NAGORNO KARABAKH, ARTSAKH. La situazione dopo il cessate il fuoco (Antidiplomatico 11.12.20)

A cura di Enrico Vigna, 8 dicembre 2020

Con la cessazione delle ostilità e la sconfitta delle ridotte forze militari della Repubblica dell’Artsakh coadiuvate da reparti armeni e la vittoria dell’esercito azero, affiancato da reparti speciali dell’esercito turco e, inoltre è stata denunciata la presenza di terroristi islamici spostati dalla Siria e portati a combattere nella regione. Ora si è aperto un delicato e complesso processo di ritorno ad una normalità che sarà difficile da ripristinare.

Dopo la firma per la fine del confronto armato, sottoscritto tra Armenia, Azerbaigian e Russia, e la cessazione della guerra, favorito dalla mediazione della Russia e dal solito straordinario lavoro diplomatico del Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, dovrà ora essere proprio la stessa Russia a garantire e impedire altre spirali armate e a trovare forme di negoziati costruttivi che salvaguardino la pace e parallelamente, i diritti della minoranza armena dell’Artsakh, tra cui le misure volte alla conservazione dei beni religiosi e culturali, aspetto molto sentito dalla popolazione armena . Un compito e un ruolo molto difficili e delicati.

La guerra ha lasciato un segno profondo sul territorio dell’Artsakh e sulla sua capitale Stepanakert. Il numero dei morti è ufficiosamente per ora intorno a 5000, tra le due parti. Molti edifici sono stati danneggiati, compreso il mercato centrale. Ma molti prigionieri sono tornati, i negozi hanno riaperto. C’è il problema delle migliaia di rifugiati dalle zone ora sotto il controllo azero, a cui si deve trovare alloggio, assistenza sanitaria e alimentare.

Per rispondere alle prime emergenze dall’Armenia e dalla Russia sono già stati formanti centinaia di convogli umanitari.

 

La Russia nel suo ruolo di paese mediatore, come da accordi, ha mandato 1960 militari, 90 mezzi corazzati da trasporto, 380 veicoli e materiali speciali della 15ª Brigata di fanteria motorizzata in qualità di Forza per il mantenimento della pace, agli ordini del tenente generale Rustam Muradov, di etnia azera, con un area di pertinenza suddivisa in due settori: Zona di responsabilità “Nord”, con sede a Martakert; e una Zona di responsabilità “Sud” con base a Stepanakert, dov’è collocato il quartier generale che comanda tutti i 25 posti d’osservazione sparsi sul territorio. L’accordo prevede la presenza militare russa nella regione per 5 anni, più ulteriori 5 se nessuna delle parti comunicherà 6 mesi prima della scadenza la propria contrarietà.

Il Patriarca della Chiesa Apostolica armena Garegin II, ha pubblicamente ringraziato il Presidente della Federazione Russa V. Putin, per aver preservato l’eredità e le radici armene in Karabakh.

Garegin II ha elogiato gli sforzi delle autorità russe, per porre fine alle ostilità, stabilire un cessate il fuoco e stabilire pace, sicurezza e stabilità nella regione. “Vogliamo esprimere la nostra profonda gratitudine per i vostri sforzi nel preservare il patrimonio storico del popolo armeno, monasteri storici, chiese, monumenti culturali nei territori ora controllati dall’Azerbaigian, e solo grazie al dispiegamento delle forze di pace russe, le funzioni religiose in questi territori, sono state  garantite…Il nostro popolo ricorderà per sempre l’importante ruolo della Russia e di V. Putin, nel fermare lo spargimento di sangue nell’Artsakh. Pregheremo per la fermezza della secolare amicizia armeno-russa”, ha dichiarato Garegin II.

QUALE FUTURO? Un contributo di Iniziativa Italiana per il Karabakh

 

Prime riflessioni, a caldo, a poche ore dalla firma dell’accordo trilaterale tra Armenia, Azerbaigian e Russia. Non si placano le proteste per una soluzione che, resa necessaria dall’andamento della guerra, poteva arrivare molto tempo prima e a ben altre condizioni.

Della repubblica di Artsakh, a giudicare dalle prime mappe postate sui social, sembra rimanere ben poco: la piana di Stepanakert, Askeran, un pezzo della provincia di Martuni e una parte di quella di Martakert. Degli undicimila chilometri quadrati che componevano la repubblica prima del 27 settembre ne rimangono pochi, orientativamente intorno ai 3000.

Un isola armena circondata da un mare azero, senza più difese naturali come i monti Mrav e un’unica sottile via di fuga attraverso il corridoio di Lachin. Persa Shushi, persa HadrutTogh; addio al monastero di Dadivank e forse pure a quello di Amaras dove il monaco Mastots creò l’alfabeto armeno nel IV secolo.

Ma c’è anche il rischio che a scomparire per sempre dalle mappe armene sia il monastero di Gandzasar: e qui si apre il primo punto interrogativo, ovvero l’esatta individuazione del territorio ceduto agli azeri

 

Nell’accordo si parla della “regione di Kelbajar“, espressione che dovrebbe riferirsi a quella che attualmente si chiama “regione Nuovo Shahumian”; se così fosse, buona parte della regione di Marakert sarebbe salva (a parte la porzione nord orientale all’altezza di Talish e Mataghis) in quanto si farebbe riferimento al territorio della cittadina di Karvachar (Kelbajar per gli azeri); quindi Gandzasor rimarrebbe a noi. Ma se disgraziatamente si dovesse fare riferimento al “distretto di Kelbajar” allora parte del territorio di Martakert, monastero compreso, andrebbe perduto.

