Armeni in piazza contro il primo ministro: “Traditore” (Euronews 09.12.20)

L’opposizione ancora in piazza a Yerevan in Armenia per chiedere le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan. Quindicimila persone si sono radunate nella capitale, nei pressi del parlamento, al grido di “traditore”. Il primo ministro è colpevole di aver firmato una tregua svantaggiosa per l’Armenia alla fine di sei settimane di scontri con l’Azerbaigian per il controllo del Nagorno Karabakh, alla fine diversi distretti della regione sono stati ceduti a Baku; dal 10 novembre, da quando l’accordo è diventato operativo, la collera è montata e il popolo armeno l’ha espressa più volte, fino all’ultima manifestazione.

Anche la chiesa apostolica armena e tutti e tre gli ex presidenti del Paese si sono uniti alla richiesta di dimissioni di Pashinyan ma il primo ministro, imperterrito, mercoledì scorso ha detto in parlamento che la Nazione in questo difficile periodo ha bisogno di stabilità. Nel clima di generale tensione che regna in Armenia, anche il ministro della Difesa David Tonoyan ha rassegnato le dimissioni il mese scorso.

Gli scontri con l’Azerbaigian

Il territorio Nagorno-Karabakh si trova all’interno dello Stato dell’Azerbaigian ma è controllato dalla minoranza armena dal 1994. I nuovi combattimenti, iniziati lo scorso 27 settembre, segnano la ripresa peggiore delle ostilità dalla fine della guerra negli anni 90. Dopo settimane di scontri con centinaia di morti, anche con la mediazione della Russia, si è giunti a un accordo che è diventato operativo il 10 novembre. Diversi distretti della regione tornano sotto il controllo di Baku. In queste zone migliaia di armeni hanno abbandonato le loro case, a volte distruggendole prima della fuga. Gli azeri, che prima della guerra degli anni 90 vi abitavano, in molti casi sono tornati. Una forza di pace russa è presente sul territorio.

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Crisi politica dopo il conflitto in Karabakh. Anche il Patriarca Karekin chiede le dimissioni del governo (Fides 09.12.20)

Erevan (Agenzia Fides) – E’ meglio che l’attuale premier armeno Nikol Pashinyan abbandoni il suo incarico e il governo da lui guidato si dimetta, se si vogliono “evitare sviluppi traumatici nella vita pubblica e possibili conflitti con conseguenze tragiche”. E’ questo il consiglio rivolto allo stesso Primo Ministro armeno dal Patriarca Karekin II, Catholicos di tutti gli Armeni apostolici, davanti alla grave crisi socio-politica che sta travolgendo l’ex Repubblica sovietica. Nel Paese, disordini e proteste sociali e politiche contro l’attuale esecutivo sono dilagati dopo l’accordo siglato dal governo di Erevan che il 10 novembre ha posto fine all’ultimo conflitto nel Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena oggi inclusa nei confini dell’Azerbaigian. La firma del cessate il fuoco, avvenuta con la mediazione della Russia, è stata percepita da buona parte della popolazione e dei settori politici nazionali come una disfatta, destinata a rafforzare il controllo del governo azero sull’enclave armena (dove nel 1991 i leader locali avevano proclamato l’istituzione della Repubblica indipendente dell’Artsakh, non riconosciuta dalla comunità internazionale).
L’accordo raggiunto la tarda sera del 9 novembre ha posto fine a sei settimane di feroci combattimenti tra le truppe azere e quelle armene inviate da Erevan. Esso prevedeva il ritiro delle forze militari armene dal territorio azero, il ritorno degli sfollati alle rispettive aree di residenza e la dislocazione di truppe russe con funzione di “peacekeeper” in Nagorno Karabakh per i prossimi 5 anni. In Armenia, le manifestazioni contro il governo, alimentate dalle forze d’opposizione, sono iniziate la sera stessa della firma dell’accordo, presentato anche dal Presidente azero Ilham Aliyev come una vera e propria “capitolazione” di Erevan. “Adesso” riconosce il Patriarca Karekin nel suo pronunciamento, “l’opinione generale è che questa situazione delicata dovrebbe trovare la sua soluzione solo attraverso mezzi costituzionali, facendo prevalere la solidarietà nazionale e il buon senso”. Nel suo messaggio, Karekin ha chiesto all’Assemblea Nazionale “di agire in modo responsabile per la nostra patria in questo momento critico, di ascoltare le richieste del popolo, di eleggere un nuovo Primo Ministro in consultazione con le forze politiche, e di formare un governo ad interim”.
Nikol Pashinyan era a sua volta arrivato al potere sull’onda di proteste popolari che avevano portato alle dimissioni di Serž Sargsyan, il leader politico che aveva guidato il Paese prima come Presidente e poi (per pochi mesi) come Premier fin dal 2008, ora impegnato anche lui a richiedere a gran voce le dimissioni del suo successore. (GV) (Agenzia Fides 9/12/2020).

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Gli affari in Svizzera che hanno finanziato la guerra del regime azero (Repubblica 09.12.20)

È una delle società petrolifere più visibili e meglio posizionate in Svizzera. Nelle sue 200 stazioni di servizio, decorate dal suo logo con i colori della bandiera azera, Socar vende benzina, cioccolata e croissant. Dalla sua filiale commerciale di Ginevra, la società petrolifera di proprietà dello Stato azero vende sui mercati mondiali il greggio dell’Azerbaijan. Si tratta di attività pacifiche – solo che da più di due di mesi Socar è in guerra.

