Mkhitaryan Inter, contatti con Raiola: la situazione (Direttagol 01.05.21)

Le problematiche della Roma potrebbero spingere l’armeno Mkhitaryan a rivedere i propri piani per il futuro. Dopo un ottimo avvio di stagione, il giocatore ha un po’ perso quel magnifico smalto che aveva mostrato da trequartista e da finto centravanti in alcune partite. Complice anche il calo della Roma e gli alti e bassi che si sono succeduti nell’arco degli ultimi mesi, l’ex Arsenal e United starebbe riflettendo sul proprio futuro. L’Inter ci starebbe pensando come potenziale pedina a costo zero: il jolly del centrocampo e dell’attacco sarebbe un giocatore fondamentale per Conte, che potrebbe impiegarlo sia al posto di Eriksen, sia come trequartista dietro le punte (o la punta) o come seconda punta, ruoli che potrebbe svolgere senza particolari problemi considerate le sue incredibili qualità.

Mkhitaryan Inter, contatti con Raiola: la situazione

La Roma rischia di perderlo e tramite l’agente Raiola ha bloccato le trattative per il rinnovo; vuole, infatti, attendere l’evolversi della situazione in campionato e in Europa League, poiché se non dovesse esserci la qualificazione in Champions sarebbe orientato ad andare via. Come scritto sopra, l’Inter sembra particolarmente interessata a prenderlo e sarebbe un colpo importante in entrata a livello economico e tecnico: essendo un giocatore molto duttile da utilizzare sia a centrocampo sia in attacco, per Conte sarebbe fondamentale per il campionato e per l’Europa. Con lui potrebbe arrivare anche Dzeko, pronto a liberarsi e disposto a valutare nuove offerte per accasarsi altrove.

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>>Rinnovo Mkhitaryan, ora l’armeno ci pensa: la situazione (Siamolaroma)

La comunità armena elogia il sindaco Fabbri (La Nuova Ferrara 01.05.21)

Anche la comunità religiosa armena di New York ha ripreso e rilanciato le parole dei sindaco di Ferrara Alan Fabbri che si è opposto alla richiesta dell’ambasciatore turco Murat Salim Esenli di «riconsiderare la posizione» e di «correggere un errore nella programmazione» in relazione all’evento, mandato in onda il 24 aprile dal Teatro comunale della città estense, dal titolo “Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni tra memoria, negazioni e silenzi”.

Sul sito della Diocesi Orientale della Chiesa Apostolica Armena – il centro spirituale del cristianesimo armeno negli Stati Uniti orientali, con sede a New York – sono state riprese le dichiarazioni del primo cittadino.

«Alan Fabbri ha respinto le proteste dell’ambasciatore turco», è scritto sul sito della comunità, che riprende anche la notizia della cittadinanza onoraria ad Antonia Arslan a cui Fabbri ha annunciato la prossima assegnazione del riconoscimento .

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>> Da New York la comunità armena rilancia le parole sul caso Ferrara-Turchia (Estense.com 01.05.21)


>> COMUNITÀ ARMENA A NEW YORK RILANCIA LE PAROLE DEL SINDACO ALAN FABBRI: “HA RESPINTO LE PROTESTE DELL’AMBASCIATORE TURCO” (Cronacacomune 30.04.21)


 

Le foto dimenticate che raccontano com’era Gaza una volta (Vice.com 30.04.21)

Da oltre 1.700 anni, la Terra Santa è patria di una piccola comunità armena. Nel 400, cristiani e monaci armeni si sono stabiliti a Gerusalemme dopo aver compiuto un pellegrinaggio in città e hanno formato quello che oggi è noto come il quartiere armeno.

A Gerusalemme, poi, la comunità armeno-palestinese ha continuato a crescere in seguito alla diaspora innescata dal genocidio armeno, durante il quale si stima che l’Impero ottomano abbia ucciso un milione e mezzo di armeni, tra il 1915 e il 1923.

Negli anni Quaranta, il fotografo Kegham Djeghalian, che era fuggito dall’Armenia a Gerusalemme durante il genocidio, si è stabilito a Gaza, che all’epoca era una semplice città palestinese sulla costa mediterranea.

Ottant’anni e numerosi conflitti più tardi, Gaza e i suoi dintorni sono diventati uno dei posti più difficili in cui vivere sulla faccia della Terra. La maggior parte dei residenti non ha un lavoro e ha accesso limitato ad acqua, elettricità, cibo e cure mediche. Inoltre, ovviamente, non può andarsene.

