24 aprile 1905, una data simbolo del primo genocidio moderno (metropolitanmagazine.it 24.04.20)

24 aprile 1905, il Genocidio Armeno? E’ una data simbolo, in quanto il genocidio si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo è relativo alla campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano Abdul-Hamid II negli anni 1894-1896; il secondo è collegato alla deportazione ed eliminazione di armeni negli anni 1915-1916.

Malgrado le controversie storico-politiche, un ampio ventaglio di analisti concorda nel qualificare questo accadimento come il primo genocidio moderno, e soprattutto molte fonti occidentali enfatizzano la “scientifica” programmazione delle esecuzioni.
Secondo lo studioso tedesco Michael Hesemann, si dovrebbe più compiutamente parlare di genocidio cristiano, cosi scrive nel suo libro Völkermord an den Armeniern (Herbig Verlag), pubblicato nel 2012.

PRIMO MASSACRO
Nel 1890 nell’Impero ottomano si contavano circa 2 milioni di armeni, in maggioranza appartenenti alla Chiesa apostolica armena.
Gli armeni erano sostenuti dalla Russia nella loro lotta per l’indipendenza, poiché la Russia aspirava a indebolire l’Impero ottomano per annetterne dei territori ed eventualmente appropriarsi di Costantinopoli. Per reprimere il movimento autonomista armeno, il governo ottomano incoraggiò fra i curdi, che popolavano anch’essi il territorio dell’Armenia storica, sentimenti di odio anti-armeno. L’oppressione che dovettero subire dai curdi e l’aumento dell’imposizione fiscale imposto dal governo turco, esasperò gli armeni fino alla rivolta, alla quale l’esercito ottomano, affiancato da milizie irregolari curde, rispose assassinando migliaia di armeni e bruciandone i villaggi (1894).
Due anni dopo, probabilmente per ottenere visibilità internazionale, alcuni rivoluzionari armeni occuparono la banca ottomana a Istanbul. La reazione fu un pogrom anti-armeno da parte di turchi ottomani in cui persero la vita 50.000 armeni.

SECONDO MASSACRO
Nel periodo precedente la prima guerra mondiale, nell’impero ottomano si era affermato il governo dei «Giovani Turchi». Essi avevano paura che gli armeni potessero allearsi con i russi, di cui erano nemici.
Il 1909 registrò uno sterminio di almeno 30.000 persone nella regione della Cilicia.
Nel 1915 alcuni battaglioni armeni dell’esercito russo cominciarono a reclutare fra le loro fila armeni che prima avevano militato nell’esercito ottomano. Intanto, l’esercito francese finanziava e armava a sua volta gli armeni, incitandoli alla rivolta contro il nascente potere repubblicano.

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Asolo, la bandiera armena sventola su Palazzo Beltramini per il massacro di un popolo che ancora non ha avuto giustizia (qdpnews 24.04.20)

Sventola oggi, venerdì 24 aprile, a Palazzo Beltramini la bandiera di un popolo il cui dolore ancora non è globalmente riconosciuto: la 105° commemorazione del massacro degli Armeni, il Grande Male, oggi venerdì 24 aprile, rappresenta una delle più profonde cicatrici del Novecento: Asolo non resta indifferente a questo ricordo, che è particolarmente sentito anche per una relazione che accumuna la città di Jermuk con la città dei cento orizzonti, un patto di amicizia risalente al 2016.

Ma le radici che collegano il popolo armeno con il borgo risalgono all’Ottocento, quando una piccola comunità vi si era insediata per la stagione estiva in seguito all’acquisto di Villa Contarini da parte di un arcivescovo della discendenza dei Gurekian: non una sola volta questo nome ha incontrato i salotti degli intellettuali asolani, creando rilevanti infusioni di cultura. Alcuni dei personaggi armeni ricordati ad Asolo hanno perso tutto ciò che avevano in patria tra il 1915 e il 1916 mentre il popolo ottomano falciava senza pietà un milione e mezzo di persone.

Nonostante l’entità del massacro, il governo turco ancora oggi rifiuta di riconoscerne l’effettivo avvenimento: mentre in Turchia parlare di questo genocidio significa finire in carcere, in Francia una legge ne vieta la negazione. In Italia, così come in altri 29 Paesi del mondo, dell’olocausto degli armeni si celebra il ricordo, riconoscendolo come fatto storico ufficiale: assieme al ricordo della tragedia, infatti, la negazione del fenomeno, che può sembrare paradossale, è un altro elemento da considerare nella giornata di oggi.

La bandiera esposta oggi al municipio di Asolo accanto a quella italiana, un giorno prima della Festa della Liberazione, potrebbe suscitare anche questa riflessione.

Per quanto riguarda la Festa nazionale di domani, sabato 25 aprile, la commemorazione delle ore 10.00 non sarà aperta al pubblico ma i cittadini potranno seguire da casa il sindaco Mauro Migliorini e il vice sindaco Franco Dalla Rosa mentre porgono il loro omaggio ai caduti per la liberazione dell’Italia.

(Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it).
(Foto: Comune di Asolo).
#Qdpnews.it 

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Anniversario genocidio degli armeni 2020 – Di Anna Maria Samuelli Kuciukian

105 anni dal genocidio del popolo armeno senza poterci unire nella preghiera e nel canto liturgico per i martiri, senza poter depositare una corona o accendere una candela davanti aiKhachkar e ai monumenti, senza poter lasciare i fiori  al memoriale di Dzidzernagapert .

In questo 24 aprile 2020, unendomi alla memoria del popolo armeno per scelta famigliare e per scelta consapevole di condivisione della storia e dell’identità di un popolo che dopo il genocidio del 1915 ha avuto la forzadi rinascere e di ricostituire in tutto il mondo comunità, tradizione e  cultura, vorrei riproporre quelli che per me sono stati momenti forti di alcuni anniversari, momenti che oggi fanno parte del mio percorso di condivisione dell’ “armenità”.

