Nagorno-Karabakh: Parlamento Ue, preoccupazione per relazioni su tortura prigionieri armeni (AgenziaNova 20.05.21)
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COMABBIO – L’incantevole borgo di Comabbio, che si affaccia sulle rive dell’omonimo lago, è pronto ad accogliere visitatori, famiglie e appassionati di cultura per il secondo weekend all’insegna della cultura armena che si svolgerà dal 21 al 23 maggio nei luoghi amati dal pittore Lucio Fontana. Gli eventi in presenza, programmati nel massimo rispetto delle norme di sicurezza antiCovid, sono rivolti a un ampio pubblico e comprendono momenti conviviali con i piatti tipici che i ristoratori proporranno secondo le ricette suggerite da Verjin Manoukian.

Gli incontri rientrano nello slalom finale di “Comabbio racconta l’Armenia”, rassegna di respiro internazionale organizzata dal Comune. Un progetto di vasta portata che ha raccolto il contributo dei più importanti studiosi e conoscitori della cultura armena provenienti da Italia, Armenia, Stati Uniti e Turchia, con conferenze online che in marzo e aprile sono state seguite da una vasta platea di pubblico e studenti. Il weekend si aprirà domani, venerdì 21 maggio, con la proiezione dell’opera del regista armeno-canadese Atom Egoyan sull’impatto dei sentimenti durante le riprese di un film sul genocidio armeno e proseguirà sabato 22 con il laboratorio sui khachkar per ragazzi di 14-18 anni a cura della biblioteca di Comabbio.

Nel pomeriggio si terranno tre conferenze: “Vardges Sureniants (1860-1917). Un pittore armeno tra romanticismo e simbolismo” di Marco Ruffilli, “La Repubblica d’Armenia dall’indipendenza ad oggi” di Aldo Ferrari, professore di storia, lingua e letteratura armena all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e “L’Italia tra Turchia, Armenia e Azerbaigian” dell’analista geopolitico Andrea Gaspardo. La giornata si concluderà con il reading teatrale mise en espace “Canta, gru, canta”, libero adattamento dagli scritti di Antonia Arslan e Daniel Varujan del regista teatrale Giulio Campari, messo in scena dalla compagnia CamparIPadoaN.

Gran finale domenica 23 maggio con l’incontro per bambini di 4-6 anni “Fiaba colorata di Hovhanness Tumanyan” con Tommaso Pusant Pagliarini, di Audio Fiabe Colorate, e Gayanè Khodaveerdi: nel pomeriggio è in programma la presentazione del libro “Voci nel deserto” di Piero Kuciukian, console onorario della Repubblica d’Armenia in Italia, e a seguire la tavola rotonda “Una primavera armena” nella quale interverranno il professore Aldo Ferrari, il console onorario d’Armenia Pietro Kuciukian, l’esperto di arte e cultura armena Marco Ruffilli, l’analista geopolitico Andrea Gaspardo e l’esperta di viaggi dall’Armenia Shushan Martirosyan. L’incontro sarà moderato dal docente Massimo Rolandi e si concluderà con i saluti finali del sindaco Marina Paola Rovelli.

Gli eventi della rassegna si inseriscono nell’ambito del progetto “Il paese racconta un Paese” del Comune di Comabbio che intende promuovere la conoscenza di un luogo attraverso la sua storia, la cultura, le tradizioni, le caratteristiche del territorio e della popolazione. Ente capofila è il Comune di Comabbio, assessorato alla Cultura, con la collaborazione dei Comuni limitrofi, della biblioteca e della parrocchia di Comabbio, il Borgo di Lucio Fontana, gli Amici della Santa Collina e la Compagnia CamparIPadoaN. La rassegna ha ottenuto il patrocinio dell’Unione Armeni d’Italia, del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena, della Congregazione Mechitarista Associazione Padus Araxes. Per seguire gli incontri è necessario effettuare l’iscrizione sul sito https://comabbioraccontalarmenia.blog.
La sera dell’8 aprile una folla si raduna all’aeroporto di Yerevan. C’è aria di festa. I tantissimi famigliari presenti degli oltre duecento prigionieri di guerra ancora detenuti in Azerbaijan, militari e civili, sono in trepidante attesa: un’attesa che si trascina dal 10 novembre, entrata in vigore del cessate il fuoco che ha sospeso, senza alcun accordo di pace, l’ultima guerra in Karabakh. Molti di questi prigionieri, come confermato da un’indagine di Human Rights Watch, hanno subito abusi e torture (peraltro filmate e condivise sui social media in modo sistematico). Si profila la fine di un incubo. Ma l’aereo, partito da Mosca e transitato a Baku, atterra vuoto. Non un solo prigioniero accompagna Rustam Muradov, comandante delle truppe russe in Karabakh. Che, come se non bastasse, accusa subito il governo armeno: “Hanno ingannato la popolazione”. Il tutto, si badi bene, dopo che il premier armeno Pashinyan era appena rientrato da un incontro con Putin a Mosca.
