presidente dell’Unione Armeni in Italia.

Ad affiancare nell’organizzazione di questo evento il Club presieduto da Marco Tullio Milanese, che quest’anno festeggia il 45° anniversario dalla sua fondazione, è l’Inner Wheel di Canosa rappresentato da Sabrina Tesoro, a dimostrazione della fondamentale e costante sinergia tra i “capofamiglia” rotariani e gli altri partner comprendenti, oltre alla forza femminile delle “innerine”, i giovani del Rotaract e dell’Interact.

Proprio per questo, le importanti presenze saranno ulteriormente arricchite, per l’appunto, dagli interventi della Governatrice Inner Wheel del Distretto 210, Mariangela Galante Pace, e del Governatore del Distretto Rotary 2120, Giuseppe Seracca Guerrieri, a conclusione dell’incontro.

Si chiude così, ossia con un’iniziativa che si rivolge inevitabilmente ad una platea multiculturale, un mese in cui il Club si è reso protagonista nella Comunità con la “Settimana del donatore” (tramite la raccolta straordinaria di sangue e correlata webinar informativa, tra il 15 e il 22) e con il Rotary Day (il 23, giorno in cui ricorre il 116° “compleanno” dell’associazione a livello internazionale onorato con un palazzo Iliceto illuminato di blu).

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Artsakh – Ancora riconoscimenti della Repubblica Indipendente e condanne all’aggressione azera (Assadakah 23.02.21)

Letizia Leonardi – Il 20 febbraio di trentatré anni fa il Soviet del Nagorno Karabakh aveva sancito l’unificazione dell’Artsakh con la Repubblica d’Armenia; oggi il popolo della piccola enclave deve fare i conti con la forzata convivenza con il nemico azero che ha conquistato parte dei territori storici. In occasione di questa ricorrenza il ministero degli Affari esteri della Repubblica dell’Artsakh ha dichiarato: “La lotta per la liberazione nazionale dell’Artsakh è una delle pagine più importanti della storia del popolo armeno. Il Movimento Karabakh è stato una lotta per la giustizia storica, per la conservazione dell’identità e della dignità nazionale, per i diritti civili e i valori universali, per vivere liberamente nella patria storica. L’Azerbaijan ha cercato di intimidire il nostro popolo con la violenza e costringerlo a rinunciare all’esercizio dei suoi diritti. Le autorità azere hanno organizzato e condotto genocidi, massacri e deportazioni di massa contro la popolazione armena a Sumgait, Baku e in altre città dell’Azerbaijan popolate da armeni, nonché negli insediamenti del nord dell’Artsakh. Migliaia di persone sono state uccise e ferite e oltre mezzo milione di armeni sono diventati rifugiati.

La popolazione pacifica dell’Artsakh è diventata anche obiettivo di aggressione militare su larga scala da parte dell’Azerbaijan”. Pur facendo i conti con mille difficoltà, gli armeni dell’Artsakh, sono più che mai uniti e sostenuti dagli aiuti della diaspora armena di tutto il mondo. Ma non solo: sempre più Parlamenti ed enti locali stanno approvando la mozione sul riconoscimento della Repubblica d’Artsakh. Il riconoscimento da parte delle Istituzioni internazionali è fondamentale per evitare che l’Azerbaijan, nel prossimo futuro, possa nuovamente aggredire la pacifica popolazione armena dell’Artsakh con l’intento di annettersi l’intero territorio dell’enclave. È di questi giorni l’approvazione all’unanimità della delibera di riconoscimento dell’indipendenza dell’Artsakh e di solidarietà alla popolazione da parte del Consiglio Comunale della città di Verona alla quale è seguita quella del Comune di Trento. Parlamenti ed enti locali stanno anche condannando la terribile aggressione azera del 27 settembre dello scorso anno che ha scatenato 44 giorni di guerra e moltissime vittime. Intanto, in Artsakh, c’è voglia di ricostruire e ricominciare. Il presidente Arayik Harutyunyan ha nominato Vahe Keushguerian consigliere per i Programmi di Sviluppo. Una persona molto legata all’Italia visto che ha fondato aziende vinicole in Toscana e in Puglia. La Commissione europea ha annunciato la fornitura di assistenza umanitaria per 3 milioni di euro da destinare ai civili colpiti dalle recenti ostilità e per gli sfollati. A Mosca il ministro degli Esteri armeno Ara Aivazian si è incontrato con il suo omologo russo Sergei Lavrov per parlare degli accordi sul Nagorno Karabakh riguardo lo scambio di prigionieri di guerra, l’assistenza umanitaria e lo sblocco dei collegamenti di trasporto nella regione.

Migliaia di persone sono scese nelle strade di Erevan, capitale dell’Armenia, per chiedere le dimissioni del primo ministro, Nikol Pashinyan, ritenuto colpevole di aver mal gestito la guerra dello scorso anno con l’Azerbaijan. Pashinyan resiste alle pressioni dal novembre 2020, quando ha firmato un accordo di pace mediato dalla Russia che ha fatto cessare il breve conflitto (durato 6 settimane) con il vicino Azerbaijan. L’accordo e’ stato mal digerito in Armenia in quanto il Paese ha ceduto parti del territorio all’interno e intorno alla regione del Nagorno-Karabakh. I manifestanti si sono riuniti nel centro di Erevan, in Piazza della Libertà, ripetendo alcuni slogan come “Armenia senza Nikol” o “Nikol traditore”. Alla protesta ha preso parte anche Ishkhan Saghatelyan, leader del partito di opposizione Dashnaktsutyun.

Il Nagorno-Karabakh era già stato conteso dai due Paesi: negli anni Novanta del secolo scorso dei separatisti di questa regione, sostenuti dall’Armenia, dichiararono l’indipendenza dall’Azerbaijan accendendo una guerra in cui decine di migliaia di persone persero la vita

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Perché si parla di Nagorno Karabakh (Insideover 20.02.21)

Il Nagorno-Karabakh è lo specchio perfetto del Caucaso: una regione remota e dal nome difficilmente pronunciabile, che risulterebbe impossibile da localizzare per la stragrande maggioranza del pubblico mondiale se non fosse per la sua storia conflittuale, e nella quale si incrociano e scontrano i destini di diverse civiltà e di una miriade di potenze.