Ma prima che il blocco riducesse Gaza in ginocchio, prima che Hamas salisse al potere, prima dei conflitti, c’erano le foto di Djeghalian. Molti anni dopo, il nipote Kegham Djeghalian Jr, che ha 36 anni e lavora come direttore artistico, artista visivo e stylist in Francia, ha trovato tre scatole contenenti alcuni rullini di negativi del nonno e vecchie fotografie, nella casa di suo padre in Egitto.

Così, 40 anni dopo la sua morte, il lavoro di Djeghalian è stato trasformato in una mostra all’Access Art Space del Cairo, la città in cui parte della sua famiglia è scappata durante la guerra dei sei giorni del 1967.

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Presidente armeno ringrazia Cher e Kim Kardashian per contributo a riconoscimento genocidio (Sputniknews 30.04.21)

Il presidente armeno Armen Sarkissian ha inviato una lettera alla cantante Cher (Sherilyn Sargsyan) e alla star dei reality americani Kim Kardashian, ringraziandoli per il loro contributo nel processo di riconoscimento internazionale del genocidio armeno.

“La sua influenza e l’influenza della sua famiglia è enorme, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. È stato meraviglioso vedere come lei, mediante azioni e passi, sia riuscita a svolgere un ruolo significativo nel riconoscimento internazionale del genocidio armeno. Grazie per i suoi sforzi instancabili e la sincera dedizione”, si afferma in una lettera indirizzata a Kardashian pubblicata sul sito web del presidente dell’Armenia.

Il messaggio a Cher rileva che è sempre stata tra le figure di spicco che lottano contro la negazione del genocidio.

“La sua influenza ha giocato un ruolo significativo nel riconoscimento internazionale del genocidio armeno. Quando uniamo i nostri sforzi e trasformiamo la nostra visione in azioni reali e misurabili, il risultato è sempre tangibile. Spero di rivederla in ​​Armenia, come tanti anni fa”.

Il capo di Stato armeno ha anche espresso la sua gratitudine al medico americano e produttore del film hollywoodiano “The Promise” dedicato al genocidio armeno Eric Esrailian.

Il 24 aprile il presidente statunitense Joe Biden ha riconosciuto ufficialmente come genocidio i massacri di armeni organizzati e commessi all’inizio del XX secolo nell’Impero Ottomano. In risposta il presidente turco Tayyip Erdogan si è detto profondamente rattristato da queste “parole ingiuste non basate sulla storia”, ma allo stesso tempo ha espresso l’opinione che il suo incontro con Biden a margine del vertice della Nato a Bruxelles a giugno aprirà una nuova pagina nelle relazioni bilaterali.

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Il museo azero dei trofei di guerra (Voltairenet.org 30.04.21)

l presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, ha istituito nel Paese un museo nazionale per alimentare nel popolo l’odio per gli armeni, inaugurandolo di persona il 12 aprile 2021.

Il museo consiste in un vasto parco situato nella capitale, Baku, ove sono esposti oltre 300 carrarmati e pezzi d’artiglieria, distrutti o confiscati durante i combattimenti.

Nel museo c’è una tenda ove, non disponendo dei crani, sono esposti i caschi di soldati armeni morti durante la recente guerra dell’Alto-Karabakh [1] (foto), e sono ricostruite le celle in cui furono torturati i prigionieri armeni.

I soldati armeni sono raffigurati da manichini con volti belluini, così da suggerire si tratti di un popolo appartenente a una specie sub-umana.

È l’unico museo razzista oggi esistente nel mondo.

Ricordiamoci che la vittoria azera è stata ottenuta grazie a Turchia e Regno Unito [2]. Rammentiamo inoltre che dal 2001 l’Azerbaijan è membro del Consiglio d’Europa (parte del suo territorio si trova sul continente europeo), nonché che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha denunciato le teorie razziste come fonte di guerre e ha ingiunto agli Stati membri di combatterle.

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>> I villaggi smart in Karabakh parleranno italiano (Insiderover)


>> Blinken ha discusso al telefono Karabakh con Aliyev (Trt)

 

BIDEN RICONOSCE IL GENOCIDIO ARMENO – (Radio onda d’Urto e Radio Radicale)

Dopo che lo scorso 24 aprile il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha riconosciuto il genocidio armeno. Lo ha fatto proprio nel giorno del 106° anniversario del massacro avvenuto tra il 1915 e il 1921.

