LA DIPLOMAZIA DEL BENE: LA STORIA SCONOSCIUTA DI UN GIUSTO NEL GRANDE GIOCO DELL’OTTOCENTO (Gariwo 31.03.22)

Dal passato al presente per prevenire i genocidi e le atrocità di massa

Il diplomatico non sempre si riduce ad un semplice messaggero. Quanto bisogno avremmo dell’attivismo instancabile dei “Diplomatici di Coscienza”, come li ha definiti lo storico turco Taner Akçam, in un presente dove le atrocità di massa sono visibili nei paesi della catena della terza guerra mondiale “a pezzi” di cui parla papa Francesco. Guerre che rischiano di farci fermare attoniti alle emozioni delle immagini, senza il passaggio a un sentire che colga la gravità di quel che accade e apra alla riflessione sul che fare.

Nel Giardino dei Giusti del Monte Stella, a Milano, celebrando il decimo anniversario della Giornata europea dei Giusti, il 3 marzo del 2022, questo annus horribils nel quale non cessa l’urlo delle sirene e lo scoppio delle bombe, sono state poste, tra le altre, le targhe a due diplomatici, Henry Morgenthau, Ambasciatore degli Stati Uniti a Costantinopoli che ha salvato e soccorso gli armeni nel 1915, e Aristides de Sousa Mendes, console portoghese che salvò gli ebrei in fuga dalla Francia occupata dai nazisti. Targhe non lontane dai cippi dedicati negli anni passati ai diplomatici Enrico Calamai, Pierantonio Costa, Ho Feng Shan, Guelfo Zamboni e Giacomo Gorrini, console a Trebisonda che per primo ha svelato al mondo lo sterminio degli armeni. La loro memoria è viva nei discendenti delle generazioni dei salvati, ma anche nella memoria di coloro che oggi, conoscendo le loro storie, sentono l’appartenenza di queste figure all’Umanità intera, come lo sono del resto gli altri Giusti che onoriamo nei Giardini di tutto il mondo.

Sono numerosi i diplomatici che hanno profuso le loro energie nei momenti del male estremo e Gariwo nel suo cammino ha voluto creare uno spazio dedicato alla Diplomazia del bene, anticipando un tema che, come tanti altri messi a fuoco nella ricerca dei Giusti, si rivela cruciale nel corso della storia.

La celebrazione dei nuovi Giusti di quest’anno è stata dedicata al tema della prevenzione dei genocidi e delle atrocità di massa. La Diplomazia etica vince il silenzio, combatte l’indifferenza, profonde le sue energie per prevenire, impedire, fermare, e infine attenuare le conseguenze del male estremo, il crimine che il grande ebreo polacco Raphael Lemkin, analizzando lo sterminio degli armeni emerso dal processo di Berlino a Soghomon Tehlirian, e il piano di sterminio degli ebrei di tutto il mondo di Hitler, ha definito genocidio, creando un termine che, come sottolinea Gabriele Nissim, doveva diventare un deterrente giuridico e morale per un crimine che colpisce non una comunità, ma il mondo intero (v. Auschwitz non finisce mai, p. 133).

Abbiamo onorato In Italia e all’estero diplomatici, consoli, ambasciatori di tutti i continenti e alti rappresentanti degli organismi internazionali, la Società delle Nazioni e l’ONU, con le grandi figure di Fridtjof Nansen, Alto Commissario per i Rifugiati che creò un passaporto per i profughi apolidie del Segretario generale Dag Hammarskjold che ha cercato di fermare la guerra in Congo, alla ricerca di una “Nuova Umanità”.

Persone che si sono poste al servizio del bene collettivo, hanno rischiato la libertà e la vita per far prevalere il diritto sulla forza. Non si sono immersi nel fiume delle carte burocratiche che scorrono copiose sulle scrivanie dei diplomatici. Hanno percorso le strade, hanno guardato e hanno visto con i loro occhi le sofferenze e l’orrore in atto. Le loro scrivanie si sono riempite di passaporti da firmare, di salvacondotti da stilare, di lettere di supplica, mentre all’esterno volti angosciati chiedevano rifugioI Diplomatici di Coscienza aprivano le porte delle ambasciate, dei consolati e delle residenze private, correndo gravi rischi. Attività frenetiche per soccorrere, accogliere, accompagnare ai confini e anche per far sapere al mondo le tragedie in atto, per testimoniare la verità. E oggi tante ambasciate hanno aperto i loro Giardini per onorare i Giusti dell’Umanità, condividendo il percorso avviato da Gariwo.

Nei vari frangenti della storia l’attivismo instancabile e creativo dei diplomatici ha lasciato tracce indelebili e per questo ricerchiamo le loro biografie e raccontiamo le loro storie. Nel gioco delle relazioni internazionali e della geopolitica si possono ritrovare figure esemplari poco conosciute di Diplomatici di coscienza come quella dell’Ambasciatore russo Alexsandr Griboedov, che si è trovato a operare nel Grande Gioco che ha impegnato gli inglesi e i russi per gran parte dell’Ottocento in Afghanistan, in Iran e nell’Asia Centrale.

Il Grande Gioco (The Great Game) detto anche Torneo delle ombre per il coinvolgimento dei servizi segreti di varie nazioni, inizia nel XVIII secolo ma trova i suoi momenti più significativi nell’Ottocento. Una competizione fra Russia e Gran Bretagna, in cui entreranno anche la Persia e l’lmpero ottomano, per il predominio politico del territorio che si estende dal Caucaso alla Cina: premio finale il controllo dell’Asia Centrale, fonte di immense ricchezze e possibilità di commerci. Teatro principale l’Afghanistan e i suoi invincibili guerrieri, via obbligata per le Indie britanniche. Il Grande Gioco durerà più di 100 anni.