Nel Nagorno Karabakh sono presenti tutti gli ingredienti capaci di innescare quel fenomeno di trasformazione chimica noto come esplosione – appetiti energetici, rivendicazioni territoriali e identità -, perciò tra gli effetti indotti nel pubblico testimone degli eventi vi sono la polarizzazione e la tendenza ad interpretare la questione secondo una visione dualistica in cui tutto è nero o bianco, o giusto o sbagliato, e dove non può esserci spazio per sfumature di grigio, compromessi e legittimazioni parziali.

Tra geopolitica e geografia sacra

Il Nagorno Karabakh è la vena scoperta del Caucaso meridionale, un punto unico in termini di sensibilità e carica propellente nel quale si incontrano e scontrano direttamente Armenia e Azerbaigian e che esercita un potere d’attrazione magnetica su tutte le potenze distese o proiettate nella regione, in primis RussiaTurchia Iran, e in secundis Stati UnitiIsraeleItalia e Francia.

Avere una voce in capitolo nel Nagorno Karabakh equivale ad avere una leva su Yerevan e Baku, due realtà che, a loro volta, rappresentano dei trampolini di lancio verso tre mondi civilizzazionali storicamente in contrasto e i cui destini si incrociano in questo lembo di terra conteso: la Terza Roma, la Sublime Porta e la Persia. Scritto in altri termini, il Nagorno Karabakh è la chiave di volta per l’egemonizzazione del Caucaso meridionale, è il passepartout che separa e unisce al tempo stesso Europa e Asia; è la fermata imprescindibile con la quale tutti – prima o poi, volenti o nolenti – devono fare i conti.

In sintesi, nessun sogno caucasico è realisticamente concretabile e sostenibile se privo del fattore Karabakh; una verità incontrovertibile e incontestabile che, ad esempio, sta spronando la Francia, storico alleato dell’Armenia, a corteggiare l’Azerbaigian per ottenere la partecipazione alla ricostruzione, e che ha incoraggiato Israele ad entrare nella regione per controbilanciare l’influenza iraniana nel Caucaso meridionale.

Geopolitica e realismo sono utili nella maniera in cui esplicano e chiariscono il coinvolgimento e l’interesse di piccole, medie e grandi potenze per il fato di questa terra martoriata, ma sono la storia e la geografia sacra che completano e dettagliano il quadro. Quel che per il resto del mondo è Nagorno Karabakh, per gli azeri è Dağlıq Qarabağ ed è considerato il gioiello della loro nazione, sede di meraviglie come la moschea di Juma, la reggia di Natavan e le fortezze del leggendario Khan (duca) del Karabakh Panah Ali Khan, mentre gli armeni lo chiamano Artsakh e lo venerano come uno dei nuclei originari dell’antico regno d’Armenia.

Le grandi potenze dedicano attenzione al Nagorno Karabakh per semplice realpolitik, ovverosia per risorse naturali, appalti e corridoi di trasporto, ma per Armenia e Azerbaigian è una questione in cui si mescolano tangibile e metafisico, politica e identità, passato e futuro, sacro e profano; elementi che spiegano perché il conflitto risulti così divisivo e sanguinolento e perché sembri così arduo raggiungere una pace duratura.

Oggi, una conseguenza di ieri

Il futuro è il risultato delle azioni intraprese nel presente, che, a sua volta, è lo specchio di quanto accaduto nel passato; è soltanto a partire da, e per mezzo di, questo ragionamento che è possibile comprendere l’attualità sempreverde della questione Nagorno Karabakh.

La seconda guerra del Nagorno Karabakh è il prodotto inevitabile del fragile status quo emerso nel primo dopoguerra, mentre la vittoria schiacciante è il riflesso dei cambiamenti occorsi nell’ultimo trentennio, in primis la trasformazione dell’Azerbaigian nella prima potenza militare del Caucaso meridionale e in secundis l’aumento straordinario dell’influenza della Turchia (e di Israele) nei giochi di bilanciamento che ivi hanno luogo.

La prima guerra del Nagorno Karabakh, a sua volta, ha due origini: una più immediata ed una più remota. La prima è il processo di disintegrazione dell’Unione Sovietica, che l’instabilità nella regione ha contribuito indirettamente ad accelerare, e la seconda ha a che fare, come soprascritto, con la storia e con la geografia sacra.

La prima radice reca due date precise – 1988, quando gli armeni del Nagorno Karabakh hanno chiesto separazione di questa regione dall’Azerbaigian unificazione all’Armenia. Contemporaneamente circa 250mila azerbaigiani furono deportati dall’Armenia che ciò che ha portato agli scontri tra armeni e azerbaigiani nell’Azerbaigian e successivamente all’occupazione militare dei territori dell’Azerbaigian da parte dell’Armenia –; mentre la seconda traversa il tempo coinvolgendo autorità sovietiche – che nel 1921 il Bureau caucasico del comitato centrale del Partito bolscevico decise di mantenere il Nagorno Karabakh all’interno della Rss dell’Azerbaigian – e toccando l’intero primo quarto di Novecento, bagnato dal sangue delle violenze interetniche durante la rivoluzione russa del 1905, della guerra armeno-azera del 1918–1920 e della deportazione massiva di azeri da parte della repubblica socialista armena.

Stabilire chi ha ragione e chi ha torto non è semplice. Gli armeni rivendicano la sacralità delle loro aspirazioni sul Nagorno Karabakh in quanto regione costitutiva dell’antico regno d’Armenia e storicamente hanno fatto ricorso al controllo della popolazione, sia durante l’era Stalin che all’indomani del primo conflitto del Nagorno Karabakh, riducendo virtualmente a zero il peso demografico della componente azera – questo spiega perché Yerevan sia lo stato più etnicamente omogeneo dell’intero spazio postsovietico e perché la comunità azero-karabakha, dopo secoli di primato etnico in diversi villaggi e distretti, sia, oggi, quasi del tutto scomparsa.

Gli azeri, d’altro canto, considerano il Nagorno Karabakh come proprio in forza della realtà fattuale – la loro sovranità de iure è riconosciuta a livello universale, mentre l’esistenza della repubblica dell’Artsakh non è mai stata sanzionata neanche dall’Armenia – e del fattore storico – la regione è stata inglobata nella realtà turco-azera fra il 15esimo e il 16esimo secolo e da allora ne ha fatto parte (quasi) ininterrottamente –; inoltre, grazie alla vittoria dello scorso autunno, possono vantare di aver rimescolato le carte sul tavolo a proprio favore, riaprendo una partita che, fino a quel momento, era in una situazione di stallo.