“Ricordiamo i morti nel genocidio armeno dell’era ottomana e ci impegniamo a impedire che una tale atrocità si ripeta. Non è incolpare la Turchia, ma confermare la storia” ha detto Biden , scatenando la reazione del sultano turco Erdogan e del governo turco, che per bocca del ministro Cavusoglu ha giudicato un “grave errore” l’azione USA ricordando “non prendiamo lezioni da nessuno sulla nostra storia”.

Potrebbe il riconoscimento del genocidio armeno potrebbe mettere a dura prova le relazioni Usa-Turchia? E perchè gli Stati Uniti hanno deciso solo adesso di compiere questa azione? Risponde a queste domande il giornalista turco Murat CinarAscolta o scarica


Passaggio a Sud Est – Supplemento del giovedì

Il supplemento di questa settimana propone una rassegna stampa sulla dichiarazione del Presidente statunitense Joe Biden che ha riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno compiuto dall’Impero Ottomano.
La realtà storica, le dure reazioni della Turchia e i rapporti con gli Usa e la Nato, le conseguenze geopolitiche della svolta.
Puntata di “Passaggio a Sud Est – Supplemento del giovedì” di giovedì 29 aprile 2021 condotta da Roberto Spagnoli .
Sono stati discussi i seguenti argomenti: Armenia, Biden, Criminalita’, Decessi, Erdogan, Est, Esteri, Genocidio, Geopolitica, Impero Ottomano,
 Informazione, Nato, Pashinyan, Polemiche, Rassegna Stampa, Storia, Stragi, Turchia, Usa, Violenza.
La registrazione audio di questa puntata ha una durata di 29 minuti.

Benifei: “Sanzionare i fedelissimi di Erdogan per fermare la repressione in Turchia” (Gazzettadimantova 29.04.21)

«Erdogan utilizza la lotta al terrorismo come scusa per la repressione. Servono sanzioni mirate per spingere la Turchia a interrompere i processi politici e rispettare i diritti umani». Brando Benifei, capo delegazione Pd al Parlamento Ue, parla da Ankara, dove lunedì, insieme all’eurodeputata svedese di origine curda Evin Incir, ha assistito alla prima udienza del processo Kobane, il maxi caso giudiziario che ha portato alla sbarra 108 membri del partito filo-curdo Hdp, tra cui il leader storico Selahattin Demirtas.
Qual è la loro colpa?
«L’accusa ufficiale è di aver fomentato i disordini di ottobre 2014, quando i curdi protestarono contro l’inazione di Ankara di fronte all’avanzata dell’Isis a Kobane. In quei giorni ci furono 37 morti e 700 feriti. Per i giudici i responsabili sono i dirigenti dell’Hdp. Ma è evidente che si tratta di una farsa, l’obiettivo è estrometterli dal voto».

Un processo politico, insomma.
«Esatto. L’unica colpa che hanno gli imputati è di aver espresso solidarietà a Kobane. Sono processati per un tweet o una dichiarazione sbagliata. Per noi Kobane è sinonimo di resistenza, ma per Erdogan rappresenta una minaccia, il simbolo di quella voglia di autonomia curda che il presidente turco non tollera».
Pensa che il mondo abbia abbandonato i curdi?
«Sicuramente, soprattutto a partire dal presidente americano Donald Trump, che nel 2019 ha dato luce verde a Erdogan per invadere il nord-est della Siria. Con Biden spero che le cose cambino. Oggi l’Europa ha l’occasione per farsi sentire. Abbiamo sanzionato il cerchio magico di Putin per Navalny, forse è il caso di fare lo stesso con Erdogan. Non possiamo tollerare la violazione dei diritti umani e la dissoluzione dello stato di diritto».
Lunedì sono stati emessi 500 mandati di cattura nei confronti di militari. La repressione non riguarda solo i curdi, giusto?
«La messa in stato di accusa è utilizzata per rafforzare la catena di comando intorno a Erdogan, è una strategia volta a irrobustire il regime».
L’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa indica la Turchia come uno dei Paesi con i più alti tassi di incarcerazione, 357 prigionieri ogni 100mila abitanti. Come si spiegano questi numeri?
«L’incarcerazione preventiva viene usata come forma di intimidazione, è per questo che le celle esplodono».
Erdogan è uscito dalla convenzione di Istanbul. Qual è la condizione delle donne?
«La società turca è mista, il presidente ha voluto spostare l’equilibrio verso la componente conservatrice. E’ anche per questo che odia i curdi, tra loro le donne godono di ampie libertà».
Biden ha riconosciuto il genocidio armeno. I rapporti tesi tra Usa-Turchia possono compromettere il futuro della Nato?
«Sicuramente c’è bisogno di un chiarimento da parte di Ankara, soprattutto dopo le ambiguità in Siria. Ma una crisi della Nato non fa comodo a nessuno. L’Europa ha l’occasione per giocare di sponda con Washington, però deve prima dotarsi di una politica estera unitaria».
Resta il nodo dei migranti, con il quale Erdogan ci ricatta.
«Sui migranti la penso come Letta, serve un “next generation migration”. Solo così potremo svincolarci dai ricatti della Turchia».
Dopo il sofagate, il rapporto dell’Europa con Ankara è cambiato?
«Il sofagate ha messo in evidenza le contraddizioni dell’Ue, Erdogan ne ha solo approfittato».
Però le parole di Draghi, che ha definito il leader turco un dittatore, hanno lasciato il segno. Le relazioni sono compromesse?
«Non credo. Italia e Turchia hanno legami storici, e non possono che migliorare se Ankara dimostra di fare passi avanti sui diritti umani».