Le prime mappe in circolazione sembrano puntare su regione e non su distretto. In questa fase non sono ancora determinati con esattezza i nuovi confini corrispondenti alla linea del fronte al momento della cessazione delle ostilità. Nei prossimi giorni vedremo, anche se non ci saranno particolari variazioni di rilievo rispetto alle prime anticipazioni. La regione di Martuni rimasta in mano armena dovrebbe rimanere collegata al resto della repubblica da uno stretto passaggio lungo la strada che passa dal villaggio di Nngi.

Detto questo, l’interrogativo più importante riguarda il futuro del territorio rimasto agli armeni.

L’accordo non specifica lo status dello stesso e quindi continuiamo a chiamarlo Repubblica di Artsakh. Ma è chiaro che, in mancanza di una definizione certa, il suo futuro non può essere assicurato: fra cinque o dieci anni, appena i russi se ne saranno andati, l’Azerbaigian troverà la scusa buona per attaccare quel poco che è rimasto.

Serve dunque una perimetrazione rapida e certa: o un riconoscimento della Repubblica del Nagorno Karabakh-Artsakh da parte del maggior numero possibile di Stati (a cominciare da quelli europei) o annessione all’Armenia. Nel primo caso il rischio di attacco non verrebbe meno ma dopo il riconoscimento internazionale sarebbe piuttosto incauto da parte azera attaccare il piccolo Stato e annientare la poca popolazione presente; nel secondo caso, l‘Armenia garantirebbe la sicurezza dei suoi confini con il trattato CSTO.

Questa definizione dello status della regione non è di secondaria importanza: Stepanakert è per buona parte distrutta e così molti centri minori: se si vuole avviare una veloce ricostruzione che favorisca il reinsediamento della popolazione, allora sarà necessario che l’Artsakh abbia un futuro di pace davanti che possa tranquillizzare e avviare le necessarie opere.

Magari l’Europa, e l’Italia, così assenti e distaccate in questa guerra potranno dare il loro contributo politico ed economico a una pace stabile.

A cura di Enrico Vigna, CIVG  –  8 dicembre 2020

ENRICO VIGNA

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“Italia per l’Artsakh”: “Una Voce nel Silenzio” a sostegno delle famiglie di Shusha colpite dalla guerra (Ticinonotizie 11.12.20)

MILANO –  A poche settimane dal cessate il fuoco in Nagorno Karabakh, teatro del recente conflitto tra le forze armene e l’Azerbaigian sostenuto dalla Turchia, molti territori dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh sono stati occupati dall’esercito azero. In aiuto delle numerose famiglie armene che stanno vivendo il dramma dell’esodo dalle proprie dimore ancestrali e la diffusa vandalizzazione degli storici simboli cristiani delle loro terre, l’associazione Una Voce nel Silenzio – da anni impegnata nel sostegno delle comunità cristiane perseguitate per la loro fede e private della libertà – ha avviato la campagna “Italia per l’Artsakh”.

 

Con il lancio di una raccolta fondi, l’associazione ha come finalità la consegna di aiuti concreti ai nuclei familiari di Shusha, città simbolo dell’Artsakh, oggi sotto controllo azero e tra le più colpite dal conflitto. Là, in una terra che ha registrato un imponente esodo dei suoi storici e legittimi abitanti, strappati via dalle loro case da una guerra ingiusta, è necessario un sostegno reale da parte dell’Europa, ed è obiettivo primario di Una Voce nel Silenzio donare a tante famiglie, anziani e bambini – i primi a pagare le conseguenze della guerra – un Natale che infonda il suo più profondo significato di gioia e di speranza. 

 

Per info:

-info@unavocenelsilenzio.it
-Stefano Pavesi +39 347 942 8799
-https://www.unavocenelsilenzio.it/donations/dona-la-fede

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Turchia: oggi come ieri? (Gariwo 10.12.20 )

Per l’anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: 10 dicembre 1948 – 10 dicembre 2020

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stata proclamata dall’ONU il 10 dicembre del 1948, il giorno dopo l’approvazione della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio.

Nel 72°anniversario che cade oggi, è bene sottolineare che il valore della Dichiarazione sta nel suo carattere di Universalità: libertà e uguaglianza dei diritti, dignità della persona, riguardano ogni essere umano, senza alcuna distinzione di genere, classe, cultura, etnia, religione.

Come notava Marcello Flores, se è vero che la cultura dei diritti è diventata internazionale, è anche vero che nella nostra contemporaneità i diritti umani sono violati costantemente in molte aeree del mondo, e anche nel nostro Paese, se pensiamo ai richiami della Corte Europea dei Diritti Umani in tema di migranti e carceri.

Oggi siamo chiamati almeno a far rivivere lo spirito della Dichiarazione cercando di leggere lo status dei diritti nel mondo, non per ricavarne ragioni di pessimismo e inerzia, ma per supportare e unirci a chi con coraggio, denuncia, diffonde appelli pubblici, fa conoscere le gravi violazioni che si ritrovano nella cronaca quotidiana, se si esercita un po’ di attenzione. Il moto di protesta immediato non basta, è come l’emozione che si prova quando vediamo l’immagine del bambino Aylan morto sulla spiaggia di Bodrum. È momentaneo, e poi in genere:“ cambiamo argomento”.