Penso al 90° anniversario del genocidio, il 2005,  trascorso in Armenia,a Yerevan, dove era stata organizzata una grande Conferenza Internazionale e numerosi seminari all’Accademia delle Scienze, con storici, filosofi,giuristi, artisti provenienti da tutto il mondo. C’era anche una delegazione di accademici dalla Turchia, e il giornalista turco di origine armena, HrantDink, che abbiamo conosciuto di persona e di cui abbiamo potuto ammirare la determinazione a battersi per la ricerca di un dialogo tra turchi e armeni.Siamo stati molto colpiti dalla sua personalità, che sprigionava una forza interiore straordinaria. Cosciente del pericolo che correva in Turchia per la sua sfida continua all’articolo 301 del Codice penale per il quale  sino ad oggi qualsiasi riferimento al genocidioviene considerato atto di “Lesa turchicità”,non aveva mai voluto abbandonare Istanbul e l’impegno di dirigere il Giornale bilingue armeno-turco Agos.

«Non lascerò questo Paese», aveva dichiarato pochi mesi prima di essere ucciso, «se me ne andassi sentirei di avere lasciato da soli quanti combattono per la democrazia. Sarebbe un tradimento e non lo farò mai».

Fiero delle sue origini armene e fiero di sentirsi anche turco, aborriva  il nazionalismo in ogni sua forma. Nel 2007 HrantDink  è stato ucciso davanti alla porta del suo giornale. Gariwo, l’Associazione fondata nel 2001 da Gabriele Nissim e Pietro Kuciukian, lo ha onorato al Giardino dei Giusti dell’Umanità al Monte Stella di Milano nel 2009.  Il 6 giugno del 2012, grazie all’impegno del Console onorario d’Italia in Armenia, Antonio Montalto, è nato il primo giardino dei giusti a Gyumri e il primo albero e cippo sono stati dedicati a HrantDink. La sua memoria continua a vivere intensamente grazie all’iniziativa del Consiglio della Comunità Armena di Roma che nel 2008 ha istituito il Premio giornalistico HrantDink.

Il Novantesimo anniversario va anche ricordato perché lo storico Marcello Flores, ha presentato, proprio nel corso del Conferenza Internazionale, il progetto del saggio sul genocidio a cui stava già lavorando e che è stato pubblicato nel 2006 dalla Casa Editrice di Bologna con il titolo, Il genocidio degli armeni. Un lavoro di ricerca tra i più pregevoli quello di Marcello Flores,  unico tra gli storici italiani ad essersi occupato a fondo del tema del genicidio degli armeni, dimenticato e negato dalla Turchia sino ad oggi. Il saggio ha avuto numerose edizioni. Ricordo poi la presenza della regista Valeria Parisi di 3D Produzioni,impegnata a girare un documentario. Accompagnata da Pietro Kuciukian che le faceva da interprete, visitava  le case di alcune sopravvissute quasi centenarie.  Era grande  la  sua commozione quando la sera rivedeva le interviste. Faceva davvero fatica ad accettare i racconti di tanta violenza inflitta agli innocenti. Il suo lavoro era iniziato   in Italia nel 2004 con interviste a storici,  filosofi, giuristi, politologi, esperti di diritti umani provenienti da Europa, Stati Uniti, Armenia, Israele e Turchia, durante un convegno alla Fondazione Cini all’Isola di S.Giorgio Maggiore a Venezia,patrocinato dall’Università Ca’ Foscari. Il documentario è stato presentato con il titolo “Grida dal silenzio-La storia dimenticata del genocidio degli armeni”. Il video contiene anche fotogrammi inediti recuperati nell’Archivio storico di Mosca. E’ stato trasmesso da TV 2000 e riproposto a Milano nella Sala Buzzati del Corriere della sera, nel centenario del genocidio. La regista lo ha aggiornato con le riprese della grande cerimonia aDzidzernagapert, conla sfilata dei capi di Stato che deponevano i fiori al Memoriale dei martiri e con la ripresa del concerto tenuto nella piazza di Yerevan dal gruppo musicale armeno System of a Down.

Ma prima di giungere all’anniversario del 2015, vorrei ricordare un altro episodio, che aveva segnato la rinascita della speranza nelle comunità armene in patria e in diaspora, e nella sia pure esigua comunità armena di Istanbul.Speranza di un cambiamento di rotta del governo di Ankara che mai ha voluto riconoscere la realtà e le dimensioni del primo crimine contro l’umanità del Novecento, prototipo dei genocidi che sono seguiti nel cosiddetto “Secolo breve” . La speranza era riposta nell’appello di un gruppo di intellettuali turchiche invitavano la popolazione ad unirsi agli amici armeni nella piazza centrale di Istanbul per commemorare il Metz Yeghern. Lo riporto per esteso, perché ci fa capire il significato profondo della speranza che era entrata nell’animo degli armeni :

“Nel 1915 quando la popolazione della Turchia ammontava a 13 milioni, su queste terre vivevano 1.5 – 2 milioni di armeni. ….Erano i nostri compagni nei quartieri, erano i nostri vicini di casa, erano i nostri sarti, i nostri orafi, i nostri compagni di classe, i nostri maestri, i nostri militari, i nostri generali, i nostri storici, i nostri compositori….: Erano i nostri dirimpettai, coloro con i quali condividevamo le nostre angosce. Il 24 aprile del 1915 ebbe inizio la loro deportazione. Li abbiamo persi. Ora non ci sono più. Tra noi si sente la mancanza….Non ci sono tracce nemmeno dei loro cimiteri. Però nella nostra coscienza di uomini quell’immenso dolore di quell’immane tragedia esiste da 95 anni e pesa ogni giorno di più. Lanciamo un appello a tutti quei turchi, che sentono nei loro cuori quel dolore immenso e vorrebbero inchinarsi dinanzi alla Memoria delle vittime del 1915. Abito nero, in silenzio, torce accese e con i fiori…. Perché quel dolore è anche nostro. Quel lutto è di noi tutti. L’appuntamento è fissato per il 24 aprile alle ore 19 nella piazza centrale di Istanbul TAKSIM”(Marco Tosatti, La Stampa.it  23 aprile 2005).