Non passa neppure un mese dall’incidente quando Artak Zeynalyan, che rappresenta gli interessi dei prigionieri alla Corte europea dei diritti umani, annuncia la morte di 19 di questi. Uno sfregio per la popolazione e il governo armeno, appena usciti da una sconfitta cocente.
Il tutto mentre da mesi in Karabakh si continua a sparare. Si sparava anche quand’ero lì, a fine dicembre e a capodanno: all’esatto scocco della mezzanotte alla periferia di Stepanakert, il centro maggiore della regione, sono partiti scambi di arma da fuoco per alcune ore, in un’atmosfera spettrale: strade deserte, ad eccezione di auto che sfrecciavano a tutta velocità verso il luogo dell’escalation. Apro Twitter, di solito la migliore fonte di informazione in tempo reale, soprattutto sul Caucaso. Silenzio dai media armeni e internazionali, silenzio completo. Tantissimi i racconti da parte dei civili, in quella cittadina e nei villaggi, di colpi notturni contro le abitazioni civili e gli animali, e quando visito di giorno Martakert, poco prima, sentiamo ancora spari. Restano poi gli ordigni inesplosi: l’intero territorio ne è disseminato.
Ma non è tutto: da mesi, ancora una volta dopo la guerra, si riportano incursioni dell’esercito azero in Karabakh e in Armenia, contro un esercito sconfitto e in grave difficoltà. A tal proposito, ricordo il racconto di alcuni civili dopo una di queste incursioni: raccoltisi di fronte alla più vicina postazione militare russa, chiedono aiuto e protezione. Hanno paura: la guerra, segnata da bombardamenti incessanti sui centri abitati del Karabakh, è ancora fresca. Ma i russi, ufficialmente in missione di peacekeeping, non si muovono. E anzi: impediscono in modo sistematico ai giornalisti stranieri di entrare in Karabakh (sono stato fra gli ultimi a entrare, e non senza difficoltà).
Il caso più eclatante è però degli ultimissimi giorni: un’incursione di alcuni chilometri, da parte dell’esercito dell’Azerbaijan, nel sud dell’Armenia. Il tutto fatto, ancora una volta, con perfetto tempismo, mentre gli occhi del mondo sono puntati sul conflitto israelo-palestinese. A protestare, a livello governativo: Francia, USA e Canada; mentre la Russia, pur nell’accordo di cooperazione militare che la lega all’Armenia (nonostante, peraltro, esporti armi anche a Baku) si mantiene in un primo momento defilata, salvo poi intervenire in sordina – passati alcuni giorni – nell’intento ufficiale di trovare una mediazione. Dietro quest’episodio, anche un importante progetto di infrastrutture che transiti da Iran, Armenia e Georgia, e che – non è la prima volta – si vuole impedire.
Ora, quello che si sta profilando in tutta evidenza è che i nuovi padroni del Karabakh – Russia, Azerbaijan e Turchia – dopo aver scalzato l’Europa e gli USA dal tavolo della diplomazia e della pace, vogliano dare una direzione ben precisa alle elezioni armene del 20 giugno. E lo fanno, come di abitudine a Mosca, giocando sporco: screditando, manu militari, un governo – quello armeno – che pur fra i tanti errori compiuti durante e dopo la guerra, rimane espressione di una rivoluzione nonviolenta e democratica che, appena tre anni or sono, aveva voltato le spalle a un passato dominato da oligarchi, corruzione e violenza.
Non sarà un caso che, passando ancora una volta da Mosca, il processo contro l’ex-presidente Robert Kocharyan – accusato di essere responsabile della morte di 10 manifestanti durante le elezioni del 2008 – sia stato bloccato. Non solo: da notare come, di ritorno ancora dalla capitale russa, l’oligarca Kocharyan, campione indiscusso di corruzione, violenza e brogli elettorali, sia stato scelto a leader dell’opposizione armena.
Per anni, e ancora durante la guerra, pessimi giornalisti e analisti allo sbaraglio ci hanno voluto raccontare il conflitto del Karabakh come una guerra per procura russo-turca, con tanto di calcoli inutili e previsioni infondate. Un’idiozia, come si è visto alla prova dei fatti, e come si vede ancora oggi, quando i tre autocrati (Putin, Aliyev ed Erdogan) che spadroneggiano nel Caucaso del Sud, hanno trovato ancora una volta una corrispondenza di amorosi sensi nel cercare di mettere il punto (di un proiettile) alla già fragile democrazia armena, dopo aver spacciato una pace che non esiste (nella realtà dei fatti) in Karabakh.