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Armenia, folla in piazza contro il premier (Ilmessaggero 20.01.21)

Migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale dell’Armenia, Yerevan, chiedendo le dimissioni del premier Nikol Pashinyan. Dopo sei settimane di sanguinosi combattimenti nel Nagorno-Karabakh, durante i quali si stima che abbiano perso la vita circa 6.000 persone, a novembre Armenia e Azerbaigian hanno siglato un accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia. In base all’intesa, l’Azerbaigian ha mantenuto i territori conquistati e l’Armenia gli ha ceduto anche altre zone del Nagorno-Karabakh e dei territori limitrofi e ciò ha provocato
massicce proteste contro Pashinyan, di cui l’opposizione chiede le dimissioni. Secondo l’Afp, i dimostranti si sono radunati in Piazza della Libertà e urlano slogan come «l’Armenia senza Nikol!» e «Nikol traditore». Nella zona sono presenti numerosi poliziotti.

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75 anni fa la porpora al cardinale armeno Agagianian. Pio XII voleva rendere la Chiesa davvero universale (Faridiroma 19.02.21)

Una platea di trentadue principi al Concistoro voluto da Pio XII il 18 febbraio del 1946; un’azione che il Pontefice ha compiuto con magnanima audacia per una più visibile e più solenne affermazione della sopranazionalità e universale unità della Chiesa.

Il Santo Padre Pio XII volle che in quel Sacro Collegio: “Vi siano rappresentati il maggior numero possibile di stirpi e di popoli, e sia quindi un’immagine viva dell’universalità della Chiesa. La Chiesa è madre, la madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli, non meno che di tutti i singoli uomini, e precisamente perché madre, non appartiene, né può appartenere esclusivamente a questo o a quel popolo. Né può essere straniera in alcun luogo; essa vive in tutti i popoli.”

I nuovi cardinali per la maggior parte stranieri, se ne contavano ventinove su trentadue, rappresentavano ognuno un continente, la rappresentazione soprannazionale di una Chiesa militante dopo la seconda guerra mondiale, in questo eccezionale avvenimento vennero scelti porporati per le loro insigni virtù e i loro segnalati meriti.
Tra questi principi Pio XII scelse Gregorio Pietro XV Agagianian, Patriarca di Cilicia degli Armeni cattolici, nominandolo Cardinale di Santa Romana Chiesa con il titolo San Bartolomeo all’Isola, inter duos pontes, chiesa tra due ponti.

Agagianian incarnerà il messaggio di Pio XII e la sua vita sarà un ponte tra l’oriente e l’occidente, la voce della Santa Sede di Roma, la voce di un oriente insanguinato dalle continue guerre. Incarnerà quel messaggio agendo con uno spirito aperto a tutte le esigenze della Chiesa e del popolo di Dio consapevole delle difficoltà e dei problemi che il mondo stava affrontando: la ricostruzione morale del dopoguerra, il regime comunista, gli ostacoli posti all’espansione della fede, le difficoltà delle missioni che s’intrecciavano al colonialismo, l’espulsione dei missionari perché testimoni della realtà del terzo mondo.

Oggi guardando il passato, la grande famiglia umana ha subito tanto orrore, una sofferenza inenarrabile e ci verrebbe da chiedere perché volgere lo sguardo verso figure come il Cardinale Agagianian, come possono oggi indicarci una possibile chiave di lettura di un presente martoriato dall’incertezza e da una fede che è in cerca di un rifugio sicuro, baluardo di una salvezza che desideriamo sia prossima.
Agagianian sapeva leggere i momenti critici della storia, problemi troppo importanti per ignorarli, sapeva essere mediatore tra i concetti passati e quelli nuovi, invocando una lotta eroicamente cristiana contro l’oppressione affermando che – non poteva esserci mediocrità tra i cristiani che tutte le cose sono di Cristo…e bisogna ringraziare Dio per averci permesso di vivere in un’epoca in cui essere pienamente cristiani significa essere eroicamente cristiani. L’apostolo convinto del Signore nei confronti dei responsabili religiosi, sociali e civili -.

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 1965 affermerà il Cardinale Agagianian che “la Chiesa ha sempre creduto al valore umano di tutte le genti, dove il concetto di dignità della persona diventa un’idea ispiratrice e la pietra di paragone per verificare l’autenticità del nuovo cristianesimo” definendo così il concetto di Unità e anticipando le grandi sfide etiche che si pone oggi il fedele: *Unità non significa uniformità, ma pluralità di forme nell’Unità di fede”.

Alessandra Scotto, Ufficio Storico Pontificio Collegio Armeno

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L’eredità della guerra (Insideover 19.02.21)

E’ una notte senza fine quella che cala sull’ Armenia il 9 novembre 2020. La notizia della dichiarazione della fine della guerra e dell’accordo di pace trilaterale firmato da Russia, Armenia e Azerbaijan entra nella case di 3 milioni di cittadini armeni attraverso un post su facebook del premier Nikol Pashinyan: la guerra del Nagorno Karabakh è finita, la guerra è persa. Sarebbe una notte di estremo cordoglio e silenziosa pena se il furore collettivo maturato per l’ avvilente sconfitta non trascendesse il dolore e conferisse alle ore che seguono il cessate il fuoco una disperazione tragica e irata.

A Yerevan, all’annuncio delle condizioni della resa, segue infatti un’esplosione di rabbia corale. Centinaia di migliaia di persone, una marea orfana di risposte e votata all’impresa del rancore, occupa le strade della capitale, il parlamento, i palazzi governativi e la casa del premier. L’accettazione della sconfitta, lontana dallo scibile della gran parte dei cittadini, e il materializzarsi, di nuovo, nella storia del popolo armeno, di quell’anatema di morte che l’ha condannato nei secoli a privazioni territoriali, deportazioni e genocidi, sconvolgono e incendiano la popolazione che manifesta e chiede, in pasto alla folla e in pegno alla storia, il premier e il suo governo.