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HRANT DINK E IL LIMBO ARMENO IN TURCHIA (Gariwo 29.04.21)

Pubblichiamo di seguito il contributo su Hrant Dink uscito su Il lavoro culturale a cura di Francesco Pasta.

Il 23 aprile è festa nazionale in Turchia: si celebra in pompa magna l’anniversario della prima sessione del parlamento repubblicano, concretizzazione della massima del fondatore della Turchia moderna Mustafa Kemal Atatürk secondo cui “La sovranità appartiene incondizionatamente alla nazione”. Niente cerimonie di Stato, invece, il giorno successivo, il 24, in cui si commemora la deportazione degli intellettuali della comunità armena di Istanbul nel 1915, inizio del primo genocidio del XX secolo.

Durante la prima guerra mondiale, nel corso della disgregazione del multietnico Impero Ottomano dilaniato dalle spinte centrifughe dei nazionalismi, gran parte della popolazione armena di Anatolia fu deportata verso il deserto siriano su ordine del Comitato Unione e Progresso al governo. Furono massacrati o morirono per gli stenti e i maltrattamenti un milione e mezzo di armeni, anche se le stime variano. Di fatto, il Meds Yeghern (il “Grande Crimine” armeno) segnò la fine della plurimillenaria civiltà armena in Anatolia.

In un articolo dal titolo un po’ enigmatico di “23,5 Aprile” il giornalista Hrant Dink, intellettuale di spicco del movimento per i diritti civili nel Paese, descriveva nel 1996 la propria condizione di cittadino armeno della repubblica turca come il dilemma di chi si trova sospeso nella notte tra un giorno di festa condivisa e un anniversario luttuoso e indicibile. La cosidetta questione armena è ancora oggi uno dei grandi scheletri nell’armadio della Turchia. Alla cancellazione di un popolo, precondizione per la rappresentazione di una nazione omogenea e sovrana, ha fatto seguito una sistematica rimozione collettiva. Nel paese le cose non sono mai state facili per chi, come appunto Hrant Dink, si è impegnato per la democratizzazione di uno Stato che “ha sempre voluto guidare il popolo invece di lasciarsi guidare da esso”, dando voce alle minoranze invisibilizzate.

Nel 2007 Dink è stato assassinato a Istanbul davanti alla redazione di Agos, il periodico in turco e armeno di cui era caporedattore. Preso di mira per il suo impegno critico da una serrata campagna denigratoria e di linciaggio mediatico, riceveva continue minacce dagli ultranazionalisti turchi ed era stato condannato a sei mesi di reclusione in base al famigerato articolo 301 del codice penale, che sanziona “l’insulto alla Turchità”. Il processo è durato più di dieci anni, tra depistaggi e insabbiamenti, e si è recentemente concluso con pesanti condanne per alcuni degli imputati, ma i mandanti non sono mai stati identificati.

Quest’articolo ripercorre sommariamente il percorso personale e politico di Dink attraverso alcuni luoghi di Istanbul, “città palinsesto” disseminata di tracce di un passato cosmopolita che, come l’opera del giornalista, perforano la coltre di silenzio imposta dalla narrazione di Stato.

Nato a Malatya, terra di confine tra l’Anatolia centrale e il sud-est curdo, snodo delle carovane degli armeni deportati verso il deserto siriano, Dink crebbe nell’orfanotrofio armeno di Gedikpaşa, nella città vecchia di Istanbul. Il centro ospitava bambini provenienti da tutta l’Anatolia, dove le scuole armene erano andate distrutte, ed è tutt’oggi in funzione: nell’annessa chiesa si celebra messa in armeno, turco, farsi e russo, un allargamento dell’offerta per far fronte alla drastica riduzione della congregazione. Scendendo verso il mare si raggiunge Kumkapı, quartiere di pescatori immortalati negli anni ’50 dal fotografo armeno Ara Güler. Qui si trovano il Patriarcato Armeno, che Dink prenderà di mira nei suoi articoli molti anni dopo definendolo uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una vera società civile nella comunità armena, e la chiesa di Surp Asdvadzadzin, in cui si terrà il suo funerale.

