Armenia: maxi protesta per chiedere dimissioni del premier (Swissinfo 05.12.20)

Migliaia di persone, oltre 10.000 secondo l’Afp e “decine di migliaia” secondo l’agenzia di stampa russa Interfax, hanno sfilato in corteo oggi a Erevan chiedendo le dimissioni del premier armeno Nikol Pashinyan.

I manifestanti urlavano slogan come “L’Armenia senza Nikol” e “Nikol traditore”.

Dopo sei settimane di sanguinosi combattimenti nel Nagorno-Karabakh, meno di un mese fa Armenia e Azerbaigian hanno siglato un accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia.

L’intesa prevede che l’Azerbaigian mantenga i territori conquistati e che l’Armenia gli ceda anche altre zone del Nagorno-Karabakh e dei territori limitrofi e ciò ha provocato massicce proteste contro Pashinyan, di cui l’opposizione chiede le dimissioni.

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>> Perché in Armenia c’è una lotta di politica interna (Euronews)

Nagorno-Karabakh: Pashinyan, definito accordo per scambio prigionieri fra Armenia e Azerbaigian (Agenzia Nova 05.12.20)

Erevan, 05 dic 10:16 – (Agenzia Nova) – Armenia e Azerbaigian hanno accettato di scambiare tutti i prigionieri di guerra catturati dalle parti durante il conflitto del Nagorno-Karabakh. Lo ha reso noto il primo ministro armeno Nikol Pashinyan, ribadendo l’importanza di preservare la pace tra i due Paesi. “Il compito cruciale è quello di rimpatriare i prigionieri. Voglio dire che ci sono stati alcuni progressi, con uno scambio che è stato negoziato sul principio del tutti per tutti”, ha detto oggi Pashinyan, tenendo un discorso alla nazione. Il primo ministro ha aggiunto che l’accordo si applicherà ai prigionieri di guerra catturati non solo durante la recente escalation del conflitto, ma anche a coloro che erano stati detenuti in precedenza. Pashinyan ha sottolineato la necessità di progettare meccanismi per il ritorno dei prigionieri. Un’altra questione importante è la ricerca delle persone scomparse. Il primo ministro ha detto che l’Armenia aveva espatriato oltre 600 corpi di militari uccisi, 500 dei quali necessitavano di identificazione. “Con alta probabilità, possiamo dire che questi sono i corpi dei nostri compatrioti scomparsi.L’identificazione è condotta con l’uso del test del DNA. Ad oggi, 135 corpi degli uccisi sono stati identificati e consegnati ai loro parenti”, ha detto Pashinyan, ripreso dall’agenzia “Armenpress”. (segue) (Rum)

Il nunzio Bettencourt in Armenia per portare la benedizione di Papa Francesco (AciStampa 05.12.20)

Il nunzio Bettencourt in Armenia per portare la benedizione di Papa Francesco

L’arcivescovo José Avelino Bettencourt, nunzio apostolico in Georgia ed Armenia, sarà dal 5 al 9 dicembre in Armenia per portare la vicinanza, la solidarietà, la presenza spirituale e la benedizione apostolica di Papa Francesco.

Il nunzio, che risiede a Tbilisi, si reca in Armenia anche a seguito del conflitto con il Nagorno Karabakh, il cui accordo ha lasciato sgomenta la comunità armena e creato anche il rischio di un “genocidio culturale” nelle zone del Nagorno Karabakh cedute all’Azerbaijan.

L’arcivescovo Bettencourt trascorrerà un periodo al Tiramayr Narek Hospital, conosciuto come “l’ospedale del Papa in Armenia”. L’ospedale fu fondato nel 1991 su iniziativa della Caritas a seguito del terremoto che devastò l’Armenia causando – si stima – circa 100 mila morti. Ora l’ospedale è gestito dai Camilliani. L’epicentro del terremoto fu a Spitak, e proprio lì c’è una Casa delle Suore di Carità: l’arcivescovo Bettencourt sarà lì.

Il 6 dicembre, l’arcivescovo Bettencourt parteciperà alla Divina Liturgia presso la Cattedrale Armena Cattolica dei Santi Martiri a Gyumri, incontrerà profughi e feriti dal conflitto del Nagorno Karabakh e visiterà la Caritas Armena.

