Il card. Sandri a suore armene: non perdete la speranza (Vaticanews.it 04.06.18)

Per i 170 anni di fondazione della Congregazione delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione, il card. Sandri ha presieduto ieri la Santa Messa a San Nicola da Tolentino. Nell’omelia, l’incoraggiamento a non perdere la speranza, anche nelle prove. Poi il messaggio ai giovani

Cecilia Seppia – Città del Vaticano

A conclusione del 170.mo anniversario di fondazione della Congregazione delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ha presieduto ieri, nella solennità del Corpus Domini, la celebrazione eucaristica, presso la chiesa di San Nicola da Tolentino in Roma, che è annessa al Pontificio Collegio armeno.  A concelebrare la Messa,  animata dal Coro armeno delle giovani allieve della Scuola di Gyumri, anche mons. Krikor Coussa, vescovo armeno cattolico di Iskenderiya (Alessandria di Egitto) e mons. George Assadourian, vescovo ausiliare del Patriarca Gregorio Pietro XX.

Collaborare al dono di Dio per l’umanità

Nell’omelia il card. Sandri ha posto l’accento sui carismi della Congregazione, quali l’accoglienza e l’educazione, e sulla necessità che essa continui attraverso le opere a collaborare al dono di Dio per l’umanità. “In questi 170 anni – ha detto il porporato – troviamo anche delle pagine eroiche: penso in particolare alla grande risposta di carità che avete intrapreso circa cento anni fa, quando siete diventate come delle sorelle e della madri per le orfane rimaste prive dell’amore di una famiglia a causa dello scatenarsi della violenza di quello che chiamiamo Metz Yegern. Lo avete fatto con più di 400 ragazze a Costantinopoli prima, ma poi anche vicino a Roma, a Castelgandolfo, dove giunsero nel 1922 per volontà di Papa Pio XI e poi trasferite l’anno successivo a Torino su interessamento del Governo Italiano”.

Rinascere nella carità

Ponendo l’accento sulla storia della Congregazione, il card. Sandri ha aggiunto: “Siete rinate attraverso la carità concreta per i piccoli e i poveri voi che per prime avevate subito violenze: tutte le case di Istanbul erano state distrutte, 13 consorelle massacrate e 26 deportate. E così avete continuato a vivere. E anche nel tempo più vicino a noi, quando nel 1991 si riaprirono le porte dell’Armenia, siete andate e avete avviato le attività che io stesso ho visitato con gioia e molto apprezzato”

Perseverare anche oggi

Dalla storia – ha proseguito il prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali – deve arrivare l’indicazione per l’oggi a perseverare, ad avere fede, a non perdere mai la speranza anche di fronte a situazioni che possono provocare scoraggiamento: “Il Signore stesso – ha affermato il cardinale – venga in soccorso di quella che a volte è anche una nostra mancanza di fede: ci aiuti a rimanere ben fondate sul dono della sua Carità, che nella Santa Eucarestia ha il suo vertice più alto, e a vivere una esistenza eucaristica attraverso le opere che abbiamo iniziato e quelle che potremo ancora intraprendere”.

Sinodo dei Vescovi sui giovani

In riferimento alle allieve della Scuola di Gyumri, che hanno animato con i loro canti la celebrazione eucaristica, il card. Sandri ha rivolto il pensiero al prossimo Sinodo dei Vescovi di ottobre, dedicato proprio ai giovani. “In questo anno dedicato loro dalla Chiesa, sappiano cercare la vera gioia conoscendo il Signore, sappiano apprezzare il dono della vera libertà che Lui solo ci garantisce, si interroghino sulla loro vocazione e il loro futuro perché anche grazie al loro contributo scompaiano le violenze, le guerre e le persecuzioni, e si avvicini la realizzazione della promessa di nuovi cieli e terra nuova”.

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Chiese orientali: card. Sandri a suore armene, “rimanere fondate sulla carità” (SIR 04.06.18)

