Se la strada della politica è riprendere l’orizzonte morale di Pietro Kuciukian (Gariwo 26.06.25)

Ritrovare lo spirito dell’Onu, rinnovare l’animo originario dell’Onu attraverso l’esempio dei Giusti e la creazione dei Giardini, antidoto all’odio e via per la prevenzione dei genocidi, è l’appello che Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, ha lanciato nella sede del Palazzo di vetro di New York, realtà internazionale costituita da Stati sovrani, nata nel 1945 per garantire la pace dell’Umanità. Chiaro l’orizzonte etico degli Stati fondatori trasfuso nella Carta dell’Onu, un trattato che secondo le normative è vincolante per tutti gli Stati che lo hanno ratificato: condannando l’uso della forza nelle relazioni internazionali, fa riferimento ai diritti umani, alle libertà fondamentali, ai principi di cooperazione tra le nazioni.

Se la strada della politica oggi è riprendere l’orizzonte morale, particolarmente incisivo risulta un passaggio dell’appello: “I Giardini dei Giusti”- afferma Nissim – “…sono come piccole Nazioni Unite dal basso, luoghi in cui persone diverse si incontrano, dialogano, si impegnano per il bene comune”.

Viviamo tempi in cui l’appello alla difesa della pace giunge dal basso e non dall’alto dove si è installato il dominio dell’autoritarismo, del militarismo, della forza. Dall’esempio dei Giusti è necessario ripartire perché si possa sperare nella ricostituzione di relazioni amichevoli tra le nazioni così come auspicato dall’Onu al suo sorgere.

Per questo è importante oggi fare anche memoria del popolo armeno e della sua storia recente, della quale segnalo due tappe importanti: la prima nell’ottobre del 2023 quando l’enclave armena del Nagorno Karabakh, nell’ultimo attacco sferrato dagli azeri invece di resistere si è arresa, opponendo alla violenza lo status di profughi, un esodo di 120.000 persone; una resa il cui significato sta nella scelta di salvare vite umane, così come dichiarato dal Primo ministro Nikol Pashinyan. (https://it.gariwo.net/magazine/editoriali/il-nagornokarabakh-tra-ieri-e-oggi-26715.html).

Appare paradossale che un popolo perseguitato, massacrato, scacciato dalla sua terra per migliaia di anni, un popolo che ha subito un genocidio, che ha accolto di recente con grandi sacrifici gli esuli del Karabakh, possa proporre oggi un progetto morale e umanitario di portata internazionale quale quello nato recentemente a Yerevan, mentre altri popoli con storie millenarie stanno percorrendo strade opposte. L’altra tappa recente del popolo armeno e del suo difficile cammino di indipendenza è la nascita del Centro per l’Etica negli Affari Pubblici (ETICA). 

Il 22 maggio 2025, l’Università Americana di Armenia (AUA) ha ospitato l’evento pubblico del nuovo Centro, finanziato da Horizon Europe nell’ambito della Cattedra ERA (Spazio Europeo della Ricerca). Ad oggi, l’Armenia è il primo paese del Caucaso meridionale a ricevere tali finanziamenti. Il Centro è guidato da Maria Baghramian, e coordinato da Arshak Balayan. Di particolare interesse il fatto che le principali attività di ricerca, didattica, divulgazione al pubblico e riforma sono inserite nel tema di fondo:”Fiducia e Speranza in Tempo di Crisi”. La piattaforma ufficiale dell’Unione europea per la presentazione di iniziative innovative (Cordishttps://cordis.europa.eu/it ) colloca e riconosce ETICA tra i progetti di maggiore interesse che segna una pietra miliare significativa per l’Armenia e per altri paesi.

Il Presidente dell’AUA, Dr. Bruce Boghosian, ha sottolineato l’importanza di ETICA in questo momento storico dell’Armenia e del mondo: “In un momento in cui le società di tutto il mondo, e la nostra società armena in particolare, stanno attraversando un periodo di turbolenta trasformazione e si trovano ad affrontare profonde scelte etiche, il ruolo della ricerca interdisciplinare è diventato vitale per ispirare una governance responsabile, le politiche pubbliche e i dibattiti sociali. Il nostro Paese sta coraggiosamente forgiando un nuovo contratto sociale basato sui principi democratici, affrontando al contempo problemi del XXI secolo, tra cui il cambiamento climatico, la tutela ambientale, l’ascesa dell’intelligenza artificiale e l’abuso dei dati per diffondere disinformazione. A mio avviso, tali sforzi, intrapresi di fronte a così tante avversità, esemplificano il miglior comportamento etico di cui l’umanità è capace. Spero che questo finanziamento contribuisca a far crescere la consapevolezza di questo momento storico unico e del ruolo dell’Armenia in questa lotta”.