Ora, se gli armeni vorranno Kocharyan o Pashinyan, devono poter essere liberi di sceglierlo da soli, senza interventi guidati (e violenti) dai soliti autocrati. L’irritazione provata da Mosca per la Rivoluzione di velluto che ha portato al governo quest’ultimo è più che nota e non ha bisogno di spiegazioni. Ora, mentre in Germania cadono una dopo l’altra le carriere dei servitori politici di Aliyev, mentre gli USA e la Francia cercano come possono di rimediare al vuoto politico lasciato (anche in questo contesto) da Trump, l’Italia dorme sonni pesanti, immersa nei fumi di petrolio e gas che importiamo da Baku.
Me è un errore: la fine della democrazia in Armenia avrebbe effetti importanti anche al di fuori del Paese, e potrebbe essere un’ottima testa d’ariete per “rimettere in ordine” anche la vicina Georgia, che vive una stagione di crisi e contraddizioni. Per non parlare della lezione indelebile – nello spazio ex-sovietico – per chi provasse a sollevarsi da oligarchi e autocrati di turno, in uno spazio che va dall’Asia Centrale fino al cuore della nostra Europa.
Gli armeni, dopo la guerra, hanno dimostrato una grande forza a resistere alle sirene della violenza e della dittatura (prospettiva, questa, che si profila sempre dopo sconfitte di tale portata). Abbiamo un debito morale nei confronti dell’Armenia: quello di supportare una democrazia che rischia di implodere sotto i colpi congiunti di Mosca, Baku e Ankara.
L’Europa batta un colpo. E torni ad accendere i riflettori sull’Armenia in questo mese che ci separa dalle elezioni. Un voto, questo, in cui è facilissimo immaginare tentativi di brogli, oltre a nuovi colpi di mano politici e militari che falsino completamente la competizione democratica.
So che in molti, fra i rappresentanti della società civile e della politica in Italia, si sentono in colpa per non aver impedito una carneficina di civili in Karabakh, nell’ultima guerra. Lo so dalla loro diretta testimonianza. Ma questo non è il tempo di versare lacrime. È tempo di essere vigili e attivi. L’Armenia, eterna fenice, potrà forse rinascere, come ha fatto tante volte nella storia, ma solo a patto che si fermi la mano di chi oggi vuole soffocarla nella cenere.
Erevan accusa Baku di sconfinamento territoriale e chiede l’intervento della Russia, che nel conflitto del Nagorno Karabakh riveste un ruolo fondamentale per la mediazione
Uno sconfinamento territoriale dell’esercito dell’Azerbaijan in Armenia ha provocato l’ira di Erevan, con il Primo Ministro Nikol Pashinyan che ha parlato di “atto di infiltrazione sovversiva”, chiedendo l’intervento della Russia. Le truppe azere sarebbero penetrate per 3.5 chilometri verso il lago Sev in un’area di confine non ancora del tutto delineata. Ora la Russia potrebbe aiutare i due Paesi a stabilire definitivamente il tracciamento territoriale, come proposto dal Ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Si torna a parlare, così, delle due nazioni scontratesi recentemente nel Nagorno Karabakh, che nel mese di novembre 2020 ha visto la débâcle armena e una crisi politica interna senza precedenti.
Pashinyan ha chiesto a Mosca un intervento militare nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, dal quale l’Azerbaijan è uscito del 1999. Lavrov ha affermato che “la richiesta dei nostri colleghi armeni è stata presa in considerazione e abbiamo discusso lo stato delle relazioni tra Erevan e Baku”. Possibile la creazione di una commissione congiunta Armenia-Azerbaijan, con Mosca che “potrebbe prendere parte come consulente, come mediatore”, ha specificato il Ministro degli Esteri russo.
La Russia gioca un ruolo fondamentale nell’area caucasica e, ancor di più, nel conflitto del Nagorno Karabakh: la presenza della Federazione permise il raggiungimento del cessate-il-fuoco nell’ultimo conflitto. Insieme alla Turchia, venne firmato un Memorandum of Understanding per la creazione di una forza di peacekeeping per il monitoraggio e l’implementazione dell’accordo. La nuova fiammata nelle tensioni tra Erevan e Baku preoccupa, ma le parti non sembrano intenzionate a esacerbare la situazione.
Lo sconfinamento sarebbe scaturito da vecchie mappe sulle quali gli azeri avrebbero basato i loro calcoli per gli spostamenti di truppe. “Le misure di rafforzamento dei sistemi di protezione del confine sono state implementate all’interno dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan, considerando le mappe a disposizione di entrambe le parti e sulla definizione della linea di confine”, si giustifica Baku.