“Rimanere ben fondate sul dono della sua carità, che nella Santa Eucaristia ha il suo vertice più alto, e vivere una esistenza eucaristica attraverso le opere che abbiamo iniziato e quelle che potremo ancora intraprendere”. È l’esortazione che il card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, ha lanciato ieri durante la messa celebrata in occasione della conclusione del 170° anniversario della Fondazione della Congregazione delle Suore Armene dell’Immacolata Concezione, presso la chiesa di san Nicola da Tolentino a Roma, annessa al Pontificio Collegio Armeno. Nell’omelia il prefetto ha tratteggiato i momenti salienti della storia della Congregazione ricca anche di “pagine eroiche”. Il pensiero del cardinale è andato “alla grande risposta di carità che avete intrapreso circa cento anni fa, quando siete diventate come delle sorelle e della madri per le orfane rimaste prive dell’amore di una famiglia a causa dello scatenarsi della violenza di quello che chiamiamo Metz Yegern. Lo avete fatto con più di 400 ragazze a Costantinopoli prima, ma poi anche vicino a Roma, a Castelgandolfo, dove giunsero nel 1922 per volontà di Papa Pio XI e poi trasferite l’anno successivo a Torino su interessamento del Governo Italiano. Siete rinate attraverso la carità concreta per i piccoli e i poveri voi che per prime avevate subito violenze: tutte le case di Istanbul erano state distrutte, 13 consorelle massacrate e 26 deportate. E così avete continuato a vivere”. Questo percorso negli anni, ha aggiunto il porporato, “ci offre un’indicazione per l’oggi, quando potreste essere tentate di scoraggiamento o perdere la speranza per il futuro: quante saremo? Come faremo? Chi ci aiuterà? Il Signore stesso venga in soccorso di quella che a volte è anche una nostra mancanza di fede: ci aiuti a rimanere ben fondate sul dono della sua Carità, che nella Santa Eucarestia ha il suo vertice più alto, e vivere una esistenza eucaristica attraverso le opere che abbiamo iniziato e quelle che potremo ancora intraprendere”. Rivolgendosi poi al Coro delle giovani allieve della scuola di Gyumri (Armenia), che ha animato la messa, il card. Sandri ha ricordato il Sinodo per i giovani del prossimo ottobre: “Aiutate da tutti noi, in questo anno particolarmente dedicato loro dalla Chiesa attraverso il Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre, sappiano cercare la vera gioia conoscendo il Signore, sappiano apprezzare il dono della vera libertà che Lui solo ci garantisce, si interroghino sulla loro vocazione e il loro futuro perché anche grazie al loro contributo scompaiano le violenze, le guerre e le persecuzioni, e si avvicini la realizzazione della promessa di nuovi cieli e terra nuova”. La messa è stata concelebrata, tra gli altri, da mons. Krikor Coussa, vescovo armeno cattolici di Iskenderiya (Alessandria di Egitto), da mons. George Assadourian, vescovo ausiliare del Patriarca Gregorio Pietro XX.

Le suore armene sopravvissute al genocidio compiono 170 anni, la festa con il cardinale Sandri (Ilmessaggero 03.06.18)

Città del Vaticano  – Compie 170 anni la congregazione delle suore armene dell’Immacolata Concezione, fondata a Costantinopoli – l’attuale Istanbul – durante l’Impero Ottomano e sopravvissuta ai massacri hamidiani e poi, di seguito, al genocidio del 1915. A Roma tra qualche giorno festeggerà la ricorrenza con una solenne messa celebrata dal cardinale Leonardo Sandri. Oggi la congregazione conta 75 religiose.

Le suore armene dell’Immacolata Concezione dimostrarono particolare coraggio nel mezzo delle atrocità, testimoni dei massacri delle loro famiglie, assistendo i feriti, salvando i bambini rimasti orfani.

A partire dal 1915, quando divenne esecutivo l’ordine del governo ottomano di deportare tutti gli armeni e lasciarli morire nelle cosiddette marce della morte nel deserto, senza acqua né cibo, la città di Aleppo (oggi in Siria ma all’epoca in Turchia) era diventata il primo luogo di accoglienza di centinaia di migliaia di deportati che arrivavano in condizioni spaventose, allo stremo delle forze. C’erano migliaia di orfani strappati ai loro genitori, traumatizzati, denutriti. Le suore sopravvissute siglarono pagine storiche. Alla fine delle ostilità, negli anni Venti, la congregazione creò nuove case a Beiruth, Alessandria, e Baghdad.

Davanti all’estensione della tragedia del genocidio, Pio XI decise di accogliere  nella residenza di Castelgandolfo, per qualche mese, 400 orfane che diventano presto 500. Le accompagnano 12 religiose, che restano accanto a loro.

Durante l’anno seguente furono alloggiate nell’orfanotrofio di Torino. L’evento ebbe una tale risonanza che vennero stampate perfino delle cartoline postali per mostrare il gruppo di orfane. Di seguito, nel 1929, queste orfane arrivarono in Francia, a Saint Gratien nei dintorni di Parigi, poi ad Arnouville nel convento delle religiose ,aperto nel 1931, grazie al personale coinvolgimento del cardinale Aghagianian.

Dal 1923 la casa generalizia venne trasferita definitivamente da Istanbul a Roma, in un edificio dove, su una lastra sono ancora incisi nel marmo i nomi delle 13 suore martiri, durante il genocidio

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Che sia l’Armenia, i Nazisti o l’ISIS, se state per commettere un genocidio, non lo potete fare senza l’aiuto della popolazione locale (Comedonchisciotte 02.06.18)

DI ROBERT FISK

independent.co.uk

Come si organizza un genocidio di successo, nell’Armenia turca di un secolo fa, nell’Europa occupata dai Nazisti degli anni ‘40 o in Medio Oriente al giorno d’oggi? Un importante studio di un giovane assegnista di ricerca (Post-Doctoral Fellow) dell’Università di Harvard, incentrato su un massacro di Armeni avvenuto in una città turco-ottomana 103 anni or sono, suggerisce una semplice risposta: un governo che abbia un intento genocida deve avere l’appoggio, a livello locale, di tutti i settori della società civile: funzionari fiscali, giudici, magistrati, ufficiali subalterni delle forze di polizia, rappresentanti del clero, avvocati, banchieri e, cosa più triste, i vicini stessi delle vittime.

