Armenia: premier Pashinyan e suoi familiari positivi al coronavirus (Agenzianova 01.06.20)

Erevan, 01 giu 09:40 – (Agenzia Nova) – Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e i suoi familiari hanno contratto il nuovo coronavirus. Lo ha confermato lo stesso Pashinyan durante una diretta su Facebook. “Continuerò a lavorare dalla residenza del primo ministro. Ho tutti i mezzi di comunicazione, tutte le condizioni necessarie, un ufficio. Lavorerò da qui quanto serve, ma ovviamente in condizioni di isolamento”, ha affermato il premier armeno che ha definito come “molto probabile” l’ipotesi di avere il contratto il virus durante una riunione di lavoro. “Spero di non aver contagiato altri membri del governo. Tutti noi dobbiamo rispettare le regole epidemiologiche di sicurezza – indossare maschere, osservare le distanze sociali e lavarci spesso le mani”, ha aggiunto. “La nostra strategia rimane la stessa, dovremmo abituarci a convivere con il coronavirus. Siamo tutti nella stessa situazione, non abbiamo la febbre e nessun sintomo, ma dobbiamo seguire le indicazioni degli esperti poiché i sintomi possono manifestarsi in qualsiasi momento”, ha sottolineato il capo di governo. L’Armenia ha registrato ieri 355 nuovi casi portando il numero totale di contagi a 9.282. Sono 131 i decesi nel paese dall’inizio della pandemia. Il 29 maggio, il primo ministro ha annunciato che l’Armenia di stare superando l’Iran e la Francia per il numero di casi per milione di persone. (Res)

Russia-Armenia: Putin a colloquio con premier Pashinyan, focus su Covid-19

Mosca, 01 giu 12:47 – (Agenzia Nova) – Il presidente russo, Vladimir Putin, ha tenuto una conversazione telefonica con il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, nel corso della quale ha augurato pronta guarigione dal Covid-19 a quest’ultimo ed alla sua famiglia. Lo ha reso noto il servizio stampa del Cremlino. “Il presidente della Federazione Russa si è congratulato con il primo ministro dell’Armenia per il suo compleanno ed ha espresso il proprio sostegno e l’augurio di una pronta guarigione dal coronavirus a lui e alla sua famiglia. Da parte sua, il primo ministro armeno ha ringraziato per le congratulazioni e gli auguri, nonché per l’assistenza fornita dalla Russia nella lotta contro la pandemia”, si legge nella nota del Cremlino. (Rum)

Cipro: Ccmn (Consiglio d’Europa), le minoranze religiose riconosciute vivono in un “clima generale di tolleranza” (Agensir 28.05.20)

Le tre minoranze religiose (armeni, maroniti e cattolici romani), riconosciute dalla Costituzione a Cipro, vivono in un “clima generale di tolleranza”. Lo afferma oggi il rapporto pubblicato dal Comitato consultivo sulla convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa (Ccmn), sulla base di una visita effettuata nel luglio 2019. Questi tre gruppi religiosi riescono anche a intervenire attraverso i loro rappresentanti nel Parlamento cipriota sulle questioni che li riguardano, dice il report. Più problematico resta il rapporto con le “comunità religiose ed etniche non riconosciute dalla Costituzione” anche se il censimento del 2021 dovrebbe portare a un’idea più precisa della diversità della società cipriota. Tra gli elementi positivi sottolineati dal rapporto “una serie di pubblicazioni e supporti multimediali gratuiti dedicati a ciascuno dei tre gruppi religiosi e destinati al grande pubblico”, nonché la creazione di centri culturali per i gruppi religiosi maroniti e latini. Restano alcune cose da migliorare, ad esempio nel superare le persistenti discriminazioni nei confronti della popolazione rom, come anche per garantire una offerta plurale sui media statali.

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Esplode l’antisemitismo in Turchia: «gli ebrei hanno creato il virus» (rightsreporter.org 28.05.20)

Quello che in tanti temevamo è purtroppo accaduto. In Turchia, dove vi è una delle maggiori comunità ebraiche in un paese islamico, è scoppiato un fortissimo sentimento antisemita a causa del diffondersi della notizia che il virus COVID-19 sarebbe stato inventato in Israele.

Lo riferisce a The Media Line il gruppo Avlaremoz, una organizzazione deputata a tenere sotto osservazione gli abusi religiosi in Turchia.

Scrive TML; mentre la Turchia è alle prese con uno dei più grandi focolai di coronavirus al mondo, un gruppo di ebrei turchi notava la nascita di un altro focolaio nel paese, quello dell’antisemitismo che si diffonde attraverso i media.

TML cita Dani Albukrek, 21 anni, turco ebreo residente a Istanbul, il quale afferma che moltissimi utenti turchi dei social media stanno promuovendo con successo l’idea che il coronavirus sia una creazione israeliana.

Quando Israele ha dichiarato il suo primo caso di COVID-19, gli account Twitter in turco sono letteralmente esplosi per l’annuncio mostrando felicità. Quando il ministro degli interni turco si è temporaneamente dimesso per il fallimento della sua politica di contenimento, i Tweet hanno accusato gli ebrei di essere dietro lo scandalo.

Anche i giornali vicini a Erdogan non si fanno mancare niente, sia nelle loro edizioni cartacee che in quelle digitali dove impazza un video che mostra l’autista di un autobus che parlando con i passeggeri spiega, tra l’approvazione generale, il “sicuro coinvolgimento di Israele nella creazione del virus”.

Berk Esen, assistente professore di relazioni internazionali alla Bilkent University di Ankara, anche lui ebreo, ci fa notare come per diffondere odio verso gli ebrei i turchi usino uno dei capisaldi dei principi di Joseph Goebbels, quello denominato “Principio della semplificazione e del nemico unico” che consiste nell’inviare alla massa messaggi semplici affinché individuino con facilità il nemico unico, l’ebreo. E il messaggio non può essere più semplice e diretto di così.

Il risultato di questa campagna è che oggi in Turchia nessuno dei 15.000 ebrei turchi può girare tranquillamente indossando una kippah o qualsiasi altra cosa che lo possa individuare come ebreo.