Nel Grande Gioco sono stati coinvolti personaggi famosi, molti dei quali hanno scritto le loro memorie. Tra di loro spiccano le figure di militari inglesi: il tenente Alexander Burnes, vittima dell’odio di una folla inferocita sobillata dai mullah che chiedevano la cacciata degli inglesi da Kabul, Eldred Pottinger, L’eroe di Herat, Henry Rawlinson che è stato anche presidente della Royal Geographical Society, Arthur Conolly, uno dei protagonisti del Grande Gioco giustiziato barbaramente dall’emiro di Buchara, Charles Masson, appassionato studioso di storia dell’Asia, grande viaggiatore che aveva acquisito conoscenze eccezionali dell’Asia Centrale e tanti altri, ufficialmente “militari in licenza di caccia”. Fra i russi Jan Vitkevic, l’aristocratico capitano lituano che pur avendo reso un grande servizio alla Russia al suo ritorno in patria fu ignorato e morì suicida a Pietroburgo, Nikolaj Murav’ev, il coraggioso capitano che ha attraversato l’insidioso deserto del Karakum per raggiungere Chiva, senza riuscire a liberare i prigionieri russi ridotti in schiavitù e infine Alexandr Griboedov, drammaturgo, poeta compositore e diplomatico. Oltre ai militari coraggiosi c’erano intellettuali carichi di desiderio di conoscenza, esploratori, spie, cartografi, rimestatori di alleanze, interpreti poliglotti, audaci fomentatori di intrighi, e audaci tessitori di alleanze che penetravano in territori fino ad allora inesplorati, per preparare interventi militari, accordi commerciali, occupazioni. Il libro di Peter Hopkirk, Il grande Gioco, edito da Adelphi nel 2004, definito da Umberto Eco “una delle letture più appassionanti”, ci fornisce una documentazione mirabile ed esaustiva della diplomazia imperialista dell’Ottocento.

All’epoca vi erano fiorenti comunità armene diasporiche in India, a Madras e a Calcutta, e in Persia, a Isfahan e a Tabriz. Armeni poliglotti che fornivano interpreti agli inglesi e ricchi commercianti che prestavano denaro agli Shāh. Anche gli armeni hanno partecipato e subìto conseguenze derivate dal Grande Gioco. All’inizio dell’Ottocento gli armeni erano sudditi ottomani ad ovest del fiume Arax e sudditi persiani a est. La Persarmenia comprendeva i khanati di Yerevan, Gangja e Nakhicevan e i melikati del Karabagh. Nel 1825 il generale Aleksej Ermolov governatore del Caucaso era entrato in conflitto con la Persia per un territorio conteso a nord di Erevan. Lo Shāh Abbas Mirza scatenò la “guerra santa contro gli infedeli” varcando i confini della Russia, massacrando e facendo prigioniero un intero reggimento. Ben presto i russi si riorganizzarono e rovesciarono le sorti del conflitto riconquistando Erevan e spingendosi a sud. Nel 1828 lo Shāh di Persia, alleato alla Gran Bretagna, chiese aiuto contro la Russia, ma gli inglesi giudicarono che non fosse il momento adatto e l’influenza britannica in Persia ebbe fine, sostituita prontamente da quella russa.

Lo Zar Nicola I, principale protagonista del Grande Gioco, inviò i suoi ambasciatori e i suoi consoli ovunque nel nuovo protettorato persiano, senza dimenticare i privilegi che poteva ricavare per i suoi mercanti. Nell’inverno del 1828 giunse a Teheran il nuovo Ambasciatore russo Alexsandr Griboedov, ricevuto in pompa magna nonostante lo Shāh nutrisse profonda ostilità per lo Zar. Era stato Griboedov celebre letterato di tendenze liberali, già segretario del generale Ermolov, a negoziare le condizioni della resa persiana, e a ricevere il pagamento dell’indennità di guerra. Era arrivato a Teheran nelle giornate sciite del Muharram quando i devoti musulmani fanatici si feriscono con le spade per espiare i dolori del loro fondatore Alì e si cospargono il capo con le braci, urlando contro gli infedeli. L’odio per i russi era al massimo livello. In base al trattato di Turkmenchay fra persiani e russi gli armeni residenti in Persia potevano tornare nella loro patria, protetta dai russi cristiani ortodossi. Anche un eunuco armeno dell’harem dello Shāh e due giovani armene dell’harem del genero dello Shāh cercarono di tornare in Armenia. Chiesero asilo all’Ambasciata russa e Alexandr Griboedov li ospitò in attesa dei documenti per il rimpatrio. Lo Shāh, contravvenendo al trattato, e pressato dai religiosi e dall’ala fanatica dei suoi sudditi, chiese la restituzione dei tre schiavi armeni, ma l’Ambasciatore rifiutò di consegnarglieli dichiarando che solo il ministro degli esteri russo Nessel’rode poteva autorizzare eccezioni al trattato. L’Ambasciatore sapeva che cosa sarebbe accaduto agli schiavi armeni se li avesse riconsegnati allo Shāh. I sudditi musulmani, offesi per l’onta subita dal loro sovrano, chiusero i bazar, si radunarono nelle moschee e marciarono contro l’ambasciata russa (episodio che si ripeterà più di centocinquant’ anni dopo contro l’Ambasciata degli Stati Uniti a Teheran). Il corpo di guardia cosacco cercò di resistere all’attacco della folla inferocita incitata dai mullah, ma fu sopraffatto. Il primo a venire massacrato fu l’eunuco armeno. Gli assalitori penetrarono dal tetto nell’ufficio dell’Ambasciatore. Griboedov, impugnata la spada, cercava di proteggere le due giovani armene. Fu massacrato e il suo corpo gettato dalla finestra, sulla postazione di un venditore di kebab che gli staccò la testa esibendola sul suo banco, dopo avergli posto gli occhiali sul naso. Il corpo finì fra i rifiuti, in seguito identificato per un mignolo deforme. Delle giovani non si seppe più nulla. Nessuno era stato inviato a proteggere l’Ambasciatore, ucciso in un contesto di selvaggia disumanità.

