ARMENIA: STUDIO O MATRIMONIO? LA “NON SCELTA” DELLE GIOVANI YAZIDE (Radiobullets 30.03.21)

In Armenia, ex paese sovietico che giace a cavallo tra Europa e Asia, le ragazze di minoranze etniche si sposano prima di compiere diciott’anni. I matrimoni precoci occorrono perlopiù nelle comunità yazide e sono strettamente legati allo scarso livello d’istruzione, sovrapposto agli stereotipi di genere. Ma non solo: a incidere fortemente è anche la povertà delle famiglie e le usanze radicate profondamente nella vita delle comunità, che tante volte si fondono con pregiudizi. Molte bambine, ma anche bambini, abbandonano gli studi dopo la terza media, delle volte anche prima, e si dedicano alla famiglia. Le leggi che dovrebbero tutelare i diritti dei minori presentano forti lacune, e l’intervento e il monitoraggio dello Stato sono scarsi e spesso si scontrano con la chiusura della comunità stessa.

Gli yazidi sono i più popolosi tra le minoranze etniche che abitano in Armenia: secondo l’ultimo censimento del 2011, nel paese abitano 35.308 persone appartenenti alla minoranza. Secondo i dati non ufficiali, e sempre contrastanti, sarebbero molti di più. 

Mappa dei villaggi abitati prevalentemente dagli yazidi nelle province di Armavir e Aragatsotn e visitati per raccogliere testimonianze.                          1 – Myasnikyan, 2 – Sipan, 3 – Jamshlu, 4 – Alagyaz, 5 – Ferik

La storia di Zerin

Il villaggio armeno di Sipan, nella regione di Aragatsotn, è abitato prevalentemente da yazidi. La casa di Zerin, 27 anni, (nome inventato per proteggere l’identità della donna), dove vive col marito, tre figli, suocera e suocero è accogliente e confortevole. Una piccola stufa scoppietta in un angolo, dove viene gettato di volta in volta dello sterco essiccato. 

Zerin è una donna vivace e curiosa, esile, e porta una chioma folta, leggermente riccia, legata in una coda. Le due donne di famiglia si appartano in una stanza giocando con i bambini. Senza gli uomini chiacchierano e si riesce a fare qualche domanda a Zerin, molto riluttante a rispondere. Aveva sedici anni quando è stata rapita da quello che sarebbe diventato suo marito. L’uomo era andato più volte dai genitori della ragazza per chiederla in sposa, senza successo, così aveva deciso di rapirla. All’epoca Zerin aveva appena finito la scuola media, ma non pensava di continuare gli studi: la scuola superiore si trova troppo lontano dal suo villaggio. 

Ora la giovane donna è madre di tre figli: due maschi e una femmina. Il figlio maggiore ha undici anni: lo ha partorito all’età di sedici. Alla domanda se, alla fine, si è trovata bene col marito “non scelto”, Zerin con lo sguardo e un paio di smorfie, ci fa capire che le cose non funzionano poi così tanto bene. Presto si capisce il motivo. In casa regna l’ordine tradizionale della comunità yazida: le donne non possono parlare né mangiare in presenza degli uomini, né possono indossare i pantaloni. Zerin e la suocera hanno paura di farsi fotografare da noi, perché gli uomini gliel’hanno vietato. Alla richiesta di poter fare qualche scatto almeno alle mani di Zerin, scatta il panico che segue il “no” della suocera molto deciso. D’altronde, Zerin non si è mai fotografata in vita sua. 

All’arrivo degli uomini l’atmosfera in casa cambia completamente e, con questa, anche l’atteggiamento di Zerin. Smette di parlare e comincia a servire a tavola con la testa bassa, senza fiatare. Quando gli uomini si riuniscono a tavola, Zerin e la suocera servono il cibo, ma si allontanano subito. Lo stesso vale per i bambini.  La figlia di nove anni piange dopo che uno dei suoi fratelli le ha strappato un libro. È una bambina sveglia e curiosa, e per consolarla le si dice che è molto brava e intelligente. Però per la famiglia la sua bravura consiste in qualcos’altro. «Sì, è brava, ci serve già bene», commenta qualcuno dei parenti. Non a caso è la bimba a portare il caffè agli ospiti; ed è già coinvolta nello sfaccendare in casa, un ruolo che si tramanda da madre a figlia senza troppe alternative. 

A casa di Tamar

Un po’ diversa l’atmosfera  nella casa di Tamar, una donna curda di quarantanove anni, che vive nel villaggio di Myasnikyan, della provincia di Armavir. In Armenia vivono circa 2.000 curdi, o almeno si identificano così, nonostante si tratti di yazidi-curdi che condividono la stessa religione – lo yazidismo.

La famiglia è una grande sostenitrice di Abdullah Ocalan, il leader del partito dei lavoratori curdi Pkk, in prigione in Turchia dal 1999. Su una delle pareti pende una grande tela gialla con il ritratto del leader imprigionato. La famiglia di Tamar è numerosa: oltre il marito, ci sono tre figli, due nuore, una figlia divorziata e tanti bambini. Tamar sostiene che le donne della sua famiglia godono di una libertà maggiore, in parte perché l’intera famiglia è influenzata dalle filosofie e dalle idee progressiste di Ocalan. Mentre prepara il tavolo con il caffè e i dolci per gli ospiti, si intravedono le due nuore, Anna e Lali. Sorridono, giocano con i bambini di casa, scambiano qualche parola con Tamar e poi si appartano nella stanza accanto con un paio di bimbi per riapparire solo alla fine della conversazione. Avevano diciassette e diciott’anni anni quando si sono sposate. «Un po’ presto, ma va bene», dice Tamara. «Sono già adulte», riassume la donna. 

Tamar fa parte dell’organizzazione per i diritti delle donne curde: si impegnano a far sì che le ragazze portino avanti gli studi e non cadano nella trappola dei matrimoni precoci. La donna conferma: tante volte a ritirare le ragazze yazide dalle scuole sono gl stessi genitori, sebbene sempre per lo stesso motivo, il matrimonio. «Impediscono loro di studiare già dopo il sesto anno di scuola (all’età di 12-13 anni, ndr), dicono alle ragazze di starsene a casa, così possono darle in moglie. Sono proprio quelle che poi si sposano presto», sottolinea Tamar. 

Racconta che ci sono famiglie dove le donne non possono uscire da casa, che siano adulte o giovani. Tamar conosce molto bene queste usanze, ha vissuto sulla propria pelle il divieto di muoversi liberamente imposto dal marito e dalla famiglia di lui, contraddistinta da un tradizionalismo fervente. Ora la donna gioca questa carta quando parla con la comunità: «Se mio marito mi fa uscire da casa e fare le mie cose, allora perché voi non potete permettere lo stesso alle vostre donne?». Almeno lei porta le due nuore con sé quando va nella capitale.

In foto /da sinistra a destra/: Anna, 28, Tamar (49), Gohar (figlia di Tamar), 25, Lali, 23

Lali, 23, la nuora di Tamar più giovane con la figlia

L’istruzione per le ragazze yazide? Spesso è una corsa a ostacoli

Taimur Khudoyan dirige la scuola media del villaggio Jamshlu, nella provincia di Aragatsotn, ormai da diciott’anni. Nella scuola ci sono trentanove alunni: quindici ragazze e ventiquattro ragazzi che finiscono all’età di 15 anni per proseguire poi con gli studi nel villaggio vicino. Così, però, non accade sempre per le alunne della scuola. Il direttore racconta che ci sono ragazze che non proseguono la scuola superiore nonostante vorrebbero continuare a studiare. In parte ciò è dovuto all’estrema povertà delle famiglie che faticano a mandare le ragazze nei villaggi vicini. Taimur Khudoyan ricorda una sua alunna, che poi si è sposata nel villaggio vicino. «Lei ancora viene nella scuola a prendere dei libri da leggere dalla biblioteca scolastica. Sono sicuro che, se avesse avuto la possibilità di studiare, avrebbe potuto fare tanto nella vita», racconta. E conferma che, quando accade questo, l’unica alternativa per le ragazze giovani rimane il matrimonio e la famiglia. Nella scuola gli insegnati cercano sempre di affrontare l’argomento e di allontanarle dal matrimonio in giovane età. «Non sono mature, se si sposano e partoriscono dei figli non saranno di certo in grado di prendersi cura di loro ed educarli bene. È necessario che abbiano maturità non solo fisica, ma anche nella testa», conclude l’uomo.  Ma anche nelle famiglie più facoltose non tutto, gioca a favore delle femmine. Capita che le famiglie lascino le ragazze a studiare nella capitale a condizione che vivano in casa con un parente. Una ragazza yazida che vive da sola è mal vista dalla comunità. Il direttore conferma: quasi sempre dipende dalla famiglia se una femmina studierà o no. Lui stesso permetterà a sua nipote di andare a studiare in un’altra città a condizione che viva a casa col fratello. Secondo l’usanza locale, quando un’uomo adocchia una ragazza, va prima dall’insegnante a informarsi sul suo conto: può chiedere del carattere della futura sposa e altri dettagli. Quando Taimur Khudoyan voleva far sposare i suoi figli – e ne ha due – era andato nei villaggi delle ragazze per domandare chi fossero. Le ragazze avevano diciassette anni ciascuna quando i suoi figli le presero in moglie.