Delimitazioni territoriali dell’era sovietica, che ancora non hanno trovato un accordo definitivo tra i due Paesi. La Russia prova ad aiutare Erevan e Baku per mettere fine a una diatriba di lunga durata che sfocia in episodi che rischiano di alimentare la fiamma dello scontro.
di LETIZIA LEONARDI ♦
L’Armenia ci sembra una terra lontana d’oriente, legata all’occidente per le sue radici cristiane ma pochi sanno che, nel 114, fu anche un’antica provincia dell’impero romano, ordinata dall’imperatore Traiano. Abbandonata da Adriano ritornò sotto il dominio romano dopo le guerre contro i Parti. L’Armenia di allora comprendeva i territori dell’attuale Turchia orientale, Armenia, Georgia, Azerbaijan e una piccola parte dell’Iran nord-occidentale. Quando Pompeo conquistò il territorio, Tiridate I fu incoronato, nel 66 d. C., da Nerone re d’Armenia in una solenne cerimonia svoltasi a Roma ed è plausibile che ci fu sicuramente la presenza nella nostra capitale di considerevoli gruppi di armeni. Secondo un’antica memoria pare che i Cavalli di San Marco siano stati in origine portati in dono a Nerone proprio dal re d’Armenia Tiridate I, in occasione di questa cerimonia.
La presenza armena in Occidente comincia a farsi considerevole a partire dall’Alto Medioevo (dal 476 dopo Cristo). Erano mercanti ma anche religiosi. Era gente di professioni e provenienze diverse. Sapevano molte lingue, erano grandi viaggiatori, bravi negli affari e abituati a un destino avverso che li portava a fuggire dal loro Paese d’origine. Arrivavano in Italia dal regno di Cilicia e dove si insediavano edificavano chiese, ospizi che accoglievano pellegrini e scuole.
A parte l’episodio dell’incoronazione del Re Tiridate I, la più antica menzione di armeni a Roma si trova negli atti del Concilio Ecumenico Laterano del 649 per la presenza di due abati armeni: Thalassio, priore del monastero degli Armeni e Giorgio, priore del monastero di Cilicia, che si trovava vicino al luogo dove fu decapitato S. Paolo apostolo, lungo la via Ostiense. Anche Roma, grazie ai pellegrinaggi, ha ospitato, sin dal XIII sec. una fiorente comunità armena, che aveva, come attesta un’epigrafe del 1246, un monastero, una chiesa e un ospizio, di cui però non esiste attualmente traccia. Secondo alcune testimonianze, nell’IX sec., gli armeni avevano a Roma, in una via vicino al palazzo del Vaticano, una vecchia casa e una chiesa dedicata alla Vergine Maria e a San Gregorio Illuminatore che papa Clemente II avrebbe restaurato e abbellito. La via si chiamava via degli armeni. In piazza S, Pietro, nel XIII sec. c’era un’altra piccola chiesa con un monastero che ospitava 12 monaci e ricordata come cappella di S. Giacomo degli armeni. In base a un documento originale dell’ospizio armeno si può stabilire con certezza che prima che fosse fatta l’attuale piazza della basilica di S. Pietro, gli armeni avevano una chiesa e un ospizio che furono eliminati nel XVI per costruire proprio l’attuale basilica e per allargare la piazza. L’ospizio era abitato da una cinquantina di persone, per lo più monaci provenienti dalla Cilicia e dall’Armenia orientale e da laici di umile origine. Questa struttura sorgeva in quella che allora era chiamata «contrada degli Armeni» e che corrisponde all’area attualmente compresa tra il colonnato del Bernini, il Palazzo del Sant’Uffizio e la Porta Cavalleggeri.
In sostituzione delle chiese sottratte, Pio IV nel 1563 concesse agli armeni di Roma, la chiesa di Santa Maria Egiziaca, nota come tempio pagano. Oltre a questa chiesa, nel 1566, gli armeni presero possesso anche dell’annesso ospizio. Il cardinale Giulio Antonio Santoro, responsabile della politica pontificia verso gli orientali cattolici, assunse anche la supervisione della comunità armena che, da quel momento, godette sempre in Curia di un cardinale protettore.

Nel 1563 papa Pio IV concesse ai pellegrini armeni anche l’uso della chiesa di San Lorenzo dei Cavallucci, all’estremità del ponte ai Quattro capi. Una concessione molto breve perché tre anni dopo il suo successore Pio V destinò quell’area al ghetto per gli ebrei di Roma. Nonostante questo episodio, anche lui fu un benefattore degli armeni infatti gli fece impiantare una stamperia ed era sua intenzione anche costruire per loro un collegio ma morì improvvisamente e prematuramente, nel 1572, e il progetto saltò.
