Duduk armeni, Corni russi, Vizzutti, Tofanelli e Richardson in Jazz (met.provincia.fi.it 22.07.18)

Lunedì 23 luglio, alle ore 21.00, nel cuore della città gigliata, in Piazza Signoria, sull’Arengario di Palazzo Vecchio, si esibirà la Russian Horn Orchestra diretta dal M° Sergey Polyanichko.
La formazione russa, costitutita da 20 musicisti professionisti di San Pietroburgo, è esempio di perfetta unione tra artigianato e arte. L’artigiano Goloveshko ha costruito I 106 strumenti che, grazie all’abilità tecniche ed espressive dei cornisti, ricreeranno I timbri e I colori di un grandioso organo a canne, capace di stupire il pubblico per versatilità e unicità sonore.
Il programma di questa notte di mezz’estate si aprirà con l’omaggio all’Italia e alla sua canzone d’autore. L’orchestra intonerà la celebre canzone napoletana di Luigi Denza, Funiculì funiculà, scritta nel 1880 per l’inaugurazione della funicolare del Vesuvio.
Dall’Italia alla Russia con l’esecuzione di due pagine della loro tradizione nazionale: la Marcia del Reggimento Preobrajensky scritta da Pietro il Grande per celebrare una delle formazioni militari più antiche ed elitarie dell’esercito imperiale russo; la Preghiera di Peter Ilic Tchaikovsky tratta dalla Suite per Orchestra op. 61 e costruita sul tema mozartiano del celebre mottetto Ave verum Corpus K 618.
Per il 150esimo anniversario della morte del compositore gourmet pesarese Gioachino Rossini la Russian Horn Orchestra ci regala una delle sue più note pagine sinfoniche, l’Ouverture da Guillaume Tell, ultimo lavoro teatrale di Rossini, scritto nel 1836. L’ouverture riassume tutta la trama della creazione operistica, dal paesaggio svizzero tra le Alpi e il Lago di Lucerna, all’eroe arciere svizzero Guillaume Tell, alla vittoria finale degli elvetici sugli austriaci, nella celebre Cavalcata-Galop di chiusura.
L’Ave Maria di Giulio Caccini lascia il testimone allo special guest della serata, il solista Vahan Harutyunyan col suo Duduk, magistrale interprete della Musica sacra armena della tradizione russa.
Il concerto nel centro storico, realizzato in collaborazione con la russa Dellzell Foundation, si chiude con l’esecuzione della Badinerie della Suite orchestrale n. 2 in Si minore BWV 1067 di Johann Sebastian Bach, famosissimo, gioioso e leggero movimento di danza.
Segue, alle re 22.00, presso la Buoneria del Fosso Macinante, il Welcome Party del Festival. Titolo della notte musicale ‘Buoneria in Jazz’. L’Italian Brass Week House Jazz Band – costituita da Massimiliano Calderai al piano, Marco Benedetti al contrabbasso e Stefano Rapicavoli alla batteria – accompagnerà e duetterà con le trombe soliste internazionali del Festival: l’italiano Andrea Tofanelli e gl statunitensi Allen Vizzutti e Rex Richardson. Acrobazie e virtuosismi su standard jazz americani e latino americani saranno I piatti della serata alla Buoneria.
Entrambi gli eventi sono ad ingresso libero.
Per info: segreteria@italianbrass.com – www.italianbrass.com

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Il genocidio degli armeni e la «Masseria delle allodole» (Rassegna 22.07.18)

La cena è servita. La festa, i sorrisi, le canzoni, gli auguri, le foto, le danze, una certa allegria disinvolta, una complicità capricciosa, i riti di una vecchia famiglia patriarcale, come di un tempo sospeso sull’abisso che cerca le giuste cadenze per andare avanti. Poi la tragedia è servita. Ruvida e violenta, come una ghigliottina che cala improvvisa e si abbatte con fragore di urla. Un buco nero che tutto inghiotte e cancella. Una delle ferite più aguzze che ha squarciato le coltri del Novecento, si imprime con dilaniante sconquasso nel corpo drammatico della tradizionale Festa del Teatro di San Miniato (siamo alla 72esima puntata).

La ferita, ancora aperta, andata in scena l’altra sera in piazza del Duomo, è il genocidio degli armeni, un secolo fa, una verità non restituita che aspetta giustizia, sempre caparbiamente negata dai turchi. Ma non è tanto la tragedia in sé, raccontata da Antonia Arslan nel romanzo La masseria delle allodole, apocalittico trapasso dalla pacificata, secolare convivenza di etnie diverse alla delirante deriva nazionalista impressa dal nuovo governo democratico dei Giovani Turchi, a interessare il regista Michele Sinisi (che insieme a Francesco Maria Asselta ha curato la riduzione). Per la Arslan la masseria fu un gesto simbolico, il riappropriarsi a posteriori di una indentità, traumaticamente recisa al tempo del massacro.