Yerevan, capitale dell’Armenia, è previsto un incontro del nunzio con l’arcivescovo Raphael Minassian, ordinario per i cattolici di rito armeno dell’Europa dell’Est. Il 7 dicembre, l’arcivescovo Bettencourt sarà ricevuto dal Katholikos Karekin II, mentre l’8 dicembre celebrerà la Messa con la comunità delle suore della Carità. Le suore rinnoveranno i loro voti religiosi.

Sempre l’8 dicembre, l’“ambasciatore del Papa” incontrerà anche Avet Adonts, sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri, e Armen Sargsyan, presidente della Republicca armena.

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Ok all’ordine del giorno sul popolo (la Nazione 05.12.20)

Nell’ultima seduta del Consiglio comunale di Cavriglia è stato approvato all’unanimità un ordine del giorno di vicinanza al popolo armeno presentato dal gruppo di maggioranza “Insieme per Cavriglia”. Il documento richiede al Governo italiano di adoperarsi presso l’Unione Europea affinché l’Europa possa vigilare e contribuire a garantire la pace tra Armenia ed Azerbaigian, ancora troppo precaria dopo la firma dell’armistizio di una guerra in corso nel territorio del Nagorno Karabach, a lungo conteso tra i due popoli.

SYSTEM OF A DOWN, Serj Tankian: “Il ritorno della banda non riguarda le carriere, L’obbiettivo è raccogliere fondi umanitari” (Virginradio 04.12.20)

SYSTEM OF A DOWN, SERJ TANKIAN: “IL RITORNO DELLA BAND NON RIGUARDA LE NOSTRE CARRIERE, L’OBIETTIVO È RACCOGLIERE I FONDI UMANITARI”

Dopo 15 anni i System Of A Down hanno pubblicato due nuovi brani, Protect The Land e Genocidal Humanoidz. Se la band ha deciso di riunirsi in studio di registrazione è per un motivo ben preciso: raccontare, attraverso la musica, il conflitto scoppiato di recente tra l’Azerbaigian e l’Artsakh. I componenti dei SOAD hanno tutti origini armene, per questo motivo si preoccupano molto delle sorti del loro popolo e desiderano che tutti sappiano il dramma che queste persone hanno vissuto negli ultimi decenni e che stanno purtroppo vivendo ancora oggi, anche grazie all’appoggio della Turchia all’Azerbaigian.

Di fronte all’ennesimo violento attacco alla popolazione della Repubblica dell’Artsakh, i SOAD hanno così deciso di pubblicare queste due canzoni: il ricavato sarà interamente devoluto all’Armenia Fund. In una nuova intervista per NBC, Serj Tankian ha raccontato com’è nato questo progetto: “Non ha nulla a che vedere con il gruppo – ha detto – abbiamo deciso di fare tutto questo per attirare l’attenzione e poter così realizzare delle interviste e parlare delle ingiustizie e della catastrofe umanitaria provocata dall’Azerbaigian e dalla Turchia ai danni del popolo armeno dell’Artsakh. L’obiettivo è poi anche quello di raccogliere i fondi umanitari che adesso sono più che mai necessari. Quindi il progetto non riguarda la nostra carriera musicale, non riguarda la band, non riguarda noi, è qualcosa che si trova completamente al di là di tutto questo”.

L’impegno dei SOAD sta già dando i primi risultati: in circa dieci giorni, la band ha già raccolto circa 800mila dollari per questa causa ma non intende fermarsi qui. Nelle prossime settimane, infatti, i musicisti hanno intenzione di organizzare degli eventi di raccolta fondi e delle aste di beneficenza per raccogliere altro denaro da destinare all’Armenia Fund.

Nell’intervista Serj Tankian ha ricordato che la band ha sempre trattato temi politici nelle proprie canzoni e che non ha mai voluto diventare un gruppo da mainstream. Secondo il cantante, gli armeni nell’industria dello spettacolo possono contare anche su altre voci, non solo su quella dei System Of A Down: “Penso ci siano diversi artisti che si occupano della questione armena. Cher lo ha fatto, così come Kim Kardashian e tanti altri. Quando si parla del genocidio armeno, tutti gli armeni sono stati molto disponibili a provare a parlarne e a far crescere la consapevolezza su quanto sta accadendo – ha spiegato Tankian – penso che tutto questo abbia contribuito a ottenere un risultato importante nel 2019, quando il Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto formalmente il genocidio degli armeni. Ma al di là del riconoscimento da parte della Casa Bianca, secondo me il problema non è solo ufficializzare quanto accaduto: il problema è la negazione del genocidio da parte della Turchia e dell’Azerbaigian che continuano a essere dei nemici e ad attaccare il popolo armeno in Artsakh, commettendo crimini di guerra che nessuno è mai riuscito a fermare”.

