Davino, il santo viandante venuto da oriente (Luccaindiretta 06.06.18)

Procedendo sempre verso oriente, in bilico tra l’Europa e l’Asia, trovi l’Armenia. Terra ambita da Roma fin dai tempi di Marco Antonio e Cleopatra, fu tra le prime a farsi cristiana (301) e la sua Chiesa vanta tradizioni antichissime che risalgono al III secolo. Convinzioni religiose radicate e robuste quelle del suo popolo che agirono da forte elemento identitario: nel corso dei secoli non furono pochi gli armeni che si fecero battezzatori, evangelizzatori, predicatori della fede in Cristo, pellegrini in movimento da l’uno all’altro dei punti cardinali.

Ricordiamone alcuni tra i più noti: san Gregorio, detto l’Illuminatore (257 – 332 circa), vescovo, santo e fondatore della Chiesa apostolica armena; san Miniato, re armeno e nel 250 protomartire della città di Firenze; san Biagio, vescovo di Sabaste all’inizio del IV secolo che guariva dalle malattie uomini e animali con una semplice benedizione e, non ultimo, il lucchese san Davino. Questo, all’incirca mille anni or sono, dopo aver ceduto tutte le sue ricchezze ai poveri, si impegnò in una vita di preghiera, santità e instancabili pellegrinaggi ai luoghi santi. Raggiunse dapprima il santo sepolcro di Gerusalemme e si soffermò in meditazione e preghiera là dove furono deposte le spoglie mortali di Gesù Cristo dopo la crocefissione. Probabilmente la presenza di Davino a Gerusalemme coincise con i lavori di ricostruzione della basilica: la madre, cristiana, dal califfo Imam fatimide al-Hakim bi-Amr Allah fa riedificare la basilica dopo la distruzione operata dal figlio nel 1009. Da Gerusalemme Davino mosse allora i suoi passi verso la turbolenta Roma dell’XI secolo per onorare Pietro, l’apostolo più citato nei Vangeli e riverire la Veronica, la “vera icona”: un telo con cui una pia donna, durante il percorso della via crucis, deterse dal sangue e dal sudore il volto di Gesù e che miracolosamente ne riproduce le fattezze. Instancabile, il viandante armeno diresse allora i suoi passi verso San Giacomo di Compostella, considerato il terzo luogo per importanza dei pellegrinaggi medievali. Non vi giunse mai, Davino, perchè si fermò a Lucca: malato fu ricoverato prima in un piccolo ospedale che sorgeva nei pressi di San Michele in Foro, poi nella casa di una ricca vedova, Atha, dove nel giro di poche settimane, mancò. Breve, quindi, la permanenza di questo sant’uomo venuto dall’oriente nella nostra città, sufficiente, però, a mostrarne le virtù proprie di una condizione di santità: una fede genuina e intensa; la perseveranza nella ricerca di Dio e nella speranza del Vangelo; la gioia paziente con cui visse malattia e sofferenze. Davino morì il 3 giugno 1050 e fu sepolto nei pressi di San Michele, un luogo che negli anni immediatamente successivi era destinato a diventare sede di non pochi segni miracolosi. Intanto sembrò che la santa morte di Davino favorisse la piena conversione della sua ultima ospite, Atha; poi, che il pio pellegrino avesse messo in fuga il demonio dal corpo di una donna, restituita la vista a un cieco e l’udito e la parola a un sordo-muto, senza dimenticare la guarigione di un giovinetto ritenuto insanabile dai medici. Sarà Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca dal 1058 e poco più tardi papa col nome di Alessandro II (1063-1071), a cogliere tutta la ricchezza di grazia che la vita e l’esperienza di Davino potevano offrire alla Chiesa di Roma duramente impegnata in quel periodo nella lotta per la riforma, contro la simonia e il nicolaismo e mentre già cominciava a profilarsi il duro scontro che opporrà nei secoli successivi la Chiesa all’Impero. Per volontà di questo pontefice il corpo di Davino fu riportato in San Michele per una più degna sepoltura. Proclamato santo probabilmente nel 1159 durante il pontificato di Alessandro III (1159-1181), il grande avversario di Federico Barbarossa, le spoglie di san Davino furono via via meglio sistemate durante il XVI secolo ed esposte alla venerazione dei fedeli a partire dal 1647, agendo da elemento di richiamo anche per le numerose piccole comunità armene presenti in Italia a partire da quella più cospicua di Livorno. Lucca non ha dimenticato questo suo santo figlio acquisito e a lui, alla sua storia, ai segni ,ella sua santità, al culto che lo riguarda dedica una ricca serie di iniziative religiose, culturali e artistiche che. iniziate l’1 giugno, si protrarranno sino alla metà del mese (leggi qui).

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Il Cardinale Sandri dalle suore armene che sopravvissero al Grande Male (ACIstampa 05.06.18)

Sono sopravvissute al “Grande Male”, hanno accompagnato gli armeni sopravvissuti in esilio fino a Castel Gandolfo, sono rientrate in Armenia, e hanno celebrato lo scorso 3 giugno il 170esimo anno di vita con il Cardinale Leonardo Sandri: le Suore Armene dell’Immacolata Concezione raccontano, con la loro storia avventurosa e piena di fede, raccontano in piccolo la storia della Chiesa perseguitata di oriente del XX secolo.

“Se pensiamo alla storia della vostra Congregazione – ha detto il Cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali, nell’omelia della Messa dell’anniversario – troviamo diversi momenti in cui siete state chiamate a collaborare al dono di Dio per l’umanità”.

Il Metz Yegern, Grande Male, è il modo in cui gli armeni definiscono il loro massacro ad opera dei turchi, che i turchi rifiutano di definire come genocidio. Ma, al di là delle parole utilizzate, resta la persecuzione e lo sterminio di ampi gruppi della popolazione armena tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, una storia che può essere tracciata, documenti alla mano, e che racconta anche la completa vicinanza della Chiesa.

Fu in questa situazione, 170 anni fa, che le Suore Armene dell’Immacolata Concezione furono fondate, sopravvivendo prima ai massacri hamidiani e poi al Grande Male.

“In questi 170 anni – ha detto il Cardinale Sandri – troviamo anche delle pagine eroiche”. Tra queste, “la grande risposta di carità” intrapresa circa 100 anni fa diventando “come delle sorelle e delle madri per le orfane rimaste prive dell’amore di una famiglia a causa dello scatenarsi della violenza di quello che chiamiamo Metz Yegern”.