Per Sinisi la masseria, con tutte le storie, le gioie e i dolori, sussurri e grida, che ci stanno dentro e rimbombano fuori, è un contenitore di riflessi (e riflessioni) che si proiettano inquieti sul mondo di oggi, un canovaccio da «sperimentare» anche poeticamente, un mosaico di espressioni drammaturgiche che rimbalzano dal teatrino brechtiano all’avanspettacolo epistolare, dal kammerspiel alla ballata popolare, dallo studio televisivo al set cinematografico, dalla liturgia del corpo eucarestia al materialismo del corpo feticcio, dal posto delle fragole alle fragole e sangue.

In un susseguirsi di scene madri che tolgono il respiro e affollano l’udito, cullati dalle canzonette di Aznavour e dai vocalismi di Antony and the Johnsons, l’eco dei «fatti» si mescola, nella coralità dell’impianto scenico di Federico Biancalani, con l’esasperata amplificazione tecnologica, fra schermi e microfoni.
Finché la vicenda precipita, inghiottita in un mare di grucce, effetto domino con gli occhiali, le scarpe, i capelli «esposti» ad Auschwitz, la masseria della Shoah. Repliche fino al 25 luglio.

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Il genocidio degli armeni raccontato in piazza Duomo (Il Tirreno 22.07.18)

SAN MINIATO. Per i fratelli Taviani, che lo girarono nel 2007, “La masseria delle allodole” fu un film necessario. L’occasione, attraverso le pagine del romanzo di Antonia Arslan, di esplorare le ferite, per meglio dire le piaghe, che incidono il corpo del “secolo breve”: il Novecento.

Per Michele Sinisi, regista dello spettacolo prodotto dall’Istituto del Dramma Popolare insieme a Elsinor e Arca Azzurra, e che con quel titolo (in ricordo anche di Vittorio Taviani recentemente scomparso) ha debuttato l’altra sera nella cornice di piazza del Duomo, a chiusura della Festa del Teatro di San Miniato numero 72, a noi è parso essere piuttosto un originale, sensibile grimaldello per aprire porte e scardinare finestre sugli scenari che agitano il mondo di oggi: in un inquietante parallelismo di coincidenze ideologiche, avventurismi bellicosi, repressioni e violenze, estremismi e intolleranze.

Le pagine della Arslan, che attraversano le atrocità del genocidio del popolo armeno perpetrato dai turchi un secolo fa, e vissuto in prima persona dalla famiglia dell’autrice, non cadono nel vuoto. Sono specchi del presente, riflessi e riflessioni, materia viva da trattare “modernamente”, anche in fase di sceneggiatura e di montaggio, in ottica scenografica, non come un residuato televisivo, un format didascalico carico di naturalismo a rapido effetto e facile presa.

Sinisi osa. Espande l’intreccio, tonifica l’impianto, rischia l’eccesso, la moltiplicazione dei piani e delle interferenze, coniuga il realismo con il simbolismo, e coraggiosamente inquina la tavolozza. Che procede coralmente come una “grande abbuffata”, anche concretamente trattata, tra ricette, frutta, verdura e grigliata.

L’inizio è narrativo. La grande casa armena, dove la convivenza con i turchi è scandita nel tempo dal rispetto reciproco, è in festa. Si balla, si canta, si chiacchiera, si scherza, si gioca, si amoreggia, la cucina è pronta, la tavola è imbandita, niente lascia trapelare il dramma che di lì a poco si abbatterà come un maglio distruttivo.

Si discute di tutto, scienza, poesia, religione, amore, sesso, ornitologia. È il teatro della vita. Vissuta su un set cinematografico, con quella “giraffa” che accompagna i dialoghi, li amplifica, e quelle riprese incollate sui volti che rimbalzano in presa diretta sullo schermo. Moderni selfie.

Poi le traiettorie si incrinano. La festa è finita. La danza si spegne in una silenziosa pantomima di anime morte. La violenza che si scatena come un calvario riflesso nel corpo del Cristo in croce, è una nuova partitura di cui non si conoscono i confini. E i profili.

Giustamente Sinisi del genocidio armeno, della deportazione, degli stupri, delle atrocità, delle torture, del massacro di uomini inerti, fa decantare la distanza che insorge nell’attualità di un manipolo di agenti

in assetto antisommossa che sperpera fiumi di selvaggia violenza. Alla fine sarà l’allodola, leggendaria creatura, a uscire viva dal pestaggio, a farsi materno rifugio, a materializzarsi come mascotte di una nuova vita.


A san Miniato va in scena la tragedia de “Il grande male” degli Armeni (AciStampa 22.07.18)

Ci sono tragedie che non possono mai concludersi, che rimangono a scavare solchi profondi di dolore nonostante gli anni, i decenni, i secoli. Sono ancora oggi vita quotidiana  la tragedia del popolo armeno, il suo genocidio spietato, il Grande Male, come per triste tradizione viene chiamato, e, insieme, la sua storia millenaria e la sua fede, la “resistenza” di questa entità inscindibile: il popolo e la sua fede.

Esistono opere d’arte che, pur nella trasfigurazione lirica, perpetuano questa presenza, la rendono viva, contemporanea. E’ questo il caso del romanzo di Antonia Arslan “La masseria delle allodole”, pubblicato nel 2004 e già diventato un classico. Trasposto in chiave cinematografica,  nel commovente film diretto dai fratelli Taviani, ora e’ stato adattato per una messa in scena teatrale, altrettanto emozionante e poetica.