Ma la comunità ebraica non è la sola ad essere presa di mira in questa pericolosissima involuzione turca. Proprio nei giorni scorsi un uomo ha tentato di dare alle fiamme una chiesa armena ortodossa a Istanbul perché, seguendo un numeroso gruppo su Facebook, li riteneva responsabili della pandemia.

Tuttavia è indubbio che la comunità ebraica sia quella più presa di mira, anche perché il regime fa ben poco per impedirlo. È una situazione gravissima che in poco tempo è esplosa in faccia a coloro che sostenevano che la Turchia fosse un paese tollerante e aperto a ogni religione.

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La Siria: culla del cristianesimo orientale (Radiospada.org 30.05.20)

Sintesi della 599° conferenza di formazione militante a cura della Comunità Antagonista Padana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in Milano , non tenuta in seguito alla chiusura dell’Ateneo causa epidemia di coronavirus. e postata nella festa di Santa Giovanna D’arco. Relatore: Silvio Andreucci (testo raccolto a cura di Piergiorgio Seveso).

La Siria culla del cristianesimo orientale

Comincio questo rapporto sul ruolo significativo svolto dal cristianesimo in Siria sin dall’antichità (il termine geografico che designava il territorio dell’odierna Siria è “Aram”, da cui deriva “aramaico” , la lingua parlata da Gesù) con un dato demografico, attualmente i cristiani in Siria rappresentano il 10/100 dell’intera popolazione e la comunità cristiana più cospicua è la chiesa Greco-ortodossa di Antiochia (altrimenti detta patriarcato ortodosso di Antiochia).

La seconda comunità è la chiesa cattolica Greco-Melchita, una chiesa cattolica di rito orientale, che pure ha qualche radice in comune con la chiesa ortodossa di Antiochia, come avrò modo di dimostrare.

Anche la Chiesa ortodossa siriaca e la chiesa apostolica armena , per quanto inferiori alle precedenti, hanno una presenza visibile in Siria, infine vi è a tutt’oggi una rappresentanza minoritaria di cattolici caldei, maroniti e protestanti e l’antichissima Chiesa assira d’Oriente.

Le comunità cristiane si sono sviluppate in seno a due grandi tradizioni, la Cattolica e l’Ortodossa, e comunque il rito orientale è esistito in Siria sin dalle origini del cristianesimo stesso.

Le Chiese cattoliche di rito orientale odierne originariamente non riconoscevano il Vescovo di Roma, facevano parte dell’ortodossia; infatti la chiesa cattolica greco-melchita e quella assira hanno una radice comune rispetto alla chiesa Greco-ortodossa d’Antiochia, derivando da una scissione avvenuta in seno alla chiesa ortodossa d’Antiochia, e a seguito di tale scisma si avvicinarono alla Chiesa Romana.

Nell’antica Aram, odierna Siria, si parlava la lingua di Gesù e qui furono con ogni probabilità scritti il Vangelo secondo Matteo, il Vangelo secondo Luca , la Didache’, il Vangelo di Tommaso; non dimentichiamo che Antiochia fu la tappa di inizio del primo e terzo viaggio di San Paolo, mentre a Damasco si trova la tomba di San Giovanni Battista, nonché la cappella di Sant’Anania, che battezzò San Paolo.

Furono Padri della Chiesa siriaca San Giovanni Damasceno (fu amministratore durante il califfato omayyade, si segnalo’ per la sua opera apologetica contro la lotta iconoclasta , fu proclamato dottore della Chiesa da papa Leone XIII nel 1890), Sant’Efrem (fondatore e responsabile dello sviluppo di due scuole di esegesi biblica, quella di Nisibi nata nel 350 d.c e quella di Edessa nata nel 363 d.c), Ignazio di Antiochia, Taziano il Siro, Eustachio di Antiochia, Teodoro di Antiochia, Teodoreto di Cirro.

Nel territorio siriano la comunità cristiana conobbe floridezza, unità e armonia fino al momento del trapasso tra V e VI secolo allorché insorsero controversie teologiche e soprattutto cristologiche dibattute presso i concili di Efeso (431 d.c) e Calcedonia (451 d.c), in particolare quest’ultimo decretò l’ortodossia della formula secondo cui nel Cristo vi erano due “nature in una sola Persona”, quella divina e quella umana. I monofisiti che seguivano l’insegnamento del monaco Eutiche riconoscevano nel Cristo la sola natura divina, negando l’ipostasi delle due nature in una sola Persona e passarono alla Chiesa ortodossa siriaca. I fedeli che si subordinarono al decreto di Calcedonia furono chiamati melchiti, termine che deriva dal siriaco (malak=sovrano).

Infatti, il concilio di Calcedonia aveva avuto il sostegno dell’imperatore e i “melchiti” figuravano come i fedeli consentanei anche alla volontà dell’imperatore. Il termine “melchita” venne ripreso nel VIII secolo, allorché venne fondata la chiesa cattolica Greco-melchita. La discriminante tra cattolici e ortodossi siriaci fu dunque l ‘accettazione e subordinazione o meno (anche i cattolici Assiri e maroniti la accettarono) alle disposizioni del concilio calcedonese.

Nel VII secolo avvenne la conquista araba, la condizione dei cristiani di Siria peggiorò nella misura in cui venne proclamato il “Jihad” e i cristiani furono ridotti allo status di “dhimmi” ovvero subalterni; essi poterono avere libertà di culto, pur con molte restrizioni, a condizione di versare ai musulmani un’ imposta fondiaria. Detta imposta si chiamava”kharaj”.

La repressione non si tradusse in persecuzione vera e propria, infatti i governanti musulmani “concessero” ai cristiani di eleggere tre papi siriaci, di cui l’ ultimo fu Gregorio III (731-741). Ricordiamo inoltre che tra l’ultimo scorcio del VII e una parte dell ‘VIII, aveva ricoperto mansioni amministrative Giovanni Damasceno sotto il califfo omayyade.

A partire dal VII secolo ci fu un capovolgimento demografico, per cui i cristiani fino allora in maggioranza subirono un brusco calo sia nelle città che nelle campagne e si trasferirono nei villaggi (così in effetti fecero molti proprietari terrieri vessati da un’ imposizione fiscale esorbitante).