E questo – ha continuato il Cardinale – “lo avete fatto con più di quattrocento ragazze a Costantinopoli prima, ma poi anche vicino a Roma, a Castel Gandolfo, dove giunsero nel 1922 per volontà di Papa Pio XI e poi trasferite l’anno successivo a Torino su interessamento del Governo Italiano”.

Il Cardinale Sandri si riferisce all’impegno profuso dalle suore a partire dal 1915, quando divenne esecutivo l’ordine del governo di deportare gli armeni e la città di Aleppo era diventata il primo luogo di accoglienza dei deportati.

Di fronte all’estensione del massacro, Pio XI mise a disposizione Castel Gandolfo per accogliere 500 orfane, e 12 religiose le accompagnarono. Quindi, le stesse orfane furono accolte a Torino, quindi a Saint Gratien, vicino Parigi, e poi nel convento delle Suore dell’Immacolata Concezione di Arnouville”.

Dal 1923, la casa generalizia fu spostata da Istanbul a Roma. Ha ricordato il Cardinale Sandri: “Siete rinate attraverso la carità concreta per i piccoli e i poveri voi che per prime avevate subito violenze: tutte le case di Istanbul erano state distrutte, 13 consorelle massacrate e 26 deportate. E così avete continuato a vivere”.

E poi – ha aggiunto il Cardinale – “quando nel 1991 si riaprirono le porte dell’Armenia, siete andate e avete avviato le attività che io stesso ho visitato con gioia e molto apprezzato: tante giovani, contente di poter ricevere una istruzione, di poter cantare, di poter danzare l’espressione della grande fede del popolo armeno lungo la storia”.

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Genocidio armeno: Parlamento Israele rinvia il dibattito a dopo le elezioni turche (SIR 05.06.18)

Il presidente del Parlamento israeliano, Yuli Yoel Edelstein, ha respinto le ricostruzioni secondo cui la discussione sul progetto di legge per il riconoscimento del Genocidio armeno sarebbe stata ritirata dall’agenda dei lavori parlamentari. Edelstein ha spiegato le sue ragioni e rivendicato l’intenzione di promuovere il riconoscimento del Genocidio rispondendo all’arcivescovo Nourhan Manougian, Patriarca armeno apostolico di Gerusalemme, che in una missiva allo speaker della Knesset aveva espresso la sua amarezza per le notizie circolate su un possibile stop del processo avviato dalle istituzioni israeliane per discutere e eventualmente approvare il riconoscimento come “genocidio” dei massacri anti-armeni perpetrati in territorio turco tra il 1915 e il 1916. “Rimango fedele”, scrive Edelstein nella sua lettera al Patriarca armeno diffusa il 4 giugno, “a ciò che ho detto tante volte negli anni passati: la Knesset israeliana deve riconoscere il Genocidio armeno perché è la cosa giusta e morale da fare – e non a causa di calcoli politici o diplomatici del momento”. Come riferito dall’Agenzia Fides, dopo il duro scontro diplomatico tra Israele e il governo turco – seguito all’ultimo massacro di palestinesi a Gaza – una proposta di riconoscimento del Genocidio armeno era stata presentata agli uffici competenti della Knesset dal deputato di centrosinistra Itzik Shmuli, membro di “Unione Sionista”. La proposta era stata appoggiata da almeno 50 parlamentari appartenenti sia ai Partiti di governo – Likud compreso – che a quelli dell’opposizione. Tale proposta di legge prevedeva anche di istituire in Israele una giornata di commemorazione annuale del Genocidio armeno. Tre mesi prima, lo scorso 14 febbraio, lo stesso Parlamento israeliano aveva di fatto respinto un progetto di legge presentato da Yair Lapid, rappresentante del partito centrista e laico Yesh Atid, che avrebbe ufficializzato il riconoscimento da parte di Israele del “Genocidio armeno”. In quel frangente, il vice-ministro degli esteri israeliano, Tzipi Hotovely, aveva dichiarato che Israele non avrebbe preso ufficialmente posizione sulla questione del Genocidio armeno, “tenendo conto della sua complessità e delle sue implicazioni diplomatiche”.

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«Mio zio, un modello da seguire» (Laprovinciapavese 05.06.18)

«Zio Wart era una persona straordinaria», così ha esordito la nipote Antonia Arslan, 80enne padovana, scrittrice e saggista di origini armene, vincitrice del premio Stresa di narrativa nel 2004 con “La masseria delle allodole”, ieri al convegno che l’università ha dedicato al 50esimo anniversario della morte di Wart “Edoardo” Arslan, primo professore di Storia dell’arte a Pavia, dal 1942 al ’68.

«Gli volevo bene – ha proseguito Antonia Arslan – perché era onesto, si rifiutava di esprimere opinioni avventate su argomenti che non conosceva e perché amava ciò che io amavo, l’arte. Io e lo zio avevamo tanto in comune e lui era il mio modello, per questo ho deciso in seguito di laurearmi in Archeologia. Pavia era la sua università, qui si trovava bene. Spesso sono andata a trovarlo e anch’io ho imparato ad apprezzare questa piccola città lombarda, ammirando soprattutto la rete di antichi collegi universitari che la caratterizza».

La nipote Arslan ha raccontato la storia della sua famiglia, come ha vissuto la tragedia del genocidio armeno e la scoperta della propria vocazione di condividere attraverso i suoi libri e saggi ciò che è accaduto al suo popolo. «Mio nonno si chiamava Yerwant Arslanian – ha spiegato – All’età di 13 anni è giunto da Kharpert a Venezia per motivi di studio. Al momento giusto si è laureato in Medicina a Padova e specializzato a Parigi. Tornato a Venezia nel 1898, ha sposato una contessina italiana del posto, che gli ha dato due figli, mio zio Yetwart, Edoardo, e mio padre Mikail, Michele. Quando nel 1915 la sua famiglia di origine è stata ammazzata o dispersa per il mondo dai turchi, il nonno ha avuto una crisi esistenziale da cui non è mai uscito. Ha voluto cancellare ogni legame con l’Armenia: ha tagliato il suo cognome da Arslanian in Arslan, ha educato i figli all’italiana senza insegnare loro nemmeno una parola di armeno. Per tale motivo, né mio padre né mio zio hanno mai sentito il genocidio armeno assai vicino alla loro sensibilità».