Per la regia di Michele Sinisi, dunque, con lo scenografo Federico Biancalani e con il drammaturgo Francesco Maria Asselta, con una decina di interpreti, tra cui Marco Cacciola e Stefano Braschi, “La masseria delle allodole” va in scena in questi giorni nell’ambito della annuale Festa del Teatro/Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, una manifestazione che ha alle spalle una tradizione consolidata di valore e di successo, che ha come coordinate-guida la ricerca spirituale della parola e dell’atto teatrale, insieme al dialogo interreligioso.

Un’occasione in più per tornare a quel romanzo così importante, in cui la Storia insanguinata -il genocidio degli Armeni perpetrato dai turchi durante la Prima Guerra mondiale – prende corpo nella vicenda di una famiglia, ricostruita dall’autrice sul filo di ricordi dolci e dolorosi allo stesso tempo, a volte allontanati dalla stessa memoria per non doverne sopportare il peso.

La Masseria è il luogo della vita felice, il rifugio, il sogno perduto per sempre eppure scintillante di una luce eterna. Qui, proprio nella pacifica e remota masseria, dove la famiglia al centro della narrazione passa i momenti di svago, di villeggiatura, al riparo dal caldo e dai travagli quotidiani, irrompono un giorno i soldati turchi che uccidono, seviziano,   deportano.

L’orrore arriva fino al cuore dei luoghi della pace, dei ricordi, nel tempo delle lunghe chiacchierate a tavola o nel giardino ricco di, piante e di frutta. Imbratta e devasta la bellezza, fa calare una nube oscura su ogni cosa, su ogni essere vivente. Il mito della Grande Turchia, processato dai Giovani Turchi, ingoia la vitalità mite della gente armena, al profumo dei gelsomini, così tenacemente risuscitato dalla forza dei ricordi della Arslan, si perse nell’amore del sangue versato,  nelle macerie in cui quasi si estinse la famiglia di Yerwant, vissuta e prosperità “nella piccola città”, dalle fattezze fiabesche dell’Anatolia perduta.

Lo spettacolo in scena a San Miniato rappresenta il pranzo, l’ultimo, della famiglia riunita in campagna, rievocandone gli umori, i litigi, i rapporti, i sogni, i progetti, e parallelamente il dialogo tra alcuni rappresentanti del, potere turco, che progettano a tavolino il genocidio, cercando di darne una “giustificazione”, una motivazione, in realtà presentando il volto oscuro della voglia di distruzione, di predominio,  di sopraffazione, di avidità.

La fine della rappresentazione coincide con la fine della storia, con la distruzione fisica, in un silenzio allucinato, di ogni cosa, tranne un flebile canto di allodole,  ormai consapevoli  he ogni essere vivente puo’ cedere al male, che “esiste quando Dio non c’è”. Nelle note di scena il regista Sinisi spiega che “nella seconda parte, durante la strage, l’intero gruppo di attori giocherà tragicamente a far crollare tutto ciò  he si sarà costruito in scena nella, prima parte intorno al tavolo, durante quella vita bella nella masseria. Senza parole, l’intera struttura della prima parte collasserà. Gli unici suoni saranno quelli  che un’allodola in scena ricorderà dopo la strage, avvenuta sotto gli occhi di tutti, come del resto avviene a noi tutti i giorni. Seduti nelle nostre poltrone”.

Il romanzo, torniamo a sottolineare, ha un valore, oltre che intrinsecamente letterario, di testimonianza dolente e un  j’accuse potente che molto ha contribuito, in questi anni, a far scuotere le coscienze in tutto il  mondo nei confronti di quelle stragi che in molti modi, ma soprattutto con il silenzio, si è tentato di cancellare, di negare, e ancora si continua a farlo.

Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”, Rizzoli editore, pp.233


Alla Festa del Teatro di San Miniato va in scena “La masseria delle allodole” (Vaticanews 21.07.18)

Si è aperta a San Miniato, in provincia di Pisa, la 72.esima edizione della Festa del Teatro. L’iniziativa è promossa ogni anno dalla Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato grazie al sostegno di numerose realtà locali come la diocesi, il Comune e la Fondazione Cassa di Risparmio

Adriana Masotti – Città del Vaticano

Il romanzo “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan, dal quale i fratelli Paolo e Vittorio Taviani trassero nel 2007 un film di successo, sul genocidio degli armeni, vede rappresentata in questi giorni la sua prima versione teatrale. A proporla è la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato nell’ambito della Festa del Teatro di San Miniato che si concluderà il 25 luglio prossimo. La regia è di Michele Sinisi, con lo scenografo Federico Biancalani e con il drammaturgo Francesco Maria Asselta. Una decina gli interpreti tra cui Stefano Braschi e Marco Cacciola.