Tra ipromotori dell’appello, più di 80, c’era l’accademico Baskin Oran, l’avvocato di HrantDinkFethièCetin, la storica NesheDuzel, membri dell’organizzazione turca dei Diritti Umani e anche alcuni deputati.

Ma poi ci fu l’assassinio di HrantDink.

Nel 95° anniversario, il 2010, possiamo considerare il sit in di un centinaio di intellettuali turchi organizzato nella stazione ferroviaria di Haydarpasha, ad Istanbul, stazione da cui  il 24 aprile 1915 era partito il primo treno con 220 deportati armeni, tra le ultime manifestazioni della spinta alla libertà della società civile turca.  La manifestazione, come ha ricordato il giornalista Antonio Ferrari sul Corriere della sera, era stata protetta dalla polizia che teneva lontani  gli ultranazionalisti  (Antonio Ferrari,Corriere della sera, pagina 30 , 25 aprile 2010) .

Poi le voci libere in Turchia sono state progressivamente soffocate e abbiamo assistitoad uncrescente, oscuro e brutale annientamento di ogni speranza.

24 aprile 1915- 24 aprile 2015. Siamo al centenario.

Papa Francesco celebra il 12 aprile la S. Messa nella Basilica di S.Pietro: il presidente della Repubblica armena, il Katolikos di tutti gli Armeni Sua Santità Karekin II, il Katolikos della Grande Casa di Cilicia, il Katolikos degli Armeni cattolici di Bzoummar, i più alti  rappresentanti delle confessioni religiose del Medio Oriente cristiano e dei cattolici armeni, ambasciatori, consoli e armeni di tutto il mondo, con amici italiani e stranieri che hanno chiesto di condividere questo momento storico. Una mescolanza di lingue, di paramenti sacri, di canti liturgici struggenti in latino e in krapar, antica e solenne lingua sacra degli armeni.

Ma ancora prima dell’ingresso di Papa Francesco si poteva toccare con mano l’ansia dell’attesa: come sarà celebrato dal  Pontefice il centenario del genocidio? I riti di ingresso fanno crescere l’aspettativa e quando Papa Francesco prende la parola i volti degli armeni vicini a noi si fanno più pallidi e accrescono la nostra emozione.

Sappiamo come papa Francesco si è rivolto ai fratelli e alle sorelle armene. Un messaggio universale che ha preso le mosse dalla nostra contemporaneità, un tempo di guerra nel quale domina ancora la follia della distruzione degli inermi, accresciuta dall’indifferenza dei più, per poi giungere,senza esitazione, a parlare

di quello che “generalmente è definito il primo genocidio del Ventesimo secolo”, tragedia che ha colpito la prima nazione cristiana del mondo. A questo ne sono seguiti altri, perpetrati dal nazismo dallo stalinismo e da tutti i regimi totalitari o fondamentalisti che in varie aree del mondo e anche nel cuore dell’Europa hanno versato e versano sangue innocente. Non abbiamo potuto trattenere le lacrime che si sono mescolate in un abbraccio a quelle dei nostri vicini che venivano dal Libano e accompagnavano un anziano sopravvissuto. Papa Francesco,all’inizio del suo saluto,ha elencato nel dettaglio quello che oggi accade ai tanti cristiani uccisi per la loro fede, cristiani torturati, crocifissi, costretti all’esilio. Le sue parole hanno richiamato alla mia memoria le immagini della deportazione del 1915, le fotografie di Armin Wegner che tante volte mostravo nelle scuole quando ci invitavano a ricordare il genocidio degli armeni, ma anche le immagini delle colonne di profughi in fuga dall’Afghanistan, dalla Siria, degli Yazidi del Sindjar, dei migranti dall’Africa, morti in mare, aggrappati ai fili spinati, fermati dai muri della nostra indifferenza e del nostro egoismo. Ancora una volta i peccati di omissione contribuiscono ad accrescere l’estensione del male.

E poi il concetto di memoria sottolineato con forza da papa Francesco, perché là dove si nasconde e si nega il male inferto agli innocenti, la ferita continua a sanguinare, rimane aperta. Dove è finito l’entusiasmo e la forza che sosteneva i popoli nella ripresa del cammino dopo l’immane strage della seconda guerra mondiale? Il male apre vuoti, anzi voragini, afferma papa Francesco.

La domanda si ripropone nella nostra contemporaneità ferita e segnata da conflitti, odi, egoismi ed emergenze umanitarie.

Come ricordiamo i martiri armeni oggi, 24 aprile 2020 ? Nel confine delle nostre case, ma capaci di vivere il “diritto alla speranza”, un diritto che è tenuto vivo anche dalle storie dei Giusti, dei testimoni di verità, dei salvatori che in ogni tempo e in ogni parte del mondo sono stati capaci di dire no al male, di assumersi la responsabilità di una scelta, di trovare il coraggio di far prevalere la voce della coscienza, rischiando la libertà e la vita. Cosi accade nella Turchia di oggi, dove tanti dissidenti pagano a caro prezzo i loro atti di disobbedienza.

Ritornando al centenario, voglio ricordare che il 24 aprile del 2015 nella Sala Alessi del Comune di Milano avevamo organizzato il Convegno “Il genocidio armeno tra storia e memoria”.  Antonia Arslan, Gabriella, Uluhogian, Aldo Ferrari, Giulia Lami e AgopManoukianhanno approfondito il tema del genocidio da ottiche diverse, mentre Gabriele Nissim e Pietro Kuciukian hanno proposto nella parte finale dei lavori  l’approfondimento delle figure dei giusti, rispettivamente di Armin T. Wegner e  dei giusti ottomani . Quando è stato realizzato il collegamento in diretta  con Il memoriale di Yerevan, dove era in corso la grande cerimonia del centenario, abbiamo potuto vedere a sinistra del monumento che custodisce la fiamma perenne, il muro della memoria dei giusti, dove ogni anno Pietro Kuciukian ha tumulato la terra raccolta sulla tomba di coloro che in vari contesti e in varie forme, hanno cercato di fermare il male. Storia e memoria raccordate nell’obiettivo di non dimenticare.