La comunità internazionale – ha proseguito – proprio come 105 anni fa, ci ha lasciati da soli di fronte a dei barbari atti di guerra, alle decapitazioni e ai mercenari provenienti dalla Siria e così via. Per questo motivo, secondo me il problema va oltre il riconoscimento del genocidio. Il problema è che non vengono realizzate azioni per far sì che non ci sia un altro genocidio. Il problema è che non possiamo più fare affidamento sulla comunità internazionale ma che possiamo contare solo su noi stessi. Siamo stati lasciati soli ed è stata davvero dura. In questo momento l’Armenia sta vivendo una catastrofe umanitaria, c’è il caos, le persone che sono state costrette a spostarsi non hanno più una casa nelle molte aree che in pochi giorni sono state consegnate all’Azerbaigian. Gli stessi nemici che stanno commettendo questi crimini di guerra – ha sottolineato – allo stesso tempo stanno facendo propaganda e disinformazione, stanno mentendo al mondo, facendo combattere le loro battaglie ai terroristi e all’esercito turco”.

Di fronte a questa drammatica situazione, Serj Tankian si sente impotente e per questo sta cercando di fare di tutto, insieme ai suoi compagni, per aiutare questa popolazione: “Sono più che commosso, sono arrabbiato – ha detto ancora – sono furioso e non so quali saranno i prossimi passi, ma noi armeni che ci troviamo in altre parti del mondo dobbiamo lavorare davvero duramente per fermare questa ingiustizia. Una cosa bella che ci è accaduta è che la diaspora ci ha reso attivi come mai prima, sia in termini di comunicazione e chiamate all’azione, sia per quanto riguarda la raccolta fondi. E non possiamo fermarci adesso – ha concluso, lanciando un appello – dobbiamo triplicare, quadruplicare i nostri sforzi per aiutare davvero a ricostruire l’Artsakh, per far sì che l’Artsakh venga riconosciuto e che la Turchia e l’Azerbaigian vengano sanzionati e processati per i loro crimini di guerra, per ricostruire così la nostra incatenata, vulnerabile ma trasparente democrazia”.

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Francia-Azerbaijan, tensione per Armenia/ “Riconoscere indipendenza Nagorno-Karabak” (Il Sussidiario 04.12.20)

Sia il senato che la camera dei deputati francesi hanno votato una risoluzione che chiede di riconoscere ufficialmente la Repubblica indipendente del Nagorno-Karabakh, territorio che proprio nelle ultime settimane è stato teatro dell’ennesima guerra tra Armenia e Azerbaijan, guerra che si è conclusa con la vittoria del secondo paese. Il territorio contestato, una piccola enclave all’interno dello stato islamico dell’Azerbaijan, è a maggioranza armena, e una precedente conflitto si era concluso con la vittoria armena. Oggi invece gli azeri hanno ottenuto di occupare parte dei territori del paese, infiltrandosi sempre di più in esso. Con questo voto a maggioranza schiacciante (in senato 305 sì, un solo no e 30 astensioni) la Francia è l’unico paese dell’Unione europeo a prendere una iniziativa decisa a favore degli armeni. Da tempo Parigi è schierata con essi (in Francia vive una grossa comunità armena di oltre mezzo milione di persone), sin da quando ha riconosciuto ufficialmente il genocidio del popolo ameno a opera della Turchia nel 1915, provocando le ire di Ankara. L’Azerbaijan, oggi, è apertamente sostenuto dalla Turchia che con il suo aiuto militare ha permesso la vittoria di questi ultimi.