Alexsandr Griboedov ha sacrificato la sua vita per salvare tre armeni innocenti. Poco tempo dopo il suo grande amico, il poeta Aleksandr Puskin, con cui Griboedov condivideva le idee liberali, una formazione illuministica e il progetto di introdurre nella cultura russa nuove tendenze letterarie e politiche, incontrò nel Caucaso alcuni uomini che conducevano un carro proveniente dalla Persia e diretto a Tiflis. Il carro trasportava i resti di Alexandr Griboedov. Fu sepolto nel monastero di San David su una collina sopra Tiflis, l’odierna Tibilisi, in Georgia. Un nipote dello Shāh fu inviato a Pietroburgo per porgere allo zar Nicola le scuse dello zio, offrendo la sua vita in cambio. L’efferatezza dell’atto compiuto contro un Ambasciatore che, incurante dell’estremo pericolo cercava di proteggere degli indifesi e far valere il diritto sulla violenza tribale di una massa carica di odio, era una pagina oscura da cancellare anche per lo Shāh. Lo zar Nicola non accettò un atto di riparazione che si fondava sulla primitiva e tribale “vendetta del sangue”. Si limitò a chiedere che i responsabili venissero puniti. Non ignorava, oltretutto, che i persiani avrebbero potuto allearsi con i turchi suoi rivali nell’area. Aleggiava anche l’ipotesi che l’assassinio dell’Ambasciatore Griboedov fosse stato concepito da agenti turchi del sultano ottomano che voleva riaccendere la guerra russo-persiana per indebolire l’avanzata dello zar nei territori ottomani, obiettivo raggiunto da Nicola I con la cacciata dei turchi dal Caucaso. Sarà poi lo zar Nicola II ad assicurare all’Impero le ricche province abitate dagli armeni di Erevan, Nakhicevan, Karabagh e Gangja formando la Armenskaja Oblast, la Provincia armena zarista che diventerà indipendente dal 1918 al 1920 e che farà poi parte dell’Unione Sovietica per non subire l’ultimo atto genocidario dalla Turchia, fino al 1991, quando ritornerà indipendente.

È mia intenzione prelevare un pugno di terra della tomba dell’Ambasciatore Alexandr Griboedov, un Giusto per gli armeni, e tumularla nel Giardino dei Giusti di Gyumri, in Armenia, compito al quale mi dedico da anni. Riaccendere la memoria su un atto giusto dettato dalla voce della coscienza e dal coraggio di vivere eticamente il ruolo di diplomatico, fa parte dell’impegno assunto da Gariwo di prevenire i genocidi e le atrocità di massa. Una pagina poco nota della storia dell’Ottocento rivela quali costi l’umanità ha pagato per far emergere la luce del diritto dal buio della sopraffazione e della violenza nelle relazioni umane e nel rapporto tra gli Stati.

Dedico queste mie riflessioni a Zakia Seddiki, moglie dell’Ambasciatore d’Italia nella Repubblica Democratica del Congo, ucciso a Goma il 22 febbraio del 2021, che ha condiviso sino in fondo la scelta del marito di vivere la vita diplomatica come missione umanitaria. “Sognare una realtà più bella. Insieme è possibile”, è il motto dell’Associazione benefica Mama Sofia da lei fondata nel 2017 che soccorre in Congo i bambini di strada e che continua ad esistere, nonostante la tragedia che si è abbattuta sulla sua esistenza. Non posso dimenticare le parole cariche di dolore e commozione di Zakia Seddiki davanti alla stele dedicata all’Ambasciatore Attanasio nel Giardino dei Giusti della Valle dei Templi di Agrigento il 26 novembre 2021: Nessuno deve levarci l’umanità. L’amore è il grande senso della vita e ci mostra che dobbiamo vivere in pace e per la Pace. Parole profetiche per questi tempi di guerra.

Nell’Ambasciatore Attanasio viveva il progetto e il tentativo di rendere il mondo migliore con la forza del diritto e della giustizia. In Congo aveva toccato con mano, come sessant’anni prima il Segretario dell’ONU Dag Hammarskjold, la crisi umanitaria di un paese ferito dalla guerra, dove la fame è radicata, la violenza diffusa, la povertà endemica. Aveva ben chiaro come vivere il suo ruolo di Diplomatico. Zakia Seddiki ha raccolto il suo progetto e cerca di portarlo avanti pur tra infinite difficoltà.

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Laura Ephrikian racconta le sue radici armene in un “romanzo familiare” fra Venezia, Treviso, Fregona e Vittorio Veneto (Qdpnews 31.03.22)

Laura Ephrikian, attrice di teatro, cinema e televisione, è tornata nella sua amata Treviso, la città in cui è nata il 14 giugno 1940, per raccontare le “radici” della sua famiglia di stirpe armena che, all’inizio del 1900, ha intrecciato la propria discendenza con quella dei conti Altan di Serravalle.