I musulmani divennero allora la maggioranza della popolazione di Siria .

Il periodo di maggior oppressione i cristiani lo conobbero allorché salirono al potere gli Abbasidi nel 750 d.c: essi non solo destituirono i cristiani di Siria di ogni incarico amministrativo e proibirono l’uso dei dialetti locali (l’arabo l’unica lingua ammessa), ma distrussero tutti i simboli sacri cristiani cui venne imposta una lenta ma progressiva deculturazione.

La mia analisi ora fa una sorta di salto nel XVI secolo, non perché la storia del cristianesimo siriano non meriti di essere analizzata nei secoli precedenti, ma perché esigenze di sintesi espositiva lo richiedono .

Il 1516 è l’anno della conquista turca della Siria. Lo status sociale dei cristiani sotto il dominio turco rimase pressoché invariato per lungo tempo sotto i turchi, i cristiani dovettero sottostare alla legislazione messa a punto dai maomettani tra VII e VIII secolo, in particolare ora segnalo che essi erano sottoposti all’imposta della “jiza”, che tutti i non mussulmani dovevano versare all’erario a partire dal compimento del ventiquattresimo anno.

Un evento significativo fu il riconoscimento da parte dei Turchi Ottomani ai cristiani il diritto di potersi costituire in comunità nazionale, anche se le autorità riconoscevano soltanto la voce in capitolo del Patriarca di Costantinopoli e del Catholicos d’Armenia; queste due massime autorità cristiane costituivano il tramite attraverso cui i cittadini cristiani potevano rivolgere le loro istanze ai governatori ottomani.

Nel XIX secolo i cristiani versavano in enorme difficoltà economica, all’oppressione e alle vessazioni fiscali si aggiungeva, ad aggravare la loro condizione, l’imposizione dell’omologazione culturale nella forma di un vero e proprio processo di deculturazione;l a legislazione ottomana impose l’abbandono del siriaco e l’adozione dell’arabo, come unica lingua ufficiale riconosciuta.

Non mancarono eccidi ai danni della comunità cristiana, uno dei più efferati venne consumato nel 1895 nella cattedrale di Edessa, ove perirono bruciati circa 3000 fedeli Cristiani…un eccidio che preannunciò in qualche modo quello successivo dei cristiani armeni.

Durante il XIX secolo prende piede in Siria come in tutto il Medio Oriente il nazionalismo arabo, soprattutto attraverso una prima influenza esercitata dal pensiero moderno (di fatto, il nazionalismo è un prodotto del pensiero moderno europeo) sulle concezioni politiche e amministrative, non a caso i primi portavoce dell’idea nazionalista furono intellettuali arabi aperti alla cultura occidentale (B.al Kubeissi , Storia del movimento dei nazionalisti arabi, Jaca Book).

Sia il Collegio Protestante di Siria fondato nel 1866 che l’Università Saint Joseph diedero notevole impulso alla penetrazione delle idee occidentali in Medio Oriente, mobilitandosi per la fondazione di numerosi circoli e organismi culturali cui si deve la riscoperta della storia e della cultura araba.

Alle origini il nazionalismo arabo fu un fenomeno squisitamente cristiano, come ha messo bene in luce Georges Antonios nella sua opera “il risveglio degli Arabi”, in cui peraltro sostiene che i primi fermenti nazionalisti si trovarono presso l’”Association Scientifique Syrienne” fondata nel 1857 . Non vi è accordo fra gli studiosi del fenomeno in merito alla nascita del nazionalismo arabo; Infatti Zaki Nuseibeh e Z. Zeine non concordano con la tesi di Georges Antonios; il primo studioso colloca le origini del nazionalismo arabo addirittura in epoca preislamica , mentre il secondo le ripone nel periodo compreso tra il 1909 e il 1914 .

Seguendo sempre la tesi dell’autore di “Storia del movimento dei nazionalisti arabi”, si evince che cittadini e intellettuali cristiani furono più sensibili alle idee nazionaliste e maggiormente avvertivano l’oppressione del dominio ottomano, i musulmani almeno all’inizio furono pressoché impermeabili al nazionalismo:la società musulmana Infatti tendeva a considerare questo fenomeno un prodotto dell’Occidente, di conseguenza estraneo alla propria tradizione e ai propri principi. Di fatto, durante l’800′, in Siria, Libano, furono intellettuali arabi cristiani ad avvertire il legame nazionale come fondamento dello stato moderno. Le difficoltà che, ancora verso la fine del XIX secolo l’idea nazionalista incontrava fu dovuta alla fatica nel mobilitare la maggioranza dei cittadini e a far assurgere il nazionalismo stesso a idea dominante; inoltre vi furono controversie tra la visione dei cristiani e quella dei musulmani, dal momento che i primi (che costituivano la corrente principale) miravano tout court alla secessione, mentre la tendenza musulmana fu quella di “uno stato arabo autodeterminato ai confini dell’impero Ottomano decentralizzato”.

Anche durante la prima metà del XX secolo è cospicua la presenza di intellettuali cristiani all’interno della galassia del nazionalismo arabo, segnatamente in Siria e in Libano.

Esso si propose la lotta per l’emancipazione del Medio Oriente dal colonialismo europeo, la realizzazione dell’autodeterminazione nazionale, il non allineamento alle due potenze che la conferenza di Yalta consacrò alla spartizione dell’Europa e all’ingerenza imperialista nel mondo, gli USA e l’ Urss, inoltre generalmente il movimento nazionale arabo perseguì anche una politica interna basata sui principi del socialismo nazionale, ovvero la spinta verso il progresso , la natura aconfessionale dell’appartenenza al movimento ,la realizzazione di maggior giustizia sociale.

Michel Aflaq (1910_1989), intellettuale e politico siriano di famiglia cristiana greco ortodossa, fu fondatore e ideologo del movimento arabo Ba’th siriano ( che conservò questa denominazione sino al 1947, allorché si tradusse nella fazione siriana del partito Ba’th). Laureatosi alla Sorbona di Parigi, Michel Aflaq aveva valorizzato aspetti fondamentali del pensiero moderno europeo, come le battaglie a favore del progresso sociale, la lotta contro l’arretratezza culturale, la promozione dello sviluppo scientifico-tecnologico, il riformismo delle istituzioni, ma non ne aveva condiviso la spinta nella direzione della secolarizzazione dei costumi e dell’agnosticismo; Michel Aflaq era fervente credente.