Prendendo in considerazione il caso Turchia, vorrei sottolineare il valore di un pronunciamento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Padova e del suo Presidente, Avvocato Leonardo Arnau, sull’arresto avvenuto il 20 novembre a Diyarbakir, nell’est della Turchia, di 20 Avvocati impegnati nella difesa dei Diritti Umani. Una lettera coraggiosa e puntuale, espressione di un impegno sul tema della salvaguardia di Attivisti e Avvocati che operano per la difesa dei Diritti Umani, tema che il Consiglio dell’ordine considera centrale, tanto da avere istituto la Commissione Diritti Umani della quale è stato coordinatore lo stesso Presidente Arnau. Il Comunicato richiama il Governo italiano e le istituzioni europee a fare pressione sulle autorità turche perché rispettino gli obblighi internazionali: sicuramente considerato dalle autorità turche, indebita ingerenza nella sovranità dello Stato, come accade sempre quando si tratta di Stato autoritario. Il Presidente Erdogan ha imboccato la strada per far diventare la Turchia potenza islamica e asiatica, erede dell’Impero ottomano, assai attiva nel gioco geopolitico delle grandi potenze. Con arresti continui dal 2016 ad oggi di giornalisti, intellettuali, attivisti, avvocati, professori universitari, il governo turco cerca di piegare e silenziare ogni forma di opposizione violando ogni norma contenuta nel codice di procedura penale. A proposito dell’arresto reiterato di Osman Kavala, Presidente dell’Istituto “Anadolu Kultur” e Attivista dei Diritti Umani, definito da Erdogan il “Soros rosso”, Human Rights Watch aveva dichiarato che si tratta di un arresto «illegale e vendicativo», mentre Amnesty International ha parlato di « atto di deliberata e calcolata crudeltà». Il processo, ennesimo, per l’ultima accusa di “spionaggio” è previsto per il 18 dicembre.

Oggi come ieri?

In epoca ottomana non esisteva parità di diritti tra i sudditi dell’Impero. Le minoranze cristiane, e mi riferisco al caso armeno, erano considerati sudditi di serie B. Non potevano, ad esempio, denunciare un sopruso o un atto violento subito da un suddito islamico. La loro testimonianza in tribunale non valeva quanto quella di un suddito islamico. Ai non musulmani, i dhimmi, comunità sottomessa dei ghiavur, gli “infedeli”, non era riconosciuta una parità di diritti sul piano giuridico. Sappiamo che cosa è accaduto più di un secolo fa quando gli armeni si sono ribellati cercando la loro “primavera araba”, ieri un regime autoritario ultranazionalista, che voleva far valere l’identità unica “turca”, ha sterminato con un atto genocidario un milione e mezzo di Armeni.

Oggi, con una realtà repubblicana svuotata progressivamente dei valori democratici, in un Paese dove i musei diventano moschee, dove ci si unisce ai fratelli turcofoni azeri per creare un’“unica nazione” di 100 milioni di fedeli e liberare la strada verso est dall’ingombro di 150.000 armeni del Nagorno Karabagh, si manifesta con sempre maggiore urgenza la necessità di servirsi della memoria dei mali estremi del passato per il tempo presente, per denunciare, testimoniare, agire. Sotto l’occhio di tutti resta il fatto che c’è ancora bisogno di Giusti: “I Giusti ieri come oggi, sempre necessari”.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Carta Costituzionale di un mondo globalizzato, unita alla Carta della Memoria che Gabriele Nissim, Presidente di Gariwo ha lanciato per la sottoscrizione, ci dice a chiare lettere che non solo siamo nati liberi e uguali in diritti e in dignità, ma che ognuno di noi è titolare del compito di risanare il presente perché consapevoli che la nostra realtà è profondamente legata alla realtà degli altri.

Grazie all’Ordine degli Avvocati di Padova e alla Città di Padova eletta a “Città Rifugio per i Difensori dei Diritti Umani”. Link al Seminario “Focus Turchia e Diritti Umani”, questa sera alle ore 18.

In calce la lettera di denuncia: “Sull’arresto di venti avvocati a Dyarbakir”.

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PREOCCUPAZIONE PER FAZIOSA MISSIONE DIPLOMATICADI PARLAMENTARI ITALIANIIN AZERBAIJAN (Politicamentecorretto 10.12.0)

Il “Consiglio per la comunità armena di Roma” esprime preoccupazione per il viaggio che un gruppo di parlamentari italiani ha appena compiuto in Azerbaigian e delle dichiarazioni faziose anti-armene pronunciate dai rappresentanti eletti della Repubblica.

La scelta di prendere parte al tour promozionale nei territori conquistati militarmente, allestito dalla dittatura azera a poche settimane dalla fine della guerra nel Nagorno Karabakh scatenata dallo stesso regime azero con l’appoggio della Turchia e di mercenari jihadisti rischia di pregiudicare l’attività diplomatica della repubblica italiana che fa parte del Gruppo di Minsk dell’Osce.

La  delegazione di deputati e senatori, guidata dal vice-Presidente della camera Ettore Rosato (PD) e composta da On Ettore Rosato  (Italia Viva), capo delegazione, Sen. Alessandro Alfieri  (PD), On. Rossana Boldi  (Lega), On. Pino Cabras (M5S), Sen. Gianluca Ferrara  (M5S), Sen. Maria Rizzotti  (Forza Italia), Sen. Adolfo Urso   (Fratelli d’Italia) ha avallato con dichiarazioni pubbliche la narrazione storica e politica azera del regime di Aliyev e non ha esitato a mettersi in posa con il dittatore per una sorridente foto ricordo.  I parlamentari italiani hanno taciuto sulle responsabilità azere per aver scatenato l’invasione militare, aver coinvolto le forze armate turche e migliaia di jihadisti provenienti dalla Siria. Essi hanno taciuto sull’utilizzo, per tutta la durata della guerra, di bombe al grappolo e al fosforo bianco contro la popolazione civile armena. Non hanno chiesto al dittatore azero della sorte di centinaia di prigionieri civili e militari detenuti e torturati in Azerbaijan, la cui restituzione, contemplata nell’accordo di tregua firmato più di un mese fa sta tardando. Non hanno chiesto spiegazioni sulle decapitazioni di soldati armeni e esecuzioni sommarie di civili armeni da parte delle truppe regolari azere. Fatti filmati e distribuiti sulle reti sociali dagli stessi carnefici.