I manifestanti urlano mentre protestano contro un accordo per la fine dei combattimenti nella regione del Nagorno-Karabakh, presso il palazzo del governo a Yerevan, Armenia, martedì 10 novembre 2020. L’Armenia e l’Azerbaigian hanno annunciato martedì un accordo per porre fine ai combattimenti nella regione del Nagorno-Karabakh dell’Azerbaigian nell’ambito di un patto firmato con la Russia che prevede il dispiegamento di circa 2.000 peacekeeper e concessioni territoriali. (Foto AP/Dmitri Lovetsky)

Una notte che ancor oggi, a quasi due mesi di distanza dalla fine delle ostilità, continua a perdurare nel Paese caucasico che dalla guerra ha avuto in eredità oltre centomila sfollati, migliaia di vittime e una popolazione spaccata tra chi supporta il primo ministro e la sua decisione di non dimettersi, cercando così di preservare le traballanti impalcature democratiche che il suo esecutivo in due anni è riuscito a istituire, e chi invece lo accusa di aver tradito la nazione, di aver lasciato il Karabakh ai nemici, di aver mentito sull’andamento del conflitto, e di essere quindi il primo responsabile della morte di oltre 3000 giovani soldati.

La polizia arresta una donna durante una manifestazione contro l’accordo per la fine dei combattimenti nella regione del Nagorno-Karabakh, nella Piazza della Libertà a Yerevan, Armenia, mercoledì 11 novembre 2020. L’accordo prevede che le forze armene cedano il controllo di alcune zone che detenevano al di fuori dei confini del Nagorno-Karabakh, compresa la regione di Lachin, attraversata dalla strada principale che porta dal Nagorno-Karabakh all’Armenia (AP Photo/Dmitri Lovetsky)

Il 27 settembre l’Azerbaijan, con il supporto della Turchia di Erdogan, ha dato inizio a un’aggressione militare contro il Nagorno Karabakh, terra storicamente armena ma che nel 1921 è stata assegnata da Stalin all’Azerbaijan con l’obiettivo di fare del paese bagnato dal Mar Caspio un avamposto da cui esportare la rivoluzione bolscevica sia verso est che verso la Turchia. Alla fine degli anni Ottanta le richieste di indipendenza da parte di decine di migliaia di armeni sono state respinte e la convivenza tra la comunità azera e quella armena si è fatta sempre più difficile tanto che hanno incominciato a registrarsi scontri e massacri da ambo le parti che hanno portato a un inevitabile conflitto che dal ’92 al ’94 ha causato la morte di oltre 20mila persone. Solo un flebile cessate il fuoco ha fermato la guerra negli anni ’90 che si è conclusa con la vittoria finale degli armeni che hanno occupato l’intera regione e proclamato la nascita della repubblica dell’Artsakh, non riconosciuta ad oggi da nessuno Stato al mondo. Formalmente però, in base agli accordi e alle risoluzioni internazionali, il Nagorno Karabakh è sempre appartenuto all’Azerbaijan ed è questo il motivo per cui la regione è stata di nuovo il teatro di una doloroso e sanguinario conflitto, dal 27 settembre al 9 novembre 2020. E dopo 44 giorni di duri combattimenti, Baku ha conseguito la vittoria militare prendendo di nuovo il controllo di 7 distretti contesi della regione caucasica, della storica e iconica città di Shushi e di altri importanti centri del Karabakh.

Un uomo azero balla mentre altri tengono bandiere nazionali mentre celebrano il passaggio della regione di Lachin sotto il controllo dell’Azerbaigian, come parte di un accordo di pace che ha richiesto alle forze armene di cedere i territori azeri che detenevano fuori dal Nagorno-Karabakh, ad Aghjabadi, Azerbaigian, martedì 1 dicembre 2020. L’Azerbaigian ha completato la restituzione del territorio ceduto dall’Armenia in base a un accordo di pace mediato dalla Russia che ha messo fine a sei settimane di feroci combattimenti nel Nagorno-Karabakh. Il presidente azero Ilham Aliyev ha salutato il ripristino del controllo sulla regione di Lachin e altri territori come un risultato storico. (AP Photo/Emrah Gurel)

E’ mattina, una leggera neve imbianca la capitale armena, oggi però non ci sono comizi o scioperi, non ci sono maggioranza ed opposizione, c’è solo il dolore assoluto per le vittime della guerra. Il governo ha proclamato tre giorni di lutto cittadino e nella piazza Hanrapetutyan Hraparak il vento smuove la bandiera armena issata a mezz’asta sopra il parlamento. Migliaia di persone marciano in silenzio sino a Yerablur, il cimitero militare di Yerevan dove, da più di un mese, quotidianamente, vengono celebrati i funerali di tutti i ragazzi caduti.

I parenti di Mkhitar Beglarian, un soldato di etnia armena dell’esercito del Nagorno-Karabakh ucciso durante un conflitto militare, piangono durante il suo funerale in un cimitero di Stepanakert, la regione separatista del Nagorno-Karabakh, domenica 15 novembre 2020. Le forze di etnia armena detenevano il controllo del Nagorno-Karabakh e dei territori adiacenti dalla fine di una guerra separatista nel 1994. I combattimenti sono nuovamente esplosi alla fine di settembre e si sono ora conclusi con un accordo che prevede che l’Azerbaigian riprenda il controllo dei territori periferici e che gli consente di mantenere le parti del Nagorno-Karabakh conquistate durante i combattimenti. (AP Photo/Sergei Grits)

E’ una collina di sepolcri irrequieti sui pendii della quale la realtà riduce in polvere l’idea stessa di speranza: in ogni dove ci sono foto di ragazzi sorridenti che sembrano, in quei sorrisi, ricordare a loro stessi e al mondo tutto, quando e quanto erano felici e vivi. Albert, aveva diciott’anni, il suo ritratto è divenuto un’immagine iconica del conflitto e oggi il suo sorriso è inciso su una lastra di marmo ricoperta da un manto di rose bianche. Ed è lo stesso sorriso che hanno Arman, Karen, Grigor e gli oltre tremila ragazzi di 18,19,20 anni che ora giacciono in un camposanto somma di tutte le insensatezze con cui è impossibile venire a patti. Non c’è più, qui a Yerevan, il canglore della propaganda dei giorni della guerra e neppure la canea dei proclami irredentisti che strabordanti di storia semplice e vendetta immediata invitavano alla lotta ad oltranza sulle montagne del Karabakh. C’è invece Anna, un’anziana madre, che accende incensi e bacia le lettere del nome del proprio bambino. C’è poco distante un padre, un militare, che con una dolcezza inaspettata dalle pieghe dure del volto, accarezza il ritratto del figlio e osserva la foto con due occhi asciutti privi persino della consolazione di un pianto. E sono occhi vuoti, lontani, persi nel paesaggio dei propri ricordi, quelli di un uomo che statuario, solo, tra la moltitudine dei presenti, accarezza il monumento di suo fratello. Non ci sarà altro orizzonte per questi genitori e questi fratelli se non quello del passato, costretti a scontare in solitudine la propria condanna di sopravvissuti con soltanto la memoria come unico ed estremo conforto dai torti della storia e dalle ingiustizie della vita.

