Armenia: figlio del premier Pashinyan si arruola nell’esercito, servirà in Nagorno-Karabakh (Agenzianova 29.05.18)

Erevan, 29 mag 16:19 – (Agenzia Nova) – Il figlio del primo ministro armeno Nikol Pashinyan si è arruolato nell’esercito e sarà schierato nel Nagorno-Karabakh, la regione internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaigian ma occupata militarmente dall’Armenia. In una diretta sulla sua pagina Facebook, Pashinyan è apparso accanto al figlio Ashot, che ha compiuto 18 anni a marzo. Ashot Pashinyan ha dichiarato di aver deciso di prestare servizio in Karabakh per lavorare a favore di una “soluzione pacifica” al conflitto. Pashinyan ha detto che il gesto non ha lo scopo di suscitare “lodi” nei suoi confronti ma di incoraggiare altri armeni ad arruolarsi nell’esercito. Il primo ministro ha invitato i compatrioti all’estero e quelli di età inferiore ai 27 anni che hanno rinviato il servizio a recarsi all’ufficio di reclutamento più vicino e unirsi alle forze armate. (Res)

Armenia: premier Pashinyan a celebrazioni 100mo anniversario Repubblica, vinceremo battaglie credendo in noi stessi (Agenzianova 28.05.18)

Erevan, 28 mag 11:47 – (Agenzia Nova) – Il popolo armeno ha vinto le sue battaglie credendo fermamente in sé stesso. Lo ha detto il premier armeno nel corso delle celebrazioni per il 100mo anniversario della prima Repubblica democratica che si stanno celebrando a Sardarapat, luogo di una storica battaglia vinta dagli armeni. “Abbiamo vinto e vinceremo tutte le volte in cui decideremo di vincere facendo affidamento su noi stessi piuttosto che sugli altri”, ha detto Pashinyan, secondo cui “ogni cittadini è un legittimo proprietario del proprio paese, e non un semplice vassallo”. “Cento anni dopo la stessa vittoria di Sardarapat, il popolo armeno ha ottenuto un’altra vittoria gloriosa nell’aprile-maggio 2018 riottenendo il potere nel paese. Molti si stanno ancora chiedendo oggi com’è successo e perché. La risposta è la seguente: il popolo armeno conta su sé stesso e non sugli altri, il popolo armeno crede in sé stesso, crede nella sua forza e nel suo futuro”, ha aggiunto il premier. Il 28 maggio viene celebrato ogni anno come Festa della Repubblica nel calendario armeno. (Res)

In Armenia con Luca Argentero: i luoghi di “Hotel Gagarin” (Siviaggia.it 28.05.18)

Hotel Gagarin“, il nuovo film di Simone Spada con Luca Argentero come protagonista, ha per set un paesaggio non certo rigoglioso. Anzi. Girato in Armenia, manda in scena luoghi duri, inusuali e forse proprio per questo tanto affascinanti.

Le riprese, che si sono svolte tra il gennaio e il febbraio 2018, sono cominciate ad Erevan, capitale dell’Armenia. Costruita sulle rive del fiume Hrazdan, alle pendici del monte Ararat, Erevan è collegata via aereo a diverse città europee: Roma (con Air Italy, ex Meridiana), Londra, Vienna, Praga, Monaco di Baviera, Parigi.

Come tutta l’Armenia, è un luogo lontano dal tradizionale concetto di turismo: tra le mete che meritano una visita troviamo la Katoghike, la più antica chiesa della città fuggita alla distruzione stalinista, e l’Archivio Matenadaran, con la sua collezione di antichi manoscritti armeni, greci, siriani, ebraici, persiani e romani.

Everan, Armenia

C’è poi il Teatro dell’Opera e ci sono zoo, orti botanici, musei, come il Metz Yeghern (Il Grande Male), dedicato al genocidio del 1915 – 1916. Infine, il Giardino dei Giusti: qui, nel Muro della Memoria, sono tumulati pugni di terra delle tombe di tutte quelle grandi personalità che hanno fatto qualcosa per aiutare gli armeni peseguitati, tra cui l’italiano Giacomo Gorrini.

Le riprese di “Hotel Gagarin” con Luca Argentero sono poi continuate a Sevan, villaggio dell’entroterra famoso per il suo omonimo lago. Ed è proprio il lago di Sevan, una delle maggiori attrative turistiche del Paese: lago più grande dell’Armenia, nonché uno dei più grandi laghi d’alta quota al mondo, è cicondato da monasteri medievali ed è abitato da una fauna rara: qui si riproduce il gabbiano armeno, qui vivono il coregone del lago Ladoga e il gambero turco e, soprattutto, la trota di Sevan.

Lago di Sevan, Armenia

Secondo la leggenda, durante le invasioni barbare, gli abitanti di Sevan attraversarono le acque gelate del lago per raggiungere la vicina isola in cui sorgeva il monastero di Sevanavank, e qui si barricarono pregando Dio di salvarli; gli arabi tentarono anche loro di attraversare il ghiaccio, che però cedette facendoli cadere nelle gelide acque, uccidendoli.

E se si volesse soggiornare proprio all’Hotel Gagarin? In realtà, il suo vero nome è Akhtamar Hotel: si trova a Mashtotsner Street 3, a due passi dal lungolago che circonda il lago di Sevan.