Il minuzioso lavoro di Umit Kurt sul massacro degli Armeni avvenuto nel 1915 ad Antep, nel sud della Turchia, apparso nell’ultima edizione del Journal of Genocide Research, si focalizza sulle spoliazioni, sugli stupri e sugli omicidi di appena 20.000 del milione e mezzo di Cristiani armeni massacrati dai Turchi ottomani nel primo olocausto del 20° secolo. Non solo descrive le deportazioni da Antep, tutte accuratamente preparate, e le patetiche speranze di quelli che ne erano stati temporaneamente risparmiati, un evento tragicamente simile a quanto successo nei ghetti ebraici dell’Europa Orientale, ma elenca anche le proprietà e i beni di cui le autorità cittadine e i contadini avevano depredato quelli che loro stessi avevano mandato a morire.

I carnefici locali avevano in questo modo confiscato fattorie, coltivazioni di pistacchi, frutteti, vigneti, caffetterie, negozi, mulini, beni ecclesiastici, scuole ed una biblioteca. Ufficialmente, tutto questo era stato chiamato “esproprio” o “confisca”, ma, come sottolinea Umit Kurt, “moltissime persone erano vincolate, tutte insieme, in una cerchia di profitti, che era allo stesso tempo una cerchia di complicità.” L’autore, nato in Turchia nella moderna Gaziantep, la vecchia Antep, è di origini arabo-curde e la sua prosa, spartana e asciutta, rende ancora più agghiaccianti le 21 pagine della sua tesi.

Non fa nessun parallelo fra l’olocausto degli Armeni (un termine che gli stessi Israeliani usano riferendosi agli Armeni) e quello degli Ebrei e neanche con le atrocità genocide nell’attuale Medio Oriente. Ma nessuno può leggere le parole di Umit Kurt senza pensare alle schiere di fantasmi che tormentano la storia più recente: i collaborazionisti della Francia occupata dai nazisti o i Polacchi in combutta con i Nazisti a Varsavia o a Cracovia o le decine di migliaia di civili mussulmani sunniti che avevano permesso all’ISIS di ridurre in schiavitù le donne Yazide e di massacrare i Cristiani di Ninive. Anche queste vittime si erano viste depredate dai loro stessi vicini, le loro case saccheggiate e i loro beni venduti da quelle stesse autorità che avrebbero dovuto proteggerli proprio nel momento in cui si trovavano ad affrontare il loro stesso sterminio.

Una delle argomentazioni più convincenti di Kurt è che un governo centrale non può farcela a sterminare una minoranza senza l’aiuto dei suoi stessi cittadini: gli Ottomani avevano avuto bisogno dei Mussulmani di Antep (ricompensati con le proprietà di quelli che essi stessi contribuivano ad eliminare) per riuscire ad eseguire, nel 1915, gli ordini di deportazione, proprio come alla popolazione locale serviva l’avallo dell’autorità centrale per legittimare quelli che oggi noi chiameremmo crimini di guerra.

Umit Kurt è uno dei pochi accademici a riconoscere il crescente potere economico degli Armeni ottomani negli anni precedenti al genocidio: “l’invidia e il risentimento della comunità mussulmana,” scrive, “avevano avuto un ruolo di primo piano nel creare un’atmosfera fomentatrice di odio.” Lo stesso effetto avevano avuto le ripetute affermazioni degli Ottomani, secondo cui gli Armeni avrebbero parteggiato per gli Alleati, nemici della Turchia; lo stesso tipo di tradimento, la “pugnalata alla schiena”, che aveva utilizzato Hitler per coalizzare i Nazisti contro comunisti ed Ebrei nella Repubblica di Weimar. Nel Medio Oriente attuale sono gli “infedeli”, i “Crociati” (Cristiani filo-occidentali) che hanno dovuto cercare scampo nella fuga, apparentemente per aver tradito l’Islam.

Uno dovrebbe avere il proverbiale cuore di pietra per non essere toccato dalla storia degli Armeni di Antep nella primavera del 1915. Anche se all’inizio erano stati molestati dalla sanguinaria “Organizzazione Speciale” ( Teskilat-i Mahsusa) ottomana, l’equivalente delle Einsatzgruppen naziste degli anni ‘40 e sottoposti a detenzione temporanea, gli Armeni di Antep erano stati però lasciati in pace. Ma assistevano al passaggio attraverso Antep dei mezzi che trasportavano gli Armeni provenienti dalle altre città, il primo con 300 fra donne e bambini “feriti, con le piaghe infette e i vestiti a brandelli.” Per altri due mesi i convogli dei deportati avevano attraversato la città in un crescendo di sofferenza. “Bambini e ragazze armene rapite, beni ed averi delle donne depredati, donne che erano state poi stuprate in pubblico con la complicità attiva delle gendarmenrie e dei funzionari governativi.”

Come gli Ebrei europei, che all’inizio non erano stati toccati dal genocidio dei loro cerreligionari, gli Armeni di Antep non si rendevano conto del loro possibile destino. “Nonostante tutto quello che accadeva intorno a noi...” aveva scritto un testimone oculare, “il numero di quelli che nascondavano la testa nella sabbia, come le ostriche, non era piccolo. Queste persone si erano autoconvinte di essere felici e cercavano di ingannare se stessi pensando che una simile deportazione non fosse possibile ad Aintab [sic] e che nulla di male potesse capitare loro.”