Vicino alla chiesa di S, Maria Egiziaca, con denaro offerto da benefattori armeni, furono costruite abitazioni per l’accoglienza di persone di passaggio, garantendo così un’entrata alla chiesa. Papa Paolo V, nel 1610, concesse agli armeni un privilegio importante: poter ereditare tutti i beni degli armeni morti a Roma senza lasciare testamento e senza eredi legittimi.
Poiché la chiesa di S. Maria Egiziaca era situata nel lungotevere, c’era molta umidità e l’aria non era salubre tanto che, intorno al 1830 gli armeni furono costretti a lasciare la chiesa. In sostituzione gli fu concessa la chiesa di San Biagio della Pagnotta con gli edifici adiacenti, compreso l’ospizio. Anche la sistemazione nella chiesa di San Biagio non fu però definitiva e quando nel 1883 papa Leone XIII decise finalmente di erigere un Collegio, chiamato Leoniano, per ospitare i seminaristi e gli apprendisti missionari precedentemente la scelta ricadde sul complesso di San Nicola da Tolentino, vicino piazza Barberini. È qui dunque che ancora oggi si trova, oltre alla chiesa, l’archivio dell’ospizio degli armeni che non è però aperto per la consultazione a causa della mancanza di inventario.
E nel 1869 sono state rinvenute diverse lapidi con scritte armene.

Per quanto riguarda l’arrivo dei missionari cattolici, essi provenivano soprattutto da Costantinopoli o Isfahan, e dalle città carovaniere come Erzurum. Uno dei segni armeni più datati conservati a Roma è un’iscrizione armena sul portale bronzeo di San Pietro, dedicata a San Gregorio Illuminatore.
Ma vediamo più da vicino le due chiese armene della capitale tutt’ora esistenti.
La chiesa di S. Biagio della Pagnotta si trova in via Giulia 63 e fu eretta sulle rovine di un tempio di Nettuno. Il 3 febbraio, in occasione del giorno di S. Biagio, esiste ancora l’usanza di ungere con l’olio benedetto la gola dei fedeli e nella Chiesa di S. Biagio di Roma si usa distribuire le così dette “pagnottelle di S. Biagio”, dei pani benedetti.
Ma chi era S. Biagio? Nato a Sebaste, attuale Sivas in Turchia, era giovanissimo quando iniziò a studiare filosofia prima e poi medicina. Nell’esercizio della sua professione di medico, conoscendo molti cristiani, decise di convertirsi al cristianesimo e per questo venne arrestato, sottoposto a torture e condannato alla decapitazione. Oggi la devozione di S. Biagio è diffusa in tutto il mondo, santuari chiese, cappelle, altari dedicati a lui sono in ogni parte.
L’altra chiesa armena di Roma è quella di San Nicola da Tolentino, che si trova nell’omonima salita. Appartiene al Pontificio Collegio Armeno e officia sempre messa in armeno. Si tratta di una chiesa barocca costruita intorno alla metà del 1600 su progetto dell’architetto milanese Carlo Buzzi. Rimase di proprietà dei Padri Agostiniani fino al 1870. Passò poi per un breve tempo alle Suore Battistine e successivamente concessa dal Pontefice Leone XIII al Pontificio Collegio Armeno da lui fondato e inaugurato solennemente il primo di novembre del 1883. Nei primi cento anni della sua vita il Collego ha ospitato circa 270 alunni,160 di questi sono diventati sacerdoti; tre sono diventati patriarchi e diciannove vescovi e arcivescovi. Tra gli anni 1939-1943 è stata costruita la sede odierna del Collegio che si trova proprio accanto alla chiesa. L’8 luglio del 1961, grazie ad una donazione del Cardinale Agagianian, è stata inaugurata la Nuova Biblioteca del Collegio Armeno. La struttura è diretta da un Rettore, un Vicerettore, un Amministratore ed un Padre Spirituale che mantengono la struttura e seguono i seminaristi che intraprendono in Italia il loro percorso di studio in vista del sacerdozio.
E, grazie al Cardinale Gregorio Pietro Agagianian, nel 1966, la Radio Vaticana mandò in onda la prima trasmissione in lingua Armena. Da allora la sezione armena della radio ricopre un ruolo importante di collegamento tra la Santa Sede, l’Armenia e la sua diaspora. Ogni terza domenica del mese, viene trasmessa la santa messa solenne con il Rito Armeno.