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Hotel Gagarin, sognatori e pataccari alla conquista dell’Armenia (Il Messaggero)

Il film di un sogno. O il sogno di un film, fate voi. In un caso o nell’altro è la storia di qualcosa che non si farà perché un produttore pataccaro chiamato Paradiso riesce a scappare coi soldi e spedire all’inferno attori e tecnici improvvisati quanto lui, ma con l’illusione di cambiar vita. Troupe e cast che più sgangherati non si potrebbe: cinque reietti – un professore, una prostituta, un operaio, un fotografo, un’ambigua “produttrice esecutiva” – deportati da Roma in un’Armenia immacolata e glaciale dove scoprono la verità ai piedi dell’Hotel Gagarin, casermone in mezzo al nulla destinato a farli “prigionieri” a lungo: senza negar loro, però, approcci amorosi e il sogno del “film” con l’aiuto degli abitanti di un vicino villaggio. Tra echi da “Lo stato delle cose” di Wim Wenders e i modi d’una romantica e bizzarra riflessione sul cinema, la commedia sollecita un soffice divertimento prima di declinare in favola e aprirsi a uno scenario fantasioso che s’accompagna alla qualità della recitazione collettiva e ai pregi pittorici di una fotografia palpitante.

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Come si fa a essere felici? Risponde il cast di Hotel Gagarin

Quanto conta la fortuna e quanto la volontà quando si parla di essere felici?

Siamo artefici della nostra felicità o piuttosto ci cade dall’alto, o ci si nasce, o capita?

Il sottotesto di Hotel Gagarin, opera prima di Simone Spada (al cinema dal 24 Maggio), fa sì che uscendo dalla sala ci si chieda se si sta facendo abbastanza per essere felici.

Il film, con Claudio Amendola, Luca Argentero, Giuseppe Battiston, Barbora Bobulova, Silvia D’Amico, Caterina Shulha e Philippe Leroy, è una commedia corale in cui viene raccontata la (dis)avventura di un gruppo di cinque spiantati italiani uniti da un unico comune denominatore (non hanno niente da perdere) che si ritrovano bloccati in Armenia e scoprono di non aver mai capito niente riguardo la felicità.

Abbiamo incontrato il cast e approfondito con loro l’argomento.

Ecco cosa ci hanno raccontato.

Innanzitutto, la trama.

Per ottenere del denaro (e con l’idea di sparire) una rete di truffatori e aspiranti tali inscenano la produzione di un film ambientato in Armenia.

Per potersi tenere il gruzzolo più grosso, le spese devono essere ridotte al lumicino, e dunque al posto di attori e tecnici vengono ingaggiati tre personaggi che col cinema non hanno niente a che fare, con la promessa di soldi facili e un’esperienza da sogno.

Insieme a loro, l’autore della sceneggiatura, un professore di belle speranze, quella che dovrebbe essere una producer (e invece fa parte dell’organizzazione della truffa) e una guida locale.

Tempo di arrivare in Armenia scoppia una guerra e loro vengono bloccati dall’esercito all’interno dell’Hotel Gagarin, isolato nei boschi e circondato dalla neve.

Ognuno di loro reagirà in modo molto diverso.

«L’unica vera colpa dell’essere umano è l’immobilità», risponde Luca Argentero, quando gli chiediamo cosa pensa riguardo la felicità: siamo vittime del destino o artefici della nostra fortuna?

«I nostri personaggi sono dei precari indolenti e non hanno speranza di raggiungere la felicità restando fermi dove stanno. Sono costretti ad andare fino in Armenia, ma anche quando sono lì non sono capaci di cogliere l’occasione. Cominciare a essere felici dev’essere sicuramente prima di tutto una decisione, la fortuna è un’altra cosa».

Qual è il consiglio migliore che ti sia stato dato sull’essere felice?

«I consigli migliori sono quelli che ti vengono dati quando non li hai chiesti, penso alle cose che ti spiegano i nonni, che lì per lì non reputi importanti e poi magari anni dopo ti torna in mente come una folgorazione e capisci cosa voleva dire perché è in assoluto il consiglio migliore che potessi ricevere in quel momento.

Mio nonno siciliano mi ha trasmesso la passione per l’orto e diceva sempre che la terra è l’unica cosa davvero democratica perché è bassa per tutti.

E quindi adesso quando sono nell’orto zappettando col mal di schiena mi dico che “vedi non importa chi sei da dove arrivi, se sei piegato sulla terra la schiena fa male a tutti nello stesso modo”. E allo stesso modo ci sono delle occasioni sociali, dei momenti, delle situazioni in cui siamo tutti metaforicamente piegati sulla terra.

Cerco di ricordarmelo sempre».
«Tocca sicuramente a noi decidere di essere felici. Di provarci almeno. Stiamo vivendo in un momento in cui c’è la tendenza a piangersi addosso, il film vuole essere un’esortazione a non farlo», aggiunge Claudio Amendola.

«Per quanto riguarda la felicità, penso che la chiave di volta per iniziare a essere felici sia la curiosità: viviamo sempre di più chiusi in realtà fittizie e virtuali, dove la curiosità è circoscritta a quello che vediamo su uno schermo, da cui non alziamo mai lo sguardo.

Il fatto è che così facendo finiamo per aver paura di ciò che è diverso e del nuovo, e questo è l’opposto della curiosità, della speranza e di conseguenza della felicità».

«La forza di volontà conta 70% insieme al carattere, la fortuna al 30%», tratta Silvia D’amico.

«Poi se vuoi motivarti quando hai già preso una decisione puoi anche leggere l’oroscopo, ma gli si deve credere solo se è positivo, se no no».

«Avendo scelto un mestiere come il mio, che è tutto tranne che certo, devi affrontare delusioni a non finire e metterti in gioco per ricominciare, e per farlo serve tanta forza di volontà nel chiudere e ricominciare.

È una fatica pazzesca ma anche uno stimolo, ti dà una gran vitalità il fatto di metterti in gioco».