Il ruolo della famiglia e dei pregiudizi 

Come confermato da più parti, il ruolo della famiglia nella questione dei matrimoni infantili – direttamente o indirettamente – gioca un ruolo fondamentale. Gli attivisti confermano che ancora oggi capita che siano i genitori a decidere il destino della ragazza: se studierà o andrà in sposa. Anche se non tutte le famiglie puntano al matrimonio – c’è chi riesce a finire la scuola e andare all’università – il ruolo prevalentemente riservato alle femmine è quello della famiglia. 

Per Boris Murazi, yazido dell’organizzazione no-profit Sinjar National Union of Yezidis, la decisione di far sposare una ragazza in tenera età viene presa dalla famiglia: se non sono loro, diventa difficile immaginare che una ragazza di 14 anni vorrà creare una famiglia. Non di rado il ruolo della donna viene interpretato secondo credenze e riferimenti culturali della comunità. Uno è legato alla forte credenza che se una donna studia, allora nessuno vorrà più prenderla in sposa: non a caso i tradizionalisti della comunità credono che una ragazza di diciassette anni sia già troppo vecchia per sposarsi. Si ritiene, inoltre, che l’istruzione, nonché i membri della comunità eccessivamente istruiti, possano erodere in qualche modo l’identità culturale degli yazidi. 

Il capo della comunità Alagyaz Jasm Makhmudov lega il fenomeno dei matrimoni infantili alla mancanza di istruzione e non alla tradizione. Sebbene sia apparentemente favorevole che i bambini studino, il funzionario sostiene che bisognerebbe andare piano con l’istruzione. Perché, secondo lui, c’è il rischio che l’eccessivo sapere porti le persone della comunità yazida a non creare più famiglie, a non fare figli, e quindi al rischio di scomparsa dell’identità culturale.

Una parte dei pregiudizi e delle paure sono alimentate da alcuni capi religiosi dello yazdismo, anche se ormai in maniera minore: persuadono le famiglie a non mandare le bambine a scuola perché possono essere rapite a scopo di matrimonio o, peggio ancora, potrebbero sposare un armeno, visto che gli yazidi sono prevalentemente endogamici. Anche quando si verificano rapimenti di ragazze, la parola della famiglia è decisiva. Un rapimento accade di solito quando un uomo viene a chiedere alla famiglia una ragazza in sposa e viene rifiutato. «Nel caso che una ragazza venga rapita, gli yazidi considerano vergognoso restituirla alla famiglia», sottolinea Zemfira Kalashyan, attivista yazida per i diritti umani, insegnante. «Mia figlia si è laureata all’Università di Yerevan, ha studiato alla Facoltà di Psicologia. Si è sposata a 20 anni. Il figlio del mio amico è venuto a chiedere la sua mano, l’ho rifiutato e alla fine l’ha rapita. Non mi è restato che perdonarlo», dice Jasm Makhmudovon, capo della comunità Alagyaz.

Pertanto, per evitare che qualche sconosciuto molesti la ragazza, i genitori preferiscono darla in sposa a qualcuno scelto da loro. C’è anche chi agisce diversamente e si rivolge alla polizia, per evitare alla propria figlia il matrimonio. Accade quando la famiglia si rende conto che la ragazza non è pronta, oppure la famiglia del marito la tratta male. «Ma questi casi sono veramente rari», commenta la yazida Isabelle Broyan, esperta di diritti delle minoranze etniche di origine yazida.

Una donna stende i panni nel villaggio Ria Taza, nella provincia di Aragatsotn. In lontananza si intravede un tempio yazida, con la punta a forma di sole, elemento caratteristico della loro religione

Una legge sull’istruzione obbligatoria? C’è, ma funziona poco e manca il monitoraggio 

Il primo settembre 2017 in Armenia è entrata in vigore la legge sull’istruzione obbligatoria di dodici anni: gli alunni devono obbligatoriamente frequentare una scuola superiore, oppure una di formazione professionale. Prima di allora erano imposti dalla legge solo nove anni obbligatori di scuola media. Sebbene le norme legislative si siano inasprite, il diritto dei minorenni yazidi allo studio viene costantemente violato, in primo luogo dai loro genitori. E lo Stato interviene poco. 

Esiste un’evidente relazione causa-effetto tra i matrimoni precoci, l’istruzione delle ragazze e l’abbandono delle scuole. Gli attivisti e gli insegnanti mettono in guardia: sebbene in Armenia la scolarizzazione di dodici anni sia obbligatoria, un gran numero di ragazze smette di frequentare l’istituto scolastico dopo il diploma della scuola media, ovvero dopo nove anni di scuola. Non ci sono statistiche precise su quante ragazze yazide lascino la scuola. Il monitoraggio dovrebbe partire dalla scuola: è compito di insegnanti e direttori segnalare alle autorità competenti quando una ragazza smette di frequentare l’istituto scolastico. Però non accade sempre: in parte perché il personale scolastico viene dallo stesso ambiente, in parte perché, dopo un po’ di sforzi, la scuola si arrende. Non si tratta di insabbiare i casi, vengono semplicemente taciuti e mal controllati dalle strutture competenti. In più, gli attivisti rimangono scettici sull’adeguata reazione dello Stato che non ha una struttura sistemica che si occupi dei bambini che non ricevono l’istruzione. 

Boris Murazi dell’organizzazione Sinjar National Union of Yezidis conferma a Radio Bullets che non c’è alcun monitoraggio da parte delle autorità quando le bambine yazide smettono di andare a scuola. L’organizzazione ha condotto uno studio per conto proprio e ha rilevato che oltre il 50% delle ragazze yazide lasciano la scuola senza finirla. Gli attivisti raccontano che non di rado, i dirigenti scolastici o gli insegnanti cercano di convincere i genitori a lasciare che una bambina continui a studiare, però se la famiglia si oppone, la scuola non interviene più. Succede che i genitori vengano e dicano: «Partiamo per la Russia o l’Europa, e abbiamo bisogno di ritirare dei documenti del bambino dalla scuola». Secondo loro, a complicare la situazione è l’atteggiamento dello Stato nei confronti di ciò che succede nelle communità yazide. «Il punto è che la maggioranza – direttori delle scuole, polizia e insegnanti – percepisce questa pratica come una tradizione. Dalla serie “bene, cosa dovremmo fare, questa è la loro tradizione”. E anche a livello ufficiale, non sanno come affrontare la situazione. Lo Stato non la percepisce come un problema, quindi non credo che ci sia un monitoraggio da parte sua», ritiene Isabelle Broyan, l’esperta di diritti delle minoranze etniche di origine yazida.

Gli abitanti del villaggio Ria Taza, nella provincia di Aragatsotn

Artur Grigoryan, vice capo della comunità yazida di Alagyaz, della provincia di Aragatsotn, conferma che ci sono stati dei casi di ragazze che avevano interrotto gli studi per via dei matrimoni precoci, anche se questi casi non sono stati segnalati. «Il fatto in sé non ha così tanta importanza nella communita yazida per parlarne. Se fosse stato coinvolto un minore di undici o dodici anni, questo sarebbe un grosso problema. Però se una ragazza ha sedici o diciassette anni, allora questa è l’età in cui si sposano sempre», riassume Grigoryan. 

Il codice penale del paese prevede una sanzione per i genitori che non adempiono alle proprie responsabilità. Ci sono diversi dati sull’ammontare della multa: da 30.000 a 200.000 AMD: da 48 a 322 euro circa. I media locali riportano che, almeno fino al 2019, non si è verificato alcun caso in cui un genitore fosse ritenuto responsabile per l’interruzione dell’istruzione obbligatoria di una figlia o un figlio. Gli attivisti rimangono scettici, secondo loro le multe non porteranno a dei risultati e vedono il problema nella poca importanza che genitori danno all’istruzione e nella mancanza di lavoro con la comunità da parte dello Stato. Secondo l’insegnante Zemfira Kalasyan, il fenomeno dei matrimoni precoci fiorisce proprio per questi motivi. «Solo dopo due anni di lavoro nelle scuole yazidie, nei loro villaggi, avevo capito quale fosse il problema. Non che i genitori non vogliano che i loro figli studino, ma che loro stessi sono cresciuti in un’atmosfera simile. La cosa principale che possiamo fare è aiutare i genitori a capire che questo è un problema, perché loro da soli non se ne rendono conto», ci spiega Zemfira. Le fa eco Isabella Broyan: secondo lei si affronta poco il tema dei matrimoni infantili dentro la comunità. Secondo la donna, nessuno percepisce il matrimonio infantile come una violazione dei diritti dei bambini: i conservatori delle comunità parlano di tradizioni e lo Stato lo percepisce come un affare interno degli yazidi e non realizza che non si tratta di una tradizione ma di una pratica molto dannosa. L’attivista spiega così la mancanza di risultati: «Non funziona perché non si lavora con la comunità, non spieghiamo loro cosa sia un matrimonio infantile e le sue conseguenze, non spieghiamo che effetti può causare ai minorenni e non diciamo loro che le ragazze non sono psicologicamente pronte per questa esperienza».

Secondo i dati del 2019 del Comitato della statistica del paese, che riguardano tutte le cittadine armene, 12,3% delle ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni, non studiano né lavorano. 

La legislazione inefficace 

Prima del 2012 le donne in Armenia si potevano sposare a partire dai diciassette anni, poi il governo di allora aveva portato l’età del matrimonio sia per gli uomini che le donne a diciott’anni per entrambi. La decisione del governo di allora aveva provocato scontento da parte di alcuni membri della comunità yazida, tra cui anche Aziz Tamoyan, presidente dell’Unione Nazionale degli Yazidi, morto di recente. Per la comunità la nuova legge avrebbe intaccato le tradizioni yazide, proprio perché era contro l’usanza di sposarsi presto. Aziz Tamoyan aveva dichiarato che questa decisione del governo avrebbe reso infelici le ragazze yazide e la communita non lo avrebbe accettato.