L’ESPANSIONISMO NEO OTTOMANO

Ha spiegato il motivo del voto il senatore Bruno Retailleau: “se questo conflitto va oltre la sua dimensione locale, è a causa dell’impegno della Turchia, la partecipazione massiccia e decisiva della Turchia di Erdogan, nel nome di una politica espansionista neo-ottomana, nel nome di una politica nazional-islamista. Ed è una minaccia qui, come altrove nel mondo, contro la pace, e contro i nostri interessi.” L’Alto Karabakh è un’enclave Armena in Azerbaigian. Con un’azione militare rapida, Baku ha riportato agli inizi di novembre buona parte del territorio sotto il suo controllo. Le divisioni azerbaigiane si sono fermate solo dopo l’intervento diplomatico personale di Vladimir Putin e l’invio di truppe russe di interposizione a guardia di un piccolo corridoio tra il Karabakh e la Repubblica Armena. Non si è fatta attendere la reazione azera al voto del parlamento francese tramite il ministro degli esteri che ha dichiarato “Come si evince dal nome della risoluzione, i membri dell’Assemblea nazionale, che non hanno alcun contatto con la realtà, vogliono aggiungere delle sfumature religiose alla questione, cercando di presentare la loro posizione filo-armena con false giustificazioni”, si legge in una nota del dicastero. “L’Azerbaigian è uno Stato multinazionale e multiconfessionale, dove persone di diverse religioni e affiliazioni etniche vivono in armonia e pace come una famiglia”. Dichiarazioni tendenziose in quanto l’Azerbaijan è un paese a quasi totale maggioranza islamica. Subito dopo la fine del conflitto, nelle zone armene occupate, è infatti cominciato la distruzione di chiese e conventi peraltro di grande importanza storica e culturale, oltre che religiosa.

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Nel Nagorno Karabakh per alcuni c’è l’esilio per altri il ritorno a casa (Internazionale 04.12.20)

Settimane di bombardamenti non sono bastati a far uscire i genitori di Irina Safaryan dal loro bunker nella città di Hadrut, nella parte sud del Nagorno Karabakh. Solo quando i soldati dell’Azerbaigian hanno raggiunto la periferia di quest’insediamento le famiglie armene hanno deciso di fuggire.

“Pensavamo di tornare nelle nostre case in tre o quattro giorni, al massimo in una settimana”, racconta Safaryan. Hanno lasciato a casa le foto di famiglia.

I combattimenti per il controllo di questo territorio separatista del Caucaso meridionale sono finiti questo mese, con Hadrut che è finita sotto controllo azero. “Nessuno si aspettava di lasciare il suo territorio e la sua casa, per sempre”, dice Safaryan.

Il Nagorno Karabakh dopo il cessate il fuoco -

Il Nagorno Karabakh dopo il cessate il fuoco

L’esodo degli armeni è lo specchio di un altro di trent’anni fa, quando seicentomila azeri fuggirono dalla prima guerra tra le due repubbliche post-sovietiche per il controllo del Nagorno Karabakh. Tra loro c’era anche Hagigat Hajiyeva. Anche lei aveva creduto di doversi allontanare solo momentaneamente dalla sua casa di Shusha, a meno di cento chilometri da Hadrut, quando era fuggita, nel 1992.

“Quando abbandonammo Shusha pensavamo che le cose si sarebbero calmate e che saremmo tornati”, dice Hajiveva. “Anche dopo l’occupazione armena della città, quando la mia famiglia si trasferì a Baku, la capitale dell’Azerbaigian, continuavamo a pensare che saremmo tornati presto. Ma non è mai successo”.

La vittoria dell’Azerbaigian sull’Armenia nella guerra di sei settimane per il Nagorno Karabakh ha trasformato in profughi decine di migliaia di abitanti armeni. Per i reduci della vecchia ondata di esuli azeri del Nagorno Karabakh, la conquista di questo territorio segna la fine della lunga attesa di un ritorno a casa.

Safaryan, 28 anni, spiega di far parte di una “generazione di guerra”: sia lei sia sua sorella sono nate nel bunker sotterraneo dove la loro madre ha trascorso buona parte del conflitto in questo territorio montuoso, tra 1988 e 1994. Alla fine della guerra la maggior parte della popolazione azera aveva dovuto lasciare il Nagorno Karabakh. La conquista, da parte degli armeni, del territorio che loro chiamano Artsakh, entrò a far parte delle storie che venivano loro raccontate da bambini.

“Guardavo sempre film e documentari, o leggevo libri, sulla guerra e la liberazione dell’Artsakh”, dice.