C’è bisogno di non aver niente da perdere per trovare il coraggio di mettersi in gioco?

«Quando non si ha niente da perdere si è sicuramente più coraggiosi», risponde Caterina Shulha.

«Se un anno e mezzo fa mi avessi chiesto come reagisco ai momenti di difficoltà ti avrei risposto che tendo a scappare dalle occasioni e dalle difficoltà, perché mi ha sempre fatto un po’ paura l’idea del cambiamento.

Poi però sono diventata mamma e questo ti cambia la palette che hai davanti.

La verità è checché se ne dica non dovremmo sempre guardare avanti: a volte fa bene anche guardare indietro e vedere fin dove sei riuscito ad arrivare.

Perché a volte ci sembra di non essere arrivati da nessuna parte se guardiamo avanti, mentre se ci fermiamo e facciamo il punto su quanta strada siamo riusciti a percorrere è più facile essere felici e a quel punto anche trovare la forza per andare avanti e il coraggio per farlo ancora meglio».

«La fortuna incontra le persone con la volontà», concorda Barbora Bobulova, la finta producer nel film.

«Apparentemente la società di oggi offre tutto, senza nemmeno bisogno di uscire di casa, ma è un Paradiso fittizio, anche rischioso.

Oggi la felicità è sempre di più legata all’essere coraggiosi, a chi sa andare controcorrente o osare. Certo, non c’è necessariamente bisogno di andare dall’altra parte del mondo, si può ricominciare anche appena fuori da casa propria».

Fa davvero così freddo come sembra dallo schermo?

«Ma no, sono loro che non sanno vivere il freddo (parlando dei colleghi, che hanno risposto di sì all’unisono, ndr) – c’era freddo, sì, eravamo pur sempre a meno 20 gradi, ma è un freddo secco, non è come quello umido qui che ti entra nelle ossa.

E poi considera che noi eravamo copertissimi, in tuta da sci e moon boot, mentre le persone del posto erano in jeans, giacca di pelle e mocassini, quindi forse è proprio un problema nostro, che non siamo abituati a quelle temperature».

Ma perché proprio l’Armenia?

«Perché i viaggi sono il miglior modo per essere felici», spiega il regista, Simone Spada.

«Arricchiscono la propria visione del mondo. Non si può riuscire a essere empatici più di tanto con quello che si vede solo attraverso gli schermi.

Certo, io sono di parte, perché amo viaggiare (d’altra parte lo si capisce anche dal fatto che sono andato a girare un’opera prima in Armenia), ma conoscere le culture diverse dalle nostre, vivere per il tempo di un viaggio una vita altra rispetto alla nostra, è una porta verso la felicità.

Dovessi decidere di realizzare un sogno? Come nel film, hai cinque righe per descriverlo.

Me ne basta una: che la Roma vinca lo scudetto».

Photo credits: Andrea Miconi

La Knesset voterà il riconoscimento del genocidio armeno (mosaico-cem.it 25.05.18)

di Paolo Castellano
La Knesset ha messo in agenda la votazione sul riconoscimento del genocidio armeno perpetrato durante la prima guerra mondiale dall’Impero ottomano. La parlamentare Tamar Zandberg, presidente del partito di sinistra Meretz, ha infatti presentato una mozione sul riconoscimento che è stata approvata il 23 maggio dal parlamento israeliano. «Questo è un nostro obbligo morale e storico», ha commentato con soddisfazione la Zandberg che poi ha aggiunto: «Alcune cose vanno oltre la politica».

Un voto storico per il parlamento israeliano

Come riporta il Jerusalem Post, la mozione è stata approvata con una votazione di 16-0. Dunque il dibattito sul genocidio degli armeni verrà esteso a tutta la Knesset per la prima volta nella storia dello Stato ebraico. Lo staff di Tamar Zandberg ha comunicato che lo storico voto in parlamento avverrà presumibilmente il 29 maggio. Già nel 2015, la Knesset aveva autorizzato una discussione sul genocidio armeno che era stato riconosciuto dalla Commissione Educazione, Cultura e Sport di Israele. La mozione del 2018 però è diversa da quella del 2015: questa volta la valutazione avverrà in parlamento e non all’interno di una commissione parlamentare. Il futuro esito perciò rappresenterà la posizione ufficiale di Israele sul genocidio armeno.

Diversi i tentativi fatti in passato per approvare la mozione sul riconoscimento, ma ogni volta respinti dalle precedenti coalizioni politiche per non deteriorare i rapporti diplomatici con la Turchia. Oggi però sembra non esserci questa volontà.

La Turchia alza la voce e si arrabbia

Per questi motivi il voto del 23 maggio ha creato qualche tensione tra le diplomazie turche e israeliane. Inoltre, la scorsa settimana la Turchia ha espulso l’ambasciatore israeliano per protestare contro le attività dell’esercito israeliano sul confine con Gaza e per dimostrare solidarietà al popolo palestinese. Di conseguenza Gerusalemme ha deciso di rispedire ad Ankara l’ambasciatore turco.

Come è noto, la Turchia si oppone caparbiamente al riconoscimento del genocidio degli armeni e al suo coinvolgimento attivo nella strage. Si calcola infatti che l’Impero ottomano abbia ucciso 1,5 milioni di armeni durante la Grande Guerra.

Infine, il presidente della Camera Yuli Edelstein ha commentato così il successo della mozione: «La Knesset deve riconoscere il genocidio armeno perché è la cosa giusta da fare, come persone e come ebrei».