Isabelle Broyan, esperta di diritti delle minoranze etniche di origine yazida, racconta che dopo il malcontento manifestato dalla comunità, il governo fece un passo indietro introducendo eccezioni sull’età in cui era possibile stipulare matrimonio. Trovata la “scappatoia”: ora in Armenia, col consenso di genitori o tutori, ci si può sposare all’età di sedici anni, nonostante il paese abbia ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne già nel lontano 1993. Sebbene il Codice della famiglia dell’Armenia proibisca i matrimoni precoci – eccetto quelli a partire dai sedici anni col consenso di genitori o tutori – non ci sono sanzioni penali per le persone coinvolte. Invece è prevista una pena di reclusione o di lavori forzati di due anni per i rapporti sessuali con persone di età inferiore ai sedici anni (articolo 141 del Codice penale dell’Armenia).

È significativo il modo in cui questa legge funziona e viene applicata nel contesto dei matrimoni infantili e come venga, a volte, interpretata dai genitori nonché dalla ragazza stessa. In un caso, riportato dalla stampa armena nel 2016, un armeno ventunenne (non yazido) ha rischiato di scontare due anni in prigione per una relazione con una ragazza quindicenne. Il caso venne portato in tribunale, e il giovane se l’è cavata con due anni di condizionale. Sul sito web del tribunale è ancora presente l’ordinanza in cui si afferma che sia la ragazza, al momento della sentenza già sedicenne, che il suo tutore si erano espressi in difesa dell’imputato, argomentando che il loro era un matrimonio di fatto e che la ragazza dipendeva economicamente dall’uomo.

Ma quanti sono i matrimoni infantili tra yazidi?

Non ci sono dati precisi su quanti siano matrimoni nella comunità yazida in Armenia. Secondo gli ultimi dati disponibili del SIGI (Social Institution & Gender Index), il tasso di matrimoni infantili in Armenia è al 5% (2019), e riguarda sia femmine che maschi. Alla richiesta di Radio Bullets, il Comitato della statistica della Repubblica di Armenia ha risposto che, basandosi sulla registrazione degli atti di stato civile, negli anni 2018 e 2019 sono stati registrati 94 matrimoni, dove la sposa di origine yazida aveva un’eta tra i 16 e i 19 anni: 44 matrimoni nel 2018 e 50 nel 2019 (da verifiche, non emerge conferma che siano siano esattamente queste cifre, ndr). 

Questi sono i dati ufficiali, però le cifre potrebbero essere più alte. Non di rado la coppia sigla ufficialmente l’unione solo al compimento di diciott’anni della persona minorenne della coppia, e già alla nascita del secondo o terzo figlio, oppure non registra nemmeno l’unione e vive come coppia di fatto. «Per quanto riguarda la registrazione all’anagrafe, ne ho visti molti che pensano di non averne bisogno, anche se ufficializzare un matrimonio è molto importante per una donna perché possa lottare per i suoi diritti, se dovesse essere necessario. Ma nella nostra comunità in pochi pensano che questo sia importante. Poi, se una ragazza è molto giovane, a sedici anni, non vorrà affatto andare all’anagrafe», spiega Zemfira Kalashyan. Gli attivisti riportano che, in parte, questi casi vengono segnalati dagli ospedali, quando una ragazza minorenne viene ricoverata per partorire. Le statistiche ufficiali delle nascite registrate fuori dal matrimonio mostrano che da donne di età complessiva tra i 14 e i 19 anni, nel 2018 sono nati 883, nel 2019 ne sono nati 724. I dati non sono divisi per etnia, ma dato che le unioni precoci sono più tipiche della comunità yazida che di quella armena, è possibile ipotizzare approssimativamente quanti di questi bambini siano nati da minorenne yazide. 

Il conflitto legislativo 

Il governo armeno ha fatto alcuni passi per ridurre il fenomeno, ma il sistema legislativo in sé, l’applicazione delle norme nonché il successivo monitoraggio, risultano non efficienti. Da un lato, l’età minima in cui si può sposare è diciott’anni, però non senza eccezioni. Una minorenne – perché parliamo prevalentemente di femmine – può sposarsi con il consenso dei genitori o dei tutori, il che complica la situazione: secondo gli attivisti e i rappresentanti della comunità, non di rado sono proprio i genitori a decidere  il matrimonio della ragazza. D’altra parte, la legge sull’istruzione obbliga a ricevere un’istruzione di dodici anni, ma quello che succede in pratica, sempre secondo le testimonianze della comunità, non permette alle ragazze di terminare gli studi. Nel caso di un matrimonio precoce, la sposa quasi sempre smette di andare a scuola per dedicarsi completamente alla famiglia. E questo, resta lo scenario più comune.

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Roma, controllo decisivo per Mkhitaryan: l’armeno punta l’Europa League (Fantamaster 29.03.21)

Infortunio Mkhitaryan – Riprende il lavoro in casa Roma, dove si attende il rientro di tutti i giocatori impegnati con le rispettive Nazionali per intensificare la preparazione delle prossime partite. Nel mirino c’è la sfida di sabato prossimo sul campo del Sassuolo.

I giallorossi sono attesi da un ciclo di partite fondamentali per il prosieguo della stagione. Anche perchè aprile è il mese in cui ci si gioca l’accesso in semifinale di Europa League, con il doppio confronto con l’Ajax. Questa sfida potrebbe rivedere tra i protagonisti anche Henrikh Mkhitaryan

Il fantasista armeno, uno dei trascinatori della Roma nella prima metà di stagione, è alle prese con un infortunio patito contro la Fiorentina. Le sue condizioni sono in lento e costante miglioramento, ma lo staff medico giallorosso non vuole accelerare i tempi.

Infortunio Mkhitaryan, c’è l’Ajax nel mirino

Nella giornata odierna, Mkhitaryan si sottoporrà a un controllo a Villa Stuart che sarà decisivo per scoprire i reali tempi di recupero. Il numero 77 giallorosso mette nel mirino l’andata dei quarti di Europa League contro l’Ajax, in programma il prossimo 8 aprile.

Tra le altre cose, Mkhitaryan è legato ai lanceri e alla competizione continentale, per via di un bel ricordo risalente a 4 anni fa. Nel 2017, infatti, l’armeno era titolare nella finale di Europa League, giocata e vinta con il Manchester United proprio contro i campioni d’Olanda.

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Il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan si dimetterà in aprile (Sputniknews 28.03.21)

In precedenza, il Presidente armeno Armen Sarkissian e il Primo Ministro Nikol Pashinyan hanno discusso sulla questione dello svolgimento di elezioni parlamentari anticipate il 20 giugno.

Il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha annunciato che si dimetterà ad aprile, in vista delle elezioni parlamentari anticipate nel paese.

“Sì, mi dimetterò molto presto, ad aprile, non per andarmene, ma per lo svolgimento delle elezioni anticipate. Finché non avverranno, rimarrò primo ministro temporaneo”, ha detto Pashinyan.

Secondo la Costituzione del paese, per tenere elezioni parlamentari anticipate, le autorità devono revocare la legge marziale, dichiarata in Armenia alla fine dello scorso settembre a causa dell’inasprirsi del conflitto con l’Azerbaigian nella contesa regione del Nagorno-Karabakh.

L’Armenia ha visto numerose proteste da quando Pashinyan ha firmato un accordo di “cessate il fuoco” con l’Azerbaigian lo scorso novembre mediato dalla Russia. In base all’accordo, entrambi i paesi dovevano cessare le ostilità nella regione del Nagorno-Karabakh e rimanere nell’esatta posizione che detenevano in quel momento.

Di conseguenza, l’Azerbaigian ha ottenuto il controllo di alcuni territori. Da allora le forze di pace russe sono state dispiegate sulla linea di confine.

I manifestanti in Armenia hanno chiesto a Pashinyan di dimettersi.

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>> Armenia, il premier: “Mi dimetto ad aprile per consentire elezioni anticipate” (Cronachedi 28.03.21)


>> L’Armenia si prepara alle elezioni anticipate (InsideOver)

Azerbajgian ha raso al suolo storiche chiese armene a Sushi e a Mekhakavan nell’Artsakh occupato con la guerra di aggressione del 2020 (Korazym 28.03.21)

Le autorità armene hanno più volte avvertito la comunità internazionale di agire e prevenire la politica azera di sradicare l’eredità culturale e spirituale armena nel Nagorno Karabakh. Non si tratta, purtroppo, di casi isolati dopo la guerra di aggressione azero-turca dello scorso anno, che si è concluso con l’accordo di cessato il fuoco del 9 novembre 2020, molto doloroso per l’Armenia, che ha permesso l’esercito dell’Azerbajgian ad occupare buona parte della piccola Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh. Nella Regione di Hadrut, dopo aver distrutto una storica testimonianza armena cristiana nella città occupata di Shushi, la piccola chiesa di Surb Hovhannes Mkrtich (San Giovanni Battista) o Kanach Zham, l’esercito dell’Azerbajgian ha rasato al suolo anche la piccola chiesa di Zoravor Surp Astvatsatsin (Potente Santa Madre di Dio) a Mekhakavan, come ha documentato la BBC.