I rapporti tra il movimento nazionale arabo e il Ba’th siriano non furono idilliaci; essi erano anzi destinati a incrinarsi progressivamente nel tempo, nella misura in cui l’ MNA rimproverava al Partito baathista siriano un’eccessiva moderazione, un sostanziale avvitamento sui propri interessi particolaristi che avrebbe compromesso il disegno dell’unità panarabica (invero, accusa infondata, almeno nei confronti di Michel Aflaq, che nel 1958 aveva proposto la realizzazione dell’unità tra nazione siriana ed egiziana e che aveva sin dalle origini considerato l’ unita panaraba precipuo caposaldo del suo programma ideologico). Infine l’MNA accusava i dirigenti del Ba’th siriano di coltivare un eccessivo culto della propria personalità e “vedevano piuttosto male il tentativo di Aflaq di elevare il Baa’th ad un livello tale che il partito divenisse fine a se stesso”(Al Kubeissi, Storia del movimento dei nazionalisti arabi).

Le numerose difficoltà generate dalle lotte e divisioni intestine all’interno del Baa’th siriano, nonché i rapporti tutt’altro che idilliaci con il premier Hafez Assad spinsero Aflaq a lasciare definitivamente la Siria nel 1966 per affiliarsi alla fazione irakena del Baa’th, in cui ravvisava la possibilità di realizzare meglio il programma ideologico dell’originario movimento baathista.

L’ultima sezione del mio rapporto non può non essere dedicata al recente conflitto in Siria, divampato nel 2011 e attualmente concentrato nella zona di Idlib (ove rimane l ‘ultima roccaforte nelle mani dei guerriglieri dell’Isis e ove si è aperto dallo scorso autunno un nuovo contenzioso tra la Repubblica araba siriana e il regime turco di Tayyp Erdogan).

Durante gli anni centrali del conflitto in Siria, la stampa mainstream ha dato un’ interpretazione totalmente inadeguata del conflitto, insistendo esageratamente sui “crimini” del premier Bashar al Assad e sul mantra di una sua “reductio ad Hitlerum”.

Mtanios Haddad, archimandrita siriano (l’archimandrita presso la chiesa cattolica Greco melchita ricopre la carica superiore presso un monastero) risiede a Roma ove è rettore della basilica di Santa Maria di Cosmedin. Il religioso siriano più volte ha denunciato l’analisi molto semplificativa del conflitto da parte della stampa occidentale, che spesso confligge con le testimonianze date dai religiosi autoctoni. Ricordiamo che Mtanios Haddad tenne il 24 maggio 2016 assieme al giornalista torinese Fulvio Scaglione una conferenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dal titolo “Il patto stretto con il diavolo”.

Nel corso di questa conferenza i relatori smontarono la tanto diffusa quanto semplicistica tesi del Friedman sullo scontro di civiltà tra Occidente e Islam; i fatti dimostrano che in seguito alle “guerre umanitarie” dell’amministrazione Bush in Afghanistan e in Irak, il terrorismo jihadista non solo non fu debellato, ma alimentato in maniera capillare; i gruppi wahabiti di Isis, al Daesh, al Nusra (il wahabismo, la versione più integrale dell’Islam sunnita predicata nelle monarchie del Golfo) costituivano in qualche modo l’ eredità di Al Qayda.

Analizzando un conflitto di natura politica prima ancora che confessionale, i relatori della conferenza misero in discussione che l’Occidente fosse davvero interessato a debellare il terrorismo jihadista e avanzarono la tesi che la loro politica fosse piuttosto interessata a ottenere come risultato ultimo una balcanizzazione dello stato siriano nella morsa di intestini conflitti interconfessionali (tra sciiti e sunniti, curdi e sciiti, drusi e sunniti, etc) .

Secondo la testimonianza di Padre Haddad, sino all’ascesa di questi gruppi fondamentalisti, cristiani e musulmani erano vissuti tutto sommato in armonia, trascurando o addirittura fomentando questa ascesa, le potenze occidentali avrebbero dunque stipulato una sorta di “Patto con il diavolo”.

La stampa occidentale stessa mostrava di non voler valutare le conseguenze per la Siria, nel caso in cui i gruppi wahabiti avessero prevalso; i cristiani di Siria invece ben avevano presenti queste conseguenze e la loro posizione in linea generale a favore delle milizie governative non fu tanto una scelta a priori, quanto una deliberazione dettata dai crimini, dagli eccidi sanguinari compiuti dai tagliagole, dal numero esponenziale di Chiese e monasteri distrutti nella sola città di Aleppo.

Come riporta sempre Fulvio Scaglione in un articolo del 10 luglio 2019 sul sito Insideover, a Maalula e a Saidnaya, città siriane ove cospicua è la presenza di fedeli cristiani, i cristiani stessi sono spesso stati negli ultimi anni in prima linea nel difendere dal terrorismo non solo la Repubblica araba siriana, ma l’orgoglio patriottico e identitario della cristianità e del suo plurisecolare patrimonio. Quando Saidnaya subì nel 2013 un attacco da parte dei terroristi islamisti, la federazione cristiana dei “Guardiani dell’Alba “(Huras-al-fair). saldamente schierata con l’intelligence governativa ,fronteggiò coraggiosamente i jihadisti e in questo fronte patriottico cristiano i “Leoni dei Cherubini”(Usud-al-Qarubim), meno allineati al regime di Assad, non furono da meno. Grazie ancora.