Il viaggio nella memoria dell’ex moglie di Gianni Morandi – da cui ha avuto i figli Marianna e Marco – è dettagliamene narrato nel libro “Laura Ephrikian. Una famiglia armena” (Sce: Spazio cultura edizioni), presentato nei giorni scorsi a Palazzo Rinaldi di Treviso, con il patrocinio dell’assessorato comunale alla cultura.

Una storia familiare che sa proprio di romanzo, a cominciare dalla vicenda artistica del padre dell’autrice, il maestro Angelo Ephrikian (Treviso, 20 ottobre 1913 – Roma, 30 ottobre 1982). Laureato in giurisprudenza a Padova, iniziò la carriera di magistrato e poi seguì la tipografia avviata a Treviso dal padre Akop, nativo dell’Armenia. Nel contempo coltivò sempre lo studio del violino con determinazione e talento, diventando un direttore d’orchestra di fama internazionale e grande interprete della musica barocca.

Al maestro Ephrikian si deve la riscoperta in era moderna delle opere di Antonio Vivaldi e di altri compositori della sua epoca. Anche i due figli, nati dall’unione con la milanese Bruna Grossi, hanno sviluppato l’amore per l’arte e la musica: Laura, lasciato il Liceo classico Canova di Treviso, nel 1957 si iscrisse all’Accademia di arte drammatica di Milano ed è diventata una delle attrici più note degli anni ’60; il secondogenito Gianclaudio “Gianni” è un noto direttore d’orchestra e compositore.

Angelo Ephrikian era l’unico figlio di Akop e Laura, storia d’amore al centro del racconto autobiografico della nipote, che ha ricostruito le vicende di una famiglia un po’ anomala: “Che è poi la mia storia, quella di una bambina timida e curiosa nata durante la guerra. I miei primi ricordi sono una casa di campagna e una frase che imparai subito a riconoscere: “Arrivano i tedeschi!”.

A queste parole la famiglia si sparpagliava. Mamma via in bicicletta, papà andava con Raul, capo partigiano, per raggiungere i compagni combattenti. Io e il nonno restavamo ad aspettare che tornassero”. La casa era quella di Fregona, dove gli Ephrikian si trasferirono, lasciando l’abitazione nel quartiere Fiera di Treviso, quando Angelo decise di unirsi ai partigiani che agivano nel Cansiglio. Ma i luoghi dell’infanzia e adolescenza dell’autrice sono anche l’ottocentesca villa di Anzano, dimora degli zii Marì e Alberto, il palazzetto liberty di Vittorio Veneto e il casale nelle colline di Ogliano di proprietà del cugino Vittorio Della Porta, che fu il primo sindaco socialista vittoriese dopo la guerra.

Il casato degli Ephrikian (tra i trisavoli c’è anche un pascià) all’inizio del Novecento si è intrecciato con quello dei conti di origine sveva Althann e poi Altan, che in seguito all’avanzata napoleonica lasciarono l’Austria per scendere a Venezia. Nel 1820 il conte Alberto, consigliere di Serravalle, si sposò con la prima Laura dell’albero genealogico familiare e ne ebbe sette figli: Alvise, Arpalice, Marina, Melania, Albertina, Ildeconda e Vespasiano. E’ Albertina che intesse la propria sorte con la famiglia armena. Nonostante l’opposizione del nobile padre, nel settembre del 1868 la contessina Altan andò in moglie a Giuliano Zasso, pittore di buona fama (suoi dipinti si trovano ancora in molte chiese del Veneto) e direttore dall’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Dalla loro unione nacquero cinque figli: Ida, che sposerà l’ingegnere Angelo Della Porta, Clementina, coniugata con Lorenzo Rossi, Elen, Giuliano e Laura.

Laura Zasso, nata l’8 agosto 1880 dopo 20 anni di matrimonio, fu mandata a studiare nel collegio delle Zitelle di Venezia, che accoglieva orfane povere ma di buona famiglia. A 28 anni, nel giugno del 1908, si recò nell’isola di San Lazzaro per cercare notizie sulle opere del padre pittore. E’ così che conobbe il giovane prete Akop Ephrikian, scampato allo sterminio del popolo dell’Ararat ad opera dei turchi. Da questo fatale incontro scaturì una storia romantica e molto travagliata, ricostruita con le 66 lettere d’amore (ritrovate dalla nipote) che la giovane coppia si scambiò prima di unirsi in matrimonio e stabilirsi a Treviso.

Akop, nato il 10 novembre 1873, salvatosi dal rogo in cui perì la sua famiglia, aveva appena 10 anni quando fuggì dall’Armenia a bordo di un bastimento partito da Istanbul e diretto a Venezia. Il giovanissimo profugo dai piedi piagati trovò asilo tra i padri armeni dell’isola di San Lazzaro. Frequentò il seminario, divenne monaco mechitarista (ordine religioso cattolico) con il nome di Padre Soukias e fu nominato direttore della tipografia del monastero, che stampava testi di grande valore culturale. Lasciò tutto, tonaca e direzione della tipografia, quando si innamorò di Laura Zasso, la sposò e ne ebbe l’unico figlio Angelo.

L’attrice non ha mai conosciuto la nonna paterna, ma nella sua prima infanzia è stata accanto a nonno Akop: “Mi chiamava affettuosamente Gaianè, però non mi parlava mai della sua terra lontana. La curiosità sulle sue origini armene mi ha sempre assillato, finché da un vecchio baule celato nel sottoscala di casa ho trovato le 66 lettere, abiti e ricami della nonna, oltre a vari documenti sulle nostre famiglie”.