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Una Rivoluzione Colorata in un bicchier d’acqua (Comedonchisciotte25.05.18)

Il concetto di successo cambia con l’età. Quando si è giovani, ma non abbastanza maturi, ci si può impegnare in ogni sorta di ridicola impresa. Dopo, quando non si è più tanto giovani, una passeggiatina fruttifera fino alla latrina è già più che sufficiente per brindare al successo. La stessa cosa succede agli imperi che invecchiano. In gioventù distruggono nazioni grandi ed importanti, ma poi le aiutano nella ricostruzione. In seguito, si limitano solo a distruggerle. Alla fine, tentano di abbattere nazioni piccole e deboli e non riescono a fare neanche quello. Dopodichè questi fallimenti diventano troppo insignificanti per essere notati. Avete fatto caso a che cosa è appena successo in Armenia? Esattamente.

Casomai non lo sapeste, gli Armeni sono una delle popolazioni più antiche della Terra. La nazione conosciuta come Armenia esisteva già nel 9.000 A.C. con il nome di Regno di Urartu, ed è arrivata fino ai giorni nostri, anche se la maggior parte degli Armeni attualmente costituisce una diaspora, come gli Ebrei. Fino agli anni ’90 l’Armenia aveva fatto parte dell’URSS, traendone grossi vantaggi, ma, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la situazione era diventata stagnante. Praticamente tutte le industrie costruite in Armenia dai Sovietici avevano chiuso e i tecnici che vi lavoravano erano espatriati, alla ricerca di pascoli più verdi. L’Armenia si era deindustrializzata ed era diventata prevalentemente agricola, con un’economia incentrata su prodotti come albicocche, vino, liquori, con in più un po’ di turismo.

Le difficoltà dell’Armenia derivano da alcuni problemi connessi alla sua collocazione geografica. L’Armenia non ha accessi al mare, ed è tagliata fuori dalle rotte commerciali più importanti. Confina con nazioni che sono o inutili o ostili: la Georgia è più o meno ostile ed anche inutile dal punto di vista economico; la Turchia è utile ma ostile; stessa cosa per l’Azerbaigian (abitato da Turchi azeri); l’Iran è inutile (e al nord è anche popolato da Turchi azeri). Aggiungeteci una regione contesa fra Armenia ed Azerbaigian (il Nagorno-Karabakh), abitata da Armeni ma reclamata dall’Azerbaigian, che necessita della presenza di truppe di pace russe per il mantenimento dello status quo ed avrete la ricetta per un limbo politico ed economico.

La situazione in Armenia sembrava abbastanza triste, ma poi era entrata a far parte dell’Unione Economica Eurosiatica [EAEU], una zona di libero scambio che comprende la Russia ed altre repubbliche ex-sovietiche. Essa garantisce un’ampia zona di libera circolazione di capitali, merci e forza lavoro, e ci sono progetti per un’integrazione anche delle forze di sicurezza. Grazie sopratutto al suo inserimento nell’EAEU, l’anno scorso, l’economia armena ha fatto un balzo del 7,5% e i signori di Washigton, DC e di Langley, VA si sono seduti e ne hanno preso nota. L’establishment americano considera questi successi economici “russocentrici” abbastanza preoccupanti. Era giunto il momento di rimettere in riga l’Armenia.

A dare una mano a questa operazione c’era il fatto che Yerevan, la capitale armena, ospita un’ambasciata americana che è la seconda, come grandezza, del mondo intero, con un folto organico di aizzafolle molto ben addestrati. Aggiungeteci la presenza, tanto per dare una mano, di ONG occidentali, generosamente finanziate da Soros e soci. Tutti questi spingevano, per dirlo senza mezzi termini, verso lo smantellamento dell’Armenia e la sua trasformazione nell’ennesimo territorio anonimo, governato alla perfezione dai burocrati e dai banchieri internazionali. In particolare, facevano pressioni per una riforma costituzionale, che consentisse il passaggio da repubblica presidenziale a repubblica parlamentare (una mossa stupida per una nazione in perenne stato di semibelligeranza a causa di vicini ostili e territori contestati).

Aggiungeteci il fatto che l’Armenia è un po’ rimbambita. E’ la sventura delle nazioni in diaspora, che il paese di origine rimanga alla fine ben rifornito di cretini. Prendete una popolazione di ratti. (Attenzione, non sto paragonando gli Armeni ai ratti, sto paragonando l’Armenia ad un esperimento di laboratorio). Lasciamo che tutti i ratti abbastanza svegli da attraversare un labirinto (o, nel caso degli Armeni, da imparare una lingua straniera, ottenere un passaporto,  un visto e trovarsi un lavoro all’estero) possano andarsene e, qualche generazione dopo, i ratti rimasti saranno, per lo più, quelli rincoglioniti.

E così, il Sindacato Rivoluzioni Colorate si era messo all’opera. Dopo alcuni giorni di proteste di piazza che avevano paralizzato la capitale, il parlamento era stato  intimidito a sufficienza per eleggere alla carica di Primo Ministro un certo Nikol Pashinian, un parlamentare con alle spalle un partito che i sondaggi davano al di sotto del 10%. La mossa era stata favorita dal fatto che l’ex Primo Ministro era abbastanza inetto e, in ogni caso, non sembrava trovarsi molto a suo agio con il proprio lavoro. Il Primo Ministro di nuova nomina era considerato un riformista filo-occidentale.