Una stazione di servizio della Socar© Fornito da La Repubblica Una stazione di servizio della Socar

Dall’Azerbaijan, la pagina Facebook della società riversa un fiume di propaganda e di messaggi ostili contro l’Armenia al riguardo del territorio conteso del Nagorno Karabakh: “Basta con il fascismo armeno! Stop all’aggressione armena! Il Karabakh appartiene all’Azerbaijan!”. Il tutto è integrato da fotografie di militari e carri armati, e corredato dei discorsi bellici dell’autocrate al potere a Baku, il presidente Ilham Aliev.

Che una società commerciale si trasformi in modo così radicale in uno strumento bellico è raro, come è raro che un’azienda statale straniera allacci rapporti così stretti con la Svizzera. In territorio elvetico Socar guadagna i tre quarti delle sue entrate, più che nello stesso Azerbaijan.

 

Due filiali determinanti in territorio elvetico

Nel 2019, Socar ha realizzato il 76 per cento del suo giro d’affari annuo di 44,5 miliardi di euro in territorio elvetico. Nel 2018 si era superata, arrivando all’84 per cento, secondo il bilancio contabile di fine anno dell’azienda. Il grosso di tali entrate proviene da due filiali. La prima è Socar Energy Switzerland GmbH: si trova a Zurigo, ha rilevato le stazioni di servizio Esso e dà lavoro a circa 800 dipendenti. Con la cooperativa Migros fa lavorare a pieno regime anche 56 negozi Migrolino di generi alimentari.

Più defilata, la filiale commerciale Socar Trading ha sede a Ginevra dal 2007: dà lavoro a un centinaio di dipendenti e si definisce la più grande società di petrolio azero nel mondo. Il suo giro d’affari nel 2019 è stato di 33,3 miliardi di euro. Secondo gli addetti ai lavori, è Socar Trading a realizzare il 95 per cento delle entrate complessive di Socar in territorio elvetico.

Tutto questo denaro finisce nelle casse dello stato a Baku. Le due filiali appartengono a una società madre controllata interamente dal governo dell’Azerbaijan. Il presidente di Socar e di Socar Trading a Ginevra, Rovnag Adullayev, per altro è un parlamentare. Il suo posto alla testa della società è più che strategico, tenuto conto che lo Stato azero ricava il 57 per cento di tutte le sue entrate dal petrolio, una vera e propria manna che gli ha permesso di investire in un esercito moderno, equipaggiato di droni turchi e missili iraniani. Dopo 45 giorni di guerra, sono queste le armi che hanno permesso all’Azerbaijan di riportare la vittoria contro gli armeni e di riconquistare buona parte del Nagorno Karabakh e dei territori adiacenti.

In che misura Socar contribuisce allo sforzo bellico azero? Circa il sei per cento del budget dell’Azerbaijan arriva direttamente da Socar e dalle sue filiali in Svizzera. Oltre a ciò, il 47 per cento delle entrate dello Stato arriva dal fondo petrolifero pubblico Sofaz. Lo spiega l’economista Gubad Ibadoghlu, che a Baku anima un think tank critico nei confronti del regime e che insegna all’Università Rutgers negli Stati Uniti.

 

Una società poco trasparente

Dei rapporti che intercorrono tra Socar Trading e il fondo Sofaz si conosce davvero poco. La filiale ginevrina vende il petrolio a beneficio del fondo? La società si è rifiutata di rispondere. Questa mancanza di trasparenza è tipica del settore petrolifero azero: così ha scritto Gubad Ibadoghlu in suo recente articolo, e questa opacità si traduce in un rischio elevato di corruzione. L’Azerbaijan, del resto, si colloca al 126esimo posto nella graduatoria di 198 Paesi analizzati per la loro corruzione da Transparency International. Nel 2017, Baku si è ritirata da EITI (Iniziativa per la trasparenza delle industrie estrattive), un’iniziativa che obbliga a rendere noti i guadagni che i Paesi realizzano grazie alle materie prime come il petrolio.

Secondo Gubad Ibadoghlu, questa stessa mancanza di trasparenza caratterizza anche Socar. Nel 2019, il gruppo ha dichiarato entrate per soli 650 milioni di dollari – “davvero troppo poco” dice l’economista, rispetto a un giro d’affari di 48 miliardi di dollari. Tra le altre cose, si ignora per esempio a quale prezzo la società madre a Baku venda il suo petrolio alla sua filiale commerciale a Ginevra.

La Svizzera, un mercato sperimentale

In confronto, gli utili delle 200 stazioni di servizio svizzere che portano il logo Socar sono indubbiamente modesti, ma Socar Energy Switzerland non rende noti nemmeno quelli. La filiale di Zurigo è in ogni caso tutt’altro che poco importante, perché è in Svizzera che Socar ha aperto le sue prime stazioni di servizio nel 2012. Il Paese, in pratica, le è servito da mercato sperimentale e l’azienda continua a diversificare le sue attività: ora vi sta installando, per esempio, le sue prime colonnine di ricarica per le automobili elettriche.  Il suo amministratore delegato, Edgar Bachmann, la descrive come una “società tipicamente svizzera” che “non si interessa di politica”.

Presso Socar, a Baku, al contrario si festeggiano i dipendenti dell’azienda reclutati dalle forze armate alla stregua di “eroi”. Alcuni collaboratori arruolati sotto bandiera azera hanno perfino scritto il nome Socar con le bombolette spray lungo le strade delle località riconquistate agli armeni. Si tratta di un gesto di sfida bellica, che contrasta con l’immagine di “società tipicamente svizzera” che Socar continua a coltivare dalla sua roccaforte elvetica.