Nel 2017 Laura Ephrikian è tornata nella terra degli avi. A Erivan ha visitato il mausoleo dei martiri armeni e la mostra delle immagini del genocidio. Ne ha riportato un’impressione fortissima, per le atrocità patite dai compatrioti di Akop. Tanto da sentire la necessità di raccontare in questo libro cosa è accaduto nei secoli al popolo cristiano dell’Ararat, “che i turchi avevano deciso di far sparire”, e che è ancora minacciato dalle mire degli Azeri fiancheggiati dai terroristi finanzianti da Erdogan.

Nella prima autobiografia familiare edita dieci anni fa, “Come l’olmo e l’edera” (presentata al Teatro Da Ponte di Serravalle), Laura si firmava con il cognome d’arte che le suggerì Vittorio De Sica, Efrikian e non Ephrikian. In questo terzo libro (il secondo si intitola “Incontri”) ha ripristinato il “ph”, per ribadire l’origine armena e ripercorrere il film di un’esistenza vissuta pienamente, tra grande felicità e giorni di dolore (la morte dell’amato padre e la fine del matrimonio con Gianni Morandi), i trascorsi successi artistici, la passione per la pittura e la decorazione d’interni. Il presente è ricco di attenzione verso chi ha bisogno. Due mesi all’anno l’attrice lascia Roma, dove vive stabilmente, per recarsi in Kenia ad adoperarsi a favore dei bambini dei villaggi più isolati, a cui assicura istruzione, cibo, acqua e cure sanitarie.

Ma prima di tutto c’è la Laura nonna innamoratissima dei cinque nipoti, i figli di Marianna e Marco. Il libro lo ha scritto pensando prima di tutto a loro, come ulteriore gesto d’amore: “Non voglio andarmene senza lasciare su questa terra una mia pur fragile testimonianza. Voglio che i frammenti del mio romanzo familiare si leghino ai ricordi più recenti. Voglio che i morti non siano morti per sempre. Voglio che i miei nipoti mi conoscano per davvero e che, per mio tramite, sappiano di più su loro stessi e sull’albero che ha dato vita ai loro rami e senza il quale essi non sarebbero mai nati”.

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Nagorno Karabakh, si riaccende il conflitto?/ “A grave rischio la popolazione locale” (Il Sussidiario 31.03.22)

Non solo la guerra in Ucraina. C’è un’altra zona nella quale rischia di riaprirsi un conflitto, ancora una volta con la Russia protagonista. Parliamo della regione del Nagorno-Karabakh, tra Armenia e Azerbaigian, che si contendono la zona. Le autorità armene hanno parlato di situazione “tesa” nella regione, proponendo alle autorità di Baku di collaborare per “un accordo di pace globale”.

Nella regione del Nagorno-Karabakh, poco più di un anno fa si è svolto un conflitto tra Amernia e Azerbaigian, guidate rispettivamente da Russia e Turchia. A trionfare nel conflitto, gli azeri. Da Mosca accusano Baku di aver violato l’accordo di cessate il fuoco del 2020, lanciando attacchi con i droni. L’Azerbaigian respinge l’accusa e la rimanda al mittente. La nota delle autorità armene recita: “Richiamando l’attenzione della comunità internazionale sul rischio di scontri militari in Nagorno-Karabakh e al confine tra Armenia e Azerbaigian, il Consiglio di sicurezza armeno ritiene che debbano essere attivati meccanismi internazionali di deterrenza al fine di prevenire una nuova escalation militare nella regione e una pulizia etnica”. La situazione della popolazione locale preoccupa: si rischia infatti di avere nuovamente migliaia di morti e feriti, come poco più di un anno fa.

Giulio Centemero, deputato della Lega, ha parlato della situazione in Nagorno Karabakh ai microfoni di Askanews: “Mi rincresce constatare che nell’attuale già drammatica situazione internazionale, si sia aperto un secondo fronte nel Caucaso meridionale, mettendo gravemente a rischio la pace e la sicurezza dell’intero continente europeo.

Secondo quanto si apprende da fonti di stampa si sono verificate diverse azioni di conflitto nel territorio del Nagorno – Karabakh in violazione della tregua stipulata il 9 novembre 2020, che hanno provocato morti e feriti. Siamo di fronte al perpetrarsi di una crisi umanitaria severissima che sta colpendo duramente la popolazione del Nagorno – Karabakh, rimasta persino senza gas naturale per circa un mese a causa del danneggiamento dell’unica condotta di rifornimento. È necessario che riprendano costruttivamente i negoziati di pace e si abbandoni la via della violenza”.

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Le ripercussioni della guerra in Ucraina nel Caucaso (Tag43.it 31.03.22)

Nagorno Karabakh, nuova escalation (Osservatorio Balcani e Caucaso e altri 30.03.22)

Per più di un anno in Nagorno Karabakh il cessate il fuoco concordato dopo il conflitto del 2020 ha retto. Ci sono stati scambi di fuoco fra Armenia e Azerbaijan, ma il più delle tensioni hanno riguardato i vecchi-nuovi confini fra i due paesi, cioè i confini di stato che Yerevan e Baku si sono trovate ad avere una volta che il cuscinetto del territorio del Karabakh come era uscito dalla prima guerra è stato rimosso.