A Roma, in via Vincenzo Monti, è presente anche la congregazione delle suore armene dell’Immacolata Concezione, fondata a Costantinopoli, l’attuale Istanbul, durante l’Impero Ottomano, sopravvissuta ai massacri hamidiani e poi, al genocidio del 1915. Le suore dell’Immacolata Concezione furono testimoni dirette dei massacri delle loro famiglie, assistendo i feriti, salvando i bambini rimasti orfani. A partire dal 1915, quando divenne esecutivo l’ordine del governo ottomano di deportare tutti gli armeni e lasciarli morire nelle cosiddette marce della morte nel deserto, senza acqua né cibo, la città di Aleppo (oggi in Siria ma all’epoca in Turchia) era diventata il primo luogo di accoglienza di centinaia di migliaia di deportati che arrivavano in condizioni terribili. C’erano migliaia di orfani strappati ai loro genitori, traumatizzati e denutriti. Alla fine delle ostilità, negli anni Venti, la congregazione creò nuove case a Beirut, Alessandria, e Baghdad. Dopo la tragedia del genocidio, Pio XI decise di accogliere nella residenza di Castelgandolfo, per qualche mese, 400 orfane che diventarono presto 500, accompagnate da 12 religiose. Nel 1922, per motivi di sicurezza, la casa generalizia venne trasferita definitivamente da Istanbul a Roma, sul colle di Monteverde e fu comprata nel 1923 dai Cavalieri di Malta. Nell’edificio, su una lastra di marmo, sono ancora incisi i nomi delle 13 suore martiri, durante il genocidio.
Ed è a Roma che c’è una delle comunità armene più attive d’Italia nel commemorare le vittime del genocidio armeno ogni 24 aprile e nel promuovere il riconoscimento del Metz Yeghérn presso i vari livelli istituzionali per giungere all’obiettivo di annoverare anche il parlamento italiano tra quelli delle nazioni che hanno riconosciuto questo grande crimine, perpetrato dall’Impero ottomano nel 1915, con una apposita legge.
LETIZIA LEONARDI
Nella città di Dmani, un diverbio si è trasformato in rissa e lotta fra le comunità cristiane e musulmane. La città è sulla strada fra Armenia e Azerbaijan. Risolutivo l’intervento del muftì della Georgia orientale e del rappresentante del Patriarcato di Georgia. Le lotte interetniche, un’eredità del passato sovietico.
Mosca (AsiaNews) – Da più di due giorni nella città di Dmanisi si assiste a uno scontro etnico-religioso. Il conflitto si concentra soprattutto nel quartiere di Kvemo Kartli con scontri tra cittadini georgiani, svani [etnia della Svanezia, nord-est del Paese] e azeri. Nella città, dove tre giorni fa si è anche recato Il ministro degli interni Vakhtang Gomelauri, sono schierate ingenti forze di polizia, che hanno isolato il territorio nel tentativo di ripristinare l’ordine pubblico.
Nella città si contano diversi feriti e numerosi arresti. Le opposizioni anti-governative, insieme alle organizzazioni per i diritti umani, criticano il governo per il ritardo nell’intervento.
La cittadina è sconvolta da urla in varie lingue, insulti reciproci per strada e dalle finestre delle case, suoni di pestaggi improvvisi. Oltre alle tre etnie, gli scontri sono provocati anche da accuse reciproche e offese su base religiosa, tra cristiani e musulmani.
Tutto è cominciato per una semplice rissa di strada. Il 16 maggio, il padrone di un negozio si è rifiutato di dare birra a credito a un gruppo di giovani. Questi si sono scagliati contro di lui, e sono tornati con bastoni, mazze e zappe. Come mostrano le videocamere di sorveglianza, uno brandiva addirittura un maglio meccanico. Gli assalitori hanno cominciato a distruggere le vetrine e gli scaffali del negozio. Un altro gruppo è giunto in soccorso del negoziante, e gli scontri si sono diffusi in tutto il quartiere, sempre con l’uso di armi improvvisate, “come una nevicata improvvisa”, secondo le testimonianze degli astanti raccolte da Ekho Kavkaza.
In serata i media georgiani hanno diffuso l’informazione che i giovani erano di etnia svani e il negoziante un azero. Gli azeri chiamano gli svani eco-migranti, in quanto sarebbero stati trasferiti a Dmanisi, città di etnia tradizionale azera, dalle autorità sovietiche più 30 anni fa, a causa delle catastrofi ecologiche in Svanezia. Un testimone ha spiegato che i georgiani sono giunti “in soccorso dei nostri amici svani… contro questi musulmani che ci gettano addosso le pietre”. Le autorità locali hanno dato l’impressione di lasciare che i gruppi se la sbrigassero da soli, intervenendo solo in tarda serata.