Il genocidio armeno simbolo del male

“La masseria delle allodole” racconta uno degli eventi più drammatici del ‘900: il genocidio degli armeni da parte dei turchi durante la prima guerra mondiale, ricostruito sul filo dei ricordi familiari e consegnato alla memoria collettiva in un intreccio di storia e poesia.
Molte le ragioni che hanno portato alla scelta di questo lavoro per l’edizione di quest’anno del Festival. “La ragione principale – spiega ai nostri microfoni il presidente dell’Istituto Dramma Popolare, Marzio Gabbanini – è che il dramma popolare intende rimanere in linea con la sua missione. E la sua missione è quella di affrontare problemi di attualità, di affrontare tutte quelle questioni che pongono interrogativi sul nostro esistere. C’ è parso dunque il momento di riprendere il discorso già affrontato dai nostri celeberrimi concittadini, i fratelli Taviani, su una realtà, il genocidio degli armeni, che è stata a lungo sottaciuta, e di affrontarlo anche in forma teatrale. Tutti gli spettacoli del Festival hanno avuto negli anni lo stesso filo conduttore: bisogna costruire ponti, fare inclusione, accoglienza, dialogare tra le religioni. Questo è il messaggio: rispettare tutti,  proprio perché anche oggi si assiste a forme di persecuzione e di violenza sulle minoranze, soprattutto per motivi religiosi”. (Ascolta l’intervista a Marzio Gabbanini, sulla Festa del Teatro di San Miniato)

Un doveroso omaggio ai fratelli Taviani

San Miniato è la città dei fratelli Taviani, nel marzo scorso la morte di Vittorio, il più anziano: anche questo è uno dei motivi della scelta di mettere in scena “La masseria delle allodole”.
“Sì, noi abbiamo voluto omaggiare i fratelli Taviani di cui siamo orgogliosi e siamo molto addolorati che Vittorio, il fratello maggiore, sia morto. Loro hanno affrontato la tematica del genocidio degli armeni e hanno fatto un film celeberrimo, e noi abbiamo deciso di portarlo in teatro. Noi siamo il teatro dello spirito, il teatro del cielo, non siamo un teatro confessionale e non abbiamo nemmeno la pretesa di dare risposta a questi interrogativi. La nostra missione è di far riflettere su questi problemi”.  Il Teatro popolare, prosegue Gabbanini, “è un teatro che si deve rappresentare sui sagrati delle chiese, nelle piazze, nelle fabbriche, dove la gente si incontra, senza rinunciare alla qualità degli spettacoli e io credo che anche quest’anno ci si sta riuscendo”.

La versione teatrale del regista Sinisi

Portando in scena questo testo nell’ambito del Festival di San Miniato, Michele Sinisi racconta la struggente nostalgia per una terra e una felicità perdute.
Diversi i linguaggi narrativi utilizzati: “Nel mio teatro le parole sono presenti – spiega il regista – l’azione verbale è presente ma condivide sulla scena lo stesso ruolo con altri segni che appartengono ad altre possibilità comunicative: segni pittorici, scultorei, musicali, strumentali… Tutto questo concorre nel mio modo di far teatro a costruire un corpo narrativo che è contemporaneo e popolare nell’accezione per cui noi oggi nella comunicazione ormai strutturalmente adoperiamo segni ed elementi tecnici che ci permettono di comunicare anche a distanza ma che formano anche la consapevolezza degli altri”. (Ascolta l’intervista a Michele Sinisi su “La masseria dell’allodole” a San Miniato)

Un gesto d’amore senza uno scopo è la vera rivoluzione

Il nostro lavoro su “La masseria delle allodole”, spiega Sinisi, si focalizza su una continua azione scenica sviluppata in un pranzo durante il quale si parla di scienza, di poesia, di amore, di Dio, di musica e di contrasti generazionali. È la vita nella sua semplicità e bellezza. A questa prima parte segue l’irruzione dei turchi. E qui assoluto protagonista è il male, la cattiveria più brutale di cui l’essere umano può essere capace. Ma confrontarsi con il male può servire ad allontanarci dal compierlo ancora? “Io credo – afferma il regista – che questo possa essere utile nella misura in cui però si capisce che quel male, quell’esperienza, quella possibilità è interna a ciascuno di noi”. Il punto è comprendere che l’innocenza come quella legata ai nostri primi anni di vita, risulta la vera cifra vincente di tutte le storie. “Nel rapporto con la nostalgia e nel ricordo delle cose che non sono più, nello sfuggevole piacere di qualcosa che è stato il bene- conclude Sinisi – c’è un continuo rinnovare quell’esperienza di un amore e un darsi agli altri senza interesse, senza uno scopo. E penso che questo sia il vero gesto rivoluzionario in questo momento della nostra storia”.