I parenti di Aram Azumanyan, 19 anni, vittima del conflitto, piangono sulla sua tomba nel cimitero di Stepanakert, capitale della regione separatista del Nagorno-Karabakh, domenica 22 novembre 2020. In tutta l’Armenia e nel Nagorno-Karabakh si tengono funzioni religiose e manifestazioni commemorative per onorare la memoria delle persone morte durante il conflitto. (AP Photo/Sergei Grits)

E le ingiustizie della vita sono ben visibili anche all’Ospedale militare di Yerevan dove oltre 200 ragazzi, rimasti gravemente feriti o mutilati durante i combattimenti ricevono cure e attenzioni. ”Qui la maggior parte dei ragazzi ha tra i 18 e i 20 anni. Sono giovani ragazzi che hanno appena iniziato la loro vita adulta e per loro il fatto di essere qui, in queste condizioni, è estremamente drammatico”, racconta la direttrice del centro, la dottoressa Lucine Poghosyan, che prosegue spiegando: ”Noi cerchiamo non solo di dare loro un aiuto medico ma anche di creare un ambiente famigliare e di dare supporto psichiatrico. In molti soffrono di disturbi psichici dovuti agli orrori che hanno vissuto e di cui sono stati vittime”. Nel reparto di fisioterapia ci sono ragazzi che hanno perso gambe e braccia, alcuni non riescono più a camminare e avere pieno controllo dei propri arti, altri ancora, a causa delle lesioni muscolari dovute alle schegge, devono reimparare a stare in equilibrio e la dottoressa Poghosyan confida: ”Una volta è stato portato qui un giovane di soli 19 anni, non aveva le braccia e neppure le gambe e aveva una terribile ferite al ventre. Lui era cosciente e noi non sapevamo come aiutarlo: una tragedia”.

Un soldato viene portato in ospedale dopo essere stato ferito al fronte nella periferia di Stepanakert, Nagorno-Karabakh, venerdì 6 novembre 2020. (AP Photo/Ricard Garcia Vilanova)

Alcuni dei giovani pazienti ricoverati conservano nei tratti malinconici del volto il ricordo dei ragazzini che sono stati sino a pochi mesi fa, altri invece sembrano essere invecchiati all’improvviso in margine alla morte, e poi c’è un ragazzo, un militare di leva, ha solo 21 anni e durante gli scontri ha perso entrambe le gambe da sopra il ginocchio. Il giovane soldato non vuole ricordare i giorni della guerra e dei combattimenti, e il perchè del suo silenzio lo esterna con una lapidaria, drammatica e commovente domanda…

Vaccino Covid, il presidente di Moderna: «Contro le varianti testiamo la terza dose» (Corriere della Sera 19.02.21)

«A noi bastano due settimane per sviluppare un vaccino diretto contro una variante del coronavirus». Noubar Afeyan, cofondatore e presidente di Moderna, è l’anima dell’azienda statunitense che produce uno dei due vaccini anti-Covid a base di Rna messaggero già disponibili per la popolazione (l’altro è di BioNTech/Pfizer).

Come state affrontando il problema delle varianti e quanto tempo richiederebbe una eventuale riformulazione del vaccino?
«Dopo il sequenziamento di Sars-CoV-2, a gennaio 2020, abbiamo messo a punto il vaccino in due settimane. Un risultato senza precedenti. A fronte della comparsa di una nuova variante del virus, può essere modificato negli stessi tempi, due settimane o anche meno. Ci stiamo già lavorando e sta per partire lo studio sui volontari. Diverso è il discorso relativo ai tempi di approvazione: serve un certo numero di casi di infezioni da variante per poter svolgere i test».

E poi cosa succede?
«C’è il passaggio delle Agenzie regolatorie: penso si vada nella direzione di accelerare i tempi per eventuali formulazioni anti-varianti. La mia previsione è che avremo i risultati entro un paio di mesi. Ma non è detto che per affrontare le varianti servano nuovi vaccini. Stiamo per esempio ragionando sulla possibilità di somministrare una terza dose (booster) del vaccino sviluppato sulla sequenza originaria. Dopo la somministrazione, l’organismo produce anticorpi diretti verso molte parti della proteina Spike (che permette al virus di entrare nelle cellule, ndr): una variante può sfuggire in alcuni punti, ma non in tutti».

La tecnica dell’Rna messaggero (mRna) è nota dal secolo scorso, ma solo con la pandemia di Covid se ne sono comprese le potenzialità. Quando vi siete resi conto che avrebbe potuto rappresentare un’arma efficace contro il coronavirus?
«Studiamo questa tecnologia dal 2010, con l’obiettivo di creare una nuova classe di farmaci. Oggi abbiamo una ventina di programmi attivi: uno riguarda un vaccino antinfluenzale di nuova concezione, che speriamo possa raggiungere un’efficacia molto più alta rispetto al 50-60% offerto da quello che utilizziamo oggi. La piattaforma che utilizziamo, quella dell’Rna messaggero, permette di codificare velocemente migliaia di molecole, produrle e testarle. Abbiamo deciso di tentare questa strada anche per Covid. Non avevamo idea di quanto un vaccino contro un virus completamente nuovo avrebbe potuto essere efficace e se avremmo potuto produrne quantità sufficienti. Ma di certo non si è trattato di un colpo di fortuna: dietro il vaccino di Moderna ci sono anni di lavoro e un investimento di miliardi di dollari».