Palla di fuoco avvistata in Armenia. Meteorite illumina il cielo. (Centrometeoitaliano 29.05.20)

Ennesima palla di fuoco avvistata in Europa, meteorite illumina il cielo in Armenia: l’impressionante video della scia apparsa nella città di Buryakan

PALLA DI FUOCO AVVISTATA IN ARMENIA, METEORITE ILLUMINA IL CIELO: IL VIDEO DI QUANTO È SUCCESSO

Continuano gli avvistamenti di meteoriti nel cielo: dopo gli episodi dei giorni scorsi in Argentina, Australia, Russia, Stati Uniti, Ecuador e in altri paesi del mondo, una misteriosa palla di fuoco è stata immortalata in Armenia, a nord ovest della capitale Erevan. L’episodio è avvenuto nelle scorse ore, come riportato da Alertageo.org, e ha fatto chiacchierare tutto il paese. La scia luminosissima è stata registrata da alcune telecamere di sicurezza: si vede chiaramente un meteorite avvicinarsi a gran velocità verso la terraferma per poi svanire a pochi passi dal suolo nella zona di Byurakan (36 km da Erevan). Il meteorite è stato avvistato anche in alcune zone della Turchia non lontane da Byurakan. Inizialmente si pensava ad un’esplosione di fuochi d’artificio dovuta alle celebrazioni per la Festa della Repubblica d’Armenia, le immagini hanno poi smentito le ipotesi. Ecco il video del meteorite apparso in Armenia.

ENORME METEORITE AVVISTATO A BARCELLONA: LO SPETTACOLARE VIDEO DEL BOLIDE CHE ILLUMINA LA NOTTE

Una grande palla di fuoco è stata vista questo fine settimana in Catalogna e in altre parti della Spagna, come molti fan dell’astronomia sono stati in grado di catturare questo spettacolo nei cieli. Domenica notte, è stata vista una palla di fuoco che è passata sopra il cielo di Barcellona e che alla fine si è frammentata, come riporta elcaso.elnacional.cat.Fulmine verdastro e un grande boato. La sensazione visiva era simile a quella di un raggio verdastro e infine di un tuono, che si è verificato dopo lo scoppio. Secondo diversi esperti, la frammentazione di questo oggetto avrebbe potuto essere stata scatenata dall’impatto contro la Terra, in Catalogna, di meteoriti di piccole dimensioni. Nessun danno è stato riscontrato. In uno dei video, quello registrato da Fernando Gómez di Vallirana (Barcellona), si può vedere la natura spettacolare del fenomeno. In un tweet su Twitter, il Dr. Josep M. Trigo chiede al pubblico di collaborare per recuperare parte dei meteoriti che sono stati in grado di colpire la terra, nell’area della Catalunya, dopo l’implosione dell’enorme bolide meteorico. “Una possibile caduta è sempre emozionante, ma la collaborazione di tutto il mondo è essenziale affinché il meteorite finisca nei centri di ricerca“, afferma Trigo. Le telecamere di rilevazione del bolide dell’Associazione astronomica di Ibiza (AAE) hanno raccolto immagini di una grande palla di fuoco “di grande portata visiva che è esplosa nel nord-ovest della Spagna, vista da molte persone provenienti da Ibiza, Maiorca, Catalogna, Aragona, Madrid, ecc. “, Spiegano sui loro social network.

SI È TRATTATO DI UNA METEORA

Così, domenica notte, 24 maggio, si poteva vedere una palla di fuoco meteorica che alla fine si era frammentata. Dal Bolide and Meteorite Research Network (SPMN) sottolineano che il lavoro dell’AAE è essenziale per la rilevazione dei bolidi. In questo caso l’SPMN230520 è stato registrato a più di 400 km da Marcos Yuste. È una meteora di grandi proporzioni che quando viene a contatto con l’atmosfera ha causato grande luminosità e un forte rumore, come un grande tuono che è stato ascoltato in Catalogna, ma visto da molti altri punti come Ibiza. I media catalani sottolineano che frammenti di questa palla di fuoco potrebbero essere caduti nel territorio catalano.

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ARMENIA. Gas e pandemia. Mosca e Yerevan discutono di prezzi (Agcnews 28.05.20)

Le relazioni solitamente strette tra Russia e Armenia potrebbero essere influenzate dal calo dei prezzi del gas dovuto alla pandemia di coronavirus. L’Armenia si affida alla Russia per le sue forniture di gas. Gazprom Armenia, filiale della Gazprom, detiene il monopolio delle forniture, che ogni anno ammontano a due miliardi di metri cubi di gas. Con i prezzi del petrolio e del gas in calo a livello globale, Yerevan ha chiesto a Mosca di abbassare anche il costo del suo gas. Tuttavia, allo stesso tempo, Gazprom Armenia vuole che le tariffe del gas per i consumatori armeni siano aumentate.

Poiché l’Armenia non dispone di riserve proprie, la sua economia dipende fortemente dai prezzi dell’energia. Le elevate tariffe del gas in Armenia indeboliranno la sua competitività economica e porteranno ad un aumento dei prezzi che graverà pesantemente sui settori socialmente svantaggiati già colpiti dalla crisi causata dalla pandemia, riporta Ipwr.

Anche i differenziali di prezzo odierni sono un problema: la Russia attualmente vende gas all’Europa a 60 dollari per mille metri cubi; per l’Armenia il prezzo è di 165 dollari per mille metri cubi. Nel mercato interno, i consumatori armeni ricevono gas per circa 285 dollari per mille metri cubi.

Il vice primo Ministro armeno Mher Grigoryan, negoziatore con la Russia sulle questioni relative al gas, ha dichiarato che questa differenza di prezzo è dovuta ad un particolare accordo bilaterale: «Abbiamo un prezzo fisso di 165 dollari per mille metri cubi alla frontiera, che è il risultato di un accordo politico tra Yerevan e Mosca (…) La Russia vende il gas all’Europa secondo i principi del mercato, cioè il mercato determina il prezzo, che ora è in calo».

Yerevan vede la questione come un problema, poiché la quota del consumo di gas nell’economia e nel settore energetico armeno è relativamente alta: circa il 35% dell’elettricità in Armenia viene prodotta in centrali termiche che operano a gas naturale.

La questione è stata sollevata anche all’interno dell’Unione Economica Eurasiatica: Armenia e Bielorussia hanno espresso il loro malcontento per l’alto costo del gas russo, mentre il Kirghizistan, ha chiesto alla Russia di abbassare i prezzi. Tutti e tre i paesi dipendono dai vettori energetici russi. Grigoryan si è occupato della gestione di Gazprom il 31 marzo, mentre la questione è stata discussa anche tra il presidente russo Vladimir Putin e il primo Ministro armeno Nikol Pashinyan il 6 aprile.