Osce: rappresentante speciale Presidenza italiana Severino a “Nova”, in Armenia volontà di ottenere risultati concreti su lotta a corruzione (Agenzianova 20.07.18)

Roma, 20 lug 15:00 – (Agenzia Nova) – In Armenia traspare la volontà di trasformare la rivoluzione culturale in una rivoluzione normativa, con la consapevolezza che si deve passare…

Il rappresentante speciale della presidenza italiana dell’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (Osce) ha citato i…

Tale impressione, ha proseguito Severino, è stata confermata dall’incontro avuto con il ministro della Giustizia armeno, Artak Zeynalyan,…

In questo senso, come rilevato dal rappresentante speciale della Presidenza italiana dell’Osce, anche il nostro paese ha vissuto in passato…

Nel corso dell’incontro con il premier Pashinyan è emersa la necessità che lo scambio culturale avvenga anche attraverso i magistrati italiani,…

In questo contesto, ha ribadito Severino, il sequestro dei proventi derivanti dal reato di corruzione è stato un obiettivo “che l’Italia…

A seguito degli incontri avvenuti in Armenia, ha proseguito Severino, l’idea sarebbe di creare un piano molto articolato, sul modello di…

La Presidenza italiana dell’Osce vuole sensibilizzare, ha sottolineato Severino, tutti i governi e i paesi aderenti all’organizzazione verso… (Frm) © Agenzia Nova – Riproduzione riservata

International Contemporary Art Exhibition: Armenia 2018. Soundlines of Contemporary Art (Arte.go.it 20.07.18)

In occasione del centesimo anniversario della nascita della Repubblica armena, Yerevan apre le porte all’arte contemporanea con la mostra “International Contemporary Art Exhibition: Armenia 2018. Soundlines of Contemporary Art” che coinvolge tutta la capitale attraverso l’esposizione di oltre cinquanta artisti in sette sedi.

Si tratta della prima manifestazione di arte contemporanea a Yerevan che unisce tutti i mezzi espressivi – pittura, scultura, fotografia, video, installazione – e che mette in dialogo un gran numero di artisti provenienti da ogni parte del mondo, invitati a realizzare le opere in situ e contestualmente a tenere dei workshop con gli studenti delle accademie. L’obiettivo è infatti coinvolgere il più possibile il territorio, renderlo partecipe del dibattito artistico ed evidenziarne la vocazione allo scambio culturale. Per questo motivo si estende alla città con una diffusione capillare nei maggiori luoghi dediti alla cultura: Armenian Center for Contemporary Experimental Art, Aram Kachaturian Museum, Cafesijan Center for the Arts, Hayart Cultural Center, Artists’ Union of Armenia, A. Spendiaryan Opera and Ballet National Academic Theater, Armenian General Benevolent Union.

La mostra pone al centro dell’attenzione concetti chiave come l’interazione culturale, l’identità, la mobilità, la circolazione del pensiero, il confine come soglia reale e mentale che divide e consente allo stesso tempo lo scambio e il dialogo culturale. Questi importanti temi sono ripresi anche nel titolo “Soundlines of Contemporary Art” in cui il legame e la metafora con il suono sottolinea il potere della voce dell’arte. In maniera analoga a quanto avviene in un’orchestra in cui il suono del duduk, armeno, si integra perfettamente con gli altri strumenti, la rassegna intende rispecchiare una fusione culturale nella storia contemporanea e la scena globale in cui artisti armeni dialogano con quelli di altri Paesi.

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Accompagna la mostra un catalogo in due volumi, edito da Manfredi Edizioni con testi in inglese del Presidente della Repubblica Armena, del Ministro della Cultura Armeno, dei curatori Mazdak Faiznia e Marina Hakobyan e di Shaula International LLC. Il volume I è dedicato a “Soundlines of Contemporary Art” e il volume II al “Progetto Open Sounds of Contemporary Art”.

“Soundlines of Contemporary Art”, curata da Mazdak Faiznia e Marina Hakobyan e ideata e organizzata da Shaula International LLC, sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica d’Armenia, gode dei patrocini del Governo Canadese, del Ministero della Cultura Armeno, del Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, del progetto di promozione culturale della Farnesina Vivere All’italiana, dell’Ambasciata Italiana in Armenia, ed è supportata dal Ministero Affari Esteri Armeno, dalla Delegazione EU in Armenia e dalla Armenian General Benevolent Union (AGBU).
Ufficio Stampa per l’Italia: IBC Irma Bianchi Communication

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Cultura: Armenia-Italia, domani a Erevan in scena l’opera Arshak II (Agenzianova 18.07.18)

Erevan, 18 lug 11:18 – (Agenzia Nova) – Andrà in scena nel teatro della capitale dell’Armenia Erevan domani sera l’opera Arshak II di Tigran Tchoukhajian, il cui libretto fu scritto nel 1868 in italiano e in armeno. L’iniziativa, che si svolge con il sostegno dell’ambasciata italiana a Erevan, avviene in coincidenza con la visita nel paese caucasico da parte di Paola Severino, rappresentante speciale della presidenza italiana dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) per la lotta alla corruzione. Il libretto in italiano è opera di Tovmas Terzyan e si basa su “La storia armena” degli storiografi medievali Mose di Corene e Fausto di Bisanzio. Arshak II è la prima opera lirica armena ed in generale la prima nella storia della cultura musicale dell’oriente, scritta nelle tradizioni di “Grand opera” italiana del XIX secolo (Rossini, Bellini, e le prime opere di Verdi). Il primo spettacolo fu messo in scena dalla compagnia teatrale italiana. La trama dell’opera è relativa al ritorno vittorioso di Arshak II dalla guerra con i persiani e alla seguente congiura ordita dal nobile Tirit per usurpargli il trono e sposare Parandzem, di cui il re era innamorato. L’iniziativa, frutto della collaborazione tra l’ambasciata italiana in Armenia e il direttore del teatro dell’opera di Erevan, Constantine Orbelian, rientra nell’innovativa strategia Vivere all’Italiana, lanciata dalla Farnesina per la promozione integrata dell’Italia all’estero. (Res)