La piattaforma mRna è considerata da molti esperti «rivoluzionaria»: in che modo potrà essere utilizzata dopo la pandemia?
«Oltre all’antinfluenzale, stiamo studiando un vaccino contro il Citomegalovirus e in futuro vorremmo concentrarci sull’Hiv. Penso che questa tecnologia resterà protagonista anche in futuro».

L’impatto del vaccino anti Covid è stato paragonato a quello di Amazon nell’e-commerce: si riconosce in questa affermazione?
«Siamo onorati dal confronto con Amazon, ma il nostro lavoro è completamente diverso. Immaginiamo un nuovo modo di produrre farmaci, per cui non si debba ripartire ogni volta da zero. La piattaforma mRna può essere una base comune per molti prodotti diversi»

Da dicembre state testando Moderna anche sugli adolescenti: ci sono già i primi risultati?
«Non manca molto, stiamo andando avanti coi test e appena saremo pronti chiederemo l’approvazione per la fascia 12-18 anni. Inoltre abbiamo avviato un nuovo studio per i bambini dai 6 mesi ai 12 anni che include nuovi dosaggi, più bassi ovviamente rispetto a quelli degli adulti».

Come valuta la proposta — già attuata in Gran Bretagna — di allungare il tempo tra la prima e la seconda dose?
«Di fatto i Paesi che stanno prolungando l’attesa stanno sperimentando. E va bene, hanno il diritto di farlo. È sicuramente meglio che non vaccinare. Ma è difficile sia per gli scienziati sia per i produttori affermare che si tratti di una scelta efficace».

È possibile utilizzare vaccini diversi per le due dosi?
«Anche in questo caso non si può escludere a priori. Stiamo conducendo dei test. Ossia stiamo capendo se il nostro sistema mRna possa potenziare la prima dose somministrata con altri tipi di vaccino».

Due giorni fa la Commissione europea ha autorizzato un secondo contratto con Moderna, per 300 milioni di dosi aggiuntive. Che tempi di consegna prevedete?
«Si tratta di 150 milioni di dosi nel 2021. Inoltre l’Europa ha sottoscritto l’opzione di acquistarne altri 150 milioni nel 2022 che si vanno ad aggiungere ai 160 già acquista. Questo porta l’ordine totale dell’Ue a 310 milioni di dosi da consegnare nel 2021. Ci sono altre trattative in corso ma non ho libertà di parlarne».

E sulla produzione come contate di fare? Aprirete nuovi impianti?
«Al di fuori degli Stati Uniti abbiamo iniziato a produrre da zero con l’azienda Lonza in Svizzera. Non abbiamo in programma di aprire nuove sedi perché non potremmo farlo abbastanza velocemente, dunque tutto questo non servirebbe».

State pensando anche a mercati come l’Africa o il Sud America?
«Stiamo lavorando con il Covax (il programma di solidarietà per i Paesi in via di sviluppo, ndr) e con Unicef e siamo speranzosi di soddisfare il bisogno di questi Stati tra il 2021 e il 2022».

Lei è di origine armene, il suo popolo ha subito il genocidio e la diaspora. Che influenza ha avuto la storia della sua famiglia sulla sua vita?
«Sono nato in Libano perché mio nonno era arrivato qui dopo il genocidio. Poi siamo venuti via, durante la Guerra civile. Tutto ciò mi ha sempre fatto sentire un migrante e mi ha portato a voler dare delle radici a i miei figli. Da vent’anni a questa parte ho portato avanti progetti filantropici sia per l’Armenia che per i migranti. E continuerò a farlo».

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Il conflitto in Nagorno-Karabakh accende i riflettori sulle vendite di armi israeliane all’Azerbaigian (Globalvoices 19.02.21)

Dopo 44 giorni di guerra, un accordo negoziato dalla Russia ha condotto a una pace incerta in Nagorno-Karabakh [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione]. Il 27 settembre l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva per riconquistare questo territorio montuoso, che aveva perso a causa delle forze etniche armene nella guerra del 1988-1994. Baku ha vinto, ma la guerra è costata diverse migliaia di vite.

L’accordo di pace annunciato il 10 novembre ha ridisegnato la mappa del Caucaso meridionale. Nei prossimi due mesi, all’Azerbaigian verrà assegnato il controllo di tutti i distretti che circondano il Nagorno-Karabakh, caduto sotto il controllo degli armeni del Karabakh durante la prima guerra. Lo status di quella sezione del Nagorno-Karabakh che l’Azerbaigian non ha conquistato, compresa la capitale pesantemente bombardata di Stepanakert, rimane poco chiaro. Circa 2000 forze di pace russe pattuglieranno la regione, così come una strada strategicamente importante che la collega all’Armenia.

La vittoria dell’Azerbaigian è stata in gran parte dovuta al sostegno esterno. Lo stato membro della NATO, la Turchia, con cui l’Azerbaigian ha stretti legami culturali ed economici, si è schierato dalla parte di Baku, offrendo supporto politico, competenza militare e mercenari dalla Siria.  

Anche l’amicizia di Baku con Israele è stata cruciale per i suoi successi sul campo di battaglia. Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (IIRPS), il 60% di tutte le importazioni di armi dell’Azerbaigian tra il 2015 e il 2019 proviene da Israele. Tra questi ci sono il veicolo corazzato SandCat e diversi modelli di fucili.

È importante sottolineare che queste importazioni hanno aiutato l’Azerbaigian a raccogliere una flotta di droni militari, che ha travolto i sistemi di difesa aerea dell’Armenia e ha ribaltato la situazione a favore di Baku. Come ha comunicato all’Asia Times il 14 ottobre una fonte importante dell’esercito israeliano, “l’Azerbaigian non sarebbe stato in grado di continuare la sua operazione a questo livello senza il nostro sostegno”.

Non tutti in Israele vedono in queste parole un motivo di orgoglio.

L’uso da parte dell’Azerbaigian di armamenti sofisticati come questi ha ucciso civili in Nagorno-Karabakh. Si ritiene che la maggior parte della popolazione etnica armena sia fuggita dal territorio. Nelle ultime settimane, i droni Harop di fabbricazione israeliana sono stati visti nei cieli sopra Stepanakert, mentre i residenti della città si sono riparati nei seminterrati. Questi cosiddetti “droni kamikaze” sono stati utilizzati anche dai militari azeri negli scontri in Nagorno-Karabakh nel 2016.