(Copyright Tribune de Genève/Lena-Leading Eurpean Newspaper Alliance. Traduzione di Anna Bissanti)

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Akram Aylisli rompe il silenzio dopo cinque anni: «La mia voce libera» (Corriere della sera 08.12.20)

Oggi, in questi mesi di angosce, va oltre. «Ogni governo dice che tiene ai propri interessi nazionali. Non ci può essere niente di più dannoso. Ma quali interessi nazionali? Con questa pandemia poi non sappiamo dove sbattere la testa. E questo eccesso di amor proprio sta distruggendo l’umanità: l’idea che “il mio Paese è il più importante di tutti, il mio popolo è più grande degli altri”. Ecco, il vuoto genera pensieri del genere. Di quali interessi stiamo parlando? È tutto uno slogan, tutto un proclama: “Difendo l’interesse nazionale!”. A me pare una parodia, un’offesa in faccia a Dio, alla natura, all’umanità».

La copertina del romanzo di Akram Aylisli «Sogni di pietra» tradotto in italiano nel 2015 da Bianca Maria  Balestra per Guerini e Associati, con prefazione di Gian Antonio Stella
La copertina del romanzo di Akram Aylisli «Sogni di pietra» tradotto in italiano nel 2015 da Bianca Maria Balestra per Guerini e Associati, con prefazione di Gian Antonio Stella

Sta pagando cara questa sfida ai nazionalisti, l’autore di Sogni di pietra, dove narrava dei massacri contro gli armeni commessi nel paese degli avi (Aylis, nell’attuale exclave azera di Naxcivan) e più di recente in Azerbaijan. E lo racconta, sia pure in remoto, alla presentazione di Farewell, Aylis, «Addio Aylis», la trilogia uscita oltre due anni fa negli Usa e tradotta dalla poetessa Katherine E. Young. Trilogia che raccoglie appunto, con Yemen e Un fantastico ingorgo, quel magnifico libro mai tradotto in azero e edito la prima volta in Occidente nel 2015 da Angelo Guerini.

La copertina di «Addio, Aylis», la trilogia uscita negli Stati Uniti nel 2018 tradotta dalla poetessa Katherine E. Young per Academic Studies Press. Comprende «Sogni di pietra»,  «Yemen» e «Un fantastico ingorgo»
La copertina di «Addio, Aylis», la trilogia uscita negli Stati Uniti nel 2018 tradotta dalla poetessa Katherine E. Young per Academic Studies Press. Comprende «Sogni di pietra», «Yemen» e «Un fantastico ingorgo»

Di fatto è un prigioniero senza sbarre: «Nei miei confronti è stato disposto il divieto di espatrio. Non ho il diritto di lasciare Baku. La Procura mi ha ritirato la carta di identità e senza quella una persona è privata di tutti i diritti civili: non può partecipare alle elezioni, non può partecipare a un bel niente… Per legge aveva un anno di tempo, la Procura, per esaminare il mio caso. Ma pur essendo iniziato nel marzo 2016 il mio caso non è ancora stato esaminato». Di più: «Mi hanno tolto la sovvenzione presidenziale, la borsa assegnata dal presidente, il titolo di “scrittore del popolo”, tutti i riconoscimenti che avevo. Non poter uscire da Baku, privato dei documenti, mi fa male, malissimo… Anche sotto il profilo psicologico».

Cocciutamente inseguita dall’Harriman Institute della Columbia University (mai scoraggiata dalla cancellazione di altri appuntamenti online al punto di apparire ormai impossibile), lo sfogo è di fatto un’intervista collettiva in remoto con la traduttrice («Sono racconti pieni di realismo magico con un pizzico di folklore popolare, di “saggezza da villaggio”, moltissima ironia…»), il giornalista azero di Amnesty International a Washington Alex Raufoglu e il coordinatore del dibattito e delle domande dei lettori Mark Lipovetsky, docente negli atenei americani e autore di molti libri sulla cultura russa.

La libertà in questi tempi di clausure? «Non ho percepito queste privazioni perché di fatto non ricordo un momento in cui sono stato una persona libera, non mi sono mai sentito così: né a scuola, né all’università, né al lavoro. Un minimo di libertà l’ho sentita soltanto quando stavo alla scrivania. Quella libertà no, non me l’hanno tolta. Non possono toglierla a nessuno scrittore. Lo sapete bene quanto hanno terrorizzato gli scrittori sovietici, io me lo ricordo eccome, ma lo accetto, lo prendo come il mio destino, non certo come qualcosa di accidentale».

La letteratura? «Vivo di letteratura, perché in effetti di letteratura si può vivere. Dentro la letteratura c’è molto ossigeno, moltissimo. Forse più che là fuori, soprattutto in questo periodo di pandemia». Le accuse d’aver tradito la patria? «Vivo qui da sempre, e già dai tempi dell’Urss si diceva che tutti i miei libri, o molti, facevano danni all’Azerbaijan, al mio paese. Ma ci si abitua. Se per un solo secondo avessi creduto di aver davvero offeso con Sogni di pietra il popolo azerbaigiano, non avrei retto un giorno. Ma ero sicuro che non stavo offendendo il mio popolo: lo stavo aiutando. Se non ci credono cosa posso farci? Urlare a destra e a manca, come hanno fatto loro, di tagliarmi un orecchio? Sogni di pietra non l’ho scritto per gli armeni, ma per gli azeri. È nato dal desiderio che non crollassero tutti i ponti tra i nostri due popoli. È vero, siamo un popolo di origine turca però siamo un popolo caucasico, la nostra mentalità è caucasica. Non è turca né mediorientale: è caucasica. E la distruzione di queste radici dei popoli è peggio di una bomba atomica».