Tutto ciò veniva denunciato dalla stampa nazionale e internazionale, da organizzazioni internazionali e ONG del calibro di Human Rights Watch e Amnesty International. I nostri rappresentanti eletti non potevano non sapere. Essi hanno preferito tacere.

«In quanto cittadini italiani di origine armena, riteniamo – afferma il Consiglio per la comunità armena di Roma – che questa scelta di campo sia assolutamente inopportuna e pericolosa in quanto rafforza la convinzione della leadership azera che con l’uso della forza è possibile ottenere conquiste territoriali concrete senza alcun timore di ripercussioni internazionali e pone l’Italia fuori da quella posizione di equidistanza raccomandata dai negoziatori internazionali dell’Osce, di cui l’Italia è membro.

Sempre in quanto cittadini italiani di origine armena, vorremo anche sapere se la missione dei deputati è stata sovvenzionata con i soldi dei contribuenti italiani o se il viaggio è stato pagato dal Paese ospitante».

CONSIGLIO PER LA COMUNITA’ ARMENA DI ROMA

On Ettore Rosato(Italia Viva), capo delegazione, Rosato_E@camera.it,

Sen. Adolfo Urso(Fratelli d’Italia), adolfo.urso@senato.it,

Sen. Maria Rizzotti(Forza Italia), maria.rizzotti@senato.it,

Sen. Gianluca Ferrara(M5S), Gianluca.ferrara@senato.it,

Sen. Alessandro Alfieri(PD)  alessandro.alfieri@senato.it

On. Rossana Boldi(Lega), Boldi_R@camera.it,

On. Pino Cabras (M5S) cabras_P@camera.it,

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AZERBAIGIAN: La parata della vittoria di Baku (Eastjournal)

“Armenia cristiana e fiera”: il saggio di Dell’Orco sul paese delle pietre urlanti (Barbadillo 10.12.20)

Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore Idrovolante un estratto del libro “Armenia cristiana e fiera” di Daniele Dell’Orco (pp.175, euro 20), edizioni Idrovolante (qui il link per acquistarlo).

***

Il viaggio alla scoperta degli angoli più remoti dell’Armenia non è solo storico, politico e sociale.
Finisce per diventare, volenti o nolenti, un pellegrinaggio.
Vallata dopo vallata, canyon dopo canyon, specchio d’acqua dopo specchio d’acqua ci si avvicina sempre di più alle radici della cristianità. L’Armenia, come detto, è stato il primo paese al mondo ad adottare il cristianesimo (nel 301, basti pensare che il famoso Editto di Costantino che faceva cessare le persecuzioni dei cristiani è del 313, anche se studi più recenti ritengono che fosse una specie di attuazione di misure contenute nel precedente editto di Galerio del 311, mentre l’adozione del Cristianesimo come religione di stato nell’Impero Romano avvenne quasi un secolo più tardi, nel 391 durante il regno di Teodosio I), e alla spiritualità questo fiero popolo caucasico, che ha conosciuto nella storia la grandezza di un impero che si estendeva fino a Gerusalemme, non ha mai rinunciato.
Nel corso dei secoli l’Armenia è stata dominata, conquistata, distrutta, messa in ginocchio in tutti i modi possibili.
Ma ovunque si guardi capita ancora oggi di posare gli occhi su di un qualche khatchkar, una croce scolpita nel tufo discendente dai menhir (monoliti verticali).
In tutto il paese se ne contano almeno 30mila.
Il khatchkar più antico di cui si ha notizia risale al IX secolo, periodo in cui il paese visse un ritorno della propria fede dopo la liberazione dal dominio arabo, ma il periodo il cui l’arte di scolpire i khatchkar ha raggiunto il suo apice è quello che va dal XII al XIV secolo, fino all’invasione dei Mongoli.
Più tardi, tra il XVI e il XVII secolo questa forma d’arte ha vissuto una seconda primavera, senza però mai raggiungere le vette artistiche toccate in precedenza.
Normalmente raffigurano, al centro, la “croce fiorita” armena. Ma le varianti sono infinite.
I khatchkar, immancabili in quasi tutti gli edifici religiosi, potevano essere offerte votive, monumenti funerari o commemorativi. L’unico obbligo era, come per i monasteri, di essere orientati ad Occidente. Poi per il resto la fantasia faceva e ha sempre fatto il suo corso.
Ma c’è anche un significato più “civile”: i khatchkar sono stati intagliati nel corso dei secoli certamente da fini scultori, ma anche da persone semplici, contadini, artigiani, pastori.
Nella tradizione armena ogni padre, a cui era nato un figlio maschio, scavava dalla montagna un blocco di tufo alto anche più di due metri e lo scolpiva con cura e pazienza per lungo tempo per poi collocarlo in un punto visibile, come messaggio di concretizzazione della preghiera e soprattutto a dimostrazione che l’uomo quando non può pensare o pregare, lavora.
In tempi anche piuttosto recenti può capitare che, in occasione dell’inaugurazione di un nuovo ponte che evita ore o giornate di viaggio per raggiungere la riva di un fiume o la pendice di una vallata c’è sempre qualcuno che infigge un nuovo khatchkar nel terreno.
I khatchkar portano incise croci nude, senza il Cristo, a testimonianza che il figlio di Dio non è morto ma è salito al cielo
Attorno alla croce sono intagliate allegorie di foglie o frutti a rappresentare la continuità della vita anche dopo la morte.
Come detto, in Armenia i khatchkar sono dappertutto, ma i più belli si trovano in prossimità delle centinaia di monasteri posti un po’ ovunque, fin negli angoli più remoti della natura più selvaggia.
C’è un luogo speciale, però, che vale la pena di essere raccontato. A Noratus si trova un cimitero medievale nascosto tra vie sconnesse e abitazioni fatiscenti. Dopo la conquista, e conseguente distruzione, di Julfa ad opera degli azeri
Sono almeno 1000, sorvegliati a vista dall’anziana che mentre rende omaggio ai cari mi spiega che il corpo dei defunti, posto con i piedi alla base della croce, dovrà vedere il sole che sorge non appena si risveglierà dalle tenebre.
Tutt’intorno, diversi khatchkar sono circondati da pezzi di vetro. Non per incuria, ma per tradizione. Una storia molto popolare a Noratus narra di un monaco del XIX secolo di nome Ter Karapet Hovhanesi-Hovakimyan.
Viveva nel Monastero vicino al villaggio e conduceva le cerimonie di sepoltura proprio nel cimitero. La distanza da colmare, tuttavia, era considerevole.
E, stanco di ripetere il tragitto, fece costruire una cella scavata a Noratus per poterci rimanere.
Quando ebbe ormai 90 anni, chiese agli altri monaci del suo Monastero di essere seppellito vivo nella sua cella. Le sue ultime parole furono: “Non temo la morte. Vorrei che anche voi non ne aveste paura. Non temete mai nulla, ma solo Dio. Che chiunque abbia paura venga da me. Versi acqua sulla pietra della sepoltura, ne bevva, se ne versi sul viso, sul petto, sulle braccia e sulle gambe. Infine, rompa pure il vaso con l’acqua e la paura lo abbandonerà”.
Queste lapidi intagliate, che dicono molto del censo, dell’età e della storia di vita dei proprietari, fanno impressione se viste da lontano perché sono così fitte, così imponenti pur nella loro irregolarità, così ordinate come fossero dei ranghi serrati, da sembrare un esercito di pietra.
Fu questa la visione che si parò di fronte agli occhi del grande condottiero turco-mongolo Tamerlano, il Conquistatore, considerato uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia.
Era considerato il leader più potente del mondo islamico dopo la sconfitta dei Mamelucchi egiziani e siriani e del primo Impero ottomano.
Si riteneva l’erede di Gengis Khan (com’è scritto sulla sua tomba nel mausoleo di Samarcanda) e credeva di poter riportare in vita l’impero mongolo.
Tamerlano segnò al tempo stesso il culmine e il declino delle grandi invasioni dei cavalieri nomadi in Asia e in Europa.
Condusse campagne in tutta l’Asia occidentale, meridionale e centrale, nel Caucaso e nelle regioni meridionali della Russia.
Quando il suo esercito si avvicinò a Noratus, gli abitanti del villaggio erano sensibilmente inferiori come numero ed equipaggiati in larga parte solo di forche e bastoni. Ma non erano ancora pronti ad accettare la sconfitta. Così, secondo la leggenda, decisero di ricoprire di lenzuola tutti i khatchkar e di “armarli” con elmetti, asce e spade.
Quell’inaspettato mare di soldati pronti ad affrontare i mongoli spada sguainata colse di sorpresa Tamerlano, che pure era un implacabile distruttore di eserciti nemici e delle città che gli si opponevano, a ritirarsi senza indugio.
Tornò settimane dopo, meglio equipaggiato e deciso stavolta a saccheggiare la città ad ogni costo.
Ovviamente ci riuscì in pochi minuti.
Ma gli abitanti di Noratus, ancora oggi, raccontano questa leggenda per far capire cosa rappresentano per loro le sacre pietre del cimitero: l’atto di rimanere in piedi, persino contro un nemico imbattibile, che li ha temuti foss’anche solo per un giorno.