Memoria non archeologica ma proiettata sul presente, memoria capace di tenere aperta l’inquietudine della domanda, del  perché e come è accaduto e accade, ma anche capace di auto-interrogarsi per non rimanere prigioniera di quella zona grigia da cui nascono i tanti mali del mondo.

Possa l’esempio dei Giusti dell’Umanità che ogni anno onoriamo al Giardino di Monte Stella a Milano e in tanti giardini in Italia e all’estero, rafforzare il nostro diritto alla speranza che un domani venga vinto il negazionismo e che i popoli ricomincino a dialogare, come voleva HrantDink.

 

Anna Maria Samuelli Kuciukian

Gariwo, la foresta dei Giusti

Responsabile Sezione Didattica

 

24 aprile 2020

Il 24 aprile 1915 cominciava il genocidio degli Armeni (CDS Blog 23.04.20)

di Luca Agostoni

(laboratorio giornalismo e storia Università statale di Milano)

Con il termine di genocidio armeno si indicano le deportazioni e i massacri compiuti dai turchi nei confronti degli armeni tra il  1915 e il 1917, che causarono circa 1,5 milioni di morti, corrispondenti ai 2/3 della popolazione armena presente nei territori dell’Impero ottomano. Questa ecatombe viene preceduta dai pogrom compiuti nel 1894-1896 dal sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 ad opera del neonato governo dei Giovani turchi. È proprio la loro presa di potere e in modo particolare l’affermazione dell’ala più radicale della formazione a far sì che fosse organizzato e messo in pratica quello che è definito “il primo genocidio del XX secolo”. La motivazione principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista dei Giovani Turchi, volenterosi di ricostruire lo Stato su una base nazionalista e sull’omogeneità etnica e religiosa; proprio per questo la popolazione armena, di religione cristiana e sempre più attratta dagli ideali di libertà e democrazia occidentali, con le sue richieste di autonomia poteva rappresentare un ostacolo non indifferente al progetto governativo. A ciò si deve anche aggiungere la necessità di espropriare i beni e le terre degli armeni, indispensabile in un momento di grande crisi dell’Impero ottomano e che serviranno da base economica per la futura Repubblica turca instaurata da Mustafa Kemal, meglio conosciuto come Atatürk, “il padre dei Turchi”.

La notte del 24 aprile 1915, 2345 persone appartenenti all’élite armena di Costantinopoli vengono arrestate ed eliminate con l’accusa di alto tradimento. Inizia così il genocidio e la sua gestione è affidata all’Organizzazione speciale, una forza paramilitare formata in gran parte da ex detenuti e criminali, che opera con l’appoggio del governo e con l’aiuto di consiglieri tedeschi. Il massacro viene organizzato in due fasi: in un primo momento i maschi adulti sono chiamati a prestare servizio nell’esercito e poi passati per le armi mentre molti altri civili o vengono giustiziati sul posto oppure sono costretti a marce estenuanti attraverso il deserto di Der es Zor, durante le quali molti muoiono di fatica. La seconda fase vede come punto di riferimento Aleppo, centro di raccolta dei sopravvissuti, e molti altri campi di concentramento minori: come sostiene lo storico francese Bernard Bruneteau, “la strategia adottata dai turchi consisteva innanzi tutto nel lasciare marcire per settimane i deportati nei campi di transito alla periferia di Aleppo, per poi spostarli da un campo di concentramento all’altro lungo l’Eufrate, fino alla fine di un processo di selezione naturale. Ammassati all’aperto morivano a migliaia”.

Nel 1923, con la nascita della Repubblica Turca, Kemal blocca i processi richiesti dalla comunità internazionale e con lo scoppio della Seconda guerra mondiale il genocidio armeno cade dimenticato visto che la Turchia diviene un alleato strategico per l’Occidente; sembra uno scherzo del destino, ma il governo turco firma persino la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio dell’Onu del 1948. Lo sterminio è ancora negato tutt’oggi dall’amministrazione di Ankara: in primo luogo la posizione ufficiale respinge l’esistenza di un piano orchestrato dal governo ma considera la carneficina una triste conseguenza della guerra; altre argomentazioni considerano sia la minaccia filorussa costituita dagli armeni sia, sul piano semantico, l’anacronismo della stessa parola “genocidio”, che non esiste prima del 1943. Il negazionismo turco ha danneggiato il rapporto non solo con la comunità internazionale, visto che a partire dal 1965 ben 29 Paesi hanno riconosciuto ufficialmente il massacro, ma soprattutto con l’Unione europea, alla luce della volontà della Turchia di entrarvi a far parte. Le posizioni più intransigenti a questo proposito sembrano essere quelle rappresentate dalla Francia, che considera perfino un reato la negazione di quel crimine, e quella di papa Francesco che più volte ha parlato apertamente di genocidio armeno e ha invitato la Turchia a fare i conti con il proprio passato, suscitando l’indignazione del presidente Erdogan.