Chi ha preso le sue difese in Azerbaijan? «In generale gli intellettuali russi… Andrej Bitov, Viktor Erofeev…». Ma in Azerbaigian? «Soprattutto giovani letterati. C’è gente che capisce. Gli azeri sono un popolo tollerante, non cattivo. Non penso in realtà che nessun popolo possa essere cattivo o buono, gli azeri sono come tutti gli altri. Ci sono i buoni, i cattivi, quelli legati al potere. L’Unione degli scrittori per esempio… Ecco, loro no, non mi hanno ovviamente difeso».

Si aspettava più aiuti dall’estero? «E come potreste aiutarmi? Lo state già facendo, sono qui seduto e vi guardo nello schermo, vedo persone luminose e questa gioia mi basta, almeno per qualche giorno. Concretamente non saprei, molte organizzazioni volevano aiutarmi. La Norvegia mi ha offerto buone condizioni per trasferirmi lì, ma ho detto no perché qui prima o poi capiranno che io sono molto più azero di loro».

La sconfitta armena nel Nagorno- Karabakh? «Vede com’è finita. Il popolo armeno è traumatizzato. Vorrei che questo trauma scomparisse il più in fretta possibile, perché il popolo armeno resista con orgoglio e non si disperi. Ora, non voglio usare le parole del potere, ma anche gli azeri erano in grande disagio quando zone intere, grandi zone, erano sotto il controllo degli armeni. Vede, una cosa chiama l’altra, dal male si genera male…».

Com’è cresciuto tanto odio? «Odio… conosco pochi armeni che nutrano odio nei confronti degli azeri e neanche i miei migliori amici azeri odiano gli armeni. Ci sono momenti in cui è come se tutto ciò che c’è di positivo si ammutolisse e vengono in superficie persone la cui l’anima è intrisa d’odio. Ma la cultura ci ha uniti e continuerà a farlo, spero. Speranze nei politici non ce ne sono, la sola speranza è riposta nei valori eterni: la cultura, i nostri canti, le nostre danze… Del resto la cultura è fatta di una materia ben più solida della politica. La politica è transitoria, la cultura no».

Gli errori degli armeni? «Penso che non avrebbero dovuto seguire i politici in questo fanatismo patriottico che, in alcuni armeni non è certo da meno rispetto al fanatismo dei nostri leader azeri. Questo è un grande ostacolo alla risoluzione dei conflitti… In Armenia tantissime persone vorrebbero che l’Azerbaijan fosse un Paese meraviglioso culturalmente avanzato e dall’altra parte non credo che ci siano azeri che non vorrebbero veder l’Armenia risollevarsi e risolvere i suoi problemi. Ma non so, parlo in modo confuso… Sono sopraffatto dalle emozioni… Queste fratture, per me, sono personali».

Ragioni, torti, anime caucasiche: «Nei nostri modi di vivere c’è tantissimo in comune. Arrivo a dire che non esiste un popolo più simile e vicino a noi azeri di quello armeno. Azeri e armeni erano vicini, vicinissimi. Se un armeno incontra un azero gli chiede “sei turco o armeno?” e un azero chiederebbe a un armeno: “Sei turco o armeno?”. Voglio dire, anche fisicamente è difficile distinguerci».

Ma come dimenticare, in questa terra impastata nei secoli da popoli così prossimi e così lontani, certi silenzi? «Non so se uno scrittore armeno abbia scritto, per esempio, del massacro di Khojaly (contro gli azeri, ndr). Alcuni eventi, come appunto quella strage o il pogrom di Sumgait (contro gli armeni), non sono mai stati chiariti e qualcuno non vuole che sia fatta chiarezza una volta per tutte. Credo non ci sia una persona al mondo che abbia veramente capito che cosa è successo là. A Sumgait e a Khojaly che cosa accadde?».

C’è forse un po’ di rimpianto per i tempi in cui il Caucaso, («quel minuscolo pezzetto di terra sul pianeta») era una parte dell’impero sovietico multinazionale? «C’erano molte cose positive, per me, in Urss. Sono cresciuto in un villaggio, mio padre è morto al fronte. Mia madre, una giovane donna, era sola, con tre figli. Tutti e tre abbiamo potuto studiare, io sono andato a Mosca. Provi a pensare se adesso, da qui, qualcuno può andare da qualche parte a ricevere un’istruzione superiore: ora è impossibile. Ci aspetta un’ondata di analfabetismo, qui in Azerbaijan. Certo, forse i figli di qualche oligarca o funzionario studiano a Londra, o New York, ma non è gente del popolo. Ai tempi dell’Urss invece una persona comune poteva emergere. Ora no. È un mondo di trafficoni…».

Del resto, da quando il fanatismo nazionalista di Satana ha infettato tante parti del mondo… Eppure, dalla sua prigione senza sbarre nel Caucaso, Akram Aylisli manda via web parole di speranza: «Vi auguro la felicità e la salute, non ammalatevi in questa pandemia e state lontani dal male, in ogni sua forma. Tenete duro».