La scrittrice ha aggiunto: «Le cose sono cambiate con me. Ad un certo punto della mia vita ho capito quanto è importante che le persone sappiano che cosa è stato fatto agli armeni. Mi sono documentata, ho iniziato a fare domande ai parenti, a scrivere sull’argomento. “La masseria delle allodole” è ciò che è uscito dai miei studi e dagli aneddoti dolorosi che Yerwant Arslan, ormai anziano, ha avuto il coraggio di condividere con me. Della città di Kharpert, dell’Armenia, è tutto distrutto, però almeno credo di essere riuscita a ricostruirne il ricordo con i miei testi. L’ho fatto per coloro che non

hanno visto i fatti o che li hanno ignorati, per coloro che ne erano ignari o che hanno preferito sottovalutarli. Per me, il nonno, papà e zio Wart, che hanno trovato la loro casa a Pavia, Milano, Venezia ma che sempre hanno avuto una parte di se stessi senza patria». (g.cu.)

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Cento anni fa nacquero le repubbliche di Georgia, Armenia e Azerbaigian (Eastjournal 05.06.18)

A più di un anno dalla Rivoluzione di Febbraio, che aveva posto fine all’Impero russo, il Caucaso viveva un momento di grande instabilità e fermento politico. In seguito alla caduta dello Zar, per consentire ai rappresentanti del nuovo Governo provvisorio di amministrare la regione, venne inizialmente istituito un Comitato Speciale Transcaucasico; rimpiazzato in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre da un Commissariato, di fatto separato dalla Russia sovietica e formato dai social-democratici georgiani, dai socialisti rivoluzionai armeni e dai musavatisti azeri.

In seguito al ritiro della Russia dalla Prima guerra mondiale, i vertici del Commissariato, non sentendosi vincolati dall’accettare gli accordi di Brest-Litovsk, decisero di proclamare la piena indipendenza della regione, istituendo il 22 aprile 1918 la Repubblica Federativa Democratica Transcaucasica. La neonata entità, scossa da gravi divisioni interne e indebolita dalla guerra con gli ottomani, finì però per dissolversi a un solo mese dalla propria creazione, dando vita a tre nuove repubbliche indipendenti.

Georgia (1918-1921)

La prima repubblica a dichiarare la propria indipendenza fu la Georgia, il 26 maggio 1918. Il primo capo del Consiglio Nazionale georgiano, organo legislativo della repubblica, fu il social-democratico Noe Ramishvili, che guidò il paese nel suo primo mese d’indipendenza per poi essere sostituito dal collega Noe Jordania. Nel febbraio 1919 il Consiglio venne sostituito da una nuova Assemblea Costituente, i cui membri furono eletti in seguito alle prime e uniche elezioni della giovane repubblica, le quali confermarono al potere i social-democratici. Ispirandosi alla socialdemocrazia europea, i leader della prima repubblica georgiana riuscirono a combinare le idee del liberalismo con gli impulsi egualitari del socialismo, istituendo un sistema democratico e multi-partitico in netto contrasto con la “dittatura del proletariato” imposta nella vicina Russia sovietica, poiché, secondo il pensiero di Karl Kautsky, essi vedevano la rivoluzione come una conquista democratica del potere piuttosto che come la dittatura di una sola classe.

Fin dai primi mesi d’indipendenza la Georgia venne però scossa da una serie di conflitti che ne misero a rischio la stabilità: la guerra con gli ottomani fu risolta con il Trattato di Batumi del 4 luglio 1918, in seguito al quale la Georgia fu costretta a cedere le regioni di Artvin, di Ardahan, dell’Agiaria e parte del Samtskhe-Javakheti; territori che i turchi controlleranno fino all’Armistizio di Mudros del 30 ottobre. Il successivo ritiro degli ottomani dal Caucaso portò a un conflitto con l’Armenia per il possesso delle regioni di Lori e del Borchali, a cavallo tra i due paesi; mentre un secondo scontro si verificò nella regione di Sochi, questa volta tra georgiani, bolscevichi e l’Armata Bianca di Anton Denikin, che premeva da nord. Dal 1918 al 1920 in tutto il paese scoppiarono inoltre diverse ribellioni contadine, incoraggiate dai bolscevichi e supportate dalla Russia sovietica. Le più gravi si verificarono in Abkhazia e Ossezia del Sud, dove iniziarono a nascere i primi movimenti separatisti.

A partire dal 1920, in seguito alla definitiva sconfitta di Denikin e all’ingresso dell’Armata Rossa prima in Azerbaigian e poi in Armenia, la Georgia si ritrovò accerchiata dalla Russia sovietica. Con il controverso Trattato di Mosca del 7 maggio 1920 i sovietici riconobbero l’indipendenza georgiana, ma in cambio ottennero da Tbilisi la legalizzazione del partito bolscevico e la cacciata delle truppe straniere presenti sul proprio territorio, lasciando di fatto la Georgia senza protezioni. Gli incidenti ai confini però continuarono, così come aumentarono le rivolte bolsceviche, sempre incitate da Mosca. Nel febbraio 1921 ebbe il via l’invasione sovietica della Georgia. Il 25 febbraio, quattro giorni dopo l’approvazione della nuova Costituzione georgiana, la capitale Tbilisi venne presa dalle truppe sovietiche, che proclamarono la nascita della RSS Georgiana. Il resto del paese venne conquistato nelle settimane successive.

Armenia (1918-1920)

La dichiarazione d’indipendenza della Repubblica Democratica Armena arrivò due giorni dopo quella georgiana, il 28 maggio 1918; lo stesso giorno il Consiglio Nazionale armeno, basato a Tbilisi, inviò a Yerevan due delegati per prendere il potere. Il primo premier dell’Armenia indipendente fu Hovhannes Kajaznuni, mentre Aram Manukian, eroe della resistenza di Van, città dove tre anni prima, nel bel mezzo del genocidio armeno, fermò l’avanzata ottomana, venne nominato primo ministro degli Interni. Nel giugno 1919, in seguito alla dissoluzione del Consiglio Nazionale, si tennero le prime elezioni dell’Armenia indipendente, che decretarono l’affermazione della Federazione Rivoluzionaria Armena, la quale diede vita a una delle prime repubbliche socialiste della storia, insieme alla vicina Georgia. Uno dei primi grandi problemi che la neonata repubblica si ritrovò a dover affrontare fu la gestione degli oltre 300.000 rifugiati in fuga dal genocidio in atto nell’Impero ottomano, i quali generarono una grave emergenza umanitaria alla quale il governo rispose con fatica.

Come la Georgia, anche l’Armenia si ritrovò invischiata nella guerra con gli ottomani, che nel frattempo erano avanzati fino ad Alessandropoli. Con una serie di vittorie decisive, gli armeni fermarono l’avanzata dei turchi alle porte di Yerevan, ma furono tuttavia costretti ad accettare le pesanti perdite territoriali imposte dal Trattato di Batumi. Oltre al conflitto con la Georgia, l’Armenia si dovette confrontare militarmente anche con l’Azerbaigian, il quale rivendicava buona parte del suo territorio. Il Trattato di Sèvres tra l’Impero ottomano e gli Alleati (10 agosto 1920), portò all’Armenia consistenti acquisizioni territoriali, ma non fu mai ratificato a causa dello scoppio di un nuovo conflitto con i nazionalisti turchi. La Guerra turco-armena terminò con il Trattato di Alessandropoli del 3 dicembre 1920, con gli armeni costretti a rinunciare ai territori ricevuti a Sèvres.