Per il premier armeno, l’intenzione di Gazprom di aumentare i prezzi del gas per i consumatori locali è inaccettabile, soprattutto durante la pandemia, e ha espresso la speranza che Putin lo sostenga nella risoluzione della controversia sul gas. L’Armenia vuole modificare i termini del suo accordo con la Russia e passare da un prezzo fisso a meccanismi di prezzo di mercato, pagando in valuta nazionale piuttosto che in dollari. 

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L’Armenia ha trovato il tesoro (Ilmanifesto 27.05.20)

Ambiente. La battaglia di un gruppo di giovani sul monte Amulsar contro la miniera d’oro progettata da una multinazionale statunitense. E l’eroe della rivoluzione, il premier Pashinyan, non sa chi appoggiare

 

Alexander Damiano Ricci, Giovanni Culmone

AMULSAR (ARMENIA)

Nella provincia armena di Vayots Dzor, nel sud del paese caucasico, una strada tortuosa si inerpica sul monte Amulsar e termina con la città termale di Jermuk. Sulla banchina di uno degli ultimi tornanti, un container d’acciaio giace all’ombra delle nuvole di passaggio.

A pochi passi dall’ingresso, un gruppo di giovani del posto lava le stoviglie con la neve, in vista di un pasto frugale. A dispetto delle sembianze fortunose, questo alloggio è stato pensato per bloccare le attività di un potere economico duro come le roccia.

PORTA IL NOME di Lydian International Limited (Lydian Ltd.), multinazionale nata nel 2005 in Colorado, con sede legale nel paradiso fiscale delle isole Jersey. Se il business principale di Lydian Ltd. è estrarre oro, quello dei ventuno armeni che, ogni settimana, si danno il cambio presso il container, è impedirglielo.

«Quando Lydian ha iniziato gli scavi, l’acqua del villaggio di Gndevaz è diventata nera. Così, alla luce della rivoluzione, le persone del posto si sono fatte sentire: non volevano una miniera da queste parti».

Quando Arthur Grigoryan, 32 anni, prende la parola, nello spazio adibito a salotto nel container cala il silenzio. In sottofondo, lo scoppiettìo del fuoco di una stufa; sulla parete, un poster raffigura il monte Amulsar racchiuso fra due mani: «Amiamo l’Armenia e Jermuk. Questa città è ricca d’acqua: l’unica cosa insostituibile. Non vogliamo scambiare questo tesoro con oro».

I LAVORI per la costruzione della miniera d’oro di Amulsar iniziano nell’ottobre del 2016, dopo anni di studi d’impatto ambientale e sociale – la città di Jermuk è fin dall’epoca sovietica destinazione per turisti in cerca di relax e SPA. Qual è l’accordo? La multinazionale estrae oro per dieci anni, mentre Jermuk ottiene 700 posti di lavoro. Ma poi avviene qualcosa di inimmaginabile.

Nell’aprile 2018, una rivoluzione di velluto fa cadere il regime ventennale del Partito repubblicano armeno (Rpa), lo stesso che aveva dato la concessione a Lydian Ltd. Sulla scia dell’afflato democratico, un gruppo di residenti, spinti dalla comunità locale, ferma la costruzione della miniera creando quattro posti di blocco in concomitanza degli accessi al sito. È l’inizio di una lunga crisi “diplomatica” fra la corporation e lo Stato armeno che dura da quasi due anni a questa parte.

Da Jermuk a Erevan ci vogliono tre ore e mezzo di macchina, ma sembra di viaggiare anni luce. Nella capitale c’è poco spazio per persone come Arthur Grigoryan. Questa è la terra della borghesia cresciuta in Occidente, causa il genocidio e la diaspora del XX secolo. Eppure, c’è un filo rosso che lega Jermuk e Erevan: la rivoluzione.

MARIA TATISIAN è una giornalista armena cresciuta in Canada e caporedattrice di EVN Report. I muri della redazione sono tutto un collage sui moti del 2018. Parlando di Amulsar dice: «È come se avessimo detto che non si può venire a sfruttare e saccheggiare l’Armenia».

A poche centinaia di metri c’è la sede del centro di ricerca Socioscope. Secondo la sociologa, Arpy Manusyan, «il caso Amulsar è connesso a due questioni più ampie: da un lato, alla pressione che l’Armenia subisce dalle corporation internazionali; dall’altro, alla necessaria definizione di un modello sviluppo alternativo all’estrattivismo».

SARÀ PER QUESTO che Nikol Pashinyan, eroe popolare durante la rivoluzione e oggi primo ministro, non trova una quadra. Dapprima ha criticato i blocchi; poi ha attaccato la multinazionale. Infine, ha commissiona uno studio a Elard, una no-profit libanese, per riesaminare le analisi di impatto condotte da Lydian Ltd.. Il risultato? Ci sono dei rischi, ma il progetto è fattibile.

Amulsar, posto di blocco numero 2. Sul tetto,la bandiera dell’Armenia. Foto di Karapet Karo Sahakyan

Anna Shahnazaryan è la leader del Fronte ambientale armeno (Aef), la principale organizzazione che appoggia gli occupanti. Seduta di fronte a una mappa del paese, spiega: «Dal monte Amulsar originano numerosi affluenti del lago Sevan (la principale fonte d’acqua dell’Armenia, ndr). E uno dei rischi legati alla costruzione della miniera è quello del drenaggio di roccia acida (un fenomeno dovuto all’interazione tra acqua e rocce cariche di solfati, ndr)». Secondo Shahnazaryan, «la miniera inquinerebbe l’intera regione».

IL PROBLEMA era stato sollevato dalla stessa Lydian Ltd. E la multinazionale ha anche proposto una soluzione che prende il nome di encapsulation. Ma un’analisi indipendente, pubblicata a inizio 2018, ne ha contestato l’efficacia.

Al manifesto il vice presidente di Lydian Armenia, Armen Stepanyan, ha detto che gli studi di impatto forniti dalla multinazionale, «sono le prime e uniche [nella storia del paese] a essere state riconosciute dall’International Finance Corporation (Ifc, organizzazione internazionale legata alla Banca mondiale che offre consulenza su progetti in paesi in via di sviluppo) e dalla Ebrd».