Allo stesso modo delle valorose famiglie polacche e degli Oskar Schindler della Germania Nazista, pochi, coraggiosi Turchi si erano opposti al genocidio degli Armeni. Celal Bey, il governatore di Aleppo (98 km. da Antep) si era rifiutato di deportare gli Armeni. Ma era stato congedato. E per gli Armeni cristiani di Antep era arrivata la fine.

Il 30 luglio, a 50 famiglie armene era stato ordinato di andarsene entro 24 ore. All’inizio erano stati scacciati solo i Cristiani Ortodossi, che avevano dovuto abbandonare tutti i loro beni. Un sopravvissuto ricorda che “i nostri vicini, i Turchi, cantavano nelle loro case e noi potevamo sentirli…. ‘il cane se ne va’…” Una settimana dopo erano state deportate altre 50 famiglie, subito assalite da una milizia banditesca, guidata dal direttore della filiale locale della Banca Contadina. In Antep le donne venivano stuprate ed inviate agli “harem” cittadini. Un capovillaggio (“mukhtar”) della zona aveva assassinato sei bambini armeni buttandoli giù da una montagna. Le colonne di persone erano diventati sempre più grandi (1500 Armeni da Antep il 13 agosto, p.e.) e queste venivano mandate, in treno o a piedi, ad Aleppo e a Deir ez-Zour. Poi era arrivato il turno degli Armeni Cattolici.

E’giunto fino a noi un pietoso resoconto di una messa, nel giorno del Ringraziamento, dei Protestanti, gli unici Armeni scampati fino ad allora allo sterminio, in cui uno dei leader supplica miserevolmente la sua gente di non fare nulla che possa offendere le autorità turche. “Che nessuno accolga in casa sua un bambino o chichessia a cui è stato ordinato di andarsene, sia fra quelli che passano in città come rifugiati, così come fra i nostri amici e parenti in città.” Nessun buon samaritano qui. Ma, ovviamente, anche i Protestanti erano stati deportati. Su 600 famiglie di Protestanti, almeno 200 erano già state eliminate a Deir ez-Zour nel febbraio del 1916.

Il capo della polizia locale di Antep era stato promosso per il suo zelo professionale. Nei cosiddetti “comitati di deportazione”, che decidevano il destino degli Armeni, c’erano il parlamentare del collegio di Antep e suo fratello, svariati funzionari locali, il sindaco, due funzionari del fisco, due giudici, un magistrato, il primo segretario del tribunale di Antep, un ex mufti, due imam, due ulama, due capi-villaggio, il segretario di un ente caritatevole, un medico, un avvocato e il direttore di un orfanotrofio. “Nessun rappresentante di questi centri di potere locali,” scrive Umit Kurt, “aveva fatto qualcosa per opporsi alle deportazioni, nascondere i più deboli o fermare i convogli.” Dei 32.000 Armeni di Antep, 20.000 erano morti nel genocidio.

Ma, in verità, i fantasmi sopravvivono.

Per caso, questa settimana, stavo terminando la scioccante storia di Martin Winstone sul ruolo avuto dai Nazisti nell’amministrazione pubblica del governo di occupazione polacco, “ The Dark Heart of Hitler’s Europe” e ho scoperto che gli Ebrei (e i Polacchi) di Varsavia, Cracovia e Lublino erano spesso passati attraverso la medesima trafila di false speranze, collaborazionismo e sterminio degli Armeni di Antep.

Anche se la maggior parte dei Polacchi si era comportata con coraggio, dignità ed eroismo, una minoranza di gentili (e questo è il motivo per cui l’attuale governo polacco minaccia di punire chiunque parli di collaborazionismo con i Nazisti da parte dei Polacchi) “aveva partecipato direttamente al processo di eliminazione,” secondo Winstone. Fra di loro vi erano elementi della polizia “blu” polacca (normali poliziotti in uniforme blu), ma anche i contadini della zona di Lublino, molti dei quali avevano derubato le loro vittime prima di bastonarle a morte. Centinaia, forse migliaia di Ebrei in fuga erano state vittime di criminali “che erano capivillaggio, membri della milizia locale d’occupazione o poliziotti ‘blu’ che agivano in veste non ufficiale.” Quando erano stati scoperti 50 Ebrei che si nascondevano a Szczebrzeszyn, “c’era una folla intera che osservava.” Un importante fattore nella denuncia e nell’omicidio degli Ebrei, conclude l’autore, era stata “la bramosia per i beni degli Ebrei.”

E oggi, in Medio Oriente, riconosciamo anche troppo bene lo schema familiare della malvagità dei locali nei confronti dei loro vicini: ragazze cristiane di Ninive rapite dagli Islamisti, famiglie Yazide distrutte e le loro case saccheggiate dalle milizie sunnite della zona. Quando l’Isis aveva abbandonato la città di Hafter, ad est di Aleppo, avevo trovato i documenti della locale corte islamica; in queste carte c’era la prova che dei civili siriani avevano deferito i loro cugini ai giudici egiziani delle corti islamiche, che dei vicini di casa avevano avuto un vantaggio economico denunciando chi aveva vissuto per decenni accanto a loro. In Bosnia negli anni ‘90, per quel che ne sappiamo, i vicini di casa Serbi avevano massacrato i loro compatrioti mussulmani, stuprato le loro donne e confiscato le loro case.