La guerra con la Turchia espose una sempre più debole Armenia alle mire espansionistiche della Russia. L’invasione sovietica dell’Armenia iniziò nel novembre 1920, con gli armeni ancora impegnati sul fronte turco. Il 2 dicembre (il giorno precedente al Trattato di Alessandropoli) il governo armeno fu costretto a dimettersi, sostituito da un nuovo governo filo-sovietico. Nei giorni successivi l’Armata Rossa entrò nella capitale, ponendo fine all’indipendenza armena. Un estremo tentativo di resistenza si verificò nelle regioni meridionali del paese, dove Garegin Nzdeh istituì la Repubblica dell’Armenia montanara, che dall’aprile al luglio 1921 tentò di opporsi, senza fortuna, all’avanzata sovietica.

Azerbaigian (1918-1920)

Come l’Armenia, la Repubblica Democratica dell’Azerbaigian, per iniziativa dello stesso Consiglio Nazionale azero, anch’esso inizialmente basato a Tbilisi, dichiarò la propria indipendenza il 28 maggio 1918. Il termine “Azerbaigian”, che all’epoca si limitava a indicare l’omonima regione dell’Iran, fu scelto per motivi politici, in quanto gli azeri rifiutarono di identificarsi come “tatari del Caucaso”, definizione coloniale coniata dai russi. La prima capitale dell’Azerbaigian fu Ganja, essendo Baku all’epoca dell’indipendenza sotto il controllo di un governo a guida bolscevica (Comune di Baku). Il primo capo del governo fu invece Fatali Khan Khoyski, mentre il primo presidente Mammad Amin Rasulzadeh. Nel dicembre 1918 il Consiglio Nazionale venne sciolto, sostituito da una nuova Assemblea Nazionale. Il nuovo stato azero, guidato dal partito Müsavat, fu una delle prime repubbliche democratiche del mondo musulmano, nonché la prima in assoluto a garantire pari diritti politici a uomini e donne, adottando il suffragio universale.

Come i suoi vicini caucasici, anche l’Azerbaigian si trovò ad avere a che fare con una lunga serie di dispute territoriali. Mentre quelle con la Georgia (per le regioni di Balakan, Zaqatala e Qakh) e con la Repubblica delle Montagne del Caucaso settentrionale (per la regione di Derbent) non sfociarono mai in conflitti armati, le dispute con l’Armenia portarono a sanguinosi combattimenti nel Karabakh, nel Nakhichevan e nella regione di Syunik. Armeni e azeri si scontrarono anche a Baku, dove nell’agosto 1918 gli armeni di Dashnak, supportati dai britannici, cacciarono i bolscevichi della Comune, dando vita alla Dittatura Centrocaspiana. I tentativi da parte di azeri e turchi di riconquistare la città portarono alla Battaglia di Baku. Con la caduta della Dittatura Centrocaspiana, nel settembre 1918, Baku divenne la nuova capitale dell’Azerbaigian.

L’Azerbaigian fu la prima delle tre repubbliche transcaucasiche ad essere invasa dall’Armata Rossa. A causa delle sue grandi riserve energetiche, il paese era considerato dai sovietici di estrema importanza per l’economia russa, al punto da spingere lo stesso Lenin ad affermare che la Russia non sarebbe potuta sopravvivere senza il petrolio di Baku. L’invasione ebbe inizio nell’aprile 1920; il 30 aprile i sovietici entrarono nella capitale, incontrando una scarsa resistenza da parte dell’esercito azero, le cui unità principali erano ancora impegnate a contrastare la guerriglia armena nel Karabakh. Gli ultimi focolai di resistenza, concentrati a Ganja, roccaforte dei musavatisti, vennero spenti entro il mese di maggio.

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Il card. Sandri a suore armene: non perdete la speranza (Vaticanews.it 04.06.18)

Per i 170 anni di fondazione della Congregazione delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione, il card. Sandri ha presieduto ieri la Santa Messa a San Nicola da Tolentino. Nell’omelia, l’incoraggiamento a non perdere la speranza, anche nelle prove. Poi il messaggio ai giovani

Cecilia Seppia – Città del Vaticano

A conclusione del 170.mo anniversario di fondazione della Congregazione delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ha presieduto ieri, nella solennità del Corpus Domini, la celebrazione eucaristica, presso la chiesa di San Nicola da Tolentino in Roma, che è annessa al Pontificio Collegio armeno.  A concelebrare la Messa,  animata dal Coro armeno delle giovani allieve della Scuola di Gyumri, anche mons. Krikor Coussa, vescovo armeno cattolico di Iskenderiya (Alessandria di Egitto) e mons. George Assadourian, vescovo ausiliare del Patriarca Gregorio Pietro XX.

Collaborare al dono di Dio per l’umanità

Nell’omelia il card. Sandri ha posto l’accento sui carismi della Congregazione, quali l’accoglienza e l’educazione, e sulla necessità che essa continui attraverso le opere a collaborare al dono di Dio per l’umanità. “In questi 170 anni – ha detto il porporato – troviamo anche delle pagine eroiche: penso in particolare alla grande risposta di carità che avete intrapreso circa cento anni fa, quando siete diventate come delle sorelle e della madri per le orfane rimaste prive dell’amore di una famiglia a causa dello scatenarsi della violenza di quello che chiamiamo Metz Yegern. Lo avete fatto con più di 400 ragazze a Costantinopoli prima, ma poi anche vicino a Roma, a Castelgandolfo, dove giunsero nel 1922 per volontà di Papa Pio XI e poi trasferite l’anno successivo a Torino su interessamento del Governo Italiano”.