Ancora prima della polizia, sono intervenuti i rappresentanti del clero ortodosso e musulmano. Ieri, 18 maggio, si sono presentati in piazza a Kvemo Kartli il muftì della Georgia orientale, Etibar Eminov, e il capo dell’ufficio comunicazioni del patriarcato di Georgia, il protoierej Andrija Dzhagmaidze. Insieme a loro vi era uno dei leader della maggioranza di governo, il deputato Sozar Subari. Pur con qualche difficoltà, sono riusciti a persuadere i principali contendenti a sospendere le ostilità e scambiarsi una stretta di mano.
Commentatori osservano che gli scontri di piazza a Dmanisi sono “una tracimazione del passato sovietico”, quando a fatica queste ostilità venivano regolate dai piani economici e sociali del governo centrale. Dmanisi è una delle città più popolose della Georgia (oltre mezzo milione di abitanti). Oltre alle tre etnie principali, vivono anche minoranze di armeni e greci, e migliaia di profughi dall’Abkhazia, regione teatro di conflitti armati con i russi.
L’eco-migrazione degli svani ebbe luogo dal 1987, alla fine del periodo sovietico, dopo che alcune straordinarie nevicate avevano provocato valanghe e frane, travolgendo le abitazioni e causando decine di morti. La migrazione è continuata fino alla dissoluzione del regime sovietico. Da allora la zona è considerata un “territorio criminale” di difficilissima gestione. Attraverso di essa passava la strada che porta in Armenia e Azerbaijian, poi distrutta dal conflitto in Nagorno Karabakh, e che ora si vorrebbe ripristinare; su di essa erano molto frequenti gli assalti di briganti.
Nessun governo è finora riuscito a riprendere in mano il controllo della regione, e i recenti conflitti tra armeni e azeri hanno isolato la zona ancora di più. Anche da queste scaramucce periferiche è evidente la grande tensione che attraversa tutto il mondo post-sovietico del Caucaso, con le sue tante etnie e il suo difficile passato.
Erevan, 19 mag 17:36 – (Agenzia Nova) – L’Armenia non garantirà un corridoio di trasporto per le merci tra i Paesi del Caucaso meridionale. È quanto dichiarato dal primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, in un comunicato, in cui affronta la situazione nella provincia di Syunik, a seguito dello sconfinamento delle truppe azerbaigiane nell’area del Lago Sevan. “La situazione è stabile, ma tesa e inaccettabile per noi, e la nostra posizione è inequivocabile: le unità delle forze armate azerbaigiane devono ritirarsi dal territorio sovrano dell’Armenia”, ha detto Pashinyan, aggiungendo che “le nostre forze armate effettuano manovre tattiche, ma riteniamo che questa situazione dovrebbe essere risolta con mezzi diplomatici e pacificamente”. “Abbiamo fatto domanda all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) per l’applicazione dei meccanismi previsti”, ha detto Pashinyan, e “anche se i processi non vanno avanti al ritmo desiderato, la Csto ha gli strumenti di sicurezza adatti, e la parte armena continuerà a fare sforzi costanti per metterli in funzione”. (segue) (Rum)
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“Il riconoscimento del genocidio degli armeni, popolo fiero che ha sopportato e sopporta tanti soprusi, merita il nostro sostegno. L’auspicio è che questo momento possa costituire solo un tassello per arrivare, non solo in quella regione ma in tutte le regioni del mondo, a una situazione di pace e di collaborazione tra i popoli”.
Questo il commento dal consigliere Alberto Budai (Lega) immediatamente dopo l’approvazione all’unanimità da parte del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia della mozione 208
volta al riconoscimento del genocidio del popolo armeno che lo vedeva in qualità di primo firmatario.
Un’istanza sottoscritta da tutti i componenti del Gruppo consiliare del Carroccio, al quale si sono aggiunti in aula, dopo la precedente sigla di Emanuele Zanon (Regione Futura), anche i
colleghi di Progetto Fvg/Ar, FdI, Cittadini e M5S. Un’approvazione trasversale, dunque, giunta al voto con il parere favorevole della Giunta, manifestato dall’assessore Pierpaolo
Roberti che ha definito l’unanimità come “atto dovuto”.
Il provvedimento, illustrato dallo stesso Budai, esprimendo “solidarietà al popolo armeno nella sua lotta per il riconoscimento della verità storica e per la difesa dei suoi diritti inviolabili”, impegna il governatore della Regione e la sua Giunta “a intraprendere ogni azione necessaria per il riconoscimento del genocidio degli armeni sulla base delle risoluzioni già assunte da Onu e Parlamento europeo, dal Congresso e dal Senato degli Stati Uniti d’America, nonché dal Parlamento della Repubblica italiana”.