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Armenia, il nunzio Bettencourt: “Ho portato il saluto e la solidarietà dal Papa” (Acistampa 10.12.20)

EREVAN , 10 dicembre, 2020 / 6:00 PM (ACI Stampa).-
Quattro giorni in Armenia per il nunzio Bettencourt, per visitare le attività cristiane, parlare con il Catholicos della Chiesa Apostolica Armena, ma anche con il presidente e il ministro degli Esteri, e dare speranza ai profughi del Nagorno Karabakh. All’indomani del conflitto con l’Azerbaijan, concluso con un doloroso accordo che cede molti territori a Baku e mette a rischio lo storico patrimonio culturale cristiano nella regione che in armeno è chiamata Artsakh, l’arcivescovo José Bettencourt, nunzio in Georgia e Armenia, con sede a Tbilisi, ha portato il saluto e la solidarietà del Papa ad una popolazione ancora scioccata.

E, in fondo, la Santa Sede è sempre stata vicina al popolo armeno. Proprio durante i cinque giorni di viaggio del nunzio, l’arcivescovo Khajag Barsamian, delegato della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, ha incontrato il Pontificio Consiglio della Cultura la scorsa settimana, e con il Cardinale Ravasi e l’arcivescovo Tighe ha parlato proprio della preservazione del patrimonio cristiano in Artsakh.

Ma quali sono state, nel dettaglio, le tappe del nunzio? ACI Stampa ne ha parlato direttamente con l’arcivescovo Bettencourt.

Perché era importante che il nunzio fosse presente in Armenia?

È dovere di ogni Nunzio visitare le Chiese particolari e i Paesi che gli sono affidati. Solitamente visitavo l’Armenia una o due volte al mese. Ma in questo ultimo periodo, ed esattamente dal marzo passato, non ho potuto recarmi nel Paese a causa delle frontiere chiuse tra la Georgia e l’Armenia per l’emergenza sanitaria. L’Armenia è uno dei Paesi che più sono stati colpiti dalla pandemia. Per me è stato un grande sacrificio non potermi incontrare con questi fratelli durante i mesi passati, ma ne ero totalmente impossibilitato. Alla prima occasione che ho avuto, pertanto, mi sono recato in Armenia, soprattutto all’indomani della fine delle ostilità armate, per portare il saluto e la solidarietà del Santo Padre.