Bibliografia: le tragedie che il Caucaso ha vissuto nel Novecento

Un testo importante sulle tragedie vissute dal Caucaso, per via dei nazionalismi esasperati contro i quali si è battuto Akram Aylisli, è il saggio di Taner Akçam Killing Orders, appena edito da Guerini e Associati a cura di Antonia Arslan (traduzione di Vittorio Robiati Bendaud e Alice Zanzottera, pagine 288, e 25). Il libro analizza una serie di documenti per dimostrare che non è possibile negare i propositi omicidi del governo turco verso gli armeni nel 1915, quando cominciò lo sterminio di un milione di persone. Sul conflitto tra armeni e azeri: Paolo Bergamaschi, Nagorno-Karabakh, la tregua fragile(Infinito Edizioni, 2018); Natalino Ronzitti, Il conflitto del Nagorno-Karabakh e il diritto internazionale (Giappichelli, 2014).

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La guerra tra Armenia e Azerbaijan continua: soldati azeri filmati mentre decapitano un anziano armeno (Periodicoitaliano 08.12.20)

Sebbene sia stato firmato un armistizio, sembra che il conflitto tra armeni e azeri continui in strada: soldati azeri decapitano anziano.

La guerra per il controllo del Nagorno Karabakh affonda le proprie radici nella fine della dominazione sovietica sul territorio occupato da Armenia e Azerbaijan. Le tensioni tra le due popolazioni sono nate a cavallo tra gli anni ’80 -’90 e sono sfociante in una prima guerra dopo il referendum del 1991: gli armeni presenti nella zona, il 22,8% della popolazione, boicottarono il referendum con il quale si decise di costituire lo stato autonomo del Nagorno Karabatkh. Quando, nel 1992, l’URSS collassò definitivamente, tra Armenia e Azerbaijan è scoppiato un conflitto sanguinoso.

La guerra si concluse con una vittoria dell’esercito armeno e la conquista della città di Shula. Le due nazioni firmarono un armistizio con il quale venivano deposte le armi. La pace impose dure condizioni per l’Azerbaijan, visto che la neonata repubblica del Arthsak, oltre al Nagorno Karabakh, comprendeva anche diversi territori azeri: Agdam, Jabrayil, Fuzuli, Kalbajar, Qubadli, Lachin e Zangilan. Di fatto l’armistizio creò una guerra fredda tra i due Paesi, costantemente minacciate da azioni di guerriglia da entrambe le parti. Solo la mediazione internazionale, fino al 2020, aveva permesso alle due popolazioni di non vivere un altro conflitto.

Guerra tra Armenia e Azerbaijan: nonostante l’armistizio la guerra continua

Forte dell’appoggio politico di Turchia e Russia e degli armamenti forniti anche da Turchia e Israele, nel settembre di quest’anno l’esercito azero ha lanciato una nuova offensiva. La superiore potenza delle forze armate armene ha portato a continue vittorie nel territorio di Nagorno Karabakh, tanto che lo scorso 9 novembre, il premier Armeno Pachinian ha firmato un armistizio con il quale accetta tutte le richieste della nazione rivale per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Il risultato è che tutte le truppe armene si sono ritirate dalla zona, lasciando tutti gli armeni della zona senza protezione.

Sono migliaia quelli che hanno già abbandonato la zona in cerca di una zona sicura. Alcuni, compresi i più anziani, hanno deciso di rimanere nelle loro case. Sebbene il conflitto sia nominalmente terminato, tra azeri e armeni non è giunta la pace. Secondo quanto riferito da Panarmenian Network, infatti, da ore gira un video in cui dei soldati azeri si scagliano contro tre anziani armeni. Nel video in questione si vedono i gendarmi che obbligano gli uomini a prostrarsi e baciare la bandiera azera. Come se l’umiliazione non bastasse, i militari picchiano e sputano addosso ai civili indifesi. Questo è solo uno dei video emersi, visto che ce ne sono altri in cui si vedono civili sgozzati e decapitati nonostante preghino per le loro vite.

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Hachiko di Karabakh: cane aspetta il suo padrone vicino all’ospedale da 20 giorni – video (Sputniknews 08.12.20)

Il video girato venerdì a Yerevan, Armenia, fa vedere un cane che aspetta il suo padrone ferito nel corso della guerra in Nagorno-Karabakh.

Il cane fedele aspetta il suo padrone, Romik Akhekyan, da 20 giorni. L’uomo è stato ferito mentre faceva il volontario durante la guerra in Nagorno-Karabakh. Quando lo stavano ricoverando all’ospedale, il cane correva dietro l’ambulanza, ma col tempo è rimasto indietro. Gli amici di Romik lo hanno portato al policlinico dove il cane rimane tutt’oggi aspettando le dimissioni del suo proprietario.

Romik l’ha trovato sotto i resti di una casa bombardata. Ha sentito il guaito del cane e lo ha tirato fuori da sotto le macerie. L’animale aveva una piccola scheggia nel collo che Romik con un suo amico ha eliminato. Hanno curato la ferita e lo hanno lasciato vivere con loro.

Nel corso della guerra il cane ha salvato alcune volte la vita dei volontari avvertendoli delle bombe che si stavano avvicinando. Ora è diventato un vero proprio amico per Romik, il quale sta aspettando la guarigione per poter portare il cane a casa e farlo conoscere alla sua famiglia.

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La Francia, unica alleata degli armeni (Il Folgio 07.12.20)

“Per le strade dell’Artsakh (Nagorno Karabakh), nei caffè senza gioia di Erevan, quando si viene a sapere che arrivi dalla Francia, si illuminano gli occhi”, scrive Valérie Toranian sulla Revue des Deux Mondes. “La Francia è con noi. Il presidente Macron è l’unico ad aver detto qualcosa…”. Dopo l’aggressione del Nagorno Karabakh da parte della coalizione turco-azera e i suoi jihadisti, si è levata una sola voce nel silenzio assordante delle nazioni. Quella di Emmanuel Macron. Ha designato l’aggressore e denunciato le mire espansionistiche di Erdogan. Certo, niente invio di truppe, niente aiuto militare agli armeni. Nessuna mozione europea. E nessuna iniziativa del gruppo di Minsk, dove la Francia siede da ventisei anni accanto agli Stati Uniti e alla Russia, per portare a termine il processo di pace nel Nagorno Karabakh.