In Nagorno-Karabakh hanno fatto la loro comparsa anche le bombe a grappolo di fabbricazione israeliana. Nelle dichiarazioni del 5 e del 23 ottobre, Amnesty International e Human Rights Watch hanno affermato che in più occasioni l’esercito azero aveva sparato munizioni a grappolo M095 DPICM e LAR-160 fabbricate da Israele in aree residenziali della città (ci sono anche prove che suggeriscono che in un’occasione il 30 ottobre l’Armenia abbia lanciato un razzo con munizioni a grappolo Smerch contro la città azera di Barda). Né l’Armenia né l’Azerbaigian (né Israele) hanno firmato la Convenzione sulle bombe a grappolo, che vieta l’uso di tali armi indiscriminate.

Seppure il governo israeliano potrebbe non aver rilasciato alcun commento sul conflitto, gli armeni ritengono che questi accordi sulle armi dicano tutto ciò che debba essere detto.

La portavoce del ministero degli Esteri armeno @naghdalyan: “Per noi, la fornitura di armi ultramoderne da parte di Israele all’Azerbaigian è inaccettabile, soprattutto ora, data l’aggressione nei confronti dell’Azerbaigian supportata dalla Turchia”.

Dall’inizio del conflitto in Nagorno-Karabakh, giornalisti e controllori del traffico aereo in Israele hanno notato un aumento del numero di voli cargo della compagnia SilkWay Airlines, un vettore collegato al Ministero della Difesa dell’Azerbaigian che atterra alla base aerea militare di Ovda nel sud di Israele:

Terzo velivolo azero da Ankara questa settimana. Avvistato ieri in Israele un 4k-az40

L’Armenia ha reagito con forza. All’inizio di ottobre, appena due settimane dopo l’apertura di un’ambasciata a Tel Aviv, l’Armenia ha richiamato il suo ambasciatore per consultazioni. Quando in seguito gli è stato chiesto dal presidente israeliano Reuven Rivlin se l’Armenia accoglierebbe favorevolmente gli aiuti umanitari, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha esclamato: “Aiuti umanitari da un paese che vende armi ai mercenari, che le usano per colpire una popolazione civile pacifica? Propongo che Israele invii quegli aiuti ai mercenari e ai terroristi come logica continuazione delle sue attività”.

In un’intervista al Jerusalem Post del 3 novembre, Pashinyan ha paragonato Israele al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per il sostegno dato all’Azerbaigian, un po’ strano date le relazioni tese tra i due paesi. Tel Aviv, ha concluso, aveva aiutato e favorito il genocidio contro gli armeni in Nagorno-Karabakh e prima o poi la Turchia avrebbe rivolto le sue “ambizioni imperialistiche” verso Israele.

Affinità eccentriche

Per quasi trent’anni, il conflitto in Nagorno-Karabakh ha eluso i tentativi di estranei di adattarlo a modelli precisi. All’apparenza, Israele e Azerbaigian potrebbero non essere i partner più ovvi. Ma questo è esattamente ciò che rende la loro amicizia così simbolicamente importante.

Fino alla recente distensione di Israele con gli Stati del Golfo, l’Azerbaigian era uno dei pochi Stati a maggioranza musulmana nel Vicino Oriente con cui Tel Aviv poteva dire di avere rapporti veramente cordiali. Ci si può aspettare che Baku nutra una certa simpatia per la difficile situazione dei palestinesi, dato un parallelismo con le centinaia di migliaia di etnici azeri espulsi dal Nagorno-Karabakh negli anni ’90, azeri che finalmente torneranno alle loro case.

Eppure questa amicizia richiede altro. Come ha affermato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel 2016, Israele e Azerbaigian sono “un esempio di come le relazioni tra musulmani ed ebrei potrebbero e dovrebbero essere ovunque”. Per questo motivo, elogi all’Azerbaigian e al presidente Ilham Aliyev emergono periodicamente sulla stampa israeliana e sui giornali della comunità ebraica di tutto il mondo, sebbene siano più cauti riguardo al record abissale di violazione dei diritti umani dell’Azerbaigian.

Questi spesso riguardano la comunità ebraica dell’Azerbaigian, che conta decine di migliaia di persone, e gode di buoni rapporti con il resto della società azera. Nelle ultime settimane, le autorità azere si sono adoperate per giustapporre il multiculturalismo del loro Paese, con particolare riferimento alla sua comunità ebraica, con un’Armenia relativamente monoculturale. Un esempio calzante è questo video di Daniel, un giovane azero discendente dagli ebrei della montagna [it], che spiega perché era pronto a combattere per l’Azerbaigian:

L’#Azerbaigian ospita molte etnie e religioni, inclusi 30.000 #ebrei che hanno vissuto pacificamente nel Paese per 2000 anni. Ecco la storia di #Daniel, un ebreo di montagna, che si è offerto volontario per combattere per la sua patria, difendendo la sua integrità territoriale dall’invasione dell’#Armenia.

Inoltre, circa 70.000 ebrei azeri vivono in Israele, dove hanno condotto una campagna a sostegno di Baku durante la recente guerra.

Questa amicizia ha anche un carattere profondamente pratico, poiché l’Azerbaigian condivide un lungo confine con l’Iran, l’arcinemico di Israele.

Ciò fornisce a Tel Aviv molte opportunità strategiche, afferma Jeff Halper, analista israeliano, attivista e autore di War Against The People, un libro del 2015 sullo stato di sicurezza israeliano. Per decenni, ha osservato Halper in uno scambio di e-mail con GlobalVoices, Israele ha perseguito una “strategia della periferia” per circondare il mondo arabo di alleati politici e militari, che dagli anni ’90 includono Stati post-sovietici come l’Azerbaigian.

“Israele fornisce all’Azerbaigian consigli e armi per l’antiterrorismo, anche contro la sua opposizione interna, mentre l’Azerbaigian fornisce a Israele un laboratorio sul campo di battaglia per tecnologie militari all’avanguardia”, spiega Halper. Anche le forniture energetiche dell’Azerbaigian costituiscono un’attrazione; Baku ha iniziato ad esportare petrolio in Israele nel 1999 e ora costituisce il 37% di tutte le importazioni israeliane.