Durante la sua visita, ha anche incontrato i rifugiati dal Nagorno Karabakh. Quale è la situazione attuale?

Sin dal primo giorno, arrivando all’ospedale cattolico di Ashtots e a Spitak presso le Suore di Madre Teresa, mi sono imbattuto in questa triste realtà dei rifugiati, dei feriti e dei caduti nella recente guerra. Molte famiglie vivano profondi drammi legati alla morte dei giovani figli o a irreversibili danni danni alla salute dei soldati divenuti disabili. È forza lavoro che viene a mancare nella già fragile e precaria situazione economica armena e tante famiglie non hanno i mezzi per accedere a cure mediche adeguate. Ho ascoltato dai religiosi storie cruente e crudeli di violenza e di odio.

Quando c’è stato l’incontro con i rifugiati?

Domenica, dopo la Santa Messa celebrata nella cattedrale armeno cattolica di Gyumri ho avuto la possibilità di incontrare alcune famiglie profughe dalle regioni di guerra. Ho visto sui loro volti il dolore di padri e di madri che ogni giorno lottano per dare un futuro di speranza ai loro figli. Erano presenti anziani e neonati, diverse generazioni accomunate da una tragedia. Il numero dei profughi è incerto, ma si tratta di migliaia di persone. A quanto mi dice l’Arcivescovo Minassian, al momento ci sarebbero almeno 6000 orfani, bambini che hanno perso uno dei due genitori durante il conflitto. La sola comunità cattolica di Gyumri e le Suore Armene dell’Immacolata Concezione hanno accolto un gran numero di famiglie, garantendo loro un tetto e il necessario per la vita quotidiana. Il tutto, ovviamente, si rende possibile grazie all’aiuto fraterno proveniente dalla Caritas Internationalis, da altre Caritas nazionali e da varie Organizzazioni umanitarie cattoliche.

Quale è il ruolo che la Chiesa cattolica sta avendo in questo periodo di crisi in Armenia?

Oltre il servizio di carità, la Chiesa cattolica vuole innanzitutto veicolare la speranza verso questi Popoli. Il Santo Padre, in prima persona, durante i 44 giorni di conflitto per ben 4 volte ha elevato un accorato appello per la pace nel Caucaso e ha invitato la Chiesa universale a chiedere dal Signore il sospirato dono della fine dei conflitti. Molte Conferenze Episcopali ed altre Associazioni ed Agenzie umanitarie cattoliche, accogliendo l’invito del Pontefice, hanno promosso una serie di iniziative a benefico di queste popolazioni, così come hanno riportato i media cattolici di tutto il mondo.

Nell’agenda dei suoi quattro giorni in Armenia c’era anche un incontro con il Catholicos Karekin II, patriarca della Chiesa Apostolica Armena. Cosa sta facendo oggi la Chiesa Apostolica Armena e in che modo può collaborare con la Chiesa Cattolica?

Ho incontrato il Patriarca ed ho subito avvertito la sofferenza del Pastore, che “con-patisce” con il suo popolo. Si tratta di una sofferenza profonda, palpabile anche nei tratti fisici del Patriarca, che difficilmente un non-armeno potrà comprendere fino in fondo. La prima “collaborazione”, ovviamente, è quella della preghiera e della mobilitazione delle coscienze di ogni uomo di buona volontà, ad iniziare da coloro che la Provvidenza ha messo a capo di popoli e nazioni, perché vengano promossi percorsi di pace.

Durante il suo viaggio, ha avuto diversi incontri istituzionali, e in particolare con il presidente Sarkissian e con il vice ministro degli Esteri. Quale pensa potrà essere la via di uscita alla crisi?

Ho avuto modi di incontrare il Presidente della Repubblica, per quasi un’ora, ed il Vice Ministro degli Affari Esteri, dato che il nuovo titolare del Dicastero si trovava all’estero per incontri istituzionali. Da ambedue le Autorità è emersa la difficoltà del momento presente, una difficoltà a lungo raggio che investe sia il mondo politico che quello sociale. Il “cessate il fuoco”, siglato il 10 novembre, è soltanto l’inizio per un accordo di pace, che risulta essere difficile e precario per tutto quanto ancora irrisolto resta sul terreno delle trattative. Certamente la Comunità Internazionale è chiamata a svolgere un ruolo protagonista. Nei prossimi giorni si riunirà il “Gruppo di Minsk” (composto dai rappresentanti degli USA, Francia e Russia) che dovrà mediare tra le Parti belligeranti per cercare di trovare, per quanto possibile, dei “compromessi” atti ad abbassare la tensione. L’unica uscita è quella diplomatica con il pieno sostegno della Comunità Internazionale.

Cosa si sta facendo per salvaguardare il patrimonio culturale del Nagorno Karabakh?
Certamente tutti, ad iniziare dalla Santa Sede, sono coscienti dell’ineguagliabile patrimonio artistico e culturale che i millenari monumenti del Nagorno Karabakh testimoniano. Le loro pietre sono “vive” e ci parlano di storia, di civiltà e di fede presenti in quei territori, che hanno avuto stretti legami con la Terra Santa. Siamo speranzosi che tutte le Parti coinvolte faranno tutto il possibile per custodire e salvaguardare detto patrimonio, che appartiene non solo ad una nazione, bensì’ all’intera umanità, tanto da essere sotto la tutela dell’UNESCO.

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Comunicato stampa: Nagorno-Karabak e offensiva contro gli Armeni abitanti nella regione (Padovanews 10.12.20)

Approvata all’unanimità nell’ultimo Consiglio Comunale del 30 novembre una mozione “bipartisan” sulla questione del Nagorno-Karabak e per la pace e l’autodeterminazione dei popoli firmata dai due vicepresidenti del Consiglio comunale Roberto Bettella e Ubaldo Lonardi.