L’Azerbaigian aveva giurato che un giorno avrebbe riconquistato il Nagorno Karabakh, ma Safaryan era cresciuta sentendosi protetta dalle montagne e dai racconti sul coraggio degli armeni. “Geograficamente Hadrut è molto ben protetta ed era quasi impossibile da espugnare”, dice. “Il senso di protezione non mi ha mai abbandonata. Anche durante l’ultima guerra ero sicura al cento per cento che i nostri soldati avrebbero fatto qualsiasi cosa per vincere”.

La guerra degli anni novanta per il Nagorno Karabakh fu un’escalation di sentimenti nazionalisti che erano stati tenuti sotto controllo per decenni dal potere sovietico. “Armeni e azeri avevano vissuto insieme, ma non c’era fiducia reciproca”, spiega Safarayan. “Avevamo dei vicini, magari anche degli amici, ma la coesistenza non si fondava sulla fiducia”.

Pian piano, da un mese all’altro, le persone hanno cominciato a usare pistole e, dopo alcuni mesi, a lanciare razzi

Dalla sua casa di Baku, la settantaduenne azera Hajiyeva si ricorda di quando, ai tempi in cui l’Unione Sovietica cominciava a vacillare, gli armeni cominciarono a organizzare proteste nella regione. “Chiesi alla mia vicina armena per cosa stessero protestando, e lei mi disse che volevano più teatri e cinema”, ricorda. “Più tardi scoprimmo che volevano l’unificazione con l’Armenia”.

Alla fine degli anni ottanta ci fu un’escalation di violenze, e alla popolazione armena di Shusha fu ordinato di andarsene. “Abbiamo detto addio ai nostri vicini armeni senza rancori”, dice Hajieva. “Abbiamo persino guidato al loro fianco, scortandoli mentre uscivano dalla città”.

La donna pensava che le tensioni si sarebbero calmate, come solitamente accadeva in epoca sovietica. “Pian piano, da un mese all’altro, le persone hanno cominciato a usare pistole e, dopo alcuni mesi, a lanciare razzi”, dice.

“Un giorno gli armeni hanno persino lanciato una granata contro il cinema vicino a casa nostra, distruggendolo”, ricorda Hajiyeva. “Dopo quell’episodio abbiamo deciso di andarcene. Era troppo pericoloso vivere lì”.

La mattina del 27 settembre di quest’anno, Safaryan è stata svegliata dal suono delle esplosioni, vicino alla sua casa di Stepanakert, dove lavorava per il governo regionale. “Ho aperto le mie finestre e ho visto che tutta la città veniva bombardata”, dice.

I primi attacchi contro Hadrut avevano come obiettivo siti militari vicino alla casa della sua famiglia. “I miei parenti si sono svegliati e si sono resi conti che era iniziata la guerra”. I suoi genitori hanno trascorso le settimane successive nello stesso bunker dov’erano nate le ragazze. “Alcuni giorni non potevano neppure uscire a vedere il sole o a respirare un po’ di aria fresca”, dice Safaryan. “Sono stati giorni terribili, durissimi”.

La famiglia è stata trasferita da Hadrut a metà ottobre, due giorni prima che la città venisse conquistata dai soldati azeri. Un aumento delle spese militari, alimentate dai proventi petroliferi, in particolare per l’acquisto di droni turchi e israeliani, ha contribuito a far volgere in maniera decisiva il conflitto a favore dell’Azerbaigian.

“Tutta la strada dove siamo cresciuti e dove giocavamo è stata rasa al suolo dagli azeri”, dice. “Non hanno lasciato niente della mia infanzia. Alcune persone venute da lì ci hanno detto che hanno bruciato tutto”.

Tra i 1.170 soldati che, a quanto dice il governo armeno del Nagorno Karabakh, sono stati uccisi, c’erano vari ragazzi con cui è cresciuta.

I genitori di Safaryan adesso vivono con i nonni della ragazza, a Yerevan. “Per il momento sopravvivono, e nulla più”, dice. “Stiamo cercando di capire cosa fare”.