Fino ad ora pensavo che il Sindacato Rivoluzioni Colorate fosse praticamente defunto. In effetti, tutte le nazioni principali hanno sviluppato un’immunità nei suoi confronti. La sua ultima vittima è stata l’Ucraina, che sta ancora attraversando le varie fasi del collasso. La Russia ora è chiaramente immunizzata. Il campione dell’Occidente, Alexei Navalny, che aveva seguito i corsi di Tecnologia Politica delle Rivoluzioni Colorate a Yale e che avrebbe dovuto rovesciare Putin con l’aiuto di una grande folla di adolescenti idioti, è diventato adesso il pifferaio magico del Kremlino che ripulisce le città dagli adolescenti idioti. L’Ungheria ha appena bandito Soros e tutti quelli che navigano con lui. Ma i Rivoluzionari Colorati non ne vogliono sapere di ritornare nel dimenticatoio. Dopo tutto, hanno ancora dei soldi da spendere per destabilizzare i regimi che vanno a braccetto con Mosca o che non vogliono collaborare con Washington. E così hanno deciso di scegliere un bersaglio piccolo e facile: l’Armenia.

Ma anche in Armenia le cose non sono andate esattamente come previsto. I pianificatori della Rivoluzione Colorata non hanno preso in considerazione certi parametri dell’equazione politica armena. Primo, l’Armenia ha un sacco di rimesse dagli Armeni che vivono e lavorano in Russia. Secondo, circa la metà della popolazione armena è, per dirlo in modo politicamente scorretto ma accurato, russa: parla il russo, è culturalmente affine alla Russia ed è una nazione che fa parte di quella grande famiglia di oltre 100 nazioni che si autodefiniscono russe. Terzo, Nikol Pashinyan è un tipo volubile. Aveva iniziato come nazionalista, poi era diventato filo-occidentale, e domani sarà quello che dovrà essere in base alla direzione che prenderà il vento. Ha carisma, ma è praticamente un peso-piuma: uno che ha abbandonato gli studi universitari, senza esperienza di governo o di affari, ma con istinti opportunistici da vendere.

La natura malleabile di Pashinyan era diventata evidente quando si era candidato [a Primo Ministro] davanti al parlamento armeno. All’inizio, la sua piattaforma politica non era stata un granchè, solo qualche vaga affermazione filo-occidentale. Dopo aver capito che così non avrebbe funzionato, aveva cambiato marcia ed era diventato decisamente filo-russo. Per stare sul sicuro, dopo aver assunto la carica di Primo Ministro, il suo primo incontro come capo di stato era stato con Vladimir Putin, e tutte  le sue dichiarazioni pubbliche avevano riguardato i legami fra le grandi e non così grandi nazioni di Russia e Armenia. Aveva partecipato al summit dell’EAEU di Sochi, facendo un po’ la figura del novellino in mezzo a tutti quei politici stagionati, ma ricevendo rassicuranti pacche sulle spalle dai notabili euroasiatici. Il messaggio di fondo sembrava essere: non fare casino e ti terrai il 7,5% di crescita annuale del PIL e farai la figura dell’eroe.

Così, che cosa hanno ottenuto Washington, Langley, Soros e il resto del Sindacato Rivoluzioni Colorate in cambio degli sforzi e delle decine, e forse centinaia, di milioni di dollari spesi per cercare di trasformare l’Armenia in una nazione vassalla dell’Occidente o, in alternativa, in uno stato fallito? Sono quasi sicuro che anche loro non saprebbero rispondere a questa domanda. I brillanti geopolitici occidentali avevano guardato una carta geografica e, vedendo una piccola, debole e vulnerabile nazione, strategicamente incuneata fra Russia ed Iran, avevano pensato: “Dovremmo andare ad occuparcene”. E così hanno fatto. Ma, guardando ai risultati, avrebbero potuto benissimo starsene a casa, farsi una passeggiatina fruttifera fino al cesso e celebrare la vittoria.

Pashinyan e l’Armenia di domani (Osservatorio Balcani & Caucaso 25.05.18)

Nikol Pashinyan è diventato premier, la cosiddetta rivoluzione di velluto armena ha dato i suoi frutti. Ora però inizia la vera sfida, cambiare il paese. Per poterlo fare il neo-premier avrebbe bisogno quanto meno di una maggioranza parlamentare

25/05/2018 –  Monica Ellena

La rivoluzione diventa brand e fa tendenza – anche nei giochi di società. “Da oggi il monopolio deve essere solo un gioco”, è stato lo slogan usato per il lancio di K’ayal ara (lett. “fa’ qualcosa”), una sorta di versione armena del Monopoli nonché l’ultimo, in ordine di tempo, degli oggetti plasmati dal marketing sulla scia dell’entusiasmo rivoluzionario che ha portato alle dimissioni del veterano leader Serzh Sargsyan e alla nomina a Primo ministro dell’attivista Nikol Pashinyan.

La rivoluzione di velluto, come definita dallo stesso neo premier, segna un cambio di marcia fondamentale nella storia politica del paese dall’indipendenza del 1991. Accantonata l’apatia post-sovietica, il 42enne ex giornalista ha promesso di svecchiare l’apparato istituzionale, di fare pulizia tra i ranghi, e di ripulire il sistema dei monopoli che ha frenato lo sviluppo dell’Armenia, condannando un terzo della popolazione a povertà ed emigrazione .

Tra volere e potere

La popolarità di “Pashinyan il Pasionario” è alle stelle, una posizione privilegiata per guidare con successo il nuovo governo, pur navigando a vista nel complesso panorama politico del paese. Le critiche non mancano, ma al momento gli osservatori si dividono tra cauti e ottimisti. Anna Ohanyan è tra questi ultimi. Secondo la docente di scienze politiche dello Stonehenge College del Massachusetts, il movimento armeno ha indicato una possibile strada da percorrere ai “regimi ibridi”, ovvero ai governi che, come l’Armenia sotto Sargsyan, sono in precario equilibrio tra democrazia e autoritarismo. Il successo armeno, aggiunge, è legato alle stesse radici del movimento.