La pandemia che da quasi un anno monopolizza l’attenzione generale e dei media in particolare rischia di far dimenticare che, in molte parti del mondo, la popolazione è afflitta non solo dall’emergenza sanitaria ma anche da guerre e violazioni dei diritti umani.

La mozione vuole riportare l’attenzione sui diritti di queste popolazioni e impegna il Sindaco a intervenire presso il Ministero degli Esteri perché l’Italia, di concerto con l’Europa, si attivi in particolare per porre fine al conflitto armato tra Azerbaijan e Armenia che ha per oggetto il territorio autonomo del Nagorno-Karabak, abitato in prevalenza da Armeni.

E’ vero, ricorda la mozione, che il “cessate il fuoco” dello scorso 10 novembre, raggiunto con la mediazione della Russia, ha sospeso le reciproche ostilità sul terreno – che sono già costate numerose vittime anche civili – ma non si è fermata purtroppo l’offensiva contro l’identità culturale armena nella regione contesa.

La mozione chiede anche che il Sindaco si attivi con il Ministero degli Esteri affinché l’Italia applichi, nei confronti della Turchia (che sostiene militarmente l’Arzebaijan), quanto previsto dalla legge 185 del 1990 che vieta l’esportazione e il transito delle armi verso Paesi in conflitto armato.

La mozione è stata approvata all’unanimità dal Consiglio comunale, a conferma del particolare impegno che Padova ha sempre espresso a sostegno della pace e dei diritti degli uomini e dei popoli.

(Padovanet – rete civica del Comune di Padova)

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Mondo / Nogorno Karabakh : l’esodo degli armeni (Popolis 10.12.20)

La guerra in Nogorno Karabakh si è conclusa con una tregua firmata da Armenia e Azerbaijan e definita dal premier armeno, Nikol Pashinyan, “indicibilmente dolorosa per me e per il nostro popolo”.

Una decisione presa il 9 novembre, quando ormai non restava altra scelta: l’esercito azero era alle porte di Stepanakert, la capitale della regione. Da un punto di vista geopolitico il conflitto è stato vinto dall’Azerbaijan, che ha costretto gli armeni a lasciare i sette distretti del Karabakh per cui si combatteva e la storica città di Shushi. Gli accordi, inoltre, prevedono la costruzione di una via che collegherà l’Azerbaijan con l’enclave del Nakhchivan e la Turchia.

Paesaggio armeno
Paesaggio armeno

Le conseguenze. In questi giorni è in corso un grande esodo di armeni dalle aree che passeranno agli azeri. E non solo. Stanno circolando immagini che mostrano case in fiamme, bestie uccise e alberi tagliati dagli armeni, che non sono intenzionati a lasciare le proprie ricchezze agli azeri. Questo nonostante le rassicurazioni date dall’esecutivo di Ilham Aliyev, che ha escluso ritorsioni verso la popolazione che continuerà a vivere in quelle terre o che vi farà ritorno.

Monastero in pericolo. I simboli religiosi, come spesso accade nei conflitti, contano. E in questo caso ad essere a rischio è l’abbazia di Dadivank, costruita a partire dall’XI secolo e di grande importanza per la chiesa apostolica armena.

La struttura si trova nel territorio che passerà agli azeri e gli armeni si sono preparati facendo un ultimo pellegrinaggio e celebrando là dodici battesimi. Anche in questo caso il governo azero ha dichiarato che il sito sarà protetto, ma la paura è palpabile e la Russia ha già schiarato suoi uomini per evitare la distruzione del monastero.

La comunità internazionale. Resta ora da vedere come reagiranno gli altri paesi di fronte agli ultimi eventi. La Turchia aveva sostenuto l’Azerbaijan durante la guerra, ma è presto per capire tutti i dettagli: il parlamento di Ankara ha deciso che le sue forze si uniranno nella regione a quelle russe, ma Mosca sostiene che resteranno nei confini azeri. Nel frattempo la Francia si prepara a votare il riconoscimento del Karabakh (la votazione è prevista per il 25 novembre).

E in territorio europeo si sono registrati atti di razzismo, come attività vandaliche nel memoriale del genocidio armeno a Lione e minacce alla comunità armena in Germania.

L’articolo integrale di Daniele Bellocchio, “Nagorno Karabakh: la fine della guerra non è l’inizio della pace, può essere letto su Osservatorio Diritti.

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Armenia: Catholicos Karekin II chiede dimissioni premier Pashinyan, “per evitare ulteriori disagi, possibili scontri e tragiche conseguenze nella vita pubblica” (SIR 09.12.20)