La Francia, quante divisioni? Il capo del Cremlino ha bloccato l’assalto finale delle forze turco-azere e inviato le sue forze di interposizione. Le dichiarazioni di principio e le testimonianze di simpatia sono poca cosa quando si muore sotto una tempesta di fuoco. Ma nello stato di desolazione in cui si trovano gli armeni dalla firma del cessate il fuoco con l’Azerbaijan il 10 novembre, una bella parola della Francia è comunque meglio di nessuna parola. “Conosco bene la Francia, ho letto Alexandre Dumas, ‘I Tre Moschettieri’!”, dice Vahak, di una sessantina d’anni, con un volto scolpito dal tempo e un corpo massiccio. Ama anche Franz Werfel e Jean Marais. Nella città disastrata di Stepanakert, dove ci incontriamo, uno dei rari negozi rimasti aperti pochi giorni dopo la fine dei combattimenti, tiene a mandare un messaggio solenne a Macron e alla “grande civiltà francese”. “La Francia deve riconoscere la Repubblica indipendente dell’Artsakh. Non potrà mai accettare di essere governata dalla dittatura barbara di Aliyev. E se la Francia riconosce la nostra repubblica, altri stati la seguiranno”.

Riconoscere la Repubblica dell’Artsakh sarebbe non solo una posizione simbolica forte, ma permetterebbe anche di rilanciare il processo di pace introducendovi una discussione giuridica sullo stato della piccola Repubblica. Nei nove punti del cessate il fuoco, i russi hanno volontariamente ignorato la questione dello statuto dell’Artsakh. La Francia, nel quadro del gruppo di Minsk, con i russi e gli americani, potrebbe battersi per rimettere sul tavolo questa questione cruciale per il futuro delle popolazioni armene nel Nagorno Karabakh. I pericoli fisici, le minacce che pesano sul patrimonio armeno, il vandalismo già in corso, le profanazioni dei luoghi di culto e dei cimiteri, ecco tanti motivi concreti tali da giustificare che gli armeni del Nagorno Karabakh debbano avere uno statuto riconosciuto e inquadrato da leggi internazionali.

L’Unesco ha appena lanciato una missione d’osservazione. Ma nel 2004, la stessa Unesco, vai a sapere perché, aveva anche accordato alla moglie del presidente azero, Mehriban Aliyeva, il titolo di ambasciatrice di buona volontà dell’Unesco. La moglie del dittatore (nonché vice presidente del paese!) non ha mai smesso di invocare la “risoluzione militare” della questione del Karabakh, in violazione di tutti i principi pacifici dell’Unesco. Gli armeni sono perplessi. L’Azerbaijan, attraverso la sua diplomazia del caviar, finanzia numerose istituzioni.

Tenente dell’esercito armeno, Meri Avakian assomiglia a quelle guerriere curde che hanno combattuto contro lo Stato islamico in Siria. La morte non le fa paura: conserva per lei la sua ultima pallottola. La incrociamo a Martuni, città abbondantemente distrutta dai bombardamenti, di fronte alla statua di Monte Melkonian, eroe nazionale della prima guerra del Karabakh, armeno originario della California morto in combattimento nel 1993. “All’epoca i soldati non attaccavano al grido di Allah Akbar”, dice.

I deliri espansionistici di Erdogan, la sua volontà di ricostituire un impero neo ottomano, la sua potenza militare, il suo appello al jihadismo per eliminare gli armeni: tanti fattori che preoccupano terribilmente lo stato maggiore armeno. Sono i carri armati turco-azeri che si insediano in Azerbaijan, nelle regioni abbandonate dalle forze armene, alla frontiera con l’Armenia. “Erdogan fa paura, anche ai russi, perché è imprevedibile e capace di tutto”, sottolinea il politologo Saro Saroyan.

I russi sono ancora potenti come vent’anni fa? A Erevan, ci si interroga. Circola la voce di imminenti dimissioni di Putin, a causa di forti dissensi all’interno del Cremlino. L’instabilità russa alimenta le angosce. La minaccia turca non è una “fantasia” di armeni traumatizzati dal genocidio del 1915. Il neosultano esorta i jihadisti a stabilirsi con le loro famiglie nelle regioni frontaliere…

La guerra potrebbe riprendere. Chi può assicurare il contrario? Al cimitero militare di Erevan, centinaia di tombe appena scavate accolgono le spoglie ritrovate nelle zone di combattimento dopo il cessate il fuoco del 10 novembre. I morti hanno quasi tutti 19 o 20 anni. I turchi non hanno fatto prigionieri. Questa domenica, i funerali di tre soldati ai quali assistiamo si tengono con la bara chiusa, contrariamente alla tradizione: i corpi non sono in condizione di essere esposti. Sono stati torturati, mutilati, decapitati? Artak Beglaryan, responsabile dei diritti umani nell’Artsakh, ha pubblicato alla vigilia dei funerali un rapporto che parlava di corpi mutilati di armeni ritrovati nei dintorni di Susa, la città conquistata dalle forze turco-azere. Su internet circolano video insostenibili. Teste mozzate, corpi torturati, la testa di un uomo incastrata nelle budella di un maiale sventrato. Esseri umani trattati come “maiali”, come “cani”, secondo le parole di Aliyev.