No, questo non è qualcosa di nuovo, ma è qualcosa che dimentichiamo troppo di frequente. Quando a mio padre, nel 1940, era stato chiesto dal governo inglese di indicare chi a Maidstone, nel Kent, avrebbe potuto collaborare con i Nazisti dopo un’invasione, egli aveva inserito uno dei suoi migliori amici, un uomo d’affari locale, nella lista di quelli che avrebbero potuto aiutare i Tedeschi. Pulizia etnica, genocidio, delitti di massa di natura confessionale possono anche venire ordinati da Costantinopoli, Berlino, Belgrado o Mosul. Ma i criminali di guerra hanno bisogno della loro stessa gente per portare a compimento i loro progetti o, per usare un vecchio modo di dire tedesco, “per dare una mano a far girare la ruota.”

Robert Fisk

Fonte: www.independent.co.uk

Link: https://www.independent.co.uk/voices/armenia-genocide-nazi-germany-poland-isis-looting-war-a8367071.html

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Ue-Armenia: al via da oggi applicazione nuovo accordo partenariato (Agenzianova 01.06.18)

Bruxelles, 01 giu 12:53 – (Agenzia Nova) – Da oggi si applicheranno anche le parti dell’accordo relative al commercio, permettendo all’Ue e all’Armenia, ad esempio, di lavorare per migliorare il contesto normativo nel paese del Caucaso, migliorando così il clima imprenditoriale e le opportunità di investimento per le imprese armene e dell’Ue. L’accordo è già stato ratificato dall’Armenia ed è attualmente in fase di ratifica da parte degli Stati membri dell’Ue. L’accordo entrerà in vigore una volta completato il processo di ratifica da parte degli Stati membri e la procedura per la conclusione da parte dell’Ue. (Beb)

ARMENIA: Una rivoluzione colorata? (Eastjournail 01.06.18)

Nelle ultime settimane abbiamo raccontato delle manifestazioni di massa in Armenia contro l’elezione a primo ministro dell’ex presidente Serzh Sargsyan. Nel giro di pochi giorni, un sistema di potere che sembrava intoccabile ha ceduto alla forza della piazza. Il leader della rivolta, Nikol Pashinyanè stato poi nominato premier dal parlamento e ha formato un nuovo governo.

Un paese ex sovietico, un presidente rappresentante di un’oligarchia economica e vicino al Cremlino che si dimette dopo una serie di proteste pacifiche e, infine, un personaggio carismatico che emerge dalla piazza; gli ingredienti ci sono tutti: inevitabile pensare a una rivoluzione colorata.

Sin dall’inizio, Pashinyan ha, però, preso le distanze dal passato; il nuovo premier armeno, da un palco sulla Piazza della Repubblica di Erevan, ha indetto una “Rivoluzione di velluto” e ha spiegato che la dimensione esclusivamente interna degli eventi nel paese caucasico li differenzia dalle rivoluzioni colorate.

La dialettica del leader delle proteste si è rivelata efficace in quanto il riferimento alle rivoluzioni colorate è stato quasi completamente omesso dai media che hanno coperto la situazione in Armenia. La spiegazione di Pashinyan non giustifica appieno il motivo per cui il concetto, tanto popolare fino a poco tempo fa, sia diventato uno spauracchio da evitare per il nuovo primo ministro armeno.

Le rivoluzioni colorate tra realtà e rappresentazione

Nei primi anni duemila il continente eurasiatico è stato attraversato da una serie di movimenti di protesta che vennero presto ribattezzati rivoluzioni colorate.

Nell’area post sovietica le dinamiche di queste rivoluzioni, pur in paesi diversi tra loro, sono state piuttosto simili al caso armeno: dopo elezioni farsa iniziavano proteste di massa contro i brogli e la corruzione del vecchio sistema politico che, in poco tempo, portavano alle dimissioni dei leader al potere e alla scalata al governo degli ex oppositori grazie a nuove consultazioni elettorali.

Tre casi hanno seguito questo paradigma: la Rivoluzione delle Rose in Georgia (2003), quella Arancione in Ucraina (2004) e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (2005). Inoltre, le opposizioni in Azerbaijan e Bielorussia hanno tentato di emulare questi modelli nel corso del 2005. Se negli ultimi due esempi non è avvenuta una transizione di potere, essi rivelano comunque quanto l’idea di una rivoluzione colorata fosse attraente nella regione.

Questi sono i fatti, ma esiste una componente imprescindibile legata all’idea che abbiamo delle rivoluzioni colorate: le aspettative, rivelatesi presto fallaci, che esse generavano in occidente che ne hanno, inevitabilmente, influenzato la rappresentazione sulla stampa internazionale.

Secondo la giornalista Anne Applebaum, il mito delle rivoluzioni colorate che si è venuto a creare in occidente si basava sull’idea che esse fossero parte di un processo ineluttabile di transizione democratica nello spazio post sovietico. Riecheggia la famosa tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia; se la democrazia liberale era il modello uscito vincente dalla Guerra fredda, la sua affermazione globale era solo una questione di tempo. Il ruolo del cosidetto mondo libero era quello di favorire – ideologicamente e finanziariamente – le forze che si facevano promotrici del processo.