La chiesa di Zoravor Surp Astvatsatsin (Potente Santa Madre di Dio) a Mekhakavan, prima della guerra nel 2017, dopo la guerra nel 2020 e oggi, “scomparsa”.

Ho riportato il 26 marzo 2021 la notizia [QUI], diffusa dall’Iniziativa italiana per l’Artsakh con un tweet: “Un’altra chiesa armena distrutta dagli azeri dopo la guerra in Artsakh. Giorno dopo giorno il patrimonio culturale armeno viene cancellato dal regime dell’Azerbaigian nei territori occupati. Un genocidio culturale che non può rimanere impunito”.

Avevo già documentato la profanazione della piccola chiesa Zoravor Surp Astvatsatsin (Potente Santa Madre di Dio) a Mekhakavan, di cui oggi non resta pietra su pietra, il 15 novembre 2020 [Una catastrofe per gli armeni cristiani e loro patrimonio dopo il passaggio di parte dell’Artsakh sotto controllo azero-turco islamico, dopo sei settimane di aggressione]: “Allāhᵘ akbar” [*] urlano i soldati azeri in cima e davanti ad una chiesa apostolica armena dopo la conquista di 20% del territorio dell’Artsakh. “Vergogna che qui nessuno fiati contro questa pulizia etnica e religiosa all’insegna della Mezzaluna turca” (Giulio Meotti).

Ecco, il video diffuso sul Twitter account della Commissione Nazionale Armena per l’UNESCO @ArmUnesco, che documenta la profanazione della piccola chiesa di Zoravor Surp Astvatsatsin (Madre Maria) a Mekhakavan dai soldati azeri dopo l’occupazione. Uno di loro è salito in cima, per buttare giù la campana e abbattere la croce.Poi la piccola chiesa verrà rasata al suolo.

“La Repubblica di Artsakh ha allertato la comunità internazionale in numerose occasioni sul terrorismo culturale orchestrato dallo Stato dell’Azerbajgian, i suoi sforzi per cancellare il patrimonio culturale armeno nei territori che sono sotto la sua occupazione militare, promuovendo ulteriormente la sua politica espansionistica genocida”, ha detto il Ministero degli Esteri dell’Artsakh. “Questa politica di genocidio è un crimine contro l’umanità, una grave violazione delle norme, delle convenzioni, delle risoluzioni e degli accordi internazionali e una minaccia per l’intero mondo civilizzato”, ha aggiunto il Ministero. “Chiediamo alle organizzazioni internazionali competenti di prendere tutte le misure necessarie per prevenire l’eliminazione del patrimonio culturale armeno e di condannare risolutamente la politica genocida dell’Azerbajgian. La non azione e l’indifferenza sono piene di conseguenze imprevedibili”, ha concluso il Ministero degli Esteri dell’Artsakh.

In un Tweet del 25 marzo 2021 la Commissione Nazionale Armena per l’UNESCO ha protestato per la distruzione della chiesa di Mekhakavan: “Condanniamo fermamente un altro atto di crimine culturale da parte dell’Azerbajgian. Quando la BBC ha scoperto che la chiesa armena è “scomparsa” dopo che l’Azerbajgian ne ha preso il controllo. La distruzione è completa. La stessa chiesa è stata vandalizzata durante la recente aggressione azerbajgiana. I monumenti armeni dell’Artsakh sotto l’occupazione dell’Azerbajgian sono stati vandalizzati e distrutti in stile ISIS. La chiesa armena “scomparsa” è stata in un primo istante vittima di un atto di vandalismo. #StopTerrorism”.

E l’Occidente cristiano, incluso la Santa Sede e il Papa regnante? Zitti e muti! Mentre la distruzione del patrimonio armeno cristiano nel Giardino della Montagna Nera continuerà sotto il grido di “Allāhᵘ akbar” [*]

A più riprese in passato abbiamo lanciato l’allarme per il patrimonio armeno cristiani nei territori della Repubblica di Artsakh occupati con il sostegno determinante della Turchia e militarizzati dall’esercito del dittatore dell’Azerbajgian Ilham Aliyev. A parte dell’articolo segnalato prima, alcuni altri articoli sul tema:
– Repubblica di Artsakh. A rischio i monumenti armeni per mano azera. Il Parlamento europeo condanna aggressione azera e ingerenza turca – 26 gennaio 2021
– Siamo preoccupati per la protezione dei beni culturali armeni sotto l’occupazione azera-turca nell’Artsakh. L’Azerbajgian è già inadempiente – 22 dicembre 2020
– La Chiesa apostolica armena lancia un accorato appello: “Salviamo dalla distruzione chiese e monasteri nell’Artsakh”. Chi lo ascolterà? – 17 novembre 2020
– Azeri-turchi hanno profanato la cattedrale del Santo Salvatore Ghazanchetsots di Shushi. Il monastero medievale di Dadivank messo sotto protezione della Russia – 16 novembre 2020
– L’Angelo di Ghazanchetsots distrutto dagli Azeri e il monastero di Dadivank abbandonato nelle loro mani. Con il cessate il fuoco gli Armeni cristiani dell’Artsakh non sono fuori pericolo – 14 novembre 2020

Il documentario della BBC.

Un reporter della BBC ha rivelato la distruzione in un documentario pubblicato sul sito dell’emittente il 25 marzo 2021

Una settimana dopo che è stato rivelato che una chiesa di 200 anni a Shushi è stata distrutta dopo che gli Azeri hanno occupato la città, un giornalista della BBC ha indagato sulla distruzione di un’altra chiesa, questa volta a Mekhakavan, finita sotto controllo dell’Azerbaigian dopo l’accordo di cessato il fuoco trilaterale del 9 novembre 2020.

Il corrispondente della BBC, Jonah Fisher ha indagato sulla “sparizione” della chiesa di Zoravor Surp Astvatsatsin (Potente Madre di Dio) a Mekhakavan, poiché un video pubblicato online mostrava chiaramente che la chiesa era intatta quando la città fu catturata dalle forze azere.

Un poliziotto azero che accompagnava la troupe della BBC, rispondendo alla domanda su dove fosse la chiesa, ha detto che non lo sapeva. Pertanto, lo stesso giornalista della BBC, con l’aiuto del suo smartphone, si è recato con il cameraman nel luogo esatta della chiesa. Tuttavia, la collina sulla quale sarebbe dovuto essere la chiesa era vuota. Solo delle pietre giacevano ancora sul suolo, tutto quello che restava della chiesa.

Jonah Fischer ha confrontato il lugo con la vecchia foto della chiesa, assicurandosi che si trovasse nello stesso posto. L’unica differenza era che la chiesa non esisteva più. Il giornalista si è nuovamente rivolto ai poliziotti della scorta, chiedendo dove fosse la chiesa. I poliziotti azerbaigiani hanno risposto che forse la chiesa fu distrutta durante la guerra. Però, tale affermazione va contro prove inoppugnabili: “Non poteva essere distrutta durante la guerra, perché ci sono video che mostrano che gli azeri sono venuti qui”, ribatte Fischer. I video mostrano chiaramente che l’area era passata sotto il controllo azero quando la chiesa era ancora intatta.

Successivamente, durante un incontro a Baku con Hikmet Hajiev, Consigliere del Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev, Fischer gli ha mostrato una foto precedente della chiesa, ripresa nel 2017 e una foto della collina attualmente vuota, notando che la chiesa era completamente distrutta. In risposta, Hajiev ha espresso solo sconcerto, dicendo che non ne era a conoscenza e che le informazioni dovrebbero essere controllate. ¡jajajajajajajajaja!

Dopo aver visitato una chiesa del XVII secolo nell’Hadrut occupata, il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev ha ordinato la rimozione delle iscrizioni armene medievali dalle chiese armene finite sotto il controllo azero, definendole “false”. In un incidente separato, le forze azere che attualmente occupano Shushi hanno distrutto la piccola chiesa di Surb Hovhannes Mkrtich (San Giovanni Battista) comunemente nota come Kanach Zham, rasandola al suolo. Aliyev ha emesso l’ordine al suo entourage in visita ad Hadrut con sua moglie e primo Vicepresidente dell’Azerbaigian Mehriban Aliyeva nella seconda settimana di marzo 2021, facendo arrabbiare Stepanakert e Yerevan, che hanno condannato il leader azero per aver promosso il “terrorismo culturale” contro gli Armeni. “Tali visite ufficiali non sono altro che una manifestazione della politica anti-armena e militarista dell’Azerbaigian e una visione dei suoi futuri piani aggressivi”, ha detto il Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh in una dichiarazione del 18 marzo 2021.

La scorsa settimana è emerso anche un video che mostra la distruzione della chiesa di Surb Hovhannes Mkrtich (San Giovanni Battista), conosciuta come Kanach Dzham, a Shushi, dopo che il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev si era recato nel Hadrut e ha ordinato la rimozione delle iscrizioni armene da tutte le chiese, chiamandoli “falsi”.

Il portavoce del Ministero degli Esteri dell’Armenia Anna Naghdalyan in una dichiarazione in merito al documentario della BBC: “I tentativi di Baku di giustificare la barbara distruzione del luogo di culto deplorevoli”.