“La storia insegna come le transizioni clamorose, imposte dall’alto o guidate da un élite non hanno esito positivo”, ha detto nel corso di una conferenza organizzata dall’Istituto di studi armeni dell’Università della California meridionale. “La protesta armena è stata strategicamente pacifica, è partita dalla base, ed è rimasta [rispettosa] delle istituzioni. Queste sono fondamenta che promettono bene. [Pashinyan] ha dato forma a un impegno civico che è partito “dal basso”, e che è vitale per prevenire una rinascita autoritaria”.

L’impegno di rinfrescare l’esecutivo è stato, in parte, mantenuto. Il nuovo governo vanta professionisti under 40 come Tigran Avinyan, che a 29 anni è il più giovane vice primo ministro della storia armena, ma include anche personalità in posizioni di potere già nel passato, come Davit Tonoyan, al ministero della Difesa, e Atom Janjughazyan, alle Finanze: entrambi avevano già ricoperto l’incarico di vice ministro nei rispettivi dicasteri.

Queste decisioni sono in linea con l’impegno dichiarato di evitare le “epurazioni”, ma riflettono anche un’abile, nonché necessaria, strategia politica basata sui numeri – quelli che non ci sono. Le risorse di Pashinyan sono ridotte ai minimi termini, o meglio, ai minimi seggi. La coalizione parlamentare Yelk (Via d’Uscita) della quale il suo partito, il Contratto civile, fa parte, detiene 9 seggi su 105 disponibili nell’Assemblea nazionale. Il Partito repubblicano fa la parte del leone con 69. Tra il voler ripulire il paese dalle pratiche dell’ancient regime e il poterlo fare, la nuova leadership ha quindi bisogno di raccattare il più ampio consenso parlamentare e sta quindi lavorando con altri partiti – soprattutto “Armenia prospera” dell’uomo d’affari Gagik Tsarukyan e la Federazione Rivoluzionaria (noto anche come Dashnaktsutyun) già partner della coalizione che sosteneva l’HHK di Sargsyan. L’idea è togliere le mele marce e corrotte, ma non buttare via la cassa.

Altre promesse non sono state mantenute. Nel discorso che ha preceduto la sua nomina in Parlamento, Pashinyan ha lodato il ruolo fondamentale delle donne nella mobilitazione dello scorso aprile, affermando che questo ruolo sarebbe stato premiato. La nomina di sole due donne alla guida di un dicastero – Lilit Makunc alla cultura e Mane Tandilyan al lavoro e affari sociali – ha fatto storcere nasi e generato non pochi rimproveri in rete.

Tra le voci caute, o per lo meno in attesa, c’è Armine Ishkanyan, docente alla London School of Economics. “Nonostante tutti i discorsi [di Pashinyan], non è ancora chiaro quale sia la sua agenda socio-economica”, ha spiegato l’esperta a Eurasianet .

La sfida immediata è il consolidamento. È necessario ridisegnare la legge elettorale, che attualmente favorisce l’HHK, per andare alle urne al più presto e, nel frattempo, riuscire a mantenere alto l’entusiasmo e il sostegno verso Pashinyan fino al giorno del voto che il premier vorrebbe per l’autunno .

La lezione delle rivoluzioni colorate, e sbiadite

Tenere vivo il fuoco della passione non è facile, anche in tempi di social network. E considerato il carattere anomalo dell’esperienza armena viene spontaneo chiedersi: fu vera rivoluzione? Per Micheal Cecire, analista presso il think tank New America di Washington, dipende da chi fa la domanda – e da chi risponde. Gli ultimi quindici anni di storia nello spazio post-sovietico insegnano come l’espressione “rivoluzione” sia diventata sinonimo di movimenti anti-russi, manovrati da organizzazioni che promuovono un modello di democrazia occidentale o agenzie di intelligence. “La retorica [del Cremlino] le ha anche definite una forma di guerra ibrida occidentale”, spiega Cecire che riconosce alle proteste armene notevole astuzia.

Pashinyan ha fatto sua la strategia di movimenti del passato, come Eletric Yerevan , e ha accuratamente dribblato i riferimenti alle varie rivoluzioni colorate e floreali, sottolineando come alla base della contestazione c’erano specifiche ragioni interne al paese. Come ha scritto Thomas de Wall, analista del Carnagie Institute di Londra, “a volte le proteste in Armenia altro non sono che proteste armene”, a dire che le letture geopolitiche non sono etichette che si possono appiccicare ovunque. Il neo premier e i suoi non solo si sono premurati di sottolineare che non c’era una chiave anti-russa – leggendo pubblicamente un comunicato del Cremlino che riconosceva e rispettava il carattere “interno” della protesta – ma il distacco misurato di Mosca, le congratulazioni affrettate a Pashinyan, e l’incontro di quest’ultimo con Vladimir Putin meno di una settimana dalla sua nomina suggerisce che la strategia ha funzionato.

Gli osservatori sperano che il cambio di regime mantenga il suo carattere anomalo, se non altro perché il fresco vento riformista soffiato dall’Ucraina al Kirghizistan passando per la Georgia tra il 2003 e il 2014 si è trasformato presto in una macchia appiccicosa. Guardando alla Rivoluzione delle rose, un successo poi impantanatosi, David Usupashvili, indica tre pericoli dai quali l’Armenia deve guardarsi. “Negli anni la rivoluzione si trasformò in una battaglia tra politici buoni e cattivi, non tra politiche buone e cattive”, ha spiegato l’ex presidente del parlamento georgiano, aggiungendo come sia una metamorfosi deleteria. “Poi, il nuovo governo deve avere una strategia d’uscita (…) perché, al di là delle politiche attuate, nessuno deve pensare che un buon governo coincida solo con una particolare squadra o individuo e il trasferimento pacifico del potere è la chiave dello sviluppo democratico”.