Le aspettative disattese

La realtà risulta ben diversa da quanto ci si attendeva all’epoca. La retorica filo occidentale degli ex oppositori non si rivelò efficace nel cambiare le società, nello sconfiggere la corruzione dilagante o nel creare istituzioni democratiche stabili.

Già nel 2010 si chiudeva la carriera politica di due dei leader politici usciti vittoriosi dalle rivoluzioni colorate. Nel corso dell’anno, Viktor Juščenko venne sconfitto alle elezioni in Ucraina, mentre Kurmanbek Bakiyev era costretto alle dimissioni da una nuova rivoluzione in Kyrgyzstan.

La Georgia, invece, è rimasta per qualche anno il fiore all’occhiello della narrativa occidentale sulle rivoluzioni colorate. La spettacolare – e per molti versi efficace – campagna di lotta alla corruzione, l’inglese fluente e la dialettica politica occidentale imparata alla Columbia University dal presidente Mikheil Saakashvili erano strumenti efficaci per ammaliare gli alleati americani. Tuttavia, “il faro della democrazia” descritto da Bush nel 2005, si rivelò un paese in cui gli oppositori politici venivano arrestati e condannati grazie a prove false e dove si ricorreva alla tortura nelle prigioni.

Con l’affermazione elettorale del miliardario Bidzina Ivanishvili nel 2012, anche l’esperienza dell’ultima rivoluzione colorata  poteva dirsi conclusa.

Il caso armeno

Quella armena non è definibile come una rivoluzione colorata proprio perché i leader politici che l’hanno organizzata non la ritengono o non la vogliono fare passare come tale.

Sebbene le motivazioni che hanno spinto gli armeni a protestare non sono poi così diverse da quelle dei georgiani o degli ucraini nel recente passato, il marchio ha perso di appetibilità in occidente ed è, anzi, diventato sinonimo di fallimento. La storia politica del ventunesimo secolo si è rivelata più complessa di una semplice corsa alla democrazia liberale e la narrativa positivista degli anni novanta ha lasciato spazio a una visione contemporanea del futuro più realista e, per certi versi, cinica.

Al contempo, nella retorica del Cremlino, rivoluzione colorata equivale a un complotto americano per sganciare i paesi dell’ex Unione sovietica dall’orbita russa. In un paese come l’Armenia che, come spieghiamo spesso nei nostro articoli, è legato militarmente ed economicamente a Mosca, andare allo scontro frontale con la Russia è un rischio che nessun leader politico può permettersi di correre.

In ultima analisi, Pashinyan è riuscito a ritagliarsi lo spazio di manovra per presentarsi come una novità in occidente e non scontentare il potente alleato a nord. La tattica si è rivelata vincente in quanto Mosca ha mostrato un’insolita quieta accondiscendenza rispetto a quanto stava avvenendo in Armenia, mentre la stampa internazionale celebrava la vittoria della piazza. Il futuro ci dirà se il pragmatismo di Pashinyan è il giusto approccio per lasciare un’impronta duratura sul destino del paese.

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“La madre dell’Armenia” è tornata a Cavriglia (Arezzonotizie.it 01.06.18)

La mia bambina La madre del Armenia è tornata a casa, a Cavriglia e sono tranquillo perché nessuno la turberà. Grazie!”
Con questa frase, sul proprio profilo Facebook, l’artista Vighen Avetis ha annunciato il ritorno a Cavriglia dell’opera da lui realizzata nel 2015 in occasione del centesimo anniversario del genocidio del popolo armeno per mano dei “Giovani Turchi”. “La madre dell’Armenia”, giunta nel nostro territorio per la prima volta nel febbraio del 2015, da allora è stata esposta in alcune delle città d’arte più importanti d’Europa. Un lungo viaggio che si è concluso dove tutto era iniziato, nella nostra Cavriglia che adesso lo stesso Vighen Avetis definisce casa. In quella “Madre” la nostra gente ha rivisto quelle donne, quelle vedove, che dopo gli eccidi del luglio 1944 seppero tenere in vita la comunità cavrigliese così barbaramente colpita dalle truppe Nazifasciste. Ed è stato il forte legame con i tragici fatti del passato che accomuna il popolo armeno e Cavriglia a spingere Vighen a scegliere di nuovo il nostro territorio per l’esposizione di un’opera così significativa.
Questo legame nato all’insegna dell’arte e delle memoria si è ulteriormente consolidato anche nei giorni scorsi quando il Sindaco di Cavriglia ha avuto l’onore di partecipare, insieme alle più alte cariche dello stato e di fronte a migliaia di persone, alle celebrazioni del centesimo anniversario della battaglia di Arapan, dove gli armeni, nel 1918, inferiori in numero e con armamenti rudimentali, riuscirono con gesta eroiche a difendere la loro terra dall’invasione delle milizie turche.
Una vittoria determinante che permise la nascita della Repubblica di Armenia.