Rinascere nella carità

Ponendo l’accento sulla storia della Congregazione, il card. Sandri ha aggiunto: “Siete rinate attraverso la carità concreta per i piccoli e i poveri voi che per prime avevate subito violenze: tutte le case di Istanbul erano state distrutte, 13 consorelle massacrate e 26 deportate. E così avete continuato a vivere. E anche nel tempo più vicino a noi, quando nel 1991 si riaprirono le porte dell’Armenia, siete andate e avete avviato le attività che io stesso ho visitato con gioia e molto apprezzato”

Perseverare anche oggi

Dalla storia – ha proseguito il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali – deve arrivare l’indicazione per l’oggi a perseverare, ad avere fede, a non perdere mai la speranza anche di fronte a situazioni che possono provocare scoraggiamento: “Il Signore stesso – ha affermato il cardinale – venga in soccorso di quella che a volte è anche una nostra mancanza di fede: ci aiuti a rimanere ben fondate sul dono della sua Carità, che nella Santa Eucarestia ha il suo vertice più alto, e a vivere una esistenza eucaristica attraverso le opere che abbiamo iniziato e quelle che potremo ancora intraprendere”.

Sinodo dei Vescovi sui giovani

In riferimento alle allieve della Scuola di Gyumri, che hanno animato con i loro canti la celebrazione eucaristica, il card. Sandri ha rivolto il pensiero al prossimo Sinodo dei Vescovi di ottobre, dedicato proprio ai giovani. “In questo anno dedicato loro dalla Chiesa, sappiano cercare la vera gioia conoscendo il Signore, sappiano apprezzare il dono della vera libertà che Lui solo ci garantisce, si interroghino sulla loro vocazione e il loro futuro perché anche grazie al loro contributo scompaiano le violenze, le guerre e le persecuzioni, e si avvicini la realizzazione della promessa di nuovi cieli e terra nuova”.

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Chiese orientali: card. Sandri a suore armene, “rimanere fondate sulla carità” (SIR 04.06.18)

“Rimanere ben fondate sul dono della sua carità, che nella Santa Eucaristia ha il suo vertice più alto, e vivere una esistenza eucaristica attraverso le opere che abbiamo iniziato e quelle che potremo ancora intraprendere”. È l’esortazione che il card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, ha lanciato ieri durante la messa celebrata in occasione della conclusione del 170° anniversario della Fondazione della Congregazione delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione, presso la chiesa di san Nicola da Tolentino a Roma, annessa al Pontificio Collegio Armeno. Nell’omelia il prefetto ha tratteggiato i momenti salienti della storia della Congregazione ricca anche di “pagine eroiche”. Il pensiero del cardinale è andato “alla grande risposta di carità che avete intrapreso circa cento anni fa, quando siete diventate come delle sorelle e della madri per le orfane rimaste prive dell’amore di una famiglia a causa dello scatenarsi della violenza di quello che chiamiamo Metz Yegern. Lo avete fatto con più di 400 ragazze a Costantinopoli prima, ma poi anche vicino a Roma, a Castelgandolfo, dove giunsero nel 1922 per volontà di Papa Pio XI e poi trasferite l’anno successivo a Torino su interessamento del Governo Italiano. Siete rinate attraverso la carità concreta per i piccoli e i poveri voi che per prime avevate subito violenze: tutte le case di Istanbul erano state distrutte, 13 consorelle massacrate e 26 deportate. E così avete continuato a vivere”. Questo percorso negli anni, ha aggiunto il porporato, “ci offre un’indicazione per l’oggi, quando potreste essere tentate di scoraggiamento o perdere la speranza per il futuro: quante saremo? Come faremo? Chi ci aiuterà? Il Signore stesso venga in soccorso di quella che a volte è anche una nostra mancanza di fede: ci aiuti a rimanere ben fondate sul dono della sua Carità, che nella Santa Eucarestia ha il suo vertice più alto, e vivere una esistenza eucaristica attraverso le opere che abbiamo iniziato e quelle che potremo ancora intraprendere”. Rivolgendosi poi al Coro delle giovani allieve della scuola di Gyumri (Armenia), che ha animato la messa, il card. Sandri ha ricordato il Sinodo per i giovani del prossimo ottobre: “Aiutate da tutti noi, in questo anno particolarmente dedicato loro dalla Chiesa attraverso il Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre, sappiano cercare la vera gioia conoscendo il Signore, sappiano apprezzare il dono della vera libertà che Lui solo ci garantisce, si interroghino sulla loro vocazione e il loro futuro perché anche grazie al loro contributo scompaiano le violenze, le guerre e le persecuzioni, e si avvicini la realizzazione della promessa di nuovi cieli e terra nuova”. La messa è stata concelebrata, tra gli altri, da mons. Krikor Coussa, vescovo armeno cattolici di Iskenderiya (Alessandria di Egitto), da mons. George Assadourian, vescovo ausiliare del Patriarca Gregorio Pietro XX.

Le suore armene sopravvissute al genocidio compiono 170 anni, la festa con il cardinale Sandri (Ilmessaggero 03.06.18)

Città del Vaticano  – Compie 170 anni la congregazione delle suore armene dell’Immacolata Concezione, fondata a Costantinopoli – l’attuale Istanbul – durante l’Impero Ottomano e sopravvissuta ai massacri hamidiani e poi, di seguito, al genocidio del 1915. A Roma tra qualche giorno festeggerà la ricorrenza con una solenne messa celebrata dal cardinale Leonardo Sandri. Oggi la congregazione conta 75 religiose.

Le suore armene dell’Immacolata Concezione dimostrarono particolare coraggio nel mezzo delle atrocità, testimoni dei massacri delle loro famiglie, assistendo i feriti, salvando i bambini rimasti orfani.

A partire dal 1915, quando divenne esecutivo l’ordine del governo ottomano di deportare tutti gli armeni e lasciarli morire nelle cosiddette marce della morte nel deserto, senza acqua né cibo, la città di Aleppo (oggi in Siria ma all’epoca in Turchia) era diventata il primo luogo di accoglienza di centinaia di migliaia di deportati che arrivavano in condizioni spaventose, allo stremo delle forze. C’erano migliaia di orfani strappati ai loro genitori, traumatizzati, denutriti. Le suore sopravvissute siglarono pagine storiche. Alla fine delle ostilità, negli anni Venti, la congregazione creò nuove case a Beiruth, Alessandria, e Baghdad.

Davanti all’estensione della tragedia del genocidio, Pio XI decise di accogliere  nella residenza di Castelgandolfo, per qualche mese, 400 orfane che diventano presto 500. Le accompagnano 12 religiose, che restano accanto a loro.

Durante l’anno seguente furono alloggiate nell’orfanotrofio di Torino. L’evento ebbe una tale risonanza che vennero stampate perfino delle cartoline postali per mostrare il gruppo di orfane. Di seguito, nel 1929, queste orfane arrivarono in Francia, a Saint Gratien nei dintorni di Parigi, poi ad Arnouville nel convento delle religiose ,aperto nel 1931, grazie al personale coinvolgimento del cardinale Aghagianian.