Ma è nel rapporto con i cittadini che alberga la prova più dura – e che ogni rivoluzione post-sovietica ha fallito, in varia misura.

“Alla caduta dell’URSS il concetto di ‘persona’ per i nuovi governi è passato da ‘compagni sovietici’ a ‘elettori democratici’. Abbiamo saltato a piè pari la visione dei ‘cittadini’. I politici guardano alla popolazione in termini di voti, quelli che sono loro necessari per rimanere al potere. Fare di ogni armeno un cittadino è il grande lavoro che attende la nuova leadership”.

Il nodo del Nagorno Karabakh

La gestione della bomba a orologeria che è il Nagorno Karabakh rimane l’altro nodo chiave a livello di politica internazionale, anche se strettamente legato alle dinamiche interne. Il conflitto con l’Azerbaijan per il controllo della regione ufficialmente in territorio azero, ma di fatto indipendente, rimane una spada di Damocle e la necessità di (ri)svegliare i negoziati che si trascinano senza risultati dal cessate il fuoco firmato nel maggio del 1994 è reale. In un discorso in Piazza della Repubblica lo scorso 2 maggio Pashinyan ha ribadito che “la Repubblica del Nagorno Karabakh è una parte inseparabile della Repubblica di Armenia”.

Se l’unificazione con l’Armenia era il fine del movimento del Karabakh, sorto nel 1988, l’indipendenza è oggi l’obiettivo principale della regione abitata oggi da circa 150.000 armeni per i quali il legame con Yerevan rimane comunque imprescindibile.

Il giorno successivo alla sua nomina, Pashinyan è volato a Stepanakert per partecipare alla parata del 9 maggio che commemora la vittoria sul nazismo nonché la conquista della città di Shushi/Shusha nel 1992 (la prima significativa vittoria armena nel conflitto). In quell’occasione il neo premier ha ha insistito affinché gli armeni del Karabakh “prendessero direttamente parte ai negoziati per la risoluzione del conflitto, sedendosi al tavolo delle trattative”. Un’affermazione importante visto che la mediazione, attraverso il Gruppo di Minsk presieduto dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), oggi coinvolge solo Baku e Yerevan.

Secondo l’analista Thomas De Waal il pericolo è che se Pashinyan dovesse avventurarsi “ad affermare apertamente la sovranità sul Nagorno Karabakh e che le [sette] regioni azerbaijane attorno a esso, occupate dalle forze armene nel 1993-1994, non possono essere restituite, nulla rimane da negoziare con Baku, si tornerebbe alla guerra. La guerra dei quattro giorni dell’aprile 2016, che ha causato circa 200 morti, è un recente triste ricordo di quanto alto sia il costo. Il cessate il fuoco viene costantemente rotto, con un soldato azerbaijano ucciso lo scorso 20 maggio”.

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Luca Argentero, all’Hotel Gagarin realizziamo sogni (Ansa 23.05.18)

Un gruppo di persone estranee, ”di precari nella loro vita quotidiana e dell’anima” dice il regista Simone Spada, ”che trovano un minimo comune denominatore comune e riescono a rinascere insieme, realizzando sogni, attraverso la magia del cinema” aggiunge con l’ANSA Luca Argentero. Sono i protagonisti della commedia on the road (prodotta da Lotus Production con Rai Cinema), dall’Italia all’Armenia, tra cinema e favola moderna Hotel Gagarin in sala dal 24 maggio con Altre storie. Protagonisti del viaggio, con Argentero, sono Claudio Amendola, Barbora Bobulova, Silvia D’Amico e Caterina Shulha. Spada firma la sua opera prima dopo oltre 20 anni in decine di film e fiction, da Claudio Caligari a Nunziante/Zalone.
“Avevo voglia di raccontare una storia in commedia – spiega – ma volevo farlo in modo sognante, dolce, con sincerità e ottimismo, di cui credo ci sia bisogno”. I suoi antieroi in cerca di rinascita sono riuniti dal progetto strampalato di un film in Armenia orchestrato dal piccolo faccendiere Franco Paradiso (Tommaso Ragno) che è in combutta con un europarlamentare, per accaparrarsi dei fondi europei. Nell’improbabile troupe che arriva nell’ex Repubblica sovietica ci sono il professore di storia/regista Nicola Speranza (Giuseppe Battiston), l’elettricista promosso a responsabile luci Elio (Amendola), il fotografo operatore perennemente ‘fumato’ Sergio (Argentero), la prostituta/protagonista del film Patrizia (D’Amico), la complice (almeno all’inizio) di Paradiso, Valeria (Bobulova) aiutata in loco da Kira (Shulha), che non vive bene la futura maternità.
Bloccati in pieno inverno armeno, nel loro albergo ‘base’, l’Hotel Gagarin, anche a causa di un’improvvisa guerra, i ‘cinematografari’ attirano l’attenzione degli abitanti del villaggio vicino, che gli chiedono di dare forma con il cinema, ai loro sogni: dall’andare nello spazio, a diventare Humphrey Bogart, dal vincere un Oscar a sfidarsi come i cowboy di Per un pugno di dollari. Desideri che Speranza (nomen omen) e compagni iniziano a realizzare. ”Nicola vive le cose importanti della sua vita, l’insegnamento e la passione per il cinema come una missione, un approccio alla vita molto alto e raro – dice Battiston, reduce dal premio a Cannes di Troppa Grazia di Zanasi -.I protagonisti ritrovano se stessi realizzando i sogni degli altri”. L’Hotel Gagarin “e’ un posto dell’animo dove ognuno a proprio modo riesce a capire cosa è importante nella propria vita e cosa non lo è” dice Silvia D’Amico. Tutti i personaggi, aggiunge Amendola “sono cercatori di felicità. A volte per trovarsi bisogna allontanarsi da se stessi, essere curiosi e guardarsi intorno. Il mio personaggio è un uomo stanco, deluso, profondamente romano, che in Armenia trova persino l’amore”.
Per Barbara Bobulova c’è stato anche il piacere “di interpretare una ‘cattiva’, non mi capita spesso – spiega -.
Anche se pian piano di Valeria si scoprono le fragilità e le ferite”. Mentre Argentero (che a fine 2018 vedremo anche nella commedia corale Cosa fai a Capodanno? di Filippo Bologna) ha amato di Sergio il fatto che “fosse profondamente diverso da me.
Non sono pigro, ne’ indolente, non galleggio nella vita ma sono attivo, propositivo, il futuro me lo creo, conquisto e combatto.
Sergio è come il fratello gemello ‘sfigato’ che non ho mai avuto. Più la sfida in commedia è grande, più mi attira”.
Un’altra bella sfida sono state le riprese in Armenia in pieno inverno a -20 gradi: “Non è stato facile, ma abbiamo fatto dei bellissimi incontri, con la popolazione e gli attori armeni, straordinari. Poi un membro della troupe si è anche innamorato di una ragazza del posto e ora stanno aspettando un bambino… – conclude Spada – più sogni realizzati di così!”