La comunità internazionale ha lasciato morire gli armeni, bastione della nostra civiltà nel Caucaso. Sacrificati in prima linea dinanzi al panturchismo islamista. Potrebbe almeno cercare di riscattarsi riconoscendo l’indipendenza dell’Artsakh. Come ricordato dal progetto di risoluzione che sarà sottoposto al voto dei senatori martedì 24 novembre, “le popolazioni armene, a cui il nostro paese è legato da un’amicizia secolare, sono nuovamente martirizzate nel Nagorno Karabakh. La Francia non può più ignorare che soltanto la piena indipendenza della Repubblica del Nagorno Karabakh sarà il loro primo scudo. Città come Parigi, Marsiglia (compresa la sua metropoli), Saint-Étienne, le regioni Paca, Île-de-France, Hauts-de-France, Auvergne-Rhône-Alpes, e alcuni dipartimenti (Hauts-de-Seine, Isère, Bouches-du-Rhône) hanno già votato mozioni di riconoscimento.

Presidente Macron, dopo la sua dichiarazione bella e coraggiosa, è giunto il momento di un vero e proprio impegno! La Francia è stata il primo stato a riconoscere ufficialmente il genocidio armeno nel 2001. Deve essere la prima nazione a riconoscere la Repubblica dell’Artsakh e il suo diritto di vivere in pace nel 2020. Prima che riprendano i crimini di Erdogan e dei suoi alleati.

Ceriano, manifestazione di solidarietà per gli armeni del Nagorno-Karabakh (Ilnotiziario 07.12.20)

Nel corso dell’ultimo Consiglio comunale di Ceriano Laghetto, è stata presentata una delibera riguardante il conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh (in armeno Artsakh), area montagnosa nel Caucaso Meridionale, che si è autoproclamata repubblica indipendente nel 1991, anche se non viene ancora riconosciuta formalmente a livello internazionale.

La questione è stata sollevata da un cittadino cerianese che ha raccolto l’appello inviatogli dal console dell’Armenia affinché si accendano i riflettori, dopo che la situazione da quelle parti si è fatta particolarmente grave dalla fine dello scorso mese di settembre.

Attorno al Nagorno-Karabakh si giocò, e si gioca tuttora, la rivalità tra Armenia e Azerbaigian. Per capire le cause di tale rivalità bisogna tornare indietro alla Prima Guerra Mondiale quando l’Azerbaigian, con l’appoggio dell’Impero Ottomano, rivendicò la propria sovranità sul Nagorno-Karabakh, una regione storicamente popolata da armeni. Nonostante i turchi uscirono sconfitti dalla Grande Guerra, il controllo azero sulla regione venne riconosciuto dalle potenze alleate, probabilmente interessate a voler sfruttare i giacimenti petroliferi dell’Azerbaigian. La tensione tra armeni e azeri si tramutò in conflitto armato nel momento in cui Armenia e Azerbaigian vennero riconosciuti come stati indipendenti dopo la dissoluzione dell’URSS. Il Nagorno-Karabakh, abitato per l’80% da armeni cristiani, rimase sotto il controllo dell’amministrazione musulmana azera. Dopo la proclamazione della sua autonomia, la regione venne bombardata dagli azeri e l’Armenia scese in campo per difendere i suoi connazionali. Il cessate il fuoco arrivò nel 1994, dopo le negoziazioni e la mediazione di Russia, Iran, Kazakistan e l’ONU.

La tensione e la rivalità tra i due popoli però è rimasta ed è notizia degli ultimi mesi la ripresa degli scontri. Nella delibera cerianese si legge: “Dal 27 settembre 2020 si sta assistendo a una ripresa degli scontri, con un intenso e persistente attacco bellico dell’Azerbaigian nei confronti della popolazione e degli edifici dell’Artsakh, che ad oggi è un’area a maggioranza di popolazione armena e cristiana ma non riconosciuta a livello internazionale. Dal 10 novembre il conflitto è sospeso grazie ad un accordo di pace e all’intervento delle forze di peace-keeping della Federazione russa. Per gli armeni l’Artsakh è un simbolo, un’area di tradizioni millenarie tramandate di generazione in generazione, di fervore culturale e sociale, in particolare con la creazione di numerosi movimenti che ne richiedono l’indipendenza. Il riconoscimento della Repubblica di Artsakh è di fondamentale importanza per fermare il massacro degli armeni, gli attacchi indiscriminati nei confronti della popolazione cristiana, la distruzione di scuole ospedali e chiese, in un conflitto che rischia di configurarsi come un genocidio”.

L’obbiettivo della delibera è quello di supportare il popolo armeno nella richiesta di riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica dell’Artsakh, al fine di fermare gli attacchi bellici che ciclicamente colpiscono l’area e impegnarsi a chiedere alle autorità nazionali il riconoscimento dell’Artsakh, quale atto di solidarietà al popolo cristiano armeno al fine di porre termine per sempre alle ostilità che lo hanno colpito.

Il vicesindaco Dante Cattaneo, che ha introdotto e illustrato la deliberazione, ha voluto ringraziare i Consiglieri per il confronto suscitato su questo tema di portata internazionale: «È importante riconoscere il ruolo strategico e centrale della storia dell’Armenia per contrastare un sempre più prepotente espansionismo filoislamico e panturco che nel passato è stato foriero di immani tragedie e genocidi volti a colpire le genti e la loro cultura solo in quanto irriducibili cristiani. Purtroppo la debolezza dell’Europa ed il comportamento pavido di molte sue istituzioni deve indurre tutti gli uomini di buona fede a tentare di invertire la rotta prima che sia troppo tardi». Ai voti, la mozione è stata approvata senza voti contrati: favorevole la maggioranza, astenuta la minoranza.