Quest’ultimo, prima da primo ministro e poi da presidente della Repubblica, si è trovato a fronteggiare una forte opposizione interna rappresentata soprattutto dal mondo degli intellettuali: proprio per far fronte a ciò, parlare apertamente di genocidio è un reato punibile con la reclusione da sei mesi a due anni, in base all’art. 301 del codice penale turco, in quanto “vilipendio dell’identità nazionale”. Lo hanno fatto il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, la scrittrice Elif Shafak, ma soprattutto il giornalista Hrant Dink, condannato a 6 mesi di reclusione e successivamente assassinato nel 2007 da un ultranazionalista. Perfino il sociologo e storico Taner Akçam sottolinea come “La Turchia non ammette il genocidio perché quel crimine fu commesso dai padri della patria. Riconoscere le loro responsabilità significa mettere in discussione l’ideologia nazionale turca e l’identità stessa della nazione”, parole che nel 1976 gli valgono una condanna a 10 anni di reclusione, che riesce ad evitare rifugiandosi in Germania. Questo argomento è stato oggetto anche di numerose canzoni, ma è soprattutto in ambito cinematografico che si verifica un’esplosione dei film che trattano questo tema, basti pensare a “La masseria delle allodole”, basato sull’omonimo romanzo di Antonia Arslan, oppure “Il padre” di Fatih Akim, regista di origine turca che ha subito minacce per le sue posizioni.

Nonostante il supporto di molti paesi, quello del genocidio armeno non è ancora un fatto universalmente riconosciuto; basti pensare all’atteggiamento ambiguo di una potenza mondiale come quella degli Stati Uniti d’America che, nonostante alcuni colloqui preliminari sotto l’amministrazione Obama e nonostante nel 2019 sia la Camera che il Senato abbiano approvato la mozione sul riconoscimento del genocidio armeno, lasciano ancora la questione irrisolta.

Iniziativa in Campania per il 24 aprile: Giornata dedicata alla Memoria del Genocidio Armeno del 1915 (Cronachedellacamoania 22.04.20)

Il 24 aprile si commemora il 105° anniversario dell’inizio del primo genocidio del Novecento: il massacro del popolo armeno. A causa del Covid-19 e delle varie restrizioni, non potremo recarci al monumento del Khachkar (Croce di pietra) a S. Gregorio Armeno, a Napoli, inaugurato nel 2015. Invitiamo tutti ad esporre la Bandiera armena o la Bandiera nazionale listata a lutto dai balconi e ad accendere un cero in memoria degli oltre 1.500.000 Armeni massacrati. Il governo Turco continua a negare il genocidio, contro ogni evidenza oggettiva e storica.
La persecuzione scatenata tra il 1915 e il 1918 dall’allora potere turco nei confronti della popolazione armena residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta il primo esempio di sistematica e scientifica soppressione d’una minoranza etnico-religiosa dell’epoca contemporanea.

Scandalosamente, il massacro degli Armeni resta ancora fuori dalla lista europea dei Genocidi.
Dal 24 aprile 2006, il Presidente del “Comitato per il riconoscimento del Genocidio Armeno” dell’Associazione Internazionale Regina Elena, il Gr. Uff. Rodolfo Armenio, ha iniziato a commemorare il primo Genocidio del XX secolo, continuando negli anni con Gevorg Tovmasyan, uno dei responsabili della Comunità Armena della Campania, con cerimonie, convegni, mostre ed altre attività culturali, riallacciando il legame speciale creatosi nel settembre del 1920, quando a Pompei il Beato Bartolo Longo accolse un venerando superstite dell’Episcopato armeno, S.E.R. Mons. Giovanni Naslian (1875-1957), ultimo Vescovo di Trebisonda (1911-28) ed Arcivescovo titolare di Tarso degli Armeni.

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RICONOSCERE IL TRAUMA DEL GENOCIDIO ARMENO NON SMINUISCE L’OLOCAUSTO di Sivan Gaides (Gariwo 22.04.20)

Alcuni anni fa, in quanto soldato IDF che prendeva parte a un corso di formazione sulla costruzione dell’identità ebraica, ho partecipato a un tour dello Yad Vashem. Il sito commemorativo era stato appena ristrutturato ed era pieno di visitatori, per lo più anziani. La nostra guida di quel giorno, israeliana di origine svizzera, ha iniziato chiedendo con compiacimento al gruppo: “Avete sentito parlare di altri Sho’ot (Olocausti)?”

Soddisfatta del mio diritto di nascita in quanto israeliana di origine armena, ho alzato subito la mano e ho risposto sinceramente: “La Shoah armena”. La guida mi ha risposto con uno sguardo penetrante: “E pensa che sia la stessa cosa?”. Non si aspettava una risposta e ha proseguito con il tour.

Appena uscita dall’adolescenza, essere respinta pubblicamente davanti ai miei coetanei da una figura autorevole è stato umiliante. Inutile dire che, dopo quell’infausto inizio del tour, non ho più prestato attenzione alla guida e ho vagato per il museo, da sola con i miei pensieri.

Mi ci sono voluti anni per comprendere appieno quell’episodio allo Yad Vashem. L’insistenza della guida sul fatto che nulla potesse essere paragonato alla nostra Shoah nascondeva una verità più profonda e ironica: per chi sopravvive ai traumi, gli schemi della memoria sono molto più simili di quanto lei – o io – potessimo mai capire.

Sappiamo che nessuna figura accademica o politica credibile nega l’Olocausto. D’altro canto, la maggior parte dei Paesi si sottrae a una ferma presa di posizione sul genocidio armeno, e solo pochi lo hanno classificato come genocidio. Tale discrepanza fra il primo genocidio del ventesimo secolo in Europa e il genocidio più mortale è tutt’altro che casuale.

Venerdì 24 aprile è la giornata commemorativa delle vittime del genocidio armeno e quest’anno cade nella stessa settimana del Giorno della Memoria dell’Olocausto d’Israele, lo Yom HaShoah.

Il genocidio armeno viene commemorato il giorno che segna l’inizio del genocidio. Il 24 aprile 1915, le autorità ottomane hanno arrestato oltre 200 dei principali intellettuali armeni di Costantinopoli, che sono stati poi deportati e la maggior parte degli stessi uccisa.

La comunità internazionale sceglie invece di ricordare l’Olocausto il 27 gennaio, data che ne segna la fine: la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico nel 1945. A Israele, il Giorno della Memoria dell’Olocausto è il 27 Nisan del calendario ebraico, che segna l’anniversario dello scoppio della rivolta del ghetto di Varsavia del 1943, incarnazione dell’eroismo e della resistenza degli ebrei di fronte alla distruzione.