Come tanti quartieri di Istanbul (che a fine Ottocento, ancora capitale di un impero multietnico, aveva una popolazione in maggioranza non-musulmana) Kumkapı ha visto svanire la propria comunità originaria nel corso del XX secolo, ma in anni recenti ha riacquisito un carattere multiculturale con l’arrivo di nuovi abitanti. Oggi la via principale è punteggiata di forni uzbechi tandır, rivenditori di riso pachistano e ditte di spedizioni cargo per il Turkmenistan, tra chiese dimesse e palazzi decrepiti.

I bambini dell’orfanotrofio trascorrevano le estati a Tuzla, allora tranquilla località sul Mar di Marmara, oggi fagocitata dall’espansione di Istanbul. Le luci della città, che Dink e i suoi compagni vedevano baluginare in lontananza la sera, coprono ormai ininterrottamente la costa. Qui contribuirono a costruire il campo estivo conosciuto come Kamp Armen, che Dink amministrò con sua moglie Rakel per molti anni, finché non fu chiuso con l’accusa di formare militanti armeni in seguito al colpo di stato del 1980. L’acquisto del terreno fu invalidato secondo una legge discriminatoria per cui le fondazioni delle minoranze non hanno il diritto di acquisire proprietà. Dopo la morte di Dink, la battaglia contro la demolizione di Kamp Armen per far posto a ville private si tradusse in un’occupazione del sito che unì la comunità armena e la piattaforma civica emersa dal movimento di protesta di Gezi Parkı, esploso nel 2013 contro il crescente autoritarismo del governo. Nel 2015, al termine di un lungo processo legale, la proprietà è tornata alla chiesa armena di Gedikpaşa.

Terminate le scuole negli istituti della comunità armena, Dink proseguì gli studi all’università di Istanbul, in piazza Beyazıt, a poca distanza in cima al colle. La piazza è impressa nella memoria armena per i “Venti Martiri dell’Hunchakian”, attivisti del partito socialdemocratico armeno qui pubblicamente impiccati nel 1915, ma che negli anni ’70 era soprattutto centro della protesta studentesca. Temendo che la propria identità potesse essere collegata alla sua militanza nella sinistra extraparlamentare, Hrant cambiò ufficialmente nome in Fırat – il nome turco dell’Eufrate, che scorre nella regione di Malatya. Dopo il golpe del 1980, fu arrestato e recluso per dodici giorni in un bagno riconvertito in cella, dove veniva obbligato con gli altri detenuti a cantare ripetutamente l’inno nazionale, giorno e notte.

Negli anni ‘90 inizia l’esperimento di Agos (‘il solco’), settimanale bilingue dalle cui pagine tenterà di aprire nuovi canali di dialogo tra la comunità armena e la popolazione della Turchia, “due popoli vicini, due dirimpettai distanti”, dipingendo tinte di grigio laddove i contendenti “hanno imparato a chiamare ‘nero’ ciò che gli altri chiamano ‘bianco’”. Nei quattordici tumultuosi anni seguiti al suo assassinio, l’anniversario del 19 Gennaio è divenuto una data importante nella memoria collettiva della parte più progressista della società civile turca. L’appuntamento è all’ora dell’omicidio, avvenuto in pieno giorno davanti alla redazione, da poco trasformata in centro della memoria, nel quartiere di Şişli. “Siamo tutti armeni, siamo tutti Hrant”, scandisce la folla, e “Lo Stato assassino la pagherà”, puntando il dito contro il cosidetto derin devlet, lo Stato profondo che tira le fila della politica.

A pochi isolati di distanza, nell’animato quartiere di Kurtuluş, il Centro per lo Sviluppo e la Solidarietà al Villaggio di Vakıflı è un portale tra Istanbul e l’ultimo villaggio armeno della Turchia, ciò che resta della celebre resistenza del Monte Musa (raccontata, in italiano, ne La vera storia del Mussa Dagh): durante il genocidio i villaggi armeni tra Antiochia e il mare presero le armi e riuscirono a resistere. Per Dink, che ci teneva a rimarcare di essere armeno, cittadino di Turchia, e “anatolico fino al midollo”, bastava la constatazione che “un popolo che ha abitato questa terra per quattromila anni non c’è più” a qualificare quanto accaduto come genocidio, termine che lo Stato turco rigetta. Eppure si schierava contro chi cerca di imporre questa definizione (tra cui, oltre alla Repubblica d’Armenia, l’Unione Europea): questo nella convinzione che la storia appartiene ai popoli, non agli Stati, e che ciò di cui necessitano il popolo turco e armeno sono dialogo, comprensione e presa di coscienza, non verità preconfezionate e diktat imposti dall’alto, né tantomeno dall’estero.