Nonostante il report Elard abbia dato luce verde e i tribunali amministrativi del paese abbiano ordinato la rimozione dei blocchi, le barricate continuano, anche quando fuori la temperatura raggiunge i -20°C.

«Se Pashinyan ordinerà la rimozione, accorrerà l’intera città di Jermuk e chiunque abbia una coscienza sociale. Questo caso non riguarda soltanto la regione di Vayots Dzor. E nemmeno esclusivamente l’Armenia. È una questione globale», afferma Grigoryan.

MA IL PRIMO ATTORE ad aver acceso i fari internazionali è stato proprio Lydian Ltd.. Nel marzo 2019, prima della pubblicazione del rapporto Elard – e tramite due filiali create in Canada e nel Regno unito –, la multinazionale ha notificato il governo riguardo il potenziale avvio di una causa presso un Tribunale internazionale per la risoluzione delle dispute tra stati e investitori (Isds).

«Si parla di una multa potenziale tra gli uno e i due miliardi di euro», spiega Aleksandr Khachaturyan, avvocato, ex-direttore del Centro armeno per le iniziative strategiche e socio di TK & Partners. La somma equivarrebbe a più di metà del bilancio statale.

Eppure, per Khachaturyan il problema è un altro: «I danni vanno al di là del costo monetario. Gli investitori che oggi considerano il paese come una potenziale destinazione analizzeranno questa storia». Shahnazaryan (Aef) non ha dubbi: «Quella di Lydian è una strategia tipica delle grandi aziende per estorcere risorse ai paesi in via di sviluppo». Lydian Ltd. ha creato le filiali in maniera strumentale? A detta di Stepanyan (Lydian Ltd.) «l’azienda potrebbe avere più di una ragione per effettuare cambiamenti strutturali». I costi sopraggiunti a causa dei blocchi sarebbero pari a «101 milioni di dollari».

Da Pashinyan arriva un silenzio assordante. O quasi. A febbraio di quest’anno, in visita a Berlino, il primo ministro ha detto: «Se i rischi ambientali sono gestibili appoggeremo il progetto». E un mese prima: «Non ci sono ragioni legali che giustificano i blocchi». Ma per Manusyan (Socioscope), il caso di Amulsar è un «conflitto emblematico della fase post-rivoluzionaria».

Amulsar dimostra che in questo paese «è ancora necessario combattere per i propri diritti». La miniera «ha diviso la società civile». «Prima tutti pensavano che Pashinyan avrebbe ascoltato i movimenti». Gli stessi che lo hanno portato al potere. Ora è tutto meno chiaro.

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Il business estrattivista di Yerevan

Il business delle miniere in Armenia risale alla seconda metà del XVIII secolo. Secondo dati relativi al 2017, il paese ha assegnato licenze per attività estrattive a più di 400 aziende; 28 di queste ultime riguardano metalli. Il settore impiega circa 10mila persone, mentre il salario medio si aggira sui 700 dollari (il doppio della media nazionale). Nel 2016, la quota di pil nazionale creato dal settore è stato pari al 2,6 per cento, a fronte di una quota di export industriale del 40%.

La PRIMA REPUBBLICA INDIPENDENTE ARMENA del 1918 – Di Pietro Kuciukian

Più di cento anni fa, il 28 maggio 1918 la parte armena dell’effimera “Repubblica democratica federativa della Transcaucasia”, raggruppante deputati georgiani, azeri e armeni, proclamava la sua indipendenza. Non c’era scelta. Due giorni dopo gli eletti georgiani facevano esplodere quell’ insieme eterogeneo che era stato creato sulle ceneri dell’Impero Zarista. Defezionarono sperando di poter vivere sotto protezione tedesca, rimasero faccia a faccia gli armeni e gli azeri che dichiararono rispettivamente la loro indipendenza. E ciò, malgrado da parte armena la FRA Dashnagzutiun, partito maggioritario a quell’epoca, non avesse concepito nel suo programma politico l’indipendenza. Di necessità e virtù e, nel caos indescrivibile del momento caratterizzato dall’avanzata ottomana, dalla rivoluzione d’ottobre nel Caucaso del Sud e dalle conseguenze della guerra mondiale, nasceva l’indipendenza. Questa indipendenza sarebbe rimasta lettera morta se, con l’energia della disperazione, ciò che restava del popolo armeno a pezzi, non fosse riuscito il 26 maggio a bloccare la progressione dell’invasore turco e a impedire l’annientamento totale della nazione. A Sardarabad, a Bash-Abaran e  a Karakilisa, nel maggio del 1918 un popolo forte della sua disperazione, fermò l’avanzata delle forze ottomane che stavano per annientare i sopravvissuti al genocidio, gli armeni di Yerevan e dei territori circostanti. L’offensiva della III armata turca di VehibPashaaveva un chiaro obiettivo: stabilire una congiunzione con i fratelli azeri e insieme concludere l’impresa genocidaria. La resilienza di Sardarabad fu un miracolo. Grazie a questa vittoria sul panturchismo, poteva  nascere la prima Repubblica Indipendente d’Armenia. Doveva ancora darsi delle frontiere e un’organizzazione statuale. Sopravvivrà 2 anni e mezzo, in un contesto apocalittico, prima di essere afferrata dal vento della storia che impose per 80 anni l’egemonia del potere sovietico su tutto l’ ex Impero zarista e anche oltre. Ma le basi dello stato armeno erano state gettate e, malgrado la dominazione di Mosca, andranno rafforzandosi con la Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia che partorirà nel 1991, l’Armenia attuale, dopo l’autodistruzione dell’Unione Sovietica. Oggi questa seconda Repubblica indipendente suscita fierezza, si iscrive nel patrimonio nazionale armeno e tutti gli armeno del mondo, otto milioni in diaspora e tre in patria si riconoscono orgogliosamente in essa.