Leonardi racconta il genocidio degli armeni (trcgiornale.it 18.07.18)

Due libri per ricordare il genocidio degli armeni e ripercorrere la loro storia. E’ questo il lavoro fatto da Letizia Leonardi, scrittrice civitavecchiese che si è posta l’obiettivo di far conoscere la storia, riguardante l’uccisione di un milione e mezzo di armeni in Turchia tra il 1915 e il 1916.

La prima opera, “Mayrig”, è una traduzione di un libro di Henri Verneuil. La seconda, invece, si chiama “Il chicco acre della melagrana” ed è stato scritto da Leonardi assieme a Kevork Orfalian, sopravvissuto al genocidio.

“Voglio far conoscere questa barbarie – spiega la scrittrice Letizia Leonardi – che molti non sanno nemmeno che sia esistita. Grazie anche all’apporto di Orfalian, i libri parlano e spiegano tutto ciò che è accaduto, anche se per molto tempo in Turchia c’è stato un fortissimo negazionismo, poi sbugiardato dalla realtà dei fatti. Chi vuole acquistare i libri può andare sulle rispettive pagine Facebook oppure richiederlo alle varie librerie in città”.

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Il Messaggero: Continua la botta e risposta con l’ambasciatore turco in Italia

Lo scorso 11 luglio 2018, L’Ambasciatore turco in Italia, aveva replicato, sempre sul quotidiano il Messaggero,  all’ultima lettera dell’Ambasciatrice Baghdassarian, ribadendo ancora una volta le tesi negazioniste della Turchia. In data 17 luglio 2018 il Messaggero ha pubblicato la risposta del “Consiglio per la comunità armena di Roma” che ripotiamo di seguito, insieme alla lettera del diplomatico turco in Italia.

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La questione armena controversia senza fine

Nevart Cricorian*

Atteso che il dibattito sul genocidio armeno prosegue con un nuovo intervento dell’ ambasciatore turco Murat Selim Esenli, riteniamo doverosa una nostra ulteriore puntualizzazione sul tema. Come armeni, come cittadini italiani di origine armena, non possiamo che essere avviliti e indignati per il fatto che a oltre un secolo dalla tragedia armena (il Grande male), gli attuali eredi dell’ impero ottomano ancora perseguano una politica armenofoba e negazionista. Qui in discussione, si badi bene, non c’ è tanto o soltanto il termine genocidio: ancora oggi infatti in Turchia lo Stato tende ad escludere o minimizzare le persecuzioni degli armeni, la deportazione e la morte di centinaia di migliaia di nostri compatrioti. Per decenni il governo turco ha perfino negato l’ esistenza stessa degli armeni e di conseguenza della questione armena; poi, a fronte dell’ evidenza dei fatti, la popolazione armena è stata classificata alla stregua di un nemico interno (in piena guerra mondiale) conferendo implicitamente una sorta di legittimità giuridica e morale al suo annientamento. Il rappresentante diplomatico di Ankara tenta di presentare come verità alcune tesi negazioniste e non esita a richiamare a testimonianza uno storico come Bernard Lewis che negli anni novanta fu condannato dalla Corte di appello di Parigi proprio per la sua visione negazionista della storia. Per quanto riguarda gli archivi ottomani ci limitiamo a riportare un dispaccio datato 1° dicembre 1915 del Ministro dell’ Interno Talaat Pasha nel quale viene riportato quanto segue: Senza ascoltare nessuna delle loro ragioni, rimuoverli immediatamente, donne, bambini, chiunque essi siano, anche se sono incapaci di muoversi Perché, invece di misure indirette di sterminio usate in altri luoghi, come severità, furia, difficoltà di viaggio, miseria, possono essere usate misure più dirette da voi, perciò lavorate con entusiasmo… Il luogo di esilio di questa gente sediziosa è l’ annientamento. Ad avallare quanto sopra non possiamo che citare il Console Onorario d’ Italia a Trebisonda dell’ epoca Giacomo Gorrini che denunciò le persecuzioni subiti dagli armeni proprio sulle pagine di questo giornale il 25 agosto 1915 Per quanto riguarda l’ elenco dei Pasha e dei ricchi faccendieri armeni, l’ ambasciatore si è dimenticato di menzionare Krikor Zohrab, deputato armeno, che qualche giorno prima del 24 aprile 1915, data di inizio del genocidio armeno, si era recato dal suo amico Talaat Pasha, per chiedere spiegazioni in merito alle deportazioni e quest’ ultimo lo rassicurò che si trattava di notizie infondate salvo poi ordinare il suo assassinio insieme a tutti i notabili armeni, inclusi i Pasha, i ricchi banchieri ed i mercanti industriali armeni. Su una cosa ci troviamo d’ accordo con l’ ambasciatore turco, dobbiamo evitare di aiutare coloro che ricorrono al fanatismo, al rancore, all’ ostilità, distorcendo e manipolando la storia, anche se ci rendiamo conto che è un dato di fatto e gli interventi del diplomatico turco lo dimostrano chiaramente che nel 2018 la Turchia ha paura di affrontare il proprio passato, gioca intorno ai termini, semina informazioni false e/o distorte sull’ argomento, cita fonti inattendibili, manda in esilio i propri storici controcorrente come il prof Taner Akcam, incrimina giornalisti, scrittori e premi Nobel come lo scrittore Orhan Pamuk e la scrittrice Elif Shafak, mette al bando partiti politici, imbavaglia l’ informazione, licenzia decine di migliaia di funzionari statali e insegnanti in un clima sempre più cupo e drammaticamente sempre più simile a un secolo fa.