Gli armeni rappresentano ancora oggi la principale minoranza non-musulmana in Turchia, quasi interamente concentrata a Istanbul. Per le strade di Kurtuluş molti indizi ne rivelano discretamente la presenza: le treccie pasquali dei panettieri, i cartelli “Si organizzano battesimi”, i nomi dei professionisti sui portoni, il carretto di libri sull’Armenia all’ingresso di un angusto pasaj, una scuola armena ancora in funzione. Un tempo noto col nome greco di Tatavla, il quartiere fu preso di mira dall’omogeneizzazione toponomastica repubblicana, che ribattezzò strade e luoghi con nomi dell’immaginario nazionalista (la guerra d’indipendenza è chiamata Kurtuluş savaşı, “guerra di salvezza”).

Proprio in questo campo si svolge oggi una riappropriazione identitaria, oltre alla sostituzione delle targhe stradali col nome di Dink: i nuovi abitanti giovani, laici e progressisti hanno ripreso a usare il vecchio nome, come racconta Hüseyin Irmak, che ci è nato e cresciuto, autore di Da Tatavla a Kurtuluş. Aras, editore dell’opera (per ora disponibile solo in turco), annovera tra i fondatori proprio Hrant Dink. Nascosta con la sua minuscola libreria e sala eventi al primo piano di un elegante palazzo di Istiklal caddesi, nel mezzo del quartiere europeo di Pera, la casa editrice è un avamposto di dialogo intercomunitario, che traduce e pubblica letteratura armena in turco e testi stranieri in armeno occidentale, contribuendo a mantenere in vita questa lingua a rischio di estinzione.

Nell’ultimo articolo, pubblicato il giorno della sua morte – il cui titolo“L’inquietudine della colomba”, ha dato il nome alla raccolta dei suoi articoli – Dink descriveva il proprio stato d’animo paragonandosi a una colomba, la cui testa scatta ansiosamente a destra e sinistra, sempre all’erta e impaurita, in un misto di curiosità e nervosismo. O più prosaicamente, un piccione, come quelli che affollano la spianata informe di Taksim, centro simbolico della metropoli e sito delle commemorazioni del genocidio. Trovava conforto nella consapevolezza che “in questo paese, nessuno fa del male ai colombi”, i quali “continuano a vivere nel cuore della città, tra la folla di gente, forse un po’ apprensivi e a disagio, ma pur sempre liberi”.

Negli anni trascorsi dall’assassinio di Dink, lo spazio di dialogo in Turchia si è ridotto drasticamente. Con l’alleanza islamo-nazionalista al governo è aumentato il potere di chi non si fa scrupolo a fare del male alle colombe. Ma il suo messaggio, che andava ben oltre la questione armena in sé, ha trovato eco nelle proteste di Gezi Parkı ed è stato raccolto dal Partito Democratico dei Popoli (HDP), i cui leader sono in carcere dal 2016 e contro cui si sta intensificando la persecuzione giudiziaria, fino alla paventata messa al bando per “terrorismo”. L’impegno di Dink per una società più democratica, libera e multiculturale prosegue nelle battaglie femministe e nell’attivismo LGBT, nelle proteste studentesche iniziate all’Università del Bosforo, nella campagna degli Accademici per la Pace, nel variegato movimento curdo di resistenza, e nelle innumerevoli altre lotte che attraversano il Paese, affrontando autoritarismo e repressione violenta.

Analisi di Francesco Pasta

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Lugano, protesta silenziosa per liberare prigionieri armeni (Laregione 29.04.21)

Una protesta silenziosa globale per chiedere la liberazione dei prigionieri di guerra armeni. Anche a Lugano, oltre ad altre città in Svizzera e nel mondo, domani, venerdì 30 aprile, è in programma una manifestazione. La Comunità Armena in Ticino invita a unirsi alla rivendicazione in agenda alle 18 in Piazza Dante. “A 7 mesi dall’aggressione azera contro l’Artsakh (Nagorno Karabakh) circa 200 prigionieri armeni sono ancora detenuti dopo la firma del cessate il fuoco il 10 novembre, 2020” – scrive il sodalizio in un comunicato stampa e aggiunge: “Il regime dell’Azerbaijan è tenuto a rilasciare i prigionieri di guerra armeni e i civili rapiti, immediatamente”.