Le profonde differenze fra gli scontri transfrontalieri e quelli nel territorio di quel rimane del Karabakh sono la natura del contendere, e la presenza o meno di una forza d’interposizione. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’assenza di un accordo sul perimetro dei confini è l’origine degli scontri transfrontalieri, anche se c’è un accordo di fondo sulla legittimità dei due territori separati. Armenia e Azerbaijan si riconoscono reciprocamente, ma non sono d’accordo su dove inizia uno e finisce di conseguenza l’altro. Per il Karabakh è diverso: l’Azerbaijan non ne riconosce l’esistenza. Non esiste per Baku quel territorio e quella specificità locale. Per Baku è tutto Azerbaijan e gli armeni che vi risiedono sono cittadini azeri che devono accettare la giurisdizione di Baku e temporaneamente vi sono dei peacekeeper russi.

Questo porta direttamente alla seconda differenza: sui confini di stato armeno-azeri non ci sono forze di interposizione, in Karabakh invece c’è un contingente di circa 2000 uomini di Mosca, sul cui operato però ora piovono critiche da ambo le parti.

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Nagorno-Karabakh, “rischio escalation militare”. Nuovo fronte che coinvolge la Russia (Il Giorno 29.03.22)


Come la guerra in Ucraina agita le acque in Asia (Lanuovabq 29.03.22)


Il Caucaso e la guerra in Ucraina: tra astensionismo e supporto (Ilcaffegeopolitico 29.03.22)


Si riapre il fronte del Nagorno Karabakh: la Russia sempre protagonista (Eastwest.eu 29.03.22)


La “minaccia di escalation militare” nel Nagorno-Karabakh La Russia è su un nuovo fronte. (Tebigeek 29.03.22)


Kiev chiama, l’Azerbaijan riapre il fronte Nagorno-Karabakh (Il manifesto 29.03.22)


#UKRAINERUSSIAWAR. Nagorno-Karabakh e gli interessi azeri anti-russi (Agcnews)


Guerra Russia-Ucraina, l’attivista dei Fridays for Future russi: “L’Ue smetta di comprare combustili da Mosca, così finanzia il conflitto” (Ilfattoquotidiano)

Italia-Armenia: in scena a Jerevan “La Traviata” di Verdi (Aise 30.03.22)

JEREVAN\ aise\ – In occasione del trentesimo anniversario dello stabilimento delle Relazioni Diplomatiche tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Armenia, è stata organizzata la rappresentazione de “La Traviata” di Giuseppe Verdi.
L’evento si è tenuto lo scorso 24 marzo al Teatro Nazionale Accademico dell’Opera e del Balletto “Alexander Spendiaryan” di Jerevan e che è stato presentato dall’Ambasciatore d’Italia in Armenia, Alfonso Di Riso.
Presente all’iniziativa, il Vice Ministro degli Affari Esteri armeno, Paruyr Hovhannisyan, oltre a numerosi rappresentanti delle autorità locali, del corpo diplomatico e del mondo della cultura. (aise) 

Giornalista armena scappata da Kiev con le figlie ora accolta in Friuli (Rainews 30.03.22)

E’giunta in Italia lo scorso 4 marzo da Kiev attraverso la Polonia dopo un lungo viaggio per scappare dalla guerra e mettere in salvo le figlie di 14 e 16 anni. E’ la storia di Maira corrispondente di alcuni giornali Armeni dalla capitale dell’Ucraina. Vedova con una bambina diabetica arrivata in Italia a Cortina ha passato alcuni giorni presso una famiglia armena a Pozzuolo del Friuli adesso è ospite del seminario di Castellerio a Pagnacco con altre 20 famiglie.

Nel servizio Maira Ghazaryan, giornalista

Martedì, all’Università di Messina, presentazione del libro “Syrian Armenians and the Turkish Factor” (98zer.com 30.03.22)

Martedì 5 aprile, alle ore 12:30, l’Aula B dell’ex Dipartimento di Farmacia (Polo Didattico Universitario Annunziata) ospiterà la presentazione del libro dei proff. Marcello Mollica e Arsen Hakobyan dal titolo “Syrian Armenians and the Turkish Factor: Kessab, Aleppo and Deir ez-Zor in the Syrian War”.

Dialogheranno con gli autori i proff. Giuseppe Giordano, Direttore del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (Dicam), Salvatore Speziale, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa e del Vicino Oriente (Dicam) e Francesco Pira, docente di Teorie Tecniche del Linguaggio Giornalistico (Dicam).

Il volume esamina le trasformazioni sociali generate dal conflitto siriano nelle vite degli armeni siriani. Gli autori attingono a materiale documentario e lavoro sul campo svolto tra il 2013 e il 2019 tra armeni siriani in contesti urbani armeni e libanesi. Le storie rivelano come gli eventi contemporanei siano visti avere diretti legami con il passato e riproducono ricordi legati al genocidio armeno; il coinvolgimento della Turchia nella guerra siriana è così letto come tentativo di controllare, o financo di eliminare, la presenza armena in Siria.

L’identità siro armena racchiude complesse interazioni tra memoria, reti transnazionali, identità collettiva ed esperienze della ‘quotidianità’ durante la guerra. Nello specifico, il libro guarda al ruolo della memoria durante alcuni eventi determinanti: il bombardamento di siti storici armeni durante le commemorazioni del 24 aprile nella città siriana orientale di Deir ez-Zor; il passaggio dalla distruzione della cultura materiale siroarmena al tentativo di distruggere la stessa comunità nell’area urbana di Aleppo; e le transazioni informali che avvengono nella zona di confine di Kessab.