“Nonostante gli sforzi per presentarsi al mondo come un centro di tolleranza e multiculturalismo [QUI], l’Azerbaigian ha finora dimostrato la sua posizione di leader nella distruzione dell’eredità cristiana”, ha detto il portavoce del Ministero degli Esteri dell’Armenia Anna Naghdalyan in una dichiarazione riguardante il documentario della BBC. “Condanniamo fermamente questo ennesimo caso di crimine commesso dall’Azerbaigian per motivi di odio religioso. Allo stesso tempo, i tentativi della leadership azera di giustificare questa barbarie sono ancora più preoccupanti, poiché mostra che questa manifestazione di vandalismo era di natura intenzionale e ricorda la distruzione sistematica del patrimonio storico e culturale del Nakhichevan “, ha aggiunto Naghdalyan. Ha detto che questo fatto, così come la distruzione della chiesa Kanach Zham a Shushi “dimostra che il vandalismo culturale portato avanti dall’Azerbaigian si basa su un solo criterio: l’odio verso il popolo cristiano armeno”. “La distruzione del patrimonio storico-culturale e religioso armeno dimostra ancora una volta che le assicurazioni sulla conservazione del patrimonio culturale cristiano da parte delle autorità azere sono false. La comunità internazionale dovrebbe intraprendere misure per fermare e condannare i crimini, compreso il genocidio culturale commesso dall’Azerbaigian dal 27 settembre dello scorso anno ad oggi”, ha aggiunto Naghdalyan.

Il Difensore dei diritti umani dell’Armenia Arman Tatoyan giovedì 25 marzo 2021 ha affermato che la distruzione della chiesa a Mekhakavan “è un’ulteriore prova che ciò che è accaduto con gli Armeni nell’Artsakh è stata una pulizia etnica derivante da una politica di genocidio”. “Durante la guerra, i militari azeri avevano pubblicato filmati che li mostravano cinicamente vandalizzando la chiesa armena”, ha spiegato Tatoyan, aggiungendo che lo staff del Difensore dei diritti umani aveva tradotto e analizzato il filmato, che dimostra chiaramente l’odio religioso e la loro intenzione di demolire la chiesa armena. “Questo incidente è un’altra manifestazione della politica di armenofobia e odio religioso in Azerbaigian, una grave violazione della libertà religiosa garantita a livello internazionale”, ha aggiunto Tatoyan.

Poi, riportiamo alcuni stralci dall’articolo “Nagorno Karabakh, il mistero della chiesa scomparsa. Dopo la fine del conflitto, continua la preoccupazione degli armeni per la perdita del loro patrimonio culturale” di Andrea Gagliarducci per ACI Stampa del 26 marzo 2021 [QUI], che riportando l’ultima notizia della scomparsa della chiesa di Mekhakavan, rileva la preoccupazione generale per «una sostanziale riscrittura della storia, che sta andando a cancellare, insieme agli edifici, anche la memoria della presenza armena nel territorio». Nelle regioni del Nagorno Karabakh sotto controllo dell’Azerbajgian, «sono state documentate a più riprese le scomparse di chiese e soprattutto di khachkar, le croci armene di pietra che più di tutto raccontano identità e presenza di quella che si fa chiamare “la prima nazione cristiana”. Si è parlato persino di “genocidio culturale” per raccontare questo sradicamento della cultura armena dal territorio – un timore che, con l’ultimo conflitto, si è particolarmente acuito». L’ultima guerra di agressione dell’Azerbajgian in Nagorno Karabakh «ha portato territori controllati dagli armeni in mano azera, con tanto di monasteri e chiese».

La distruzione di chiese e khachkar nel Nagorno-Karabakh per gli Armeni è la prova che la loro storia viene estirpata. E non è una cosa nuova, scrive Gagliarducci: «In questi giorni è stato pubblicato uno studio di Hratch Tchilingirian, che ha messo in luce come, da quando il Nagorno-Karabakh è stato assegnato all’Azerbaijan divenuto una repubblica sovietica, la regione è divenuta soggetto di una “autenticazione della storia” tipica proprio dei sovietici, che creavano narrative nuove per deformare la pubblica percezione riguardo l’altro e il nemico. Era – spiega lo studioso – un lavoro tipico, quello di costruire “storie nazionali”, e in particolare nel caso del Nagorno-Karabakh è stata usata la cosiddetta “connessione albanese”. Per Albania non si intende lo Stato nei Balcani, ma piuttosto il regno caucasico della regione, e a quel regno si riferisce la nuova storia del Nagorno-Karabakh che punta a presentare gli armeni come immigrati più recenti nel territorio».

Prosegue Gagliarducci: «Ma è davvero così? Tchilingirian ricostruisce la storia, nota che, poco dopo la conversione dell’Armenia al cristianesimo, il Regno di Albania, che includeva anche le province di Artsakh (ovvero il futuro Karabakh) si convertì al cristianesimo grazie allo stesso Gregorio Illuminatore che aveva evangelizzato l’Armenia, e che fu riportato nella regione dopo essere stato martirizzato nell’attuale regione del Daghestan in Russia, e seppellito ad Amaras, tuttora esistente.
Nell’attuale Nagorno Karabakh, tra l’XI e il XIII secolo, furono costruiti più di 40 monasteri e centri religiosi sotto il patrocinio dei principi armeni di Artsakh, nota Tchilingirian, mentre il monastero di Gandzasar divenne la sede dei Catholicos della Chiesa di Albania. Il catholicossato fu drasticamente ridotto nel XIX secolo, ma tra il 1820 e il 1930, il Karabakh “fu luogo di una vibrante vita culturale e religiosa”, grazie anche alla diocesi e a missionari svizzeri che “gestivano dieci scuole solo a Shushi” e fondarono nel 1828 la prima tipografia della regione.
Ma dal 1923, quando i sovietici si stabilirono nella regione, cominciarono a fare pressione sulle istituzioni religiose, e questo è provato da diverse lettere dei metropoliti armeni di Baku al Consiglio di Etchmiadzin, che notavano come i comunisti formalmente davano a tutti libertà religiosa e di coscienza, ma poi prendevano “misure estreme contro preti e chiese”.
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo c’erano “250 – 300 preti che servivano in Karabakh e nelle sue regioni, mentre nel 1996 c’erano solo sei sacerdoti, includendo il vescovo Barkey Martirossian”, sottolinea Tchiliingirian.
Le chiese in Karabakh cominciarono ad essere rinnovate quando, nel 1988, i comunisti fecero un decreto per lo sviluppo socio economico del Nagorno-Karabakh in risposta alle proteste a Yerevan e Stepanakert.
“Il primo obiettivo dei leader della chiesa in Karabakh era stato di rinnovare le chiese e fornire luoghi di culto” e fu data speciale attenzione alla riapertura di “monasteri importanti a livello storico, come Amaras e Gandzasar”. Molte sono state le iniziative culturali messe in campo in quegli anni, mentre la Chiesa Apostolica Armena aveva lavorato come avvocato del popolo e dei suoi diritti, come avevano fatto le chiese in Polonia e Germania dell’Est.
C’è anche questa storia da raccontare, quando di parla di Nagorno-Karabakh o Artsakh. Una storia che rischia di essere dimenticata».

La chiesa di Surb Hovhannes Mkrtich (San Giovanni Battista) o Kanach Zham nella città di Shushi, occupato dall’esercito azero. Le immagini aeree mostrano la chiesa nell’ottobre 2020 e successivamente nel febbraio 2021, distrutta dalle forze militare azere. Il Ministero degli Esteri dell’Armenia ha dichiarato il 18 marzo 2021 che la distruzione di Kanach Zham è avvenuta mesi dopo la fine delle azioni militari in Nagorno-Karabakh.

Il Ministro degli Esteri della Repubblica di Artsakh David Babayan ha definito la distruzione di Kanach Zham “genocidio culturale”, aggiungendo che “le azioni dell’Azerbaigian contro i monumenti storico-culturali armeni sono la continuazione e la manifestazione della loro politica fascista in modo disgustoso e pericoloso”. “Gli Azeri conoscono molto bene la nostra storia e la distruzione di quella chiesa non è altro che un messaggio del Presidente azero e dello Stato che faranno lo stesso se riusciranno a prendere il controllo di tutto l’Artsakh”, ha aggiunto Babayan. “Tali azioni degli Azeri non differiscono in alcun modo dalle azioni dei terroristi in Medio Oriente, che hanno distrutto monumenti universali”, ha detto Babayan, aggiungendo che l’unica differenza è che se in Medio Oriente alcuni gruppi terroristici sono responsabili delle atrocità, nel caso degli Azeri queste azioni sono sponsorizzate dallo Stato. Definendo la palese distruzione dall’Azerbaigian del patrimonio un disprezzo per il diritto internazionale, Babayan ha detto che “il mondo civilizzato dovrebbe prendere misure, perché se oggi stanno distruggendo il patrimonio culturale dell’Artsakh, l’indifferenza della comunità internazionale potrebbe portarli a bussare alle loro porte domani”.