Pietro Kuciukian, console onorario della Repubblica di Armenia

Armenia – Giustizia per Gurgen Margaryan (Assadakah 27.05.20)

Roberto Roggero – La famiglia dell’ufficiale armeno, ucciso con un’ascia da un soldato azero, mentre si trovavano in servizio alle dipendenze della NATO, a Budapest, si è rivolta alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per ottenere giustizia e perché vengano riconosciute le responsabilità dell’Ungheria e dell’Azerbaijan. La vicenda risale al febbraio 2004, quando il giovane ufficiale armeno Gurgen Margaryan fu ucciso da un altro soldato, Ramil Safarov, appartenente all’esercito azero. I due uomini, frequentavano un corso trimestrale di lingua inglese della NATO, nella capitale ungherese. Inoltre, il militare azero ha anche tentato di uccidere un altro ufficiale armeno, Hayk Makuchyan, senza riuscirci, sempre con la stessa arma che aveva acquistato in un negozio e con la quale aveva ucciso l’ufficiale armeno nel dormitorio.

Ramil Safarov

Ramil Safarov è stato sottoposto a processo, durante il quale aveva ribadito il proprio odio per gli armeni. Durantele udienze, è apparso chiaramente che l’accusato aveva preso di mira Margaryan a causa della sua appartenenza armena e che non mostrava alcun rimorso. Riconosciuto colpevole, è stato condannato all’ergastolo e incarcerato ma, nel 2012, il governo ungherese ha deciso di rimpatriarlo in Azerbaijan, dove avrebbe dovuto scontare il resto della pena. Tornato in patria, Safarov è stato invece graziato dal presidente Ilham Aliyev, rimesso in libertà, salutato come un eroe nazionale e addirittura promosso di grado con la concessione di un appartamento a titolo gratuito e una pensione in riconoscimento degli otto anni trascorsi in una prigione di Budapest. Le proteste ufficiali dell’allora presidente armeno Serzh Sargsyan non sono state prese in considerazione.

Nonostante il caso risalga a 16 anni fa, rimane una ferita profonda e aperta, e per questo, la famiglia Margaryan e lo stesso Hayk Makuchyan, si sono rivolti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, non per un inutile risarcimento, ma per ottenere giustizia di fronte a una violazione e all’impunità, patrocinati dall’avvocato Nazeli Vardanyan.

Manifestazione popolare a sostegno di Gurgen Margaryan

Sullo sfondo, la situazione continuamente tesa fra Armenia e Azerbaijan in merito al territorio conteso del Nagorno-Karabakh, oggi Artsak, con una guerra che è costata la vita a decine di migliaia di persone. Ancora oggi, si svolgono periodici scontri a fuoco lungo i confini, mentre i contendenti mantengono la sospensione di qualsiasi relazione diplomatica.

Secondo il Diritto Internazionale, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo potrebbe disporre un rinnovato mandato di arresto e carcerazione per Safarov, annullando la sentenza di liberazione, con un provvedimento che, a tutti gli effetti, ha validità internazionale, ma il problema è che non sempre tali disposizioni vengono rispettate dai singoli governi. L’avvocato Nazeli Vardanyan ha dichiarato che punta al un nuovo trasferimento di Safarov in Ungheria o in un Paese terzo, dove scontare la condanna, perché “non è ammissibile che un assassino sia trattato come un eroe”.

Philip Leach, direttore del Centro Europeo di difesa dei diritti umani, che rappresenta anche i ricorrenti, ha affermato che il caso riguarda un nuovo territorio legale e che la sentenza del tribunale potrebbe avere profonde conseguenze, in quanto si è creato un pericoloso precedente.

I funerali di Gurgen Margaryan

Un rapporto del difensore civico ungherese nel 2012 ha rilevato che l’Ungheria non aveva violato alcuna norma internazionale, ma ha tuttavia concluso che il governo ungherese “non era sufficientemente prudente quando non richiedeva alcuna garanzia dall’Azerbaigian”.

La Corte Europea (CEDU), con sede a Strasburgo, afferma che l’Azerbaigian ha sbagliato a rilasciare un uomo condannato per aver ucciso un cittadino armeno, e ha votato la illegalità della liberazione di Safarov con un risultato di 6 preferenze contro 1 lo scorso 26 maggio. Nella sentenza, la CEDU ha dichiarato di “constatare che non vi era stata alcuna giustificazione per l’incapacità delle autorità azere di applicare la punizione di Ramil Safarov, e di concedergli l’impunità per un grave crimine di odio”.

L’Università di Teramo collabora con le Universita’ in Armenia per lo sviluppo di dottorati innovativi (Quotidianodabruzzo.it 27.05.20)

L’Universita’ di Teramo e’ partner del progetto Erasmus+ Capacity Building Ardmdoct che ha l’obiettivo di rinnovare la formazione dottorale in Armenia in linea con i principi di Salisburgo, sviluppando il quadro giuridico, gli statuti e le procedure istituzionali a sostegno di studi di dottorato integrativi e orientati a livello internazionale. Il partenariato include, oltre all’Universita’ di Teramo, dieci universita’ e centri di ricerca armeni, il ministero dell’Istruzione, della scienza, della cultura e dello sport della Repubblica di Armenia, la Catholic University of Portugal (Portogallo), la Jean Moulin University Lyon 3 (Francia) e la Vilnius University (Lituania). Il progetto si propone varie attivita’ per il rafforzamento delle capacita’ strategiche, infrastrutturali e umane negli istituti di istruzione superiore, la revisione delle politiche istituzionali e delle procedure basate sul quadro normativo nazionale, la progettazione del Manuale istituzionale per l’istruzione di dottorato, l’istituzione di cinque scuole di dottorato creando sinergie tra istituti di istruzione superiore e industria in Armenia e, infine, la promozione di reti di cooperazione a lungo termine tra istituti di istruzione superiore armeni ed europei per l’ulteriore internazionalizzazione della ricerca. Il progetto – di cui e’ referente Paola Pittia, delegata del Rettore all’Internazionalizzazione – ha durata triennale. Nel 2021 presso l’Ateneo di Teramo si terra’ una riunione del progetto che si svolgera’ assieme a un corso di formazione per i docenti delle dieci universita’ armene e sara’ l’occasione per presentare le eccellenze nella didattica e nella ricerca e per sviluppare ulteriori accordi di collaborazione tra tutti i partner armeni ed europei.

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