La violazione delle Convenzioni di Ginevra

La Comunità Armena Ticino sottolinea: “L’Azerbaigian è in violazione non solo dell’accordo firmato il 10 novembre, ma delle Convenzioni di Ginevra in materia di trattamento dei prigionieri di guerra. Human Rights Watch ha confermato che l’Azerbaigian detiene illegalmente centinaia di prigionieri di guerra armeni. L’Azerbaijan vìola le Convenzioni di Ginevra in materia di trattamento dei prigionieri di guerra, e l’accordo delle tre parti firmato il 10 novembre –nello specifico l’ottavo punto dell’accordo, lo scambio totale di tutti i prigionieri di guerra. Mentre la parte armena ha restituito tutti i prigionieri di guerra azerbaigiani nel dicembre 2020, l’Azerbaigian ha restituito solo una parte dei prigionieri di guerra armeni e ha persino ricominciato i combattimenti, prendendo altri due villaggi armeni e 64 nuovi prigionieri di guerra nel dicembre 2020. Questa non è solo una violazione diretta dell’accordo di cessate il fuoco e di molteplici articoli all’interno della Terza Convenzione di Ginevra che protegge i prigionieri di guerra contro “atti di violenza o intimidazione e contro gli insulti e la curiosità pubblica. Questa situazione è un terrificante precedente per gli anni 2020–2021, dove un paese infrange clamorosamente il diritto internazionale per mesi con poca ripercussione”

La manifestazione parte da un movimento globale delle comunità armene in numerosi paesi del mondo e varie città svizzere. I luoghi delle proteste in agenda domani: a Lugano, Berlino, Ginevra, Amburgo, Houston, Los Angeles, Marsiglia, Montreal, Mosca, New York, Parigi, Roma, Sacramento, Toronto, Varsavia e Yerevan, capitale dell’Armenia, e altre città.

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La Chiesa ha ricordato lo sterminio degli Armeni (Korazym 29.04.21)

Venerdì 23 aprile almeno 10.000 persone hanno sfilato per le vie di Erevan, capitale dell’Armenia, per commemorare il genocidio del 1915 per mano dell’impero ottomano durante la Prima guerra mondiale. La marcia è promossa tutti gli anni alla vigilia del 24 aprile, data che simboleggia l’inizio del genocidio.

Il genocidio armeno è già riconosciuto da una trentina di nazioni e dalla comunità degli storici; si stima che tra 1.200.000 e 1.500.000 armeni furono uccisi dall’Impero Ottomano in quel periodo controverso. Ankara rifiuta l’uso del termine ‘genocidio’ e respinge le accuse di sterminio, parlando di massacri reciproci in un contesto di guerra e carestie.

Da anni Erevan chiede un risarcimento finanziario alla Turchia e il ripristino dei diritti di proprietà dei discendenti delle vittime dei massacri, conosciuti in armeno come Meds Yeghern (‘il grande crimine’). E nel 106^ anniversario il presidente americano Joe Biden ha riconosciuto il genocidio:

“Il popolo americano onora tutti gli armeni che sono morti nel genocidio che iniziò 106 anni fa… Gli immigrati armeni hanno arricchito in innumerevoli modi gli Stati Uniti, ma non hanno mai dimenticato la loro tragica storia… Lo facciamo non per incolpare qualcuno, ma per assicurarci che quanto accaduto non si possa ripetere”.

Il riconoscimento del genocidio è un ‘passo potente’ secondo il premier armeno Pashinyan: un passo che rappresenta “materia di sicurezza per l’Armenia, specialmente dopo gli avvenimenti che hanno avuto luogo nella regione l’anno scorso”.

E nel giorno del ‘Meds Yeghern’ il card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ha assistito alla Divina Liturgia in rito armeno, svoltosi al Pontificio Collegio Armeno, presieduto dall’arcivescovo ordinario per i fedeli armeni nell’Europa Orientale, mons. Raphael Minassian, e concelebrato dal rettore del collegio, p. Nareg Naamoyan:

“Un popolo laborioso ed intelligente, creatore di arte e di cultura, che tramite le sue grandi figure alcune delle quali anche sante, ha illuminato l’umanità ben oltre i confini del territorio armeno, come san Gregorio di Narek, proclamato da papa Francesco Dottore della Chiesa Universale nel 2015.