Il 24 aprile arriva senza alcun messaggio di speranza o di resistenza. La scelta della data riguarda solo le vittime, la pietra angolare su cui da allora è stata costruita la memoria del genocidio armeno.

Gli armeni si sono aggrappati alla tesi delle vittime perché non avevano i mezzi per la commemorazione a disposizione degli ebrei a livello mondiale. Le organizzazioni comunali ebraiche, i singoli filantropi e i governi occidentali hanno investito enormi somme per costruire monumenti commemorativi e musei dell’Olocausto, gestire archivi, pubblicare libri e condurre ricerche.

Attraverso lo Stato d’Israele, istituito poco più di tre anni dopo la liberazione dell’ultimo dei campi di concentramento nazisti, il ricordo dell’Olocausto ha trovato un sostenitore ufficiale negli ambienti diplomatici. Mentre le potenze mondiali che sostenevano la creazione d’Israele lo facevano principalmente per promuovere i propri interessi in Medio Oriente, la loro retorica pubblica parlava in modo commuovente della necessità di rimediare ai torti storici inflitti al popolo ebraico. Generazioni di leader israeliani hanno ricordato alle proprie controparti l’obbligo di ricordare e di continuare a ricordare.

Al popolo armeno sono mancati questi strumenti. Le prove primarie del genocidio sono più scarse e meno accessibili. A differenza della Germania nazista, che registrava le informazioni in modo metodico e rigoroso, l’indebolimento dell’Impero Ottomano funzionava a malapena e non concentrava i documenti in archivi centralizzati. Non c’è stata una conferenza ottomana di Wannsee in cui il genocidio armeno sia stato meticolosamente pianificato.

Le autorità turche hanno in gran parte nascosto il restante materiale d’archivio alla vista pubblica, e lo Stato turco non si è mai assunto la responsabilità del genocidio – a differenza della Germania, per la quale l’assunzione della responsabilità dell’Olocausto era una condizione fondamentale per l’accettazione della stessa nella famiglia delle nazioni.

I sopravvissuti hanno conservato ampie prove del genocidio, fra cui fotografie, video e testimonianze scritte e orali. Ma per gli armeni emigrati nel mondo occidentale, ci è voluto del tempo per accumulare un capitale sociale e finanziario sufficiente a promuovere la memoria pubblica. Gli armeni rimasti in Unione Sovietica hanno dovuto affrontare una decennale campagna di russificazione volta a offuscare le particolari identità e storie delle minoranze nazionali.

Solo dopo che la Repubblica d’Armenia ha dichiarato l’indipendenza nel 1991, più di 75 anni dopo il genocidio, un governo armeno ha potuto agire come custode della memoria del genocidio. Ma l’Armenia post-sovietica era un Paese povero, incentrato sulla difficile transizione verso un’economia di libero mercato e preoccupato dalla prolungata guerra del Nagorno-Karabakh con il vicino Azerbaigian. Solo a partire dagli anni 2000 lo Stato armeno si è stabilizzato e ha iniziato a dedicare risorse significative alle campagne di pubbliche relazioni sulla commemorazione del genocidio.

Nella Diaspora, la personalità mediatica armeno-americana Kim Kardashian West ha pubblicizzatole visite al Museo del Genocidio Armeno di Yerevan e ha elogiato il riconoscimento del genocidio da parte del Congresso degli Stati Uniti di fronte ai suoi milioni di follower. La mobilitazione di Kardashian West sulla questione è particolarmente degna di nota nel contesto dell’Olocausto, cui negli anni non è mancato il sostegno di molte celebrità.

Il genocidio armeno e l’Olocausto non sono stati perpetrati indipendentemente l’uno dall’altro. Si dice che Hitler abbia detto ai comandanti della Wehrmacht, alla vigilia dell’invasione tedesca della Polonia nel 1939, di non preoccuparsi delle conseguenze dell’uccisione di civili innocenti, poiché “Chi, dopo tutto, parla oggi dell’annientamento degli armeni?”

Tra coloro che hanno parlato, sia con i fatti che con le parole, figurano le undici persone e famiglie armene riconosciute dallo Yad Vashem come Giusti tra le Nazioni – per lo più sopravvissuti al genocidio, che hanno ricostruito le proprie case in tutta Europa e hanno riconosciuto il proprio obbligo di aiutare gli indifesi.

Io discendo da sopravvissuti all’Olocausto da parte di mio padre e da sopravvissuti al genocidio armeno da parte di mia madre. Il trauma transgenerazionale e il profondo senso di sradicamento sono altrettanto forti in entrambi i casi. Quando una persona è colpita da un trauma, spesso può aiutarla ascoltare persone con esperienze simili e rivendicare l’esclusività del trauma non aiuta nessuno.

Eppure, mentre l’educazione all’Olocausto è considerata il punto di riferimento per un’educazione storica responsabile in tutto il mondo sviluppato, i discendenti dei sopravvissuti al genocidio armeno devono ancora lottare perché il genocidio sia riconosciuto come tale. Come ho scoperto a Yad Vashem, anche gli educatori dell’Olocausto, che fanno un lavoro eccezionale nello spiegare un trauma, devono essere formati per comprendere ed empatizzare con altri traumi.

Data la quantità di informazioni facilmente reperibili sul genocidio che esiste nell’era degli smartphone, commemorare le sue vittime non dovrebbe più essere responsabilità esclusiva dei sopravvissuti e dei loro discendenti, vincolati come sono da una serie di fattori geopolitici, economici e circostanziali.

Sia visitando la Biblioteca Gulbenkiannella Città Vecchia di Gerusalemme, che ospita uno dei più grandi depositi di materiale sul genocidio al mondo, sia incoraggiando i consigli scolastici locali a insegnare la materia nei programmi di storia, le persone hanno molto potere per cambiare la narrazione attraverso iniziative che partono dal basso.