“Parliamo di un’area in cui la ferocia umana continua a imperversare. Un genocidio – ha introdotto il tema Budai, elencando per sommi capi la storia di questa tragedia – riconosciuto da 30 Paesi, tra i quali l’Italia e da poco anche gli Stati Uniti. L’Armenia ricorda molto il nostro piccolo Friuli e la sua una Comunità autonoma: il suo popolo subisce da oltre 100 anni e non vede riconosciuto il crimine subito con l’uccisione di 1,5 milioni persone durante la Prima guerra mondiale da parte dell’impero ottomano”.
“Questa iniziativa – continua il consigliere della Lega – si aggiunge a una serie di azioni di numerose istituzioni tra le quali anche la decisione del presidente degli Stati uniti di
riconoscere come genocidio l’uccisione di 1,5 milioni di armeni durante la Prima Guerra mondiale da parte dell’impero ottomano”.
“La libertà dei popoli, la possibilità ad autodeterminarsi e la tutela delle identità locali sono valori fondanti che mi hanno spinto ad intraprendere il mio percorso politico. I diritti
fondamentali di ognuno – aggiunge Budai – non devono mai essere prevaricati e il diritto internazionale deve essere sempre garantito a tutti”.
Il presidente del Cr Fvg, Piero Mauro Zanin, ha ricordato di aver ricevuto “le comunicazioni da parte di alcuni soggetti interessati che hanno fornito interpretazioni diverse e contrastanti. Sembra che le mozioni passino inosservate, ma varie ambasciate hanno esposto i loro punti di vista su questo tema delicato. Rimane – ha concluso – la necessità di un’assunzione di responsabilità almeno morale su fatti che hanno inciso sul concetto di umanità”.
Tutte allineate le posizioni espresse nel corso del dibattito generale, aperto da Furio Honsell (Open Sinistra FVg) che, ricordando le esperienze personali da sindaco, ha chiesto “una
doverosa espressione in memoria di tutta la sofferenza che questi eventi hanno provocato, auspicando che non si ripetano mai più”. Il leghista Lorenzo Tosolini, dal canto suo, ha evidenziato come “l’attenzione del presidente statunitense Joe Biden abbia fornito un segnale politico importante per una convivenza migliore tra tutte le popolazioni”.
Accorate anche le parole di Massimo Moretuzzo (Patto per l’Autonomia) e Francesco Russo (Pd). Il primo ha parlato di “un silenzio storico quasi senza pari. L’Ue deve parlare con una voce forte e autorevole che porti un tentativo di pacificazione dei conflitti e di tutela delle minoranze”. L’esponente dem ha evidenziato “l’atto di coraggio del Cr Fvg rispetto un tabù che il mondo ha fatto finta di non vedere fino agli anni Settanta. I giovani imparino dal primo dei grandi genocidi che hanno percorso il Novecento”.
La pentastellata Ilaria Dal Zovo, riprendendo altre iniziative del M5S a livello nazionale, ha infine invitato “ad affrontare con coraggio questi mostri del passato, senza tuttavia
dimenticare quanto abbiamo giornalmente davanti a noi”.”Ringrazio l’Aula per aver votato all’unanimità la mozione che impegna il Friuli Venezia Giulia a riconoscere il genocidio del popolo armeno – ha affermato il consigliere regionale Budai -“.
ROMA\ aise\ – “Una missione fondata su una relazione di profonda comprensione, vicinanza ed amicizia, in un’ottica di sempre maggiore cooperazione anche nel quadro Ue, regionale e multilaterale”. Così Alfonso Di Riso, da oggi nuovo Ambasciatore d’Italia a Jerevan.
Napoletano, classe 1965, Di Riso si laurea in giurisprudenza all’Università di Napoli ed entra in carriera diplomatica nel 1997.
Il suo primo incarico è alla Farnesina al Contenzioso Diplomatico, Trattati e Affari Legislativi. Nel 2000 è secondo segretario commerciale a Kuala Lumpur, dove l’anno successivo viene confermato con funzioni di Primo segretario commerciale.
Nel luglio del 2003 lascia la Malaysia per l’Iran: è Primo segretario a Teheran, dove rimane fino al 2007 quando torna a Roma alla Direzione generale del Personale.
Nel 2009 è consigliere ad Algeri, dove nel 2012 viene confermato con funzioni di Primo consigliere.
Nel 2013 è Incaricato d’Affari con Lettere ad Abidjan ed accreditato, con credenziali di Ambasciatore, anche a Niamey (Niger), a Ouagadougou (Burkina Faso), a Monrovia (Liberia) e a Freetown (Sierra Leone). Nel 2015 è confermato ad Abidjan quale Ambasciatore ed accreditato. Nel 2017 torna alla Farnesina e assume l’incarico di Capo dell’Unità per le Relazioni sindacali e l’innovazione della DG Risorse e Innovazione, incarico che ora lascia per l’Armenia dove succede a Vincenzo Del Monaco. (aise)