Dal 1923 la casa generalizia venne trasferita definitivamente da Istanbul a Roma, in un edificio dove, su una lastra sono ancora incisi nel marmo i nomi delle 13 suore martiri, durante il genocidio

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Che sia l’Armenia, i Nazisti o l’ISIS, se state per commettere un genocidio, non lo potete fare senza l’aiuto della popolazione locale (Comedonchisciotte 02.06.18)

DI ROBERT FISK

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Come si organizza un genocidio di successo, nell’Armenia turca di un secolo fa, nell’Europa occupata dai Nazisti degli anni ‘40 o in Medio Oriente al giorno d’oggi? Un importante studio di un giovane assegnista di ricerca (Post-Doctoral Fellow) dell’Università di Harvard, incentrato su un massacro di Armeni avvenuto in una città turco-ottomana 103 anni or sono, suggerisce una semplice risposta: un governo che abbia un intento genocida deve avere l’appoggio, a livello locale, di tutti i settori della società civile: funzionari fiscali, giudici, magistrati, ufficiali subalterni delle forze di polizia, rappresentanti del clero, avvocati, banchieri e, cosa più triste, i vicini stessi delle vittime.

Il minuzioso lavoro di Umit Kurt sul massacro degli Armeni avvenuto nel 1915 ad Antep, nel sud della Turchia, apparso nell’ultima edizione del Journal of Genocide Research, si focalizza sulle spoliazioni, sugli stupri e sugli omicidi di appena 20.000 del milione e mezzo di Cristiani armeni massacrati dai Turchi ottomani nel primo olocausto del 20° secolo. Non solo descrive le deportazioni da Antep, tutte accuratamente preparate, e le patetiche speranze di quelli che ne erano stati temporaneamente risparmiati, un evento tragicamente simile a quanto successo nei ghetti ebraici dell’Europa Orientale, ma elenca anche le proprietà e i beni di cui le autorità cittadine e i contadini avevano depredato quelli che loro stessi avevano mandato a morire.

I carnefici locali avevano in questo modo confiscato fattorie, coltivazioni di pistacchi, frutteti, vigneti, caffetterie, negozi, mulini, beni ecclesiastici, scuole ed una biblioteca. Ufficialmente, tutto questo era stato chiamato “esproprio” o “confisca”, ma, come sottolinea Umit Kurt, “moltissime persone erano vincolate, tutte insieme, in una cerchia di profitti, che era allo stesso tempo una cerchia di complicità.” L’autore, nato in Turchia nella moderna Gaziantep, la vecchia Antep, è di origini arabo-curde e la sua prosa, spartana e asciutta, rende ancora più agghiaccianti le 21 pagine della sua tesi.

Non fa nessun parallelo fra l’olocausto degli Armeni (un termine che gli stessi Israeliani usano riferendosi agli Armeni) e quello degli Ebrei e neanche con le atrocità genocide nell’attuale Medio Oriente. Ma nessuno può leggere le parole di Umit Kurt senza pensare alle schiere di fantasmi che tormentano la storia più recente: i collaborazionisti della Francia occupata dai nazisti o i Polacchi in combutta con i Nazisti a Varsavia o a Cracovia o le decine di migliaia di civili mussulmani sunniti che avevano permesso all’ISIS di ridurre in schiavitù le donne Yazide e di massacrare i Cristiani di Ninive. Anche queste vittime si erano viste depredate dai loro stessi vicini, le loro case saccheggiate e i loro beni venduti da quelle stesse autorità che avrebbero dovuto proteggerli proprio nel momento in cui si trovavano ad affrontare il loro stesso sterminio.

Una delle argomentazioni più convincenti di Kurt è che un governo centrale non può farcela a sterminare una minoranza senza l’aiuto dei suoi stessi cittadini: gli Ottomani avevano avuto bisogno dei Mussulmani di Antep (ricompensati con le proprietà di quelli che essi stessi contribuivano ad eliminare) per riuscire ad eseguire, nel 1915, gli ordini di deportazione, proprio come alla popolazione locale serviva l’avallo dell’autorità centrale per legittimare quelli che oggi noi chiameremmo crimini di guerra.

Umit Kurt è uno dei pochi accademici a riconoscere il crescente potere economico degli Armeni ottomani negli anni precedenti al genocidio: “l’invidia e il risentimento della comunità mussulmana,” scrive, “avevano avuto un ruolo di primo piano nel creare un’atmosfera fomentatrice di odio.” Lo stesso effetto avevano avuto le ripetute affermazioni degli Ottomani, secondo cui gli Armeni avrebbero parteggiato per gli Alleati, nemici della Turchia; lo stesso tipo di tradimento, la “pugnalata alla schiena”, che aveva utilizzato Hitler per coalizzare i Nazisti contro comunisti ed Ebrei nella Repubblica di Weimar. Nel Medio Oriente attuale sono gli “infedeli”, i “Crociati” (Cristiani filo-occidentali) che hanno dovuto cercare scampo nella fuga, apparentemente per aver tradito l’Islam.

Uno dovrebbe avere il proverbiale cuore di pietra per non essere toccato dalla storia degli Armeni di Antep nella primavera del 1915. Anche se all’inizio erano stati molestati dalla sanguinaria “Organizzazione Speciale” ( Teskilat-i Mahsusa) ottomana, l’equivalente delle Einsatzgruppen naziste degli anni ‘40 e sottoposti a detenzione temporanea, gli Armeni di Antep erano stati però lasciati in pace. Ma assistevano al passaggio attraverso Antep dei mezzi che trasportavano gli Armeni provenienti dalle altre città, il primo con 300 fra donne e bambini “feriti, con le piaghe infette e i vestiti a brandelli.” Per altri due mesi i convogli dei deportati avevano attraversato la città in un crescendo di sofferenza. “Bambini e ragazze armene rapite, beni ed averi delle donne depredati, donne che erano state poi stuprate in pubblico con la complicità attiva delle gendarmenrie e dei funzionari governativi.”

Come gli Ebrei europei, che all’inizio non erano stati toccati dal genocidio dei loro cerreligionari, gli Armeni di Antep non si rendevano conto del loro possibile destino. “Nonostante tutto quello che accadeva intorno a noi...” aveva scritto un testimone oculare, “il numero di quelli che nascondavano la testa nella sabbia, come le ostriche, non era piccolo. Queste persone si erano autoconvinte di essere felici e cercavano di ingannare se stessi pensando che una simile deportazione non fosse possibile ad Aintab [sic] e che nulla di male potesse capitare loro.”

Allo stesso modo delle valorose famiglie polacche e degli Oskar Schindler della Germania Nazista, pochi, coraggiosi Turchi si erano opposti al genocidio degli Armeni. Celal Bey, il governatore di Aleppo (98 km. da Antep) si era rifiutato di deportare gli Armeni. Ma era stato congedato. E per gli Armeni cristiani di Antep era arrivata la fine.