Anche il Catholicos Karekin II, capo e patriarca supremo della Chiesa apostolica armena, chiede le dimissioni del premier Nikol Pashinyan. Lo ha annunciato il Catholicos stesso in un messaggio rivolto ieri a tutti gli Armeni in Patria e in diaspora e diffuso anche in lingua inglese. “Stiamo vivendo giorni duri di dolore, angoscia e ansia dopo aver sperimentato gli orrori della guerra. Abbiamo subito il martirio di migliaia di nostri figli; abbiamo subito la perdita di una parte significativa dello storico territorio dell’Artsakh; e abbiamo assistito alla più grande delle minacce esterne alla nostra esistenza”. “Una profonda crisi politica interna”, scrive il Catholicos, attraversa ora il Paese ponendo “nuovi pericoli” e “sfide serie” alle quali “è assolutamente necessario trovare una soluzione urgente”. Per questo motivo, il Catholicos ha incontrato personalmente il presidente della Repubblica, il presidente dell’Assemblea nazionale armena e rappresentanti di varie organizzazioni politiche e nazionali nella “convinzione condivisa da tutti” che la situazione di crisi debba essere “risolta in modo esclusivamente costituzionale, in condizioni di solidarietà nazionale e buon senso”. In questa prospettiva, Karekin II ha incontrato il primo ministro della Repubblica di Armenia, Nikol Pashinyan, invitandolo a dimettersi alla luce delle “crescenti tensioni interne, gravi sfide esterne e una minore fiducia dell’opinione pubblica”. “Chiediamo ora all’Assemblea nazionale dell’Armenia – scrive il Catholicos – di agire in modo responsabile in questo momento critico per la nostra patria: ascoltare gli appelli del popolo; eleggere un nuovo primo ministro in consultazione con i partiti politici; e formare un governo provvisorio di unità nazionale”. “Solo un governo del genere, composto da professionisti esperti che detengono la fiducia del pubblico, sarà in grado di risolvere i problemi che il nostro popolo deve affrontare, ripristinare la solidarietà e l’unità nazionali e organizzare elezioni parlamentari straordinarie che sono indiscutibilmente necessarie”. Il messaggio rivolge poi un invito a tutto il popolo armeno, alle autorità e ai partiti politici di “astenersi da parole e azioni che possono provocare violenza e seminare odio in questi giorni difficili. Come nazione, dobbiamo essere uniti per superare la crisi attuale”.

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Erdogan condanna il razzismo: un perbenismo a giorni alterni (Ilfattoquotidiano 09.12.20)

Il razzismo a giorni alterni e la grande contraddizione del sultano Erdogan. Dopo la partita di Champions’s League interrotta tra Psg e Basaksehir, il Presidente turco ha tuonato: “No a qualsiasi forma di razzismo, l’Uefa intervenga”.

Condivisibile il richiamo, visto l’episodio che ha coinvolto le parole offensive del quarto uomo, ma fa specie ad esempio il silenzio turco su altro razzismo che c’è stato in passato nei confronti dei curdi, o dei greci del Ponto, o degli armeni o dei ciprioti sulla cui isola, stato membro Ue, ci sono ancora 50mila militari turchi che occupano il lato settentrionale.

Si tratta di una sorta di perbenismo a giorni alterni, o meglio detto di convenienza, che viene brandito come una clava dal governo di Ankara solo per un proprio tornaconto elettorale e anche geopolitico. Il perché è presto detto e può essere spiegato con il metro della secca cronaca.

Le difficoltà economiche del sistema turco, con la lira che ha perso il 24% in un anno rispetto al dollaro, si sono sommate alle tesi della profondità strategica perseguite da Erdogan, che dopo aver ottenuto successi in Siria e in Libia punta ad allargare il proprio bacino di influenza nel dossier energetico pur in contrasto con leggi e trattati. Il Mediterraneo orientale è ricco di giacimenti di gas: Erdogan sta andando contro tutto e tutti pur di non restarne tagliato fuori.

Cosa c’entra allora il razzismo e il suo passato? I casi citati si intrecciano pericolosamente sull’asse economia-politica-società. Un rapido ripasso di storia recente può essere di aiuto in questa analisi.

Erdogan ha avviato una campagna contro i curdi per imporsi nel nord della Siria, a mio avviso utilizzando lo stesso metro di pulizia etnica usato contro armeni, greci del Ponto e ciprioti. Ma questa volta il silenzio della comunità internazionale è stato ancora più stridente: in Siria lo scorso anno è andato in scena uno spettacolo drammatico, con i curdi, già grandi alleati dell’Occidente nella lotta contro l’Isis, che sono stati attaccati da Erdogan con il consenso Usa.

Risalgono al 2015 le accuse della milizia curda siriana (Ypg) e del principale partito filo-curdo della Turchia (Hdp) contro la Turchia di aver permesso ai soldati dello Stato Islamico di attraversare il confine per attaccare Kobane. Secondo un rapporto pubblicato da Human Rights Watch nel 1993, “i curdi in Turchia sono stati uccisi, torturati e scomparsi a un ritmo spaventoso da quando il governo di coalizione del primo ministro Suleyman Demirel è entrato in carica nel novembre 1991”.

Stesso cliché contro Cipro, invasa nel luglio del 1974 in risposta ad un tentato colpo di Stato greco e da allora militarizzata e vandalizzata: tutte le chiese di culto diverso dal musulmano (ebraiche, ortodosse, maronite) sono state devastate o trasformate in stalle, bordelli o resort, come dimostra il volume fotografico “Monumenti religiosi nella parte di Cipro occupata dalla Turchia”, scritto da Charalampos Chotzakoglou, professore di Arte bizantina presso la Libera Università Ellenica.

Degli armeni si sa qualcosa di più anche grazie ad alcuni pregevoli libri che sono stati pubblicati anche in lingua italiana: il genocidio fa riferimento alle deportazioni ed eliminazioni di 1,5 milioni di armeni perpetrate dall’Impero ottomano. Il governo turco non ha mai riconosciuto il genocidio, anzi è punito con il carcere fino a tre anni chi in Turchia osi nominare in pubblico l’esistenza del genocidio, mentre una legge francese punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno.

Dopo la clava religiosa ecco quella del gas, che di fatto è diventato il nuovo metro della politica erdoganiana: Ankara contesta la Convenzione di Montego Bay sull’uso delle piattaforme marittime e il Trattato di Lisbona che delimitò le acque internazionali nell’Egeo dopo la prima guerra mondiale.

E’ alla luce di questo quadro storico che fa specie se non orrore sentire il Presidente turco dolersi giustamente per un episodio di razzismo nel pallone, ma non dire una parola su condotte di ieri e di oggi perpetrate dalla Turchia. E’ questo il razzismo a giorni alterni di Erdogan, e la sua grande contraddizione di cui l’Europa e le intellighenzie non intendono purtroppo occuparsi.

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