Sotto accusa
Dopo il 1994 il triste destino degli azeri sfollati dal Nagorno Karabakh nella prima guerra divenne una causa nazionale in Azerbaigian. Ma il senso di trovarsi alla deriva non è mai sparito, dice Hajiyeva. “Alcune persone ci chiedevano perché avevamo lasciato la nostra città”, ricorda. “Era come se ci accusassero di qualcosa. Ci sentivamo insultati, umiliati, diffidenti, perché eravamo stati costretti a lasciare la nostra città”.

Suo nipote Suleyman, di 25 anni, è nato dopo la fuga della famiglia, ma è cresciuto ascoltando le storie della vita della nonna a Shusha. Ha ripercorso il destino della casa di famiglia usando mappe satellitari e filmati della città presenti su internet. “La casa è sopravvissuta all’occupazione”, dice. “Ho sempre seguito alcuni abitanti armeni di Shusha sui social network per vedere cosa accadeva nella mia città”.

In realtà trasferirsi davvero in quella città potrebbe essere più difficile di quanto immagini. “I miei amici, il mio lavoro, tutta la mia vita è a Baku”, dice. “Ma ma mi sono preparato da sempre all’idea che, una volta a Shusha, ricomincerò la mia vita da zero”.

Hajiyeva dice che, dopo così tanti anni, non credeva più che sarebbe mai potuta tornare. “Ho pianto per ore quando ho sentito che Shusha era stata liberata”, dice. “È impossibile spiegare la sensazione a parola. Baceremo il terreno quando torneremo”.

Oltre confine, in Armenia, profughi come Safaryan hanno cominciato la loro lunga attesa di tornare a casa. “Mi sento come se non fossi più nessuno”, dice Safaryan.

“Era tutto quello per cui vivevo e lottavo: fare grandi progetti per Hadrut e ogni singola città o villaggio dell’Artsakh. E ora non c’è più nulla. Niente per cui lottare. E niente per cui vivere”.

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Genocidio armeno, in un libro le prove definitive (La Stampa 04.12.20)

Purtroppo lo sterminio degli armeni non è questione che appartenga al passato. È stato riconosciuto in quanto genocidio dal Papa, dall’Unione europea, dall’Italia e da una trentina di altri Paesi, ma la Turchia continua a negarlo. A provare la natura pianificata del genocidio arriva il libro “Killing orders. Il piano genocidario contro gli armeni” (Edizioni Angelo Guerini) di uno storico turco dissidente, Taner Akçam, che ha dovuto fuggire dal suo Paese per continuare a lavorare e a scrivere.
Il New York Times scrive di Akçam  come “Lo Sherlock Holmes del genocidio armeno” e la rivista Foreign Affairs, la più autorevole in assoluto nel settore della politica internazionale, dice che questo libro è “tra i migliori sul Medio Oriente”. Taner Akçam spiega di averlo pubblicato “nella speranza di eliminare l’ultimo mattone del muro del negazionismo”.
È dura la vita di chi vuol fare ricerca storica senza divieti in certi Paesi. Taner Akçam è stato arrestato per i suoi scritti già nel 1976 e condannato a dieci anni di reclusione per reati d’opinione; un anno dopo è riuscito a fuggire e a rifugiarsi in Germania e poi negli Stati Uniti, dove attualmente ha la cattedra di Studi sul Genocidio Armeno alla Clark University.

Il suo ultimo libro dimostra la natura pianificata dello sterminio armeno pubblicando i telegrammi di Talat Pasha, l’architetto del genocidio. Papa Francesco ha definito quello degli armeni come “il primo genocidio del XX secolo”; il fatto che sia rimasto impunito e negato ha contribuito a far sì che non fosse l’ultimo.

Taner Akçam, Killing orders. Il piano genocidario contro gli armeni, Edizioni Angelo Guerini, 312 pagine, 25 euro

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Perché Corbetta sostiene l’Azerbaijan? Di Giacomo Cella (Ticinonotizie 03.12.20)

CORBETTA – In questi ultimi mesi si è riacceso il conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh. Stavolta però la sproporzione tra le forze in campo è devastante. Droni, soldati e supporto strategico sono stati forniti agli azeri dalla Turchia di Erdogan. Nulla possono contro le nuove tecnologie i soldati armeni, muniti ancora di vecchie armi e veicoli sovietici.