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Armenia, a tutto brandy (Latitudelife 23.05.18)

Paese che vai, bevanda che trovi. Se in Scozia si beve il Whisky, in Germania la birra e in Spagna la Sangria, in Armenia è il brandy a intrecciarsi con la storia di questa nazione che ne ha viste di tutti i colori e che soffre ancora per il genocidio del 1915 in cui sono stati massacrati un milione e mezzo di Armeni. Non si può chiamare Cognac quel liquido ambrato perché i francesi hanno l’esclusiva, ma quello che distillano a Yerevan in Armenia è un brandy superlativo. È noto che Winston Churchill se ne faceva mandare 400 bottiglie all’anno (ne beveva una al giorno) e, secondo gli storici, il brandy risalirebbe addirittura alla metà del V secolo quando a Roma arrivavano le botti col prezioso distillato con il sigillo di Dvin, l’antica capitale armena.

La distilleria più famosa è la Ararat che risale al 1887 e dove è possibile visitare (e poi degustare) la cantina con le botti di quercia in cui il brandy invecchia anche 50 anni.  Prezzi alle stelle se si considera che una bottiglia invecchiata 10 anni costa 550 euro. Però ne vale la pena! Fra le botti ce n’è una molto speciale, piccolina, con le firme di importanti leader politici mondiali: sarà aperta solo quando sarà risolto il problema del Nagorno Karabath.

Graziella Leporati da Yerevan | Riproduzione riservata Latitudeslife.com

 

Alla Botteguccia PietraKappa il professor Stranges ripercorre la Via degli Armeni (Calabriapost.net 22.05.18)

Sabato scorso, nella Botteguccia di PietraKappa, si è tenuto l’incontro con il professore Sebastiano Stranges sul tema “Gli Armeni in Calabria”.Nel corso dell’incontro, accompagnandosi con numerose diapositive, Stranges ha intrattenuto il folto pubblico sulle scoperte che hanno consentito di testimoniare la presenza di gruppi di Armeni nel territorio della fascia Ionica reggina. Tale presenza è testimoniata da una ricca toponomastica ed onomastica, ma soprattutto dalla presenza di alcuni monumenti rupestri e tipologie di insediamento tipiche di quell’antichissimo popolo.

In particolare il professore Stranges ha mostrato una chiesa entro una caverna nel territorio di Brancaleone, in cui sono evidenti i simboli graffiti del cristianesimo armeno, che ha una forte spiritualità ed una tradizione antichissima, essendo l’Armenia il primo regno ad avere dichiarato il Cristianesimo religione di Stato.


Durante l’incontro, poi, grazie alla presenza della signora ‪Tehmina Arshakyan, residente in Italia ma di nazionalità armena, che ha indossato un ricco costume tipico del suo paese, aiutando gli spettatori ad entrare meglio nella ricca ed antica civiltà del suo popolo.
Al termine dell’incontro il professore Stranges ha risposto alle numerose domande scaturite dalla sua esposizione, mentre la Botteguccia offriva un rinfresco a base di salumi e formaggi del reggino. Un altro incontro che ha suscitato grande interesse, nello spirito di PietraKappa, che è quello di fare conoscere il territorio attraverso la sua storia e le sue realtà produttive, legate ad una tradizione che nasce soprattutto dal fecondo incontro di culture, che rischiano di essere dimenticate e che meritano di essere riscoperte e valorizzate.

Armenia-Cipro: presidente parlamento Syllouris visita memoriale di Tsitsernakaberd (Agenzianova 22.05.18)

Erevan, 22 mag 10:20 – (Agenzia Nova) – Con il termine “genocidio armeno”, le autorità di Erevan indicano le deportazioni e uccisioni di armeni perpetrate dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causarono circa 1,5 milioni di morti. Gli armeni commemorano il genocidio il 24 aprile di ogni anno. Sinora, 29 paesi hanno riconosciuto a livello internazionale le atrocità subite dalla popolazione armena in quel periodo storico come un genocidio. Cipro è tra i primi Stati che hanno riconosciuto e condannato il genocidio armeno e a inoltre adottato una legge che condanna la negazione del genocidio armeno il 2 aprile 2015. (Res)