Il 30 luglio, a 50 famiglie armene era stato ordinato di andarsene entro 24 ore. All’inizio erano stati scacciati solo i Cristiani Ortodossi, che avevano dovuto abbandonare tutti i loro beni. Un sopravvissuto ricorda che “i nostri vicini, i Turchi, cantavano nelle loro case e noi potevamo sentirli…. ‘il cane se ne va’…” Una settimana dopo erano state deportate altre 50 famiglie, subito assalite da una milizia banditesca, guidata dal direttore della filiale locale della Banca Contadina. In Antep le donne venivano stuprate ed inviate agli “harem” cittadini. Un capovillaggio (“mukhtar”) della zona aveva assassinato sei bambini armeni buttandoli giù da una montagna. Le colonne di persone erano diventati sempre più grandi (1500 Armeni da Antep il 13 agosto, p.e.) e queste venivano mandate, in treno o a piedi, ad Aleppo e a Deir ez-Zour. Poi era arrivato il turno degli Armeni Cattolici.

E’giunto fino a noi un pietoso resoconto di una messa, nel giorno del Ringraziamento, dei Protestanti, gli unici Armeni scampati fino ad allora allo sterminio, in cui uno dei leader supplica miserevolmente la sua gente di non fare nulla che possa offendere le autorità turche. “Che nessuno accolga in casa sua un bambino o chichessia a cui è stato ordinato di andarsene, sia fra quelli che passano in città come rifugiati, così come fra i nostri amici e parenti in città.” Nessun buon samaritano qui. Ma, ovviamente, anche i Protestanti erano stati deportati. Su 600 famiglie di Protestanti, almeno 200 erano già state eliminate a Deir ez-Zour nel febbraio del 1916.

Il capo della polizia locale di Antep era stato promosso per il suo zelo professionale. Nei cosiddetti “comitati di deportazione”, che decidevano il destino degli Armeni, c’erano il parlamentare del collegio di Antep e suo fratello, svariati funzionari locali, il sindaco, due funzionari del fisco, due giudici, un magistrato, il primo segretario del tribunale di Antep, un ex mufti, due imam, due ulama, due capi-villaggio, il segretario di un ente caritatevole, un medico, un avvocato e il direttore di un orfanotrofio. “Nessun rappresentante di questi centri di potere locali,” scrive Umit Kurt, “aveva fatto qualcosa per opporsi alle deportazioni, nascondere i più deboli o fermare i convogli.” Dei 32.000 Armeni di Antep, 20.000 erano morti nel genocidio.

Ma, in verità, i fantasmi sopravvivono.

Per caso, questa settimana, stavo terminando la scioccante storia di Martin Winstone sul ruolo avuto dai Nazisti nell’amministrazione pubblica del governo di occupazione polacco, “ The Dark Heart of Hitler’s Europe” e ho scoperto che gli Ebrei (e i Polacchi) di Varsavia, Cracovia e Lublino erano spesso passati attraverso la medesima trafila di false speranze, collaborazionismo e sterminio degli Armeni di Antep.

Anche se la maggior parte dei Polacchi si era comportata con coraggio, dignità ed eroismo, una minoranza di gentili (e questo è il motivo per cui l’attuale governo polacco minaccia di punire chiunque parli di collaborazionismo con i Nazisti da parte dei Polacchi) “aveva partecipato direttamente al processo di eliminazione,” secondo Winstone. Fra di loro vi erano elementi della polizia “blu” polacca (normali poliziotti in uniforme blu), ma anche i contadini della zona di Lublino, molti dei quali avevano derubato le loro vittime prima di bastonarle a morte. Centinaia, forse migliaia di Ebrei in fuga erano state vittime di criminali “che erano capivillaggio, membri della milizia locale d’occupazione o poliziotti ‘blu’ che agivano in veste non ufficiale.” Quando erano stati scoperti 50 Ebrei che si nascondevano a Szczebrzeszyn, “c’era una folla intera che osservava.” Un importante fattore nella denuncia e nell’omicidio degli Ebrei, conclude l’autore, era stata “la bramosia per i beni degli Ebrei.”

E oggi, in Medio Oriente, riconosciamo anche troppo bene lo schema familiare della malvagità dei locali nei confronti dei loro vicini: ragazze cristiane di Ninive rapite dagli Islamisti, famiglie Yazide distrutte e le loro case saccheggiate dalle milizie sunnite della zona. Quando l’Isis aveva abbandonato la città di Hafter, ad est di Aleppo, avevo trovato i documenti della locale corte islamica; in queste carte c’era la prova che dei civili siriani avevano deferito i loro cugini ai giudici egiziani delle corti islamiche, che dei vicini di casa avevano avuto un vantaggio economico denunciando chi aveva vissuto per decenni accanto a loro. In Bosnia negli anni ‘90, per quel che ne sappiamo, i vicini di casa Serbi avevano massacrato i loro compatrioti mussulmani, stuprato le loro donne e confiscato le loro case.

No, questo non è qualcosa di nuovo, ma è qualcosa che dimentichiamo troppo di frequente. Quando a mio padre, nel 1940, era stato chiesto dal governo inglese di indicare chi a Maidstone, nel Kent, avrebbe potuto collaborare con i Nazisti dopo un’invasione, egli aveva inserito uno dei suoi migliori amici, un uomo d’affari locale, nella lista di quelli che avrebbero potuto aiutare i Tedeschi. Pulizia etnica, genocidio, delitti di massa di natura confessionale possono anche venire ordinati da Costantinopoli, Berlino, Belgrado o Mosul. Ma i criminali di guerra hanno bisogno della loro stessa gente per portare a compimento i loro progetti o, per usare un vecchio modo di dire tedesco, “per dare una mano a far girare la ruota.”