L’opera:
Di proprietà della Fondazione “DAR” l’opera (bronzo, 2,80 mt X 1,80 mt) è stata realizzata qualche mese fa in memoria del centenario del Genocidio degli Armeni. Vighen Avedis ha realizzato la scultura dal grande impatto emotivo partendo dall’allegoria dell’Armenia come madre di tanti 4 figli sparsi ai 4 punti cardinali, ai 4 continenti.
Sul retro della statua un particolare ne svela la provenienza e l’intensità storica e non solo allegorica della descrizione. Il vestito della donna è chiuso da una spilla sul retro. Essa come cammeo ha la Chiesa di Santa Croce, il monumento assoluto al Genocidio Armeno. L’antica chiesa armena della Santa Croce sorge sull’isola Aktamar posta al centro del lago di Van, nella Turchia dell’est a confine con l’Armenia, ed è oggi solo un museo. Questa suggestiva chiesa è uno dei più pregevoli esemplari di arte armena del Decimo secolo ma è soprattutto tristemente nota alle cronache per essere stata uno dei luoghi dove gli armeni furono massacrati durante il genocidio del 1915. E ancor oggi per qualsiasi armeno, dovunque si trovi, Aktamar è un luogo particolarmente caro da vedere e visitare prima di morire.

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La Madre dell’Armenia”, scultura di Vighen Avetis, di nuovo collocata di fronte al municipio di Cavriglia (Valdamo24 01.06.18)

“La Madre dell’Armenia”, la scultura realizzata da Vighen Avetis in occasione del centesimo anniversario del genocidio degli armeni per mano dei “Giovani Turchi”, è stata nuovamente collocata di fronte al Palazzo Comunale. Un “ritorno” che consolida ulteriormente il legame nato tra Cavriglia e l’Armenia proprio grazie alla scultura in bronzo che i cavrigliesi hanno conosciuto nel 2015
“La mia bambina La madre del Armenia è tornata a casa, a Cavriglia e sono tranquillo perché nessuno la turberà. Grazie!”, ha scritto sul Facebook Avetis. L’opera era giunta a Cavriglia per la prima volta nel febbraio del 2015, da allora è stata esposta in alcune delle città d’arte più importanti d’Europa. Un lungo viaggio che si è concluso dove tutto era iniziato.
In quella “Madre” la gente di Cavriglia ha rivisto quelle donne, quelle vedove, che dopo gli eccidi del luglio 1944 seppero tenere in vita la comunità cavrigliese così barbaramente colpita dalle truppe Nazifasciste. Ed è stato il forte legame con i tragici fatti del passato che accomuna il popolo armeno e Cavriglia a spingere Vighen a scegliere di nuovo questo angolo di Valdarno per l’esposizione di un’opera così significativa.
Questo legame nato all’insegna dell’arte e delle memoria si è ulteriormente consolidato anche nei giorni scorsi quando il Sindaco di Cavriglia ha avuto l’onore di partecipare, insieme alle più alte cariche dello stato e di fronte a migliaia di persone, alle celebrazioni del centesimo anniversario della battaglia di Arapan, dove gli armeni, nel 1918, inferiori in numero e con armamenti rudimentali, riuscirono con gesta eroiche a difendere la loro terra dall’invasione delle milizie turche.

Andrea Ulivi: 40 scatti in bianco e nero per raccontare la storia d’amore con l’Armenia (Lanazionae 31.05.18)

Firenze, 31 maggio 2018 – Fotografo, editore e docente fiorentino. Con un’immensa passione per l’Armenia, nata 10 anni fa: «Ho iniziato a incontrare i luoghi della spiritualità armena e la città di Yerevan grazie alla prima coproduzione fra Versiliadanza e una compagnia del luogo – racconta Andrea Ulivi – . Da allora ci sono tornato almeno una volta all’anno e, dai miei viaggi, ha preso forma un corpus fotografico di 10mila immagini». Quaranta delle quali daranno vita a “Luci e ombre armene”, mostra che inaugura dpmani alle 18, in occasione Festival di Viaggio, negli spazi del Teatrino della Società Machiavelli – La Casa Abitata, (via del Trebbio 14r, fino al 9 giugno compreso, orario 16-20). «Una dichiarazione d’amore per questo Paese caucasico ed europeo purtroppo famoso per il genocidio che il governo dei “Giovani turchi” commise contro una popolazione di oltre un milione e mezzo di armeni, residenti soprattutto nella penisola anatolica», riprende Andrea Ulivi.

Nelle foto selezionate per l’occasione, l’obiettivo non vuole raccontare il genocidio, ma la vita di un popolo antichissimo, i luoghi sacri sui quali ha costruitoito la propria identità, una spiritualità profonda che affonda le radici nel 301, quando il re dell’allora Grande Armenia, Tiridate III si convertì al cristianesimo. «L’Armenia fu il primo Paese al mondo che si disse cristiano – conclude Ulivi – . Nelle fotografie esposte molto spazio è dedicato proprio alla spiritualità del popolo armeno, a partire dalle chiese e dai monasteri tipici della loro grande cultura. L’Armenia mi ha stupito, l’ho vista con fascinazione, me ne sono innamorato: è un rapporto amoroso, assolutamente amoroso. Io amo l’Armenia e fare fotografie a questa terra è un gesto d’amore totale. Non potrei fotografare qualsiasi cosa, non mi riuscirebbe: se non entro in un rapporto reale col soggetto, o l’oggetto, non riesco a fotografare, non riesco fisicamente».