*Presidente del Consiglio per la comunità armena di Roma.


Lettera dell’Ambasciatore turco del 11.07.18

 

La Russia mi cambia la fantasia (Lopinionitsa 14.07.18)

Il lamento del duduk, questo strumento tipico degli armeni, mi è arrivato addosso quando stavo uscendo dalla trattoria di San Pietroburgo dove ero stato invitato. Lo suonava un vecchio che era venuto apposta in questo locale per festeggiarmi. Un suono che sul primo momento mi ha fatto pensare alle pecore.

Uno zufolo che sicuramente riuscivano a costruirsi i pastori con le canne e con i rami del ciliegio. Una fila di buchi e una linguetta larga simile al becco di un’anatra. Ha cominciato quasi subito a incantarmi questo suo tentativo di regalarmi il motivo più noto che conosceva. Ed io sono entrato nella rete di questi dolci ricami che facevano vibrare e soffrire l’aria che usciva umida dallo strumento.

Tutto dentro di me è diventato una preghiera, una sofferenza che voleva arrivare a chiedere un perdono con un suono primitivo quasi balbettato, fino a quando moriva in un fiato lungo che si spegneva per sfinitezza.

Stavo raccogliendo questi suoni in modo così attento al musicante e ho lasciato che quei lamenti si fermassero dove nella memoria stavano raccolti i rumori della mia infanzia.

E presto tra i mandorli… Sono partito per Mosca col treno di mezzanotte. Mi incuriosivano i lumi dei marciapiedi deserti davanti a stazioni addormentate. Ho ripensato all’alfabeto italiano che avevo discusso all’Hermitage e ho ricordato quando vidi la prima volta che gli armeni avevano fatto al loro alfabeto.

Stavo capendo che era un’idea molto giusta e profonda. Perché l’alfabeto è la sostanza vera e solida di una nazione. Se si smarrisce l’alfabeto e diventa appena un rumore, quel popolo che lo usa non esiste più.

É anche per questo ho seguito con entusiasmo l’idea di Marin Azizian di illustrare le lettere dell’alfabeto italiano. E’ componendo, incastrando, allineando quelle lettere del nostro alfabeto che arriva alle orecchie del mondo la voce della “Divina Commedia” e la leggerezza magica del Petrarca, del Boccaccio, del Montale e Pasolini.

Finalmente una sosta dopo lunghi stridori degli ingranaggi per adagiare in un biancore lunare di ghiacci la nostra lunga fila di carrozze piene di sonni agitati.

Vedo che è sceso un passeggero con un grosso elefante di plastica sulle spalle. Scompare. La magia della Russia mi ha ripreso. Non si possono tagliare i ponti con una tenerezza speciale nel far cadere dolcemente le foglie d’autunno che ti porti ancora addosso.

Tra una ventina di giorni mi aspetta l’Italia e quindi Campagnola Emilia. So di tornare con una fantasia diversa, pronta a raccogliere il calore degli amici e il profumo dei mandorli in fiore.

La differenza è questa: in Russia anch’io sono un mandorlo…

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E’ il lavash il patrimonio dell’Armenia: nel sottile pane tradizionale c’è la storia bimillenaria del Paese asiatico (Turismoitalianews.it 13.07.18)

Giovanni Bosi, Yerevan / Armenia

E’ lo specchio del Paese. Un testimonial autentico e immutato di un popolo e di un Paese che ha saputo mantenere intatte le sue tradizioni difendendo la propria storia. E non è stato facile perché il passato ha riservato agli Armeni prove difficili e dolorose. Non è un caso che proprio un alimento sia il loro elemento distintivo e che l’Unesco abbia voluto iscriverlo nel Patrimonio culturale mmmateriale dell’Umanità : il Lavash, il sottile pane tradizionale che fa parte integrante della cucina armena. La sua preparazione, caratterizzata da un lavoro di gruppo al forno, rafforza i legami familiari, comunitari e sociali.