Ormai solo la fede e la coscienza di essere gli eredi di una delle più antiche comunità cristiane permettono al coraggioso popolo armeno di continuare a lottare. Tutt’attorno si è fatto nuovamente buio, nubi oscure sono riapparse all’orizzonte. Da una parte l’Arzerbaijan dall’altra la Turchia incombono minacciose. Gli incubi del passato sembrano ripresentarsi. Lo sanno bene i tantissimi armeni sparsi in tutto l’Occidente che nel secolo scorso dovettero abbandonare la propria terra natia, in una vera e propria diaspora, per salvarsi dal progetto di rimozione etnica e culturale perpetrato a inizio secolo da Atatürk, erede dell’Impero Ottomano e considerato il padre fondatore dell’odierna Turchia, e poi di nuovo nel corso degli anni 90 dall’Azerbaijan.

 

Adesso, lontani migliaia di chilometri dalla propria terra, gridano affinché coloro che considerano fratelli possano finalmente accorrere in loro aiuto e mettere una volta per tutte la parola fine alla loro triste vicenda. I fratelli di cui implorano l’aiuto siamo proprio noi occidentali. Il più delle volte però la loro voce rimane inascoltata.  Pensiamo infatti a come debbano sentirsi ad apprendere che anche in Italia ci sono comunità che appoggiano coloro che stanno distruggendo chiese e monasteri, simbolo della comune fede cristiana. È il caso dell’amministrazione di Corbetta, provincia di Milano, la quale nell’ultimo consiglio comunale tenutosi il 30 novembre ha approvato una mozione che incredibilmente prende le difese dell’Azerbaijan.

La causa non è del tutto chiara: perché proprio a Corbetta, è stata approvata una mozione del genere che nulla ha a che vedere con i propri abitanti? Questa domanda è legittima e se la stanno facendo tanti in paese. Per questo meriterebbe una risposta. Bisogna dire che la consigliera Elisa Baghin (firmataria della mozione) e il sindaco Marco Ballarini non hanno aiutato affatto a capirne il motivo. Anzi. Al contrario hanno sollevato ancora più dubbi. Hanno infatti sostenuto di esser dalla parte della pace in quell’area del Caucaso per poi però sostenere l’Azerbaijan, che da tempo mira ad annettere una volta per tutte il Nagorno-Karabakh. Il mistero si infittisce se si considera che proprio il sindaco Ballarini nell’ottobre 2019 si è recato personalmente in Azerbaijan, proprio nelle vesti di sindaco del Comune di Corbetta. Cosa spinge a negare la tragica storia armena della quale sono emblema proprio le comunità in diaspora che supplicano aiuto anche qui in Italia?

Infine, se si fosse voluta sostenere veramente la pacificazione dell’area perché non approvare – come proposto dal consigliere della Lega  Riccardo Grittini – una mozione effettivamente equidistante da entrambe le parti in guerra?

Tutto ciò meriterebbe una delucidazione.

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Corbetta contro Armenia/2: ‘neppure Dio cancella la storia’. Di Emanuele Torreggiani

Novecento. Genocidio armeno: ecco le carte che inchiodano i turchi (Avvenire 03.12.20)

Lo storico turco Taner Akçam prova l’autenticità dei telegrammi con i quali Talat Pasha organizzò la sistematica e feroce soppressione del “millet” cristiano

Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. Kharpert, Impero Ottomano, aprile 1915.

Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati. Kharpert, Impero Ottomano, aprile 1915. – WikiCommons

“Le prove sperdute dello sterminio”, così il New York Times definisce i documenti decifrati e pubblicati da Taner Akçam, storico turco che ha pagato anche con la reclusione le sue ricerche sulla strage dei cristiani tra 1915 e 1922, in Killing Orders. I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno. La versione italiana, pubblicata da Guerini e Associati (pagine 312, euro 25,00), è curata da Antonia Arslan, della quale pubblichiamo qui la prefazione.

Ho conosciuto Taner parecchi anni fa, a St. Paul, in Minnesota. Avevo sentito parlare di lui come di un uomo coraggioso, uno studioso turco che aveva sfidato il suo governo sul tema del Genocidio Armeno, era stato in prigione ed era riuscito a evadere, e ora insegnava a Minneapolis, la città gemella aldilà del Mississippi. Ero curiosa ed emozionata di poterlo conoscere. Ci incontrammo durante un piccolo convegno sull’Armenia organizzato da una bravissima collega proprio a St. Paul: e subito mi affascinò il suo aspetto di gentiluomo orientale, così somigliante ai miei zii di Aleppo e Damasco, con la stessa aria di bonomia sorridente e perbene, un vestire dignitoso e belle cravatte.