Il 18 marzo 2021 il Ministero degli Esteri dell’Armenia ha invitato la comunità internazionale, in particolare l’UNESCO, a intervenire per salvare nei territori dell’Artsakh occupati dall’Azerbaigian i monumenti che non sono stati ancora distrutti. “Durante l’occupazione azera della regione di Hadrut, gli insediamenti un tempo floridi con decine di migliaia di abitanti armeni furono completamente annientati e molti civili furono uccisi. La comunità internazionale, compreso l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e Human Rights Watch, hanno espresso la loro chiara posizione riguardo ai casi di palese violazione della Convenzione di Ginevra nella regione di Hadrut, quando i civili catturati sono stati sottoposti a esecuzione extragiudiziale “, il Ministero degli Esteri dell’Armenia ha dichiarato. Ha aggiunto che le dichiarazioni di Aliyev ad Hadrut rivelano l’intenzione di distruggere gli insediamenti armeni e sostituirli con quelli azeri, che viola le disposizioni dell’accordo trilaterale del 9 novembre 2020, secondo la quale gli sfollati devono tornare nei loro luoghi di residenza. Dimostra anche che gli armeni dell’Artsakh non possono sopravvivere sotto il controllo azero. Il Ministero ha avvertito che, nell’ambito della sua politica di pulizia etnica, l’Azerbaigian sta adottando misure coerenti volte ad eliminare e appropriarsi del patrimonio culturale armeno dell’Artsakh.

“Le preoccupazioni che la parte armena ha espresso sin dai primi giorni in cui i monumenti storico-culturali armeni sono caduti sotto il controllo azero, si stanno materializzando. Questi fatti dimostrano che le assicurazioni dell’Azerbaigian che preserverà il patrimonio storico-culturale cristiano e che è disposto a collaborare con l’UNESCO sono completamente false “, ha dichiarato il Ministero degli Esteri dell’Armenia. “Nella situazione attuale, diventa urgente il tempestivo intervento della comunità internazionale, in particolare dell’UNESCO, per salvare i monumenti non ancora distrutti”.

“Non può esserci ‘pace’ solida e duratura costruita sulla base della distruzione degli insediamenti pacifici dell’Artsakh, del suo patrimonio storico-culturale, dell’annientamento della popolazione armena e della sostituzione dell’insediamento armeno con quello azero. Continueremo la nostra lotta per una pace giusta e dignitosa lavorando a stretto contatto con i nostri partner internazionali”, ha concluso il Ministero degli Esteri dell’Armenia.

[*] L’espressione araba “Allāhᵘ akbar” viene spesso e volentieri quasi esclusivamente associata all’estremismo islamico, perché viene pronunciata prima e durante degli attentati terroristici islamici. Quindi, che qualcuno abbia usato questa frase prima di un attentato viene considerato una garanzia del fatto che quell’attentato abbia motivazioni religiose. Cioè, è nata una sorta di automatismo: se sentiamo o sentiamo “Allāhᵘ akbar”, il primo pensiero che facciamo è rivolto di un attentato. Però, l’espressione che significa letteralmente “Dio è il più grande” non è esclusivamente legata al jihadismo e non è una specie di slogan esclusivo dei terroristi. Ha invece a che fare più generalmente con la religione ed è un’esclamazione di uso comune tra i musulmani.

“Allāhᵘ” è il nominativo di Allah, che vuol dire Dio. L’arabo classico segue le declinazioni come il latino: ci sono tre casi, nominativo, genitivo e accusativo. Il soggetto richiede la forma nominativa e la desinenza del nominativo viene indicata con il suono “u”.

“Akbar” non vuol dire semplicemente “grande”: è un’alterazione del grado positivo dell’aggettivo. “Akbar” è stato interpretato sia come un grado comparativo dell’aggettivo “grande” sia come un superlativo relativo: prevede cioè un termine di paragone, ma in entrambi casi le cose non tornano. Se si volesse dire “Allah è il più grande” sarebbe necessario, in arabo, l’articolo determinativo “al” prima di “akbar” che però non c’è. Dato che “al” non è presente sarebbe necessario esplicitare la comparazione: più grande, ma di che cosa? E questo qualche cosa dovrebbe seguire “akbar”.

L’interpretazione prevalente tra gli studiosi è dunque che l’intera frase sia ellittica. La traduzione risulta più problematica. “Dio è grande” potrebbe funzionare, ma non tiene conto del significato comparativo o superlativo che esprime la forma araba. Dire “Dio è più grande” lascerebbe in sospeso la domanda: “più grande di che cosa?”. Una buona soluzione, dunque, è dire “Dio è il più grande”.

L’espressione araba “Allāhᵘ akbar” – contenuta in un verso del Corano in cui si dice di magnificare Dio – è un “takbīr” (in arabo indica un’espressione generica della religione islamica, simile a quelle frasi ricorrenti presenti in altre religioni tipo “Dio Padre onnipotente” o “Lodate Dio”, cioè è un nome derivato che indica colui che compie un’azione, in questo preciso caso quella di essere il più grande) ed è una forma abbreviata della frase “Akbar min kulli shay” che vuol dire “Allah è più grande di ogni cosa”.

“Allah è il più grande”, per una religione monoteista come l’Islam, sta a significare che al di sopra di Dio non può esserci niente. Viene usata come invocazione per riconoscere i propri limiti di fronte a Dio, viene pronunciata dal muezzin per invitare alla preghiera, dai fedeli all’inizio delle preghiere, nelle cerimonie del pellegrinaggio, all’inizio dei riti religiosi. In generale viene usata dai musulmani in qualunque momento della loro vita per esprimere differenti sentimenti e anche come esclamazione per le situazioni più quotidiane.

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Baku conferma i detenuti armeni e non aderisce a gesti umanitari (Avvenire 27.03.21)

Gentile direttore,
in riferimento all’appello al mio Paese per «la liberazione dei prigionieri armeni» di cui ‘Avvenire’ ha dato conto giovedì 25 marzo 2021 sottolineo che l’Azerbaigian ha restituito tutti i prigionieri di guerra armeni all’Armenia, come concordato nella dichiarazione trilaterale del 10 novembre 2020 che ha posto fine agli scontri. Il governo dell’Armenia ha tentato di confondere il contesto in cui sono stati effettuati nuovi arresti. Dopo la fine del conflitto, l’Armenia ha inviato nel territorio dell’Azerbaigian un gruppo di sabotaggio con l’obiettivo di commettere atti di terrorismo. Tale gruppo si è reso colpevole dell’uccisione di civili e militari azerbaigiani. I membri di tale gruppo sono stati catturati e sono attualmente detenuti in Azerbaigian, ma, in considerazione di quanto esposto, non sono e non possono essere considerati prigionieri di guerra. I detenuti vengono in ogni caso trattati in conformità con la legge internazionale sui diritti umani e la legge azerbaigiana che difende i loro diritti. Il governo dell’Azerbaigian invita Human Rights Watch e quanti interessati all’argomento a rivolgere la propria attenzione alle testimonianze dei maltrattamenti dei prigionieri di guerra azerbaigiani e dei detenuti civili da parte dell’Armenia.

Mammad Ahmadzada ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian

Prendo atto, signor Ambasciatore, delle dichiarazioni rese a nome del governo di Baku in risposta all’appello umanitario di cui abbiamo dato conto sulle nostre pagine e che è stato rivolto alle autorità dell’Azerbaigian da importanti intellettuali italiani, idealmente guidati dalla scrittrice Antonia Arslan. Prendo atto, in particolare, del fatto che lei conferma la perdurante presenza nel suo Paese di detenuti armeni, militari e civili, pur qualificandoli come «terroristi». Ricordo solo che l’appello, col supporto di informazioni e video verificati da Human Rights Watch, denuncia trattamenti «degradanti e disumani» e riguarda una sessantina di persone detenute in fasi e momenti diversi. Le confermo, inoltre, che consideriamo con uguale e scrupolosa attenzione qualunque denuncia di violazione dei diritti umani, ovunque possa accadere. E sappiano bene che la pace è molto più dell’assenza di guerra.

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ASIA/TURCHIA – Ergastoli a ex capi dell’intelligence per l’omicidio del giornalista armeno Hrant Dink (Fides 27.03.21)

Istanbul (Agenzia Fides) – Si è provvisoriamente concluso con condanne “eccellenti” e annunciati ricorsi legali il processo per le complicità nell’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, figura di spicco della locale comunità armena, freddato da un sicario nel 2007 nel centro di Istanbul, davanti alla sede di Agos, giornale bilingue turco-armeno da lui fondato. La sentenza emessa dalla corte di Istanbul venerdì 26 marzo ha condannato molti dei 76 imputati a pene fino all’ergastolo. Non di meno, i parenti della vittima e le associazioni sorte in sua memoria hanno già annunciato l’intenzione di ricorrere in appello, ritenendo che la sentenza non abbia chiarito tutti i lati oscuri della vicenda e non abbia individuato i mandanti del delitto perpetrato 14 anni fa.
Hran Dink, giornalista armeno di nazionalità turca, era noto per il suo impegno a favore di una piena integrazione della comunità armena nella società turca, che mettesse da parte discriminazioni, sospetti e pregiudizi retaggio dei tragici eventi che hanno segnato la vicenda degli armeni in Turchia. Il suo omicidio, vissuto come un ulteriore trauma dalla comunità armena turca, ha messo in moto un processo durato oltre un decennio, con indagini sul coinvolgimento di alti funzionari degli apparati di sicurezza sospettati di far parte della rete che ha ordito l’omicidio o di averne in qualche modo avallato l’esecuzione.
Il Tribunale di Istanbul ha condannato all’ergastolo per “omicidio premeditato” l’ex capo dell’intelligence della polizia di Istanbul, Ramazan Akyurek, insieme al suo ex vice Ali Fuat Yilmazer. Anche gli ex ufficiali del ministero degli interni di Istanbul Yavuz Karakaya e Muharrem Demirkale sono stati condannati al carcere a vita, mentre 28 anni di reclusione sono stati comminati all’ex comandante della gendarmeria di Trabzon, Ali Oz, e a 10 anni al giornalista Ercan Gun. Ogun Samast, un ultranazionalista di Trabzon, 17enne all’epoca dell’omicidio, nel 2011 aveva già ammesso la sua colpevolezza come autore materiale del delitto, e sta già scontando una condanna a oltre 22 anni di carcere.
Parenti e gli amici di Harant Dink, dopo la sentenza, hanno annunciato l’intenzione di fare ricorso e chiedere il proseguimento delle indagini, ritenendo che le condanne comminate non abbiano fatto piena luce sui mandanti dell’omicidio.
La singolarità del processo consiste nel fatto che, negli ultimi anni, i pubblici ministeri indirizzato le indagini sulla pista che ipotizzava presunti legami tra gli indagati e la rete di Hizmet, organizzazione legata a Fethullah Gülen, il predicatore turco, esule negli USA del 1999, accusato dalla Turchia di aver ideato un colpo di stato fallito contro il Presidente Recep Tayyip Erdogan del 15 luglio 2016. Secondo i giudici, il delitto è stato organizzato da uomini legati a Gülen e “infiltrati” negli apparati di sicurezza turchi. Lo stesso Gülen figurava nella lista degli accusati al processo, e la sua posizione è stata stralciata, insieme a quella di altri 12 imputati. Il canale televisivo NTV, nel dare notizia delle sentenze, ha riferito che secondo il Tribunale di Istanbul l’omicidio di Dink è stato commesso “in linea con gli obiettivi di FETÖ” (acronimo turco di “Organizzazione terroristica Fethullahnista”, definizione con cui gli organi turchi filo-governativi indicano la rete “eversiva” che sarebbe stata guidata da Gülen). (GV)