Penso anche a san Mesrop, che grazie alla sua opera donò un alfabeto in modo che anzitutto potesse essere conosciuta ed ascoltata da tutti la Sacra Scrittura, e fosse quello il pane spezzato per guidare nel cammino di una storia purtroppo in molte occasioni segnata da persecuzioni e da violenze”.

Il card. Sandri ha ricordato la sofferenza del popolo armeno: “Il dramma di 106 anni fa è stata una macchia nella storia dell’intera umanità, non solo di chi è stato protagonista in negativo di quei giorni o di chi ha per indifferenza o complicità taciuto.

Coloro che hanno subito violenza, attraverso i loro discendenti, non hanno smarrito però il tesoro della fede e sono ancora qui come siamo noi oggi a proclamarlo e a celebrarlo, rendendo visibile quella consolazione di Dio di cui ci ha parlato san Paolo”.

Ed ha ricordato le parole di papa Francesco: “Per questo ricordando quanto affermato da papa Francesco nella celebrazione del 12 aprile del 2015 nella Basilica Vaticana, non dobbiamo smarrire quanto la tradizione armena ha elaborato parlando del Metz Yegern, il grande crimine, il grande male.

Questa definizione infatti ci costringe ogni giorno a fare i conti con la domanda sul male dentro la storia umana, ma soprattutto dentro la nostra storia personale, quando cediamo ai compromessi della tentazione, quando smettiamo di ascoltare la Parola di Dio, quando siamo indifferenti ai fratelli o peggio cerchiamo di fare il loro male anziché moltiplicare le benedizioni e il bene nei loro confronti”.

Però la Parola del Vangelo ha una parola di consolazione contro l’anestetizzazione della coscienza: “Il Vangelo ci dona la consolazione nel pensare che i figli e le figlie del popolo armeno vittime del tentativo di sterminio di 106 anni fa sono ‘amici di Dio’, configurati all’esistenza stessa di Gesù…

La vita dei nostri fratelli e sorelle è stata come quella di Gesù, chicco di grano caduto in terra che morendo ha dato vita al mondo intero salvandolo: il loro frutto rimane, e siamo noi che nel mondo celebriamo nella fede questo giorno.

Che dal nostro frutto cadano semi di vita e di resurrezione dentro la nostra storia. Lo chiediamo per intercessione della Tutta Santa Madre di Dio, Maria Santissima, e di tutti i santi e martiri dell’amato popolo armeno”.

Anche la Comunità di Sant’Egidio presso nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina ha ricordato i 106 anni del genocidio armeno con una veglia di preghiera presieduta dal presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, card. Kurt Koch, che nell’omelia ha sottolineato in cosa consista il martirio:

“Il martire cristiano si caratterizza per il fatto che non cerca il martirio in sé, ma lo assume come conseguenza della sua fedeltà alla fede in Gesù Cristo… Il segno distintivo del martirio cristiano è dunque l’amore. Poiché il martire mette in pratica la vittoria dell’amore sull’odio e sulla morte, il martirio cristiano si manifesta come atto supremo di amore per Dio e per i fratelli e le sorelle”.

Il martirio dei cristiani è aumentato molto nello scorso anno: “lI cristianesimo è diventato sempre più una chiesa di martiri in misura incomparabile. Di fatti, ci sono oggi ancora più martiri che durante la persecuzione dei cristiani nei primi secoli. L’80% di tutti coloro che vengono perseguitati per la loro fede oggi sono cristiani.

La fede cristiana è oggi la religione più perseguitata nel mondo. Questa situazione comporta il fatto che oggi tutte le Chiese e le Comunità ecclesiali cristiane hanno i loro martiri. I cristiani oggi non sono perseguitati perché sono ortodossi o ortodossi orientali, cattolici o protestanti, ma perché sono cristiani. Il martirio oggi è ecumenico, e si deve parlare di un vero e proprio ecumenismo dei martiri”.

Un particolare omaggio è stato fatto ai martiri armeni: “I martiri armeni ci hanno aperto gli occhi su questa profonda visione, all’inizio del cruento ventesimo secolo segnato dalle due sanguinose guerre mondiali. Ci hanno ricordato che il martirio non è un fenomeno marginale nel cristianesimo, ma è il fulcro stesso della Chiesa…

I martiri armeni hanno testimoniato in modo speciale questa dimensione cristologica. Come membri di uno Stato che fu il primo Stato cristiano nella storia, sono rimasti fedeli alla loro fede apostolica e hanno dato la vita per Cristo”.

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