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Messina: sarà presentato libro sulle trasformazioni sociali generate dal conflitto siriano nelle vite degli armeni siriani (amnotizie 30.03.22)

Gli armeni di Leopoli, ‘Noi siamo con Kiev’ (Ansa 30.03.22)

Sono gli armeni di Leopoli e, sin dal primo giorno, non hanno mai avuto un dubbio: “Essere al fianco dell’Ucraina”. A spiegarlo in un intervista all’ANSA è Tigran Aryutinov, portavoce di una comunità che da secoli abita nella capitale dell’Ovest del Paese. “Un tempo qui c’erano cinque chiese e sei monasteri, ora ne è rimasta una, ma è bellissima”, racconta Aryutinov, imprenditore edile di mestiere, volontario sin dall’inizio del conflitto per vocazione. “Ogni armeno sta dando una mano come può, ci sono i ristoratori che cucinano per gli sfollati e coloro che hanno deciso di arruolarsi”.
L’Armenia, Paese considerato piuttosto vicino alla Russia soprattutto nel contesto della guerra del Nagorno-Karabakh, è rimasta in posizione abbastanza defilata dall’inizio della guerra. Ma Tigran fa una distinzione tra l’azione del governo e il volere del popolo. “La nostra politica guarda alla Russia da anni ma la popolazione no. Anzi, è contro l’influenza di Mosca e ci sentiamo traditi da Putin. Dall’inizio della guerra ci sono state già 12 manifestazioni di protesta a Yerevan”, racconta il portavoce degli armeni di Leopoli. Gettando un’ombra sull’equilibrio, già molto fragile, tra il suo Paese e l’Azerbaigian. “Gli effetti della guerra in Ucraina sul Nagorno-Karabakh già sono cominciati. Il rischio è che in due-tre mesi l’Azerbaigian se lo riprenda”.
Anche perché, secondo Tigran, la guerra sarà molto lunga.
“Il conflitto è appena cominciato”, premette, spiegando di non essere stato per nulla sorpreso né dall’offensiva russa del 24 febbraio né dal mancato intervento della Nato. “L’Ucraina è il terreno di scontro tra Occidente e Mosca. Attraverso questa guerra il primo vuole indebolire la seconda”, sottolinea. Del resto – aggiunge – “chi ha vissuto il 2014 sapeva benissimo che prima o poi questo momento sarebbe arrivato”. Più scontato, forse, il suo scetticismo per il ruolo della Turchia nei negoziati. “Ma non c’entra la questione del genocidio, non è stato certo Recep Erdogan a perpetrarlo. Il tema è che io di lui non mi fido. Erdogan è solo amico di se stesso e non ha mai giocato pulito”, spiega Aryutinov. Il suo tono, tuttavia, trasuda solo realismo. “Qui siamo consapevoli che il conflitto durerà, è il momento di dare una mano. D’altra parte in questa città tutte le religioni hanno sempre convissuto nella maniera più pacifica”.

La guerra di Putin eccita Nord Corea, Cina e Azerbaigian (Tempi 28.03.22)

Kim Jong-un minaccia il mondo con un missile balistico intercontinentale; Xi Jinping aumenta la pressione su Taiwan; Baku torna a invadere l’Artsakh. La Russia in Ucraina ha aperto un vaso di pandora

La Corea del Nord ha testato il lancio del più grande missile intercontinentale mai costruito; la Cina «ha aumentato la pressione su Taiwan» aumentando i timori di un’attacco contro l’isola; l’Azerbaigian, approfittando della distrazione della comunità internazionale, ha invaso di nuovo il Nagorno Karabakh a danno degli armeni dell’Artsakh. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin potrebbe aver aperto un vaso di pandora, eccitando le velleità militari di molti paesi.

La Nord Corea torna a fare paura

L’iniziativa più preoccupante è sicuramente quella di Pyongyang, che giovedì ha testato il missile balistico intercontinentale (Icbm) Hwasong-17 violando le risoluzioni dell’Onu. Sono passati cinque anni da quando la dittatura di Kim Jong-un ha testato l’ultimo Icbm e secondo il Carnegie Endowment for International Peace il lancio rappresenta «una pietra miliare» per l’arsenale atomico nordcoreano.

Il Hwasong-17 era stato mostrato per la prima volta dalla Nord Corea a una parata militare del 2020. Il lancio, avvenuto alla presenza di Kim Jong-un, come sottolineato dalla propaganda nordcoreana è stato un «successo»: dopo essere volato a un’altezza di 6.000 km per oltre un’ora, percorrendo una distanza di 1.090 km, è caduto nelle acque della zona economica esclusiva del Giappone. Secondo gli esperti, se lanciato su una traiettoria standard, il missile, che può essere armato con una testata atomica, sarebbe in grado di volare per oltre 13 mila km e colpire qualunque città degli Stati Uniti.

«Lotta all’imperialismo americano»

Come reso noto dall’agenzia statale Kcna, Kim ha dichiarato che il nuovo missile balistico intercontinentale «renderà di nuovo chiaramente consapevole il mondo intero del potere delle nostre forze armate strategiche. Il nostro paese ora è del tutto pronto per un confronto di lungo periodo con gli imperialisti statunitensi».

Pronta la risposta della Corea del Sud: il presidente Moon Jae-in ha ordinato il lancio di missili balistici e tattici (guidati in volo) verso il mare. Il comando militare sudcoreano si è dichiarato «pronto e capace di effettuare strike di precisione contro i siti degli ordigni nordcoreani e i loro sistemi di comando e controllo, in caso di necessità».