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La Sfom incontra il percussionista Arto Tunçboyaciyan (Valledaostaglocal.it 30.05.18)

“Love, respect and truth” è l’ottavo appuntamento della rassegna “Cambio Musica” organizzata dalla SFOM e dalla Scuola Suzuki della Fondazione Maria Ida Viglino per la cultura musicale. E’ in calendario sabato 2 giugno, alle 21 nel teatro della Cittadella dei Giovani.

Il nostro sarebbe indubbiamente un mondo migliore se fondasse il suo andamento su queste tre parole, su questi tre valori (Amore, rispetto e verità). E si dà il caso che questi siano i valori fondamentali su cui ha basato la propria vita Arto Tunçboyaciyan, percussionista e cantante turco di origini armene, la cui carriera è stata decisamente guidata dal forte richiamo che giungeva a lui dalle lontane origini dei padri. L’Armenia, l’Anatolia, terra ricca di musica e di antiche tradizioni, ma anche luogo di terribili persecuzioni ripetutesi nei secoli e che hanno portato il suo popolo a scappare, per sfuggire alla morte, ma poi spesso a tornare.

Tragedie antiche qu este che ci riportano immediatamente alle tristi immagini delle persecuzioni, dei massacri e delle migrazioni dei nostri giorni. Quasi a ricalcare questo destino, Arto Tunçboyaciya n, migrante musicale, dopo un primo periodo passato nella natia Turchia si trasferisce negli St ati Uniti alla ricerca di nuovi stimoli e dimensioni sonore, per poi però tornare alle origini, all’Armenia dei suoi progenitori, ma attraverso la musica, mediante la ricerca di un possibile connubio fra tr adizioni antiche e mondo moderno.

Anche la SFOM ha da sempre l’esigenza (simile e comune) di far esplorare ai propri allievi la musica mondiale, la musica totale, le musiche di ie ri e di oggi. Da qui nasce l’idea del progetto ‘Love, Respect and Truth – La SFOM incontra Arto Tu nçboyaciyan’, in cui i ragazzi della JazzSfomOrchestra lavoreranno sotto la sua guida pe r produrre un concerto basato sulle composizioni da lui scritte per il suo gruppo, fors e il più famoso, la Armenian Navy Band. Ingresso Libero.

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Il sindaco di Cavriglia in Armenia per le celebrazioni del centesimo anniversario della battaglia di Arapan (Valdamo24-it 30.05.18)

Il Sindaco di Cavriglia Leonardo Degl’Innocenti o Sanni ha partecipato in Armenia alle celebrazioni del centesimo anniversario della battaglia di Arapan, dove gli armeni nel 1918 riuscirono a difendere la loro terra dall’invasione delle milizie turche. Si consolida così il legame nato nel 2015 con l’esposizione della statua “Madre dell’Armenia” dell’artista Vighen Avetis.
Era il febbraio del 2015 quando venne collocata di fronte al Palazzo Comunale di Cavriglia la “Madre dell’Armenia” dell’artista Vighen Avetis, statua in bronzo realizzata dal “maestro” armeno in occasione del centenario del genocidio che il popolo armeno subi’ nel 1915 da parte dei “Giovani Turchi”. In quella “Madre” la nostra gente ha rivisto quelle donne, quelle vedove, che dopo gli eccidi del luglio 1944 seppero tenere in vita la comunità cavrigliese così barbaramente colpita dalle truppe Nazifasciste.
Il forte legame con i tragici fatti del passato che accomuna il popolo armeno e Cavriglia spinse Vighen a scegliere il nostro territorio per l’esposizione di un’opera così significativa.
Questo legame nato all’insegna dell’arte e delle memoria negli anni successivi si è ulteriormente consolidato e nei giorni scorsi, grazie a Vighen, il Sindaco di Cavriglia ha avuto l’onore di partecipare, insieme alle più alte cariche dello stato e di fronte a migliaia di persone, alle celebrazioni del centesimo anniversario della battaglia di Arapan, dove gli armeni, nel 1918, inferiori in numero e con armamenti rudimentali, riuscirono con gesta eroiche a difendere la loro terra dall’invasione delle milizie turche.

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Georgia-Armenia: incontro fra premier Kvirikashvili e Pashinyan, approfondire cooperazione bilaterale (Agenzia nova 30.05.18)

Tbilisi, 30 mag 11:44 – (Agenzia Nova) – Pashinyan ha ringraziato il capo del governo della Georgia per la calorosa ospitalità e ha sottolineato l’importanza delle relazioni armeno-georgiane. “Le relazioni armeno-georgiane hanno una base storica e umana, i nostri popoli sono profondamente connessi e questo legame è inseparabile. È simbolico e non è casuale che io effettui la mia prima visita ufficiale in Georgia”, ha detto il premier armeno. “Sono sicuro che le relazioni armeno-georgiane si svilupperanno ulteriormente. Il nuovo governo non risparmierà gli sforzi in questo senso. Siamo qui per ribadire che dovremmo approfondire le nostre relazioni con la Georgia e creare un contesto amichevole. Vogliamo vedere una Georgia forte e sostenibile”, ha detto Pashinyan. (Res)