Piccoletto di statura, affabile e garbato, ma con un cuore da leone e un’anima d’acciaio: tempra che ha dimostrato in tutti questi anni, sopportando con serena ironia le continue malevole attenzioni del governo turco e riuscendo a portare a termine quest’ultima opera, che lui stesso ha definito, parlando con me mentre mi scriveva una dedica sul suo libro appena uscito negli Stati Uniti, la pistola fumante degli studi sul Genocidio Armeno.

È questo un lavoro meticoloso e accuratissimo, che ha affrontato e risolto il problema di un gruppo di documenti fra i più discussi nell’immensa mole di materiali fino a oggi pubblicati sulla tragedia del 1915-1922, e cioè i famosi telegrammi di Talat Pasha e di alcuni alti esponenti dell’amministrazione ottomana che il funzionario turco Naim Efendi vendette alla fine della guerra ad Aram Andonian, uno dei pochissimi intellettuali armeni che era sopravvissuto, grazie a una serie di fortunate circostanze. Naim Efendi aveva anche scritto brevi note per accompagnare e spiegare i documenti, che più tardi Andonian – pubblicandoli – avrebbe chiamato “Memorie di Naim Bey”.

Il governo di Turchia, impegnato da subito in un’operazione di negazionismo a tutto campo, riuscì col tempo, con un paziente lavoro di disinformazione, a screditare questi testi particolarmente scottanti, sicché fino a oggi anche gli storici più favorevoli alla causa armena evitavano di occuparsene. Ma – come scrive Akçam con molta ironia – «la verità ha la cattiva abitudine di venir fuori, alla fine»: e questo suo libro è basato sull’eccezionale scoperta di un importantissimo archivio, ricco di prove che convalidano e sostengono l’autenticità dei materiali forniti da Andonian. Si tratta di una massa di documentazione raccolta dal sacerdote cattolico padre Krikor Guerguerian, con l’intenzione di servirsene per un dottorato sul Genocidio Armeno. Egli non arrivò mai a completarlo, ma riuscì a costituire un imponente archivio, che è stato messo a disposizione del professor Akçam dal nipote Edmund Guerguerian nel 2015 (e oggi è tutto online, aperto agli studiosi).

Nei primi due capitoli – costruiti con precisione chirurgica e con un inesorabile acume da detective – Akçam accompagna il lettore, passo dopo passo, nella puntuale dimostrazione dell’assoluta veridicità dei telegrammi, attraverso la verifica accuratissima delle modalità di cifratura e una serie di controlli incrociati sui linguaggi usati, sulle firme dei mittenti e perfino sul tipo di carta impiegata. La sua analisi attenta e completa affronta la complessità di queste preziose carte con intelligente e meticolosa acribia: e a me sembrava di vederlo in azione, con la lente di Sherlock Holmes in mano e la saggia pazienza orientale dello studioso che sta seguendo un complicato filo d’Arianna e deve stare attentissimo a non spezzarlo.

Tutte queste verifiche approdano alla scoperta che – grazie anche ai nuovi materiali che integrano clamorosamente quelli già conosciuti – i telegrammi sono tutti veri: costituiscono appunto la pistola fumante, la prova indiscussa delle intenzioni genocidarie del vertice dei Giovani Turchi, e – in particolare – dell’accanimento organizzato nello sterminio di Talat Pasha e dei collaboratori da lui scelti.

Nel terzo capitolo, gli eventi e i personaggi menzionati da Naim Efendi vengono messi a confronto con documenti ottomani contemporanei, verificandone la veridicità e organizzandoli in un discorso coerente, che il lettore segue con passione e un senso di angoscioso stupore. Infine, le numerose appendici (i testi dei telegrammi e delle note di Naim Efendi e lettere estremamente significative finora sconosciute) portano altra legna al fuoco dell’indignazione e dello sgomento: ma quando arriva alla fine, oltre all’ammirazione per la sovrumana pazienza dello studioso–detective, anche l’onesto lettore si sente quasi un eroe, come se anche lui fosse partecipe di questa tardiva ma scintillante vittoria della verità.

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