Robert Fisk

Fonte: www.independent.co.uk

Link: https://www.independent.co.uk/voices/armenia-genocide-nazi-germany-poland-isis-looting-war-a8367071.html

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Ue-Armenia: al via da oggi applicazione nuovo accordo partenariato (Agenzianova 01.06.18)

Bruxelles, 01 giu 12:53 – (Agenzia Nova) – Da oggi si applicheranno anche le parti dell’accordo relative al commercio, permettendo all’Ue e all’Armenia, ad esempio, di lavorare per migliorare il contesto normativo nel paese del Caucaso, migliorando così il clima imprenditoriale e le opportunità di investimento per le imprese armene e dell’Ue. L’accordo è già stato ratificato dall’Armenia ed è attualmente in fase di ratifica da parte degli Stati membri dell’Ue. L’accordo entrerà in vigore una volta completato il processo di ratifica da parte degli Stati membri e la procedura per la conclusione da parte dell’Ue. (Beb)

ARMENIA: Una rivoluzione colorata? (Eastjournail 01.06.18)

Nelle ultime settimane abbiamo raccontato delle manifestazioni di massa in Armenia contro l’elezione a primo ministro dell’ex presidente Serzh Sargsyan. Nel giro di pochi giorni, un sistema di potere che sembrava intoccabile ha ceduto alla forza della piazza. Il leader della rivolta, Nikol Pashinyanè stato poi nominato premier dal parlamento e ha formato un nuovo governo.

Un paese ex sovietico, un presidente rappresentante di un’oligarchia economica e vicino al Cremlino che si dimette dopo una serie di proteste pacifiche e, infine, un personaggio carismatico che emerge dalla piazza; gli ingredienti ci sono tutti: inevitabile pensare a una rivoluzione colorata.

Sin dall’inizio, Pashinyan ha, però, preso le distanze dal passato; il nuovo premier armeno, da un palco sulla Piazza della Repubblica di Erevan, ha indetto una “Rivoluzione di velluto” e ha spiegato che la dimensione esclusivamente interna degli eventi nel paese caucasico li differenzia dalle rivoluzioni colorate.

La dialettica del leader delle proteste si è rivelata efficace in quanto il riferimento alle rivoluzioni colorate è stato quasi completamente omesso dai media che hanno coperto la situazione in Armenia. La spiegazione di Pashinyan non giustifica appieno il motivo per cui il concetto, tanto popolare fino a poco tempo fa, sia diventato uno spauracchio da evitare per il nuovo primo ministro armeno.

Le rivoluzioni colorate tra realtà e rappresentazione

Nei primi anni duemila il continente eurasiatico è stato attraversato da una serie di movimenti di protesta che vennero presto ribattezzati rivoluzioni colorate.

Nell’area post sovietica le dinamiche di queste rivoluzioni, pur in paesi diversi tra loro, sono state piuttosto simili al caso armeno: dopo elezioni farsa iniziavano proteste di massa contro i brogli e la corruzione del vecchio sistema politico che, in poco tempo, portavano alle dimissioni dei leader al potere e alla scalata al governo degli ex oppositori grazie a nuove consultazioni elettorali.

Tre casi hanno seguito questo paradigma: la Rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), quella Arancione in Ucraina (2004) e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (2005). Inoltre, le opposizioni in Azerbaijan e Bielorussia hanno tentato di emulare questi modelli nel corso del 2005. Se negli ultimi due esempi non è avvenuta una transizione di potere, essi rivelano comunque quanto l’idea di una rivoluzione colorata fosse attraente nella regione.

Questi sono i fatti, ma esiste una componente imprescindibile legata all’idea che abbiamo delle rivoluzioni colorate: le aspettative, rivelatesi presto fallaci, che esse generavano in occidente che ne hanno, inevitabilmente, influenzato la rappresentazione sulla stampa internazionale.

Secondo la giornalista Anne Applebaum, il mito delle rivoluzioni colorate che si è venuto a creare in occidente si basava sull’idea che esse fossero parte di un processo ineluttabile di transizione democratica nello spazio post sovietico. Riecheggia la famosa tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia; se la democrazia liberale era il modello uscito vincente dalla Guerra fredda, la sua affermazione globale era solo una questione di tempo. Il ruolo del cosidetto mondo libero era quello di favorire – ideologicamente e finanziariamente – le forze che si facevano promotrici del processo.

Le aspettative disattese

La realtà risulta ben diversa da quanto ci si attendeva all’epoca. La retorica filo occidentale degli ex oppositori non si rivelò efficace nel cambiare le società, nello sconfiggere la corruzione dilagante o nel creare istituzioni democratiche stabili.

Già nel 2010 si chiudeva la carriera politica di due dei leader politici usciti vittoriosi dalle rivoluzioni colorate. Nel corso dell’anno, Viktor Juščenko venne sconfitto alle elezioni in Ucraina, mentre Kurmanbek Bakiyev era costretto alle dimissioni da una nuova rivoluzione in Kyrgyzstan.

La Georgia, invece, è rimasta per qualche anno il fiore all’occhiello della narrativa occidentale sulle rivoluzioni colorate. La spettacolare – e per molti versi efficace – campagna di lotta alla corruzione, l’inglese fluente e la dialettica politica occidentale imparata alla Columbia University dal presidente Mikheil Saakashvili erano strumenti efficaci per ammaliare gli alleati americani. Tuttavia, “il faro della democrazia” descritto da Bush nel 2005, si rivelò un paese in cui gli oppositori politici venivano arrestati e condannati grazie a prove false e dove si ricorreva alla tortura nelle prigioni.

Con l’affermazione elettorale del miliardario Bidzina Ivanishvili nel 2012, anche l’esperienza dell’ultima rivoluzione colorata  poteva dirsi conclusa.

Il caso armeno

Quella armena non è definibile come una rivoluzione colorata proprio perché i leader politici che l’hanno organizzata non la ritengono o non la vogliono fare passare come tale.

Sebbene le motivazioni che hanno spinto gli armeni a protestare non sono poi così diverse da quelle dei georgiani o degli ucraini nel recente passato, il marchio ha perso di appetibilità in occidente ed è, anzi, diventato sinonimo di fallimento. La storia politica del ventunesimo secolo si è rivelata più complessa di una semplice corsa alla democrazia liberale e la narrativa positivista degli anni novanta ha lasciato spazio a una visione contemporanea del futuro più realista e, per certi versi, cinica.

Al contempo, nella retorica del Cremlino, rivoluzione colorata equivale a un complotto americano per sganciare i paesi dell’ex Unione sovietica dall’orbita russa. In un paese come l’Armenia che, come spieghiamo spesso nei nostro articoli, è legato militarmente ed economicamente a Mosca, andare allo scontro frontale con la Russia è un rischio che nessun leader politico può permettersi di correre.

In ultima analisi, Pashinyan è riuscito a ritagliarsi lo spazio di manovra per presentarsi come una novità in occidente e non scontentare il potente alleato a nord. La tattica si è rivelata vincente in quanto Mosca ha mostrato un’insolita quieta accondiscendenza rispetto a quanto stava avvenendo in Armenia, mentre la stampa internazionale celebrava la vittoria della piazza. Il futuro ci dirà se il pragmatismo di Pashinyan è il giusto approccio per lasciare un’impronta duratura sul destino del paese.

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