Il 24 aprile non deve solo raccontare una storia di vittime, ma può anche testimoniare la sopravvivenza e la rigenerazione culturale, ed essere parte di una storia universale che, per gli israeliani, dovrebbe essere particolarmente eloquente.

Sivan Gaides è nata in Armenia da padre ebreo e madre armena, e ha fatto l’aliyah con la sua famiglia nel 1990. Ha conseguito una laurea e un master in Scienze Politiche presso l’Università Ebraica di Gerusalemme e si occupa di educazione ebraica da vent’anni, lavorando anche come emissaria dell’Agenzia Ebraica in Germania e in India. Vive a Tel Aviv.

Traduzione di Valentina Gianoli dell’articolo pubblicato sul quotidiano Haaretz

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Negare il genocidio armeno: un delitto contro l’umanità (Laici.it 21.04.20)

Di Bruno Scapini

L’approssimarsi del 24 aprile, inevitabilmente ci porta a svolgere una riflessione sul genocidio degli armeni del 1915, la cui memoria ricorre puntualmente e, ahimé, tristemente, ogni anno a quella data. Di questo deplorevole evento della Storia si è già molto parlato. Si è discusso sulle sue connotazioni storiche e storiografiche; si è denunciato il crimine in tanti modi, sul piano sociale, etnico, religioso e politico; lo si è reso oggetto di una copiosissima letteratura biografica e autobiografica, come anche tema di ben note produzioni cinematografiche; e si sono biasimati i suoi autori per la loro crudeltà e infamia. Ma c’è un aspetto sul quale vorrei concentrare ora il mio pensiero e sul quale non si è ancora dibattuto abbastanza: l’importanza di condannare il negazionismo sul genocidio armeno come un reato contro la buona fede. Molti progressi sono stati registrati, negli ultimi decenni, a riguardo del riconoscimento del genocidio come tale, ovvero quale crimine contro l’umanità e, sopratutto, dalla data di nascita della moderna Armenia. La tenacia del popolo armeno e la determinazione dei padri fondatori della nuova Repubblica di Armenia a conseguire l’obiettivo del riconoscimento, traspaiono chiaramente dai principi fondamentali della Dichiarazione di indipendenza del 1990, là ove il documento si fa portavoce di una storica responsabilità della nazione armena: quella di restaurare la giustizia storica. Un obiettivo che si pretende di realizzare, proprio attraverso il riconoscimento del genocidio a livello internazionale, mantenendone la memoria storica. Ed ecco il senso di questa commemorazione. Essa dev’essere un atto di perpetuazione del ricordo, che deve servire sì a onorare le tante vittime dell’eccidio, ma anche e, sopratutto, a contribuire al riconoscimento del ‘Grande Massacro’ come crimine contro l’umanità: un genocidio, per l’appunto. E’ questo, a dispetto della miope visione dei negazionisti, l’unico modo per restituire la giusta dimensione storica e politica al tragico evento del 1915. Purtroppo, però, sebbene siano tante, ad oggi, le iniziative di riconoscimento intraprese da Governi e da altre entità politiche, l’identità storica degli armeni è ancora menomata dall’assenza di una universalità del riconoscimento. Tanti sono ancora i Governi che esitano a intraprendere questo passo, alimentando in questo modo quell’odioso fenomeno che passa per l’appunto sotto il nome di ‘negazionismo’. Primo fra tutti, il Paese autore del crimine: la Turchia. Ma tanti altri seguono più o meno direttamente questa linea. Nonostante una crescente mobilitazione di animi e di pensieri che si registra oggi nel mondo, ancora troppi sono i Governi che si astengono dal pronunciare chiaramente la fatidica parola, ‘genocidio’, parlando di questo massacro. E non stupisce, in una stretta logica di convenienza politica, scoprire come questi Paesi, pur dichiarandosi insospettabili campioni delle libertà e dei diritti umani, non abbiano ancora trovato il coraggio di opporsi alla fraudolenza di certi ‘concettivismi riduzionistici’, spuri e, pertanto, pericolosi. E’ la logica dell’opportunismo politico quella che prevale. Non illudiamoci: per gettare fumo negli occhi e ostentare un attivismo umanitario ipocrita e quanto mai dannoso, non mancano i politici che, sfuggendo alle proprie responsabilità, inducono subdolamente i rispettivi parlamenti ad adottare mozioni ideali sul genocidio armeno, con le quali si invitano i rispettivi Governi al riconoscimento, salvo poi rinviare ‘sine die’ il provvedimento, in forza di un odioso silenzio e inerzia di questi ultimi. Per non procedere al riconoscimento, infatti, ci si appoggia a pretestuose giustificazioni offerte da fatti imprevisti, più impellenti, o peggio, se ne decreta l’oblio, aspettando la decadenza della legislatura. Come qualificare un tale atteggiamento? Non dovremmo, forse, in uno slancio non tanto di aderenza alla Storia, quanto di fedeltà alla ‘buona fede’, equipararlo all’atto stesso del negazionismo, sebbene opportunamente camuffato, e accertarci che esso stesso venga condannato come reato? E non sarebbe forse proprio questo un delitto contro l’umanità? Non è forse la frode, l’atto ingannevole, l’essenza di uno dei più antichi principi dello ‘jus gentium’ di romana memoria? Justitia, veritas e fides: già Cicerone esaltava a fondamento di quel ‘Jus naturae’, dal quale tutti gli ordinamenti positivi odierni avrebbero tratto il fondamento per la regolazione dei rapporti umani ispirandosi alla ‘Naturalis Ratio’ e concepire il tanto acclamato oggi diritto umanitario. Sono, dunque, quelli i princìpi, già presenti nei nostri moderni ordinamenti. E probabilmente, basterebbe rispolverarli. Sì, riscoprirli e dichiararli apertamente, con coraggio, per restituire finalmente giustizia e dignità alle vittime armene, per uno dei più deprecabili crimini contro l’umanità. E fino a quel giorno, ricordiamocelo pure, il processo di restaurazione dell’identità storica della nazione armena di certo non potrà dirsi completato. Per fortuna, la tenacia e la determinazione dimostrate dal popolo armeno sono più forti di ogni negazionismo.