(TurismoItaliaNews) A tavola non manca mai, servito in generose porzioni in cestini intrecciati. Così quando giri per l’Armenia e sei pronto a sederti a tavola, lo sguardo corre subito sul lavash in bella mostra e il buon odore stimola l’acquolina pregustando come potrai combinarlo, in genere formaggi locali ed erbe aromatiche come il prezzemolo, il basilico rosso, il coriandolo, la menta, il dragoncello, il timo oppure la cipolla.

Ma del lavash, al di là del sapore, colpisce il metodo di preparazione sistematico intrapreso da un piccolo gruppo di donne richiedendo un grande sforzo, coordinazione, esperienza e abilità speciali. E’ dal 2014 che l’Unesco ha apposto il suo bollino di tutela perché considerato simbolo della famiglia e della prosperità e perché nel corso dei millenni ha mantenuto intatta la sua essenza e il suo sapore. Del resto la cucina armena è una delle più antiche in Asia, frutto di elaborazioni sviluppate dal popolo armeno per millenni. E si sa che il pane oltre ad un valore nutriente, ha anche un grande valore simbolico, a maggior ragione in Armenia, primo Stato cristiano del mondo, con Haik discendente di Noè considerato dalla tradizione cristiana antenato di tutti gli armeni. Fu proprio Haik, stabilitosi ai piedi del monte Ararat (che oggi si trova in territorio turco ma praticamente visibile con la sua splendida silhouette da buona parte dell’Armenia) ad assistere alla costruzione della Torre di Babele per poi sconfiggere il re assiro Nimrod presso il lago di Van.

Se dici Armenia non puoi non dire storia, non puoi non immergerti nel passato epico e tremendo di questo popolo. Così quando mangi il lavash, nel suo sapore ritrovi un passato mai dimenticato.

 

Già, ma come si fa? Un semplice impasto a base di farina di grano e acqua, un pizzico di sale e senza lievito, viene lavorato e composto in palline. Una per volta, le palline vengono preparate a mo’ di “sfoglie” sottili con un mattarello e affinate facendole volteggiare con le mani, quindi stese su uno speciale cuscino ovale che viene “schiaffeggiato” contro il muro di un tradizionale forno conico in argilla, il tonir, rivestito di pietra o di ceramica, scavato nella terra. Dopo trenta secondi il pane cotto viene estratto dalla parete del forno. Assistere alla preparazione è come trovarsi davanti a un rito ancestrale, con le donne che sorridono quando si rendono conto della nostra meraviglia nel vederle all’opera. Perché davvero di maestria si tratta nei loro movimenti rapidi e decisi, frutto di un’esperienza acquisita giorno dopo giorno, tramandata di generazione in generazione.

Il lavash (che è meglio mangiarlo appena sfornato, anche se può essere conservato per un massimo di sei mesi, in fogli essiccati e impilati l’uno sull’altro) svolge un ruolo rituale nei matrimoni, dove viene posto sulle spalle degli sposi per portare fertilità e prosperità. Non solo donne comunque nella fase di preparazione: gli uomini sono coinvolti ancor prima nella creazione dei cuscini e dei forni, con l’impegno di trasmettere la loro abilità a studenti e apprendisti come passo necessario per preservare la vitalità della produzione del lavash.

Se il lavash è una presenza irrinunciabile a tavola, la gastronomia armena si rivela una piacevole scoperta, per la sua varietà e i suoi sapori delicati tanto che in passato ne hanno parlato con ammirazione lo storico greco Senofonte e Alessandro Magno. Come nel caso delle zuppe, nelle quali insieme alla carne si possono trovare patate, cipolle, mele, mele cotogne e albicocche secche; mentre nelle zuppe di pesce si aggiunge il corniolo e in quelle con i funghi compaiono prugne e ciliegie o uva passa.

Sapori dunque di grande effetto. Una curiosità: in cucina si usano molto i vasellami di terracotta e così molti piatti hanno finito con il prendere i nomi delle stoviglie piuttosto che del contenuto, come ad esempio putuk, kchcuch e tapak.

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Cardinale Parolin striglia i negazionisti, il genocidio armeno del 1915 è un fatto storico (Il Messaggero 13.07.18)

Città del Vaticano – Se il governo turco, dopo 103 anni, si ostina a negare l’evidenza storica del genocidio armeno, il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, denuncia senza mezzi termini le responsabilità del governo ottomano dell’epoca responsabile del piano di sterminio della minoranza armena. In una lectio magistralis tenuta ad Aquileia (Udine), a cento
anni dalla conclusione della prima guerra mondiale, il cardinale parlando di quel periodo sottolinea di come il caos era riuscito a dissolvere “l’ordine internazionale centrato sull’Europa
senza riuscire a sostituirlo in maniera equa e duratura” ha affrontato la pagina più nera.

Quel conflitto mondiale ih reso possibile ciò che
 ancora ci riempie di orrore: «l’inizio delle stragi di massa, di
 cui rimase vittima allora la popolazione armena – in soccorso 
della quale si mosse allora quasi soltanto la Santa Sede – tanto
 da rendere indispensabile il conio di una parola fino a quel
 momento inesistente in tutti i vocabolari: la parola
 ’genocidio’, che oggi fa parte, purtroppo, del nostro linguaggio 
corrente».

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