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Istanbul: quattro ergastoli per l’omicidio di Hrant Dink, disappunto fra gli armeni (Asianews 27.03.21)

L’Azerbaigian rade al suolo un’altra chiesa armena (Tempi 26.03.21)

Gli armeni avevano costruito una chiesetta su un’altura della città di Jabrayil, nel Nagorno-Karabakh. La chiesa era lì prima che l’Azerbaigian vincesse la guerra contro la Repubblica dell’Artsakh e riconquistasse molti territori, tra cui la provincia di Hadrut dov’è situata la città, il 9 ottobre 2020.

Gli islamisti ballano sulla chiesa

Subito dopo la conquista di Jabrayil, è stato diffuso su internet un filmato che mostrava i soldati dell’esercito azero e i mercenari siriani, assoldati dalla Turchia per aiutare l’Azerbaigian a sconfiggere gli armeni, ballare sul tetto della chiesa e rimuovere la campana al grido di «Allahu Akbar». La costruzione della chiesa era iniziata nel 2012 su iniziativa di padre Gevorg Abyan, cappellano militare della brigata di stanza a Mekhakavan (così gli armeni chiamano la città).

La chiesa, costruita con l’aiuto dei soldati, è stata consacrata nel 2017. Ma oggi, come dimostrato dalla Bbc, la chiesa non c’è più. Il corrispondente dell’emittente britannica, Jonah Fisher, si è infatti recato sulla collinetta che la ospitava, trovando solo alcune pietre sparse sul terreno. La chiesa è stata letteralmente rasa al suolo.

Le bugie dell’Azerbaigian

Gli accompagnatori azeri negano con il giornalista che siano stati i loro soldati a distruggerla. Uno di loro afferma: «Gli armeni se la sono distrutta da soli». Anche Hikmet Hajiyev, collaboratore del presidente azero Ilham Aliyev, nega che la chiesa sia stata distrutta, nonostante il giornalista mostri il video dei soldati che ballano sulla chiesa, realizzato dopo la fine della guerra.

Foto satellitari hanno recentemente dimostrato che anche la “Green Church” di Shushi è stata distrutta. Allo stesso modo, la chiesa di Cristo San Salvatore nella stessa città è stata danneggiata durante la guerra e vandalizzata dopo la fine delle ostilità.

La storia degli armeni si ripete

A giudicare da come i soldati azeri si comportano nei confronti degli edifici storici e sacri armeni, non è difficile comprendere perché nessun armeno costretto all’esilio ha risposto positivamente all’invito del presidente Aliyev di tornare a vivere nelle loro case, passate ora sotto il controllo del paese islamico.

Il tentativo da parte dell’Azerbaigian di cancellare ogni traccia del patrimonio storico degli armeni è una storia antica. Non si può dimenticare infatti che nel Nakhichevan, tra il 1998 e il 2005, gli azeri distrussero la maggior parte di circa 2.500 khachkar, le tradizionali croci di pietra, considerate tra le manifestazioni più alte del patrimonio religioso armeno, riconosciute nel 2010 Patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

La distruzione della chiesa di Jabrayil dimostra ancora una volta che l’Azerbaigian si è laureata con ottimi voti alla scuola del suo principale alleato, la Turchia. Gli ottomani, infatti, e i loro successori distrussero la maggior parte di circa 2.000 monasteri e chiese nell’Armenia Occidentale. Per non parlare ovviamente del genocidio di un milione e mezzo di armeni. La storia continua.

@LeoneGrotti

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AMERICA/STATI UNITI – Senatori USA chiedono al Presidente Biden di riconoscere il Genocidio armeno (Agenzia Fides 26.03.21)

Washington (Agenzia Fides) – Un gruppo di 37 senatori statunitensi, sia democratici che repubblicani, in appoggio alle posizioni espresse dal Presidente della Commissione per le relazioni estere del senato Robert Menendez, ha indirizzato al Presidente Joe Biden una lettera con la richiesta di riconoscere pienamente e formalmente il Genocidio armeno. “Amministrazioni di entrambe le parti” si legge nella missiva “hanno taciuto sulla verità del Genocidio armeno. Vi esortiamo a rompere questo schema di complicità, riconoscendo ufficialmente che il Genocidio armeno è stato un vero Genocidio”.
Il contenuto della lettera è stato reso noto nei giorni scorsi anche in un comunicato stampa diffuso dall’Armenian National Committee of America (ANCA). “Il Presidente Biden in virtù del suo solido passato e delle risoluzioni bipartisan della Camera e del Senato che ha sostenuto come candidato” ha affermato Aram Hamparian, direttore esecutivo dell’ANCA “si trova in una posizione di forza per respingere la ‘regola del bavaglio’ turca, che blocca la condanna permanente a livello di governo degli Stati Uniti e la commemorazione del Genocidio armeno”.
Nel settembre 2019 Biden, a quel tempo candidato alle primarie democratiche in vista delle elezioni presidenziali USA 2020,aveva invitato gli Stati Uniti a riconoscere “una volta per tutte” come Genocidio il “Grande Male” dei massacri perpetrati nel 1915 contro la popolazione armena nella Penisola anatolica.
Il Presidente Donald Trump, predecessore di Biden alla Casa Bianca, come riferito da Fides (vedi Fides 25/4/2017), aveva dedicato nell’aprile 2017 un pronunciamento ufficiale ai massacri pianificati subiti nella Penisola anatolica dagli armeni nel 1915, ma aveva evitato di applicare a quei massacri sistematici la definizione di “Genocidio armeno”, accodandosi alla linea seguita dai suoi ultimi 4 predecessori per non suscitare reazioni risentite da parte della Turchia.
In passato, i Presidenti USA Jimmy Carter e Ronald Reagan avevano usato l’espressione “Genocidio armeno”, ma poi, da George H.W Bush a Barack Obama, l’espressione era scomparsa da lessico dei leader della Casa Bianca nei loro pronunciamenti ufficiali. Il Presidente Obama, anche a causa delle pressioni turche sul Congresso USA, aveva accantonato la promessa fatta durante una campagna elettorale di riconoscere la natura genocidaria dei massacri subiti nell’attuale territorio turco dagli armeni più di un secolo fa.
La nuova iniziativa bipartisan di senatori USA ripropone la questione del frequente ricorso alla categoria di “Genocidio” nella definizione delle strategie geopolitiche USA. Una opzione carica di risvolti concreti e operativi: nell’ordinamento statunitense, quando i crimini sofferti da una comunità di persone in qualsiasi parte del mondo sono riconosciuti come genocidio, il Presidente Usa è tenuto a porre in atto tutte le opzioni politiche, economiche e militari utili a sostenere le vittime e portare a giudizio i colpevoli. Negli anni della espansione jihadista sui territori iracheni, negli Usa un cartello di 118 sigle e rappresentanti di gruppi civili e religiosi organizzò campagne lobbistiche per spingere le istituzioni statunitensi a riconoscere come genocidio le azioni compiute dai jihadisti del Daesh contro tutte le comunità religiose minoritarie, a partire da cristiani e yazidi. Il risultato più rilevante della campagna è stato l’ “Iraq and Syria Genocide Relief and Accountability Act”, la legge firmata dal Presidente Donald Trump che nel dicembre 2018 definiva come “Genocidio” la serie di crimini perpetrati negli anni precedenti da gruppi jihadisti su cristiani e yazidi in Iraq e Siria, e impegnava il governo USA anche a perseguire i gruppi accusati come esecutori delle efferatezze. La legge fu definita da alcuni invitati alla cerimonia della firma come uno strumento “vitale” per garantire la sopravvivenza dei cristiani in Iraq e salvare le loro comunità dall’estinzione. Nondimeno, il Patriarca caldeo Louis Raphael Sako, anche in una recente intervista rilasciata all’Agenzia Fides (vedi Fides 3/3/2021, ha ripetuto che “Se c’è stato un genocidio, esso ha colpito tutti: i cristiani e ancora di più gli yazidi, ma anche sciiti e sunniti, in numero più alto. Non bisogna separare i cristiani dagli altri, le sofferenze dei cristiani da quelle degli altri, perché in quel modo si alimenta la mentalità settaria”. (GV) (Agenzia Fides 26/3/2021).