Aumenta la pressione della Cina su Taiwan

Preoccupante è anche l’attivismo della Cina nei confronti di Taiwan. Secondo l’ammiraglio John Aquilino, a capo del commando americano nell’Indo-Pacifico, Pechino sta aumentando la sua assertività nei confronti dell’isola e nel Mar cinese meridionale. «Nessuno di noi cinque mesi fa avrebbe mai previsto l’invasione dell’Ucraina. [Anche quella di Taiwan] può davvero accadere, dunque», ha dichiarato Aquilino al Financial Times.

«La Cina», continua Aquilino, «ha aumentato la pressione su Taiwan con attività marittime e operazioni aeree. Non sto dicendo che sono più preoccupato di prima, ma constato che la pressione è in aumento e dobbiamo essere pronti».

L’Azerbaigian invade ancora l’Artsakh

Calpestando il diritto internazionale e l’accordo firmato nel 2020 di nuovo, l’Azerbaigian il 23 marzo ha occupato il villaggio di Parukh, nell’Artsakh. L’esercito è entrato, armi in mano, senza sparare ma terrorizzando la popolazione, che è stata subito evacuata per evitare il peggio. Colloqui tra Armenia, Azerbaigian e Russia sono in corso per costringere l’esercito azero a retrocedere.

Anche il vicino villaggio di Khramort è stato evacuato dalle autorità dopo che si sono verificati scontri a fuoco tra armeni e azeri. Cinque soldati dell’Artsakh sarebbero rimasti feriti negli scontri e cinque azeri sarebbero morti.

La situazione nel Nagorno Karabakh è sempre più tesa dopo che lunedì le autorità azere hanno interrotto il passaggio di gas verso le città controllate dall’Artsakh, lasciando gli abitanti al gelo con le temperature che scendono anche a meno dieci gradi. Le tubature passano infatti dal territorio conquistato nel 2020 da Baku e le autorità avrebbe manomesso il condotto aggiungendo una valvola per aprire e chiudere il passaggio del gas a piacimento.

Putin ha aperto un vaso di Pandora

L’Artsakh, come denunciato dal premier armeno Nikol Pashinyan, «è sull’orlo della catastrofe umanitaria». Nonostante l’accordo sul cessate il fuoco, infatti, le autorità di Baku continuano a rendere la vita impossibile alla popolazione dell’Artsakh nel tentativo di costringerla ad abbandonare le proprie case.

Il disprezzo per il diritto internazionale dimostrato dalla Russia in Ucraina ha scatenato gli appetiti di superpotenze e attori regionali, che seguendo l’esempio di Putin potrebbero decidere di forzare la mano e lanciare campagne militari per ottenere conquiste territoriali.

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Artsakh – Azeri attaccano gli armeni e la Russia chiede il rispetto della tregua (Assadakah 28.03.22)

Letizia Leonardi (Assadakah Roma News) –

Dopo giorni di sabotaggi e attacchi azeri sulla popolazione armena del Nagorno Karabakh (Artsakh) è finalmente intervenuta la Federazione Russa. Il Cremlino ha invitato l’Azerbaijan a rispettare gli accodi di pace firmati, dopo la recente sanguinosa guerra dei 44 giorni, il 9 novembre del 2020. Viste le crescenti tensioni, che di verificano nella regione caucasica, non è stato escluso il potenziamento del contingente di pace russo A parlare di questa eventualità è stato il portavoce presidenziale russo Dmitry Peskov. Il Ministero della Difesa ha invitato le parti ad applicare gli accordi. La Russia ha accusato, per la prima volta, dopo la fine del conflitto, l’Azerbaijan di aver violato il cessate il fuoco, procurando diverse vittime e feriti di parte armena e ha invitato Baku a ritirarsi dai territori occupati.

Il Ministero della Difesa russo ha anche accusato le truppe azere di usare droni, forniti dalla Turchia, per colpire l’esercito di difesa armeno e colpire obiettivi militari ma anche civili.

Nonostante l’indifferenza del mondo, suscita preoccupazione, al Cremlino, l’escalation di atti belligeranti compiuti dagli azeri in queste ultime settimane. Il presidente Vladimir Putin, in questi giorni, ha parlato della situazione del Nagorno Karabakh con il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan.

La Russia ha esortato l’Azerbaigian a ritirare le truppe dalle zone occupate e di rispettare gli accordi trilaterali. L’Azerbaijan non è intervenuta in modo ufficiale ma è notizia di queste ultime ore il ritiro delle truppe azere da Parukh, che è adesso sotto il controllo della forza di pace russa ma ancora si attende il ritiro dell’Azerbaijan dagli altri territori occupati.

L’Armenia continua comunque a chiedere l’intervento della Comunità Internazionale per il riconoscimento dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh. Finché non avverrà questo fondamentale passo resterà una situazione congelata, destinata a provocare continue tensioni. L’invasione di Parukh è stata infatti preceduta da bombardamenti, inviti all’evacuazione e atti di violenza.

La popolazione armena sta lanciando da giorni grida di aiuto anche per una possibile “catastrofe umanitaria” in Karabakh, dopo che gli azeri hanno danneggiato il gasdotto e impedito il ripristino della conduttura, lasciando circa 100 mila persone al gelo.

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La Russia accusa l’Azerbaigian. Si riaccende il Nagorno-Karabakh, tra tregue violate e gas tagliato (Huffington Post 28.03.22)


Putin minaccia il gas ‘italiano’, è scontro con l’Azerbaigian (Europatoday)


Nagorno Karabagh. Mosca Accusa Baku di Violare il Cessate il Fuoco. (Stilum Curiae)