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Comunità armena Roma: iniziative in rete per ricordare il 105° anniversario del genocidio. “Memoria antidoto al negazionismo” (SIR 21.04.20)

“Il tempo passa, la memoria resta”: è sotto questo slogan che il “Consiglio per la comunità armena di Roma” ha lanciato un evento in rete per ricordare il 105° anniversario del genocidio armeno, 24 aprile 1915 – 24 aprile 2020. Il prossimo 24 aprile ricorre, infatti, l’anniversario dell’inizio delle uccisioni e deportazioni di massa a danno della minoranza armena nell’impero ottomano. L’emergenza coronavirus impedisce qualsiasi manifestazione pubblica a ricordo del primo genocidio del XX secolo così il “Consiglio per la Comunità armena di Roma” ha di conseguenza promosso una serie di iniziative ad hoc: nei giorni scorsi è stato pubblicato sulla pagina facebook della comunità (www.facebook.com/comunitaarmena) un logo creato ad hoc per il 105° anniversario del MedzYeghern con invito a condividerlo, come segno di vicinanza e partecipazione. Due giorni prima dell’evento previsto per il 24 aprile sarà lanciata, sempre sulla piattaforma facebook, una breve clip video. A partire dalle ore 10.30 di giovedì 23 aprile saranno trasmessi in Video Party sempre sulla pagina facebook della comunità, documentari, filmati e contenuti multimediali sul mondo armeno.
Nella giornata del 24 aprile la pagina fb “Comunità armena” trasmetterà in diretta, a partire dalle ore 15.00 testimonianze, interviste, contributi e riflessioni sul tema. “Lo scorso anno il parlamento italiano ha approvato una storica risoluzione di riconoscimento del genocidio armeno”. Sulla scia di tale pronunciamento, il Consiglio per la comunità armena di Roma si augura che “l’opinione pubblica italiana sia sempre più partecipe nel ricordo della tragedia del 1915. L’antidoto al negazionismo è la memoria. Contro il virus del negazionismo gli anticorpi della memoria”.

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La video-arte di Cerami unisce Napoli, l’Armenia e il Brasile (Corrieredelmezzogiorno 18.04.20)

Anche durante le pagine più severe della storia nazionale, l’Italia ha saputo produrre arte e regalare bellezza al mondo intero. La crudeltà con la quale la pandemia del coronavirus continua a sferzare la popolazione non ha arginato la vivacità e la creatività degli italiani. I balconi e le finestre si tingono del tricolore, l’intonazione dell’Inno di Mameli infonde forza e fiducia, il canto e la musica strappano un sorriso. “#andrà tutto bene” è l’hasthag divenuto virale sulla rete.

«Attraverso l’arte, la speranza si ribella ai fatti del dolore, li attraversa, ci porge al tempo stesso una direzione di marcia e un orizzonte – ha detto l’ambasciatore italiano in Armenia, Vincenzo Del Monaco – anche noi, dall’ambasciata d’Italia a Jerevan, vogliamo contribuire ad un messaggio di fiducia e anche noi lo facciamo attraverso l’arte, all’interno dell’iniziativa davvero straordinaria promossa dalla Farnesina, dal titolo “WeAreItaly”».

Il progetto è di Franz Cerami, vera e propria star internazionale della video arte. Si intitola Remix Portrait, poiché esso reinterpreta l’arte classica italiana restituendola alla collettività tramite videoproiezioni pubbliche. I ritratti dei grandi maestri del XV secolo si materializzano sui muri delle città di Jerevan, Napoli e San Paolo del Brasile, diventando tutt’uno con il tessuto urbano. Il tema è altamente simbolico, giacché al suo centro vi è il concetto del passaggio dal buio alla luce, ad esempio dal buio sociale di certe periferie ai riflettori che su di esse pone l’artista, trasformandole da luoghi di passaggio in vere e proprie mete.

«Il maestro Cerami ha sposato senza esitazione e con grande generosità l’idea di sviluppare pro-bono il progetto e di metterlo a disposizione della rete, nel segno della solidarietà – ha detto l’ambiascatore – ecco dunque che Remix Portrait ci accompagna lungo un viaggio che si dipana da Jerevan, per intrecciare Napoli e collegarsi a San Paolo. Un’opera dei due mondi! Mi auguro che in molti sul web possano apprezzare questa iniziativa, al tempo stesso di solidarietà e nel segno dell’arte».

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Armenia: premier Pashinyan ai cittadini, “diffusione del coronavirus sotto controllo” (Agenzia ova 18.04.20)

Erevan, 18 apr 09:50 – (Agenzia Nova) – La diffusione del coronavirus resta sotto controllo in Armenia, grazie agli sforzi del sistema sanitario e della pubblica amministrazione. Lo ha dichiarato il premier armeno Nikol Pashinyan, nel corso di una conferenza stampa rivolta ai cittadini, ripresa dall’agenzia di stampa “Armenpress”. “Circa metà degli spazi ospedalieri allestiti per i contagiati da coronavirus sono rimasti vuoti durante questo periodo”, ha detto il capo del governo. Secondo Pashinyan, ciò è un indicatore chiave della gestione della pandemia, “perché molti paesi hanno avuto situazioni di difficoltà, perché non avevano abbastanza posti in ospedale per i pazienti di Covid-19”. Pashinyan ha poi ringraziato i medici e i lavoratori del sistema sanitario, “che sono in prima linea nella lotta contro la pandemia, e non hanno potuto vedere i loro familiari per settimane”. In Armenia, ha aggiunto il premier, ci sono oltre 1.200 casi confermati, con 402 pazienti ricoverati e 19 decessi al momento. “Per molti paesi l’Armenia è un esempio di come sia necessario trattare i propri cittadini nei periodi di difficoltà e crisi”, ha concluso Pashinyan.
(Res)