Secondo Zaur Shiriyev, ricercatore del Caucaso presso l’International Crisis Group, la svolta nelle relazioni israelo-azere è avvenuta nel 2010 e aveva poco a che fare con l’Iran. In questo periodo, ha detto Shiriyev a GlobalVoices, Baku ha riconosciuto l’urgenza di modernizzare le sue forze armate, mentre il deterioramento delle relazioni con la Turchia ha costretto Israele a cercare nuovi partner. “Israele è stato complementare alla Turchia in un altro ruolo: fare pressioni su Washington per gli interessi azeri”, ha aggiunto Shiriyev.

L’Armenia non poteva competere con quell’offerta.

Tuttavia, il popolo armeno e israeliano condividono qualcosa di non meno tangibile: il trauma delle più grandi atrocità del ventesimo secolo. Entrambi sono gli Stati-nazione dei sopravvissuti al genocidio. Sono anche entrambi gli Stati che, nei decenni più recenti, hanno trionfato sui loro vicini in violenti conflitti, acuiti dal timore che la storia potesse ripetersi.

Per gli armeni, ciò rende il rifiuto di Israele di riconoscere il genocidio armeno del 1915 particolarmente imperdonabile, portando le relazioni in un vicolo cieco. Ciò potrebbe benissimo alimentare gli atteggiamenti negativi nei confronti degli ebrei in Armenia, come registrato dal Pew Research Center in un sondaggio d’opinione del 2019. Alcuni nella piccola comunità ebraica del paese si sono sentiti molto combattuti per il sostegno di Israele all’Azerbaigian; come ha chiesto un intervistato ebreo armeno in un’intervista al quotidiano israeliano Ha’aretz, “l’Armenia è Davide. Perché Israele sta armando Golia?”

Una questione etica

I funzionari israeliani hanno proposto in diverse occasioni l’idea di riconoscere il genocidio armeno. Tuttavia, questi hanno in gran parte coinciso con i cambiamenti nelle relazioni con la Turchia, dove gli omicidi di massa sono definiti come “deportazioni”. Alcuni israeliani credono che il loro paese abbia un imperativo etico per il riconoscimento e che il rifiuto di farlo suggerisca una priorità della geopolitica rispetto alla giustizia.

Molte delle voci più autorevoli della società israeliana che si oppongono alla vendita di armi all’Azerbaigian sono due eminenti studiosi dei genocidi, Israel Charny e Yair Auron, che hanno chiesto a Israele di riconoscere il genocidio armeno. Nel 2014 Auron, autore di due libri su Israele e il genocidio armeno, ha suggerito in un editoriale per Ha’aretz che la vendita di armi all’Azerbaigian potrebbe rendere Israele complice della pulizia etnica nel Caucaso. Nel 2016, Charny ha approfondito ulteriormente l’argomento, chiedendo al Times of Israel se Israele avrebbe venduto armi ad Adolf Hitler.

Gli attivisti contro il commercio di armi da parte di Israele hanno anche lanciato sfide legali mentre infuriava la guerra in Nagorno-Karabakh. Tuttavia, il 12 ottobre l’Alta Corte di giustizia israeliana ha respinto una petizione dell’attivista Elie Joseph per il divieto di vendite di armi all’Azerbaigian, rifiutando di tenere un’udienza in quanto non c’erano prove sufficienti che tali armi sarebbero state utilizzate in crimini di guerra contro gli armeni. L’avvocato israeliano per i diritti umani Eitay Mack ha tentato di integrare il caso legale con uno morale, sostenendo nella rivista +972 che le esportazioni di armi hanno incoraggiato le autorità azere a portare a termine le sue minacce bellicose nei confronti dell’Armenia.

Questa sfida legale è una delle tante lanciate da Elie Joseph, un attivista israeliano per i diritti umani nato in Gran Bretagna, che quest’anno ha portato avanti uno sciopero della fame contro le esportazioni di armi israeliane a chi abusa dei diritti umani.

“La gente all’estero sa di più su queste vendite di armi che la gente in Israele. Come ebrei ed esseri umani, dobbiamo smetterla di essere coinvolti in questo tipo di cose, per fermare il silenzio. C’è una connessione molto forte tra questo commercio e il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Ieri eravamo noi, domani potremmo essere di nuovo noi, e oggi è qualcun altro.”

In una telefonata con Global Voices, Joseph ha dichiarato di voler lanciare un terzo appello contro la vendita di armi israeliane in Azerbaigian e di essere disposto a portare avanti un altro sciopero della fame. Un giorno spera che lo Knesset, il parlamento israeliano, approvi una legge che vieti la vendita di armi a chi abusa dei diritti umani.

“Abbiamo deciso di risvegliare la nazione, che si tratti di vendita di armi in Azerbaigian, Myanmar, Sud Sudan o Vietnam”, ha dichiarato Joseph, sottolineando che la sua era una posizione pro-israeliana e patriottica.

Tuttavia Halper rimane dubbioso che tali esportazioni verranno fermate, almeno nel prossimo futuro. Il commercio è troppo redditizio e l’Azerbaigian troppo strategicamente importante per Israele. Inoltre, ha detto a GlobalVoices, attivisti come Mack e Joseph potrebbero affrontare una dura battaglia quando si tratta di aumentare il sostegno pubblico:

“Niente che riguardi le armi o lo schieramento israeliano è un problema in Israele, né nei Territori Palestinesi Occupati, né quando viene impiegato tra i palestinesi in Israele e né nell’uso internazionale. Non è un problema. Oppure, gli israeliani provano un grande orgoglio per le loro abilità militari e di sicurezza”.

In ogni caso la vittoria dell’Azerbaigian, supportata dalle armi israeliane, è una vittoria significativa anche per Ankara, che ha rafforzato il suo ruolo nel Caucaso meridionale. Per gli armeni, questo è un disastro. Per gli israeliani è un dilemma, soprattutto se lo stile politico bellicoso di Erdoğan vivrà ben oltre il suo mandato.

In una certa misura, Aliyev sarà in debito con la Turchia. Cosa significa questo per i legami di Israele con l’Azerbaigian?

Secondo Shiriyev, Baku ha molti anni di esperienza nel bilanciare i legami con Ankara e Tel Aviv, anche quando le tensioni sono al massimo. “Nel Caucaso meridionale, direi che il potere della Turchia sta crescendo e svolge un ruolo di bilanciamento tra l’Azerbaigian e altre potenze, in particolare la Russia. Non credo che Israele abbia questo stesso ruolo”.

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