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Nagorno Karabakh, il mistero della chiesa scomparsa (Aci Stampa 26.03.21)

L’ultima notizia è la scomparsa di una chiesa in Nagorno Karabakh, nel territorio che gli armeni chiamano Artsakh, e che è finito sotto il controllo dell’Azerbaijan dopo l’ultimo conflitto che si è concluso con un accordo doloroso per la stessa Armenia. Ma la preoccupazione generale è quella di una sostanziale riscrittura della storia, che sta andando a cancellare, insieme agli edifici, anche la memoria della presenza armena nel territorio.

Da quando il Nagorno Karabakh è stato dato in gestione all’Azerbaijan, sono state documentate a più riprese le scomparse di chiese e soprattutto di khachkar, le croci armene di pietra che più di tutto raccontano identità e presenza di quella che si fa chiamare “la prima nazione cristiana”. Si è parlato persino di “genocidio culturale” per raccontare questo sradicamento della cultura armena dal territorio – un timore che, con l’ultimo conflitto, si è particolarmente acuito.

L’ultima guerra in Nagorno Karabakh ha portato territori controllati dagli armeni in mano azera, con tanto di monasteri e chiese. In particolare, la BBC è andata a Mekhakavan, a investigare la scomparsa della chiesa di Santa Mariam Astvatsin. Una chiesa che si pensa sia stata completamente distrutta dalle autorità azere, perché ci sono evidenze fotografiche che, alla fine del conflitto, la piccola chiesa fosse ancora lì, sul colle. Ora, come ha documentato la BBC, non ne resta pietra su pietra.

Le stesse autorità, interpellate dai reporter, hanno dato risposte evasive e affermato che controlleranno l’accaduto. Per gli armeni – che pure possono restare nella regione ora passata nella mani degli azeri – è però la prova che la loro storia viene estirpata. E non è una cosa nuova.

In questi giorni è stato pubblicato uno studio di Hratch Tchilingirian, che ha messo in luce come, da quando il Nagorno Karabakh è stato assegnato all’Azerbaijan divenuto una repubblica sovietica, la regione è divenuta soggetto di una “autenticazione della storia” tipica proprio dei sovietici, che creavano narrative nuove per deformare la pubblica percezione riguardo l’altro e il nemico.

Era – spiega lo studioso – un lavoro tipico, quello di costruire “storie nazionali”, e in particolare nel caso del Nagorno Karabakh è stata usata la cosiddetta “connessione albanese”. Per Albania non si intende lo Stato nei Balcani, ma piuttosto il regno caucasico della regione, e a quel regno si riferisce la nuova storia del Nagorno Karabakh che punta a presentare gli armeni come immigrati più recenti nel territorio.

Ma è davvero così? Tchilingirian ricostruisce la storia, nota che, poco dopo la conversione dell’Armenia al cristianesimo, il Regno di Albania, che includeva anche le province di Artsakh (ovvero il futuro Karabakh) si convertì al cristianesimo grazie allo stesso Gregorio Illuminatore che aveva evangelizzato l’Armenia, e che fu riportato nella regione dopo essere stato martirizzato nell’attuale regione del Daghestan in Russia, e seppellito ad Amaras, tuttora esistente.

Nell’attuale Nagorno Karabakh, tra l’XI e il XIII secolo, furono costruiti più di 40 monasteri e centri religiosi sotto il patrocinio dei principi armeni di Artsakh, nota Tchilingirian, mentre il monastero di Gandzasar divenne la sede dei Catholicos della Chiesa di Albania. Il catholicossato fu drasticamente ridotto nel XIX secolo, ma tra il 1820 e il 1930, il Karabakh “fu luogo di una vibrante vita culturale e religiosa”, grazie anche alla diocesi e a missionari svizzeri che “gestivano dieci scuole solo a Shushi” e fondarono nel 1828 la prima tipografia delle regione.

Ma dal 1923, quando i sovietici si stabilirono nella regione, cominciarono a fare pressione sulle istituzioni religiose, e questo è provato da diverse lettere dei metropoliti armeni di Baku al Consiglio di Etchmiadzin, che notavano come i comunisti formalmente davano a tutti libertà religiosa e di coscienza, ma poi prendevano “misure estreme contro preti e chiese”.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo c’erano “250 – 300 preti che servivano in Karabakh e nelle sue regioni, mentre nel 1996 c’erano solo sei sacerdoti, includendo il vescovo Barkey Martirossian”, sottolinea Tchiliingirian.

Le chiese in Karabakh cominciarono ad essere rinnovate quando, nel 1988, i comunisti fecero un decreto per lo sviluppo socio economico del Nagorno Karabakh in risposta alle proteste a Yerevan e Stepanakert.

“Il primo obiettivo dei leader della chiesa in Karabakh era stato di rinnovare le chiese e fornire luoghi di culto” e fu data speciale attenzione alla riapertura di “monasteri importanti a livello storico, come Amaras e Gandzasar”. Molte sono state le iniziative culturali messe in campo in quegli anni, mentre la Chiesa Apostolica Armena aveva lavorato come avvocato del popolo e dei suoi diritti, come avevano fatto le chiese in Polonia e Germania dell’Est.

C’è anche questa storia da raccontare, quando di parla di Nagorno Karabakh o Artsakh. Una storia che rischia di essere dimenticata.

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L’appello degli intellettuali all’Azerbaigian: «Liberate i prigionieri armeni» (Corriere della Sera 25.03.21)

Pubblichiamo l’appello al governo dell’Azerbaigian per il rilascio dei prigionieri di guerra cui hanno aderito tra gli altri Dacia Maraini, Antonia Arslan, Laura Efrikian, Carlo Verdone e Giovanni Donfrancesco. Per aderire appelloprigionieri@gmail.com.

È estremamente allarmante che, nonostante la Dichiarazione tripartita di cessate il fuoco firmata dai leader di Armenia, Azerbaigian e Russia il 9 novembre 2020, centinaia di prigionieri di guerra armeni e civili, tra cui anche donne, restino prigionieri e non siano ancora stati rilasciati dall’Azerbaigian. Molti di loro sono stati catturati dopo la fine delle ostilità.

Ci appelliamo all’Azerbaigian perché restituisca immediatamente e incondizionatamente tutti i prigionieri di guerra e tutte le altre persone catturate alle loro famiglie in conformità con le Convenzioni di Ginevra e con la Dichiarazione tripartita. Tutti gli ostacoli per il rilascio dei prigionieri di guerra armeni politicizzano il processo di ripresa umanitaria postbellica. La diffusione sui social media dei video che dimostrano il trattamento degradante e disumano nei confronti dei prigionieri di guerra armeni è profondamente preoccupante.

Inoltre, il trattamento disumano dei prigionieri di guerra e di altre persone catturate costituisce una flagrante violazione dei principi del Diritto Internazionale. Crediamo fermamente che il rilascio immediato di tutte le persone catturate sia una questione puramente umanitaria e non debba essere soggetto ad alcuna manipolazione e politicizzazione. Pertanto, sollecitiamo l’Azerbaigian ad astenersi dall’utilizzo di questa questione per scopi politici e a permettere a tutti i prigionieri di riabbracciare i loro cari al più presto possibile. Il rilascio immediato di tutte le persone catturate contribuirebbe a rafforzare la fiducia tra i due paesi, essenziale per la stabilità della regione e nell’auspicio di una pace duratura.

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Nagorno-Karabakh: appello personalità italiane della cultura, Azerbaigian rilasci prigionieri armeni

Roma, 25 mar 18:10 – (Agenzia Nova) – In un appello al governo dell’Azerbaigian per rilasciare gli armeni fatti prigionieri durante il conflitto nel Nagorno Karabakh, diverse personalità italiane del mondo della cultura e dello spettacolo sottolineano che il rilascio “immediato di tutte le persone catturate contribuirebbe a rafforzare la fiducia tra i due Paesi, essenziale per la stabilità della regione e nell’auspicio di una pace duratura”. All’appello si sono uniti tra i tanti, Antonia Arslan, Dacia Maraini, Laura Efrikian, Carlo Verdone e Giovanni Donfrancesco. “È estremamente allarmante che, nonostante la Dichiarazione tripartita di cessate il fuoco firmata dai leader di Armenia, Azerbaigian e Russia il 9 novembre 2020, centinaia di prigionieri di guerra armeni e civili, tra cui anche donne, restino prigionieri e non siano ancora stati rilasciati dall’Azerbaigian. Molti di loro sono stati catturati dopo la fine delle ostilità”, si legge nella dichiarazione. “Ci appelliamo all’Azerbaigian perché restituisca immediatamente e incondizionatamente tutti i prigionieri di guerra e tutte le altre persone catturate alle loro famiglie in conformità con le Convenzioni di Ginevra e con la Dichiarazione tripartita. Tutti gli ostacoli per il rilascio dei prigionieri di guerra armeni politicizzano il processo di ripresa umanitaria postbellica. La diffusione sui social media dei video che dimostrano il trattamento degradante e disumano nei confronti dei prigionieri di guerra armeni è profondamente preoccupante”, si aggiunge nell’appello. (segue) (Res)