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Gli armeni lasciano Dadivank e ortodossi di tre chiese fanno pace (Euronews 06.12.20)

Vartanes Abramyan, leader religioso dell’esercito armeno insiste: “Questo monastero è il più antico dei monasteri armeni che i nostri antenati hanno costruito e dove pregavano. Hanno posato ogni pietra con una preghiera, e il monastero esiste ancora oggi”.

Robert Mobili, membro della comunità Udin-Albanese, gli fa da controcanto: “Come può confermare un rappresentante della comunità cristiana Udin-Albanese dell’Azerbaigian, un geologo, questa in realtà è una chiesa albanese caucasica e non è in alcun modo correlata alla Chiesa armena. Come membro della Chiesa albanese, come portatore della croce albanese posso assicurarti che questa chiesa è caucasica albanese perché i materiali da costruzione, le sostanze leganti, gli elementi della croce, i simboli, così come l’architettura non sono tipici delle chiese armene”.

Il monastero di Dadivank, fondato nel I secolo d.C.

Si ritiene che il monastero sia stato fondato da San Dad, un discepolo dell’apostolo Taddeo che diffuse il cristianesimo nell’Armenia orientale durante il I secolo d.C. Gli edifici che vediamo oggi risalgono al XIII secolo e furono aggiunti e modificati nel corso del tempo.

Euronews è stata l’unica tv ad accedere alla funzione religiosa tra ortodossi di tre diverse chiese. Tutti i partecipanti, comprese le forze di pace e i media russi, sono stati benedetti dal sacerdote russo a cui però non è stato permesso di concederci un’intervista.

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Falsificazioni storiche e religiose degli azeri: La pace in Nagorno Karabakh è ancora lontana. (Politicamentecorretto 06.12.20)

È passato quasi un mese dalla fine della guerra che il 27 settembre scorso l’Azerbaigian e la Turchia avevano scatenato contro la piccola repubblica armena de facto dell’Artsakh (Nagorno Karabakh).

Si pensava che dopo alcune migliaia di morti da una parte e dall’altra, decine di migliaia di armeni sfollati dalla regione e la vittoria militare dell’Azerbaigian fosse arrivato finalmente il momento di parlare di pace nella regione.

Ma le dichiarazioni e il comportamento dell’Azerbaigian in queste prime settimane post-belliche dimostrano chiaramente che la dittatura di Aliyev è tutt’altro che intenzionata a concludere pacificamente il contenzioso con la parte armena nonostante il territorio da quest’ultima controllato si sia ridotto a un fazzoletto di terra più piccolo della val d’Aosta.

Purtroppo, il nazionalismo turco-azero non demorde. Aliyev continua a lanciare bellicosi diritti su tutto il territorio non accontentandosi di quello conquistato grazie ai droni turchi e ai mercenari jihadisti tagliagole.

Questa politica di scontro si manifesta sostanzialmente su due direttrici: la falsificazione storica e il discredito religioso.

Ecco, quindi, una serie di interventi, anche su codesta testata, miranti a una narrazione di “appartenenza”  con date e fatti decontestualizzati e riassemblati a uso e consumo dell’Azerbaigian.

Il percorso a ritroso degli “storiografi” azeri salta ovviamente i passaggi scomodi ed evita pericolose divagazioni geografiche per non correre il rischio che qualcuno si ponga la domanda su quale sia stato il destino degli armeni in quella che oggi è la Turchia orientale.

Quando la falsificazione storica non regge più, ecco subentrare il discredito religioso. Chiese e monumenti del territorio, apparentemente armeni, sarebbero in realtà retaggio degli albani del Caucaso di cui loro, gli azeri, sarebbero i naturali e unici legittimati discendenti.

È lo stesso ragionamento che fanno i turchi: ad esempio all’ingresso della cittadella medioevale di Anì (che sta proprio sul confine con l’attuale repubblica di Armenia) una grande cartello illustra tutti i popoli che hanno abitato quel territorio; ne manca solo uno, quello armeno… Eliminiamoli dalla storia (oltre che fisicamente) così da crearne una nuova ed è risolto il problema.

In ambedue i casi  basterebbe consultare una qualsiasi antica carta dell’Impero romano o recuperare la genesi del nome Artsakh o risalire alla storia (quella ufficiale e non soggetta a rivisitazioni turche o azere) per capire chi sia arrivato prima in quei territori e chi ha da sempre abitato quelle regioni.

Nel tentativo di ricreare una verginità di tolleranza religiosa in Azerbaigian (che forse varrà per tutti ma non per ciò che è armeno) la propaganda azera arriva anche a cambiare la carta di identità delle chiese e delle croci armene cristiane.

Intanto i soldati di Aliyev, continuano l’opera di distruzione e annientamento dei monumenti, una sorta di “genocidio culturale”,  basti pensare ai diecimila katchkar (Croci in pietra) medioevali di Julfa nel Nakhchivan rasi al suolo con le ruspe una quindicina di anni fa, o alle recenti foto e video postati dagli stessi azeri in questi giorni che mostrano (Con fierezza! Sic!!!) il sciacallaggio e il vandalismo di cui sono capaci.

“Mamma li turchi!” gridavano una volta gli italiani. Mai come oggi questa acclamazione risulta drammaticamente attuale.

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