Di primaria importanza nella sua essenzialità l’analisi del Dr. Stephan Astourian che nell’Università Americana di Yerevan dirige il “Turpanjian Institute of Social Sciences” (TISS). Il professor Astourian è un accademico armeno-americano, formatosi in Francia alla Sorbonne, docente all’Università della California, Berkeley, esperto in storia diplomatica, relazioni internazionali, crisi e risoluzione dei conflitti, psicologia politica. Dopo avere contestualizzato il ruolo di ETICA nell’ ambito degli sviluppi geopolitici contemporanei, ha dichiarato: “Il Centro insegnerà agli studenti a pensare”.

Ricordo il pessimismo analitico dell’amico Stephan quando in Armenia ci si ritrovava ogni anno come membri della giuria del Premio che il Presidente della Repubblica assegnava al migliore lavoro sul tema del genocidio. Interminabili dialoghi notturni a cui partecipava anche lo storico armeno-francese Raymond Kevorkian, ambasciatore della Fondazione Gariwo, sui temi della memoria e della storia, della testimonianza, della verità tradita, della perdita irreparabile di pensieri critici e di idee alternative. La domanda ricorrente di Astourian quando parlava dell’insegnamento e della formazione dei giovani, domanda che poneva a se stesso e a noi interlocutori attenti, era sempre una: “come posso farli diventare better thinkers?”. Si arrivava poi in modo unanime a considerare il fatto che avere accesso alla conoscenza è la prima conquista ma che ancora più importante è la capacità di usarla in modo “etico” se si vuole presidiare la democrazia.

Fare di ETICA il polo regionale di eccellenza nella ricerca, nella formazione e nella divulgazione nei settori pubblici e professionali, ha insistito il Professor Baghramian, è il valore da perseguire nella vita dei singoli, nelle formazioni sociali nella politica, ed è una responsabilità che ci dobbiamo assumere, perché l’Armenia – ha concluso – è l’unico paese della regione ad avere una democrazia funzionante, seppur imperfetta. Colpisce nell’evento del lancio del Centro di ETICA la determinazione a diffondere e comunicare al pubblico le iniziative e gli obiettivi raggiunti.

I risultati della ricerca dell’area universitaria saranno portati all’esterno, utilizzati a beneficio del pubblico, una osmosi necessaria legata agli scopi stessi per i quali è nato il progetto: migliorare i livelli di convivenza, il riconoscimento reciproco, l’accettazione dell’altro in tutti i campi, realizzando un nuovo “contratto sociale” basato sulla rivitalizzazione dei principi democratici necessari per affrontare le sfide della contemporaneità: i temi della pace, del diritto internazionale, dei diritti umani, delle disuguaglianze, della tutela dell’ambiente, dell’intelligenza artificiale, della globalizzazione.

Stiamo assistendo in questi giorni al rinnovarsi di scelte incoerenti, guerre e attacchi giustificati come difese preventive. Da praticare attivamente è invece la prevenzione contro l’odio e i nuovi genocidi. L’Armenia ora pone mano a scelte che presidiano la democrazia e esprime fiducia nei governanti che contengono la paura di invasioni territoriali attraverso l’apertura e la costruzione di un dialogo che ha come obiettivo la pace con i paesi confinanti.

Dal cambiamento e dalla presa di coscienza dei singoli al cambiamento delle politiche pubbliche. Tappe queste della realtà dell’Armenia che andranno seguite nei loro sviluppi e risultati.

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Roma-Accademia Filarmonica Romana i ritmi ancestrali con i Munedaiko e concerto della flautista Veronika Kisanishvili (La Notizia 29.06.25)

Roma- Concerto della flautista Veronika Kisanishvili  nei  Giardini della Filarmonica, festival estivo dell’Accademia Filarmonica Romana, lunedì 30 giugno (ore 21.30, via Flaminia 118) tornano gli spettacolari tamburi giapponesi con la formazione dei Munedaiko.  “Il suono e la vibrazione del Taiko sono in grado di scuotere le fondamenta del cuore umano. Se ascoltiamo attentamente, il nostro stesso cuore batte in modo ritmico” così racconta il percussionista Mugen Yahiro che ha fondato il gruppo Munedaiko nel 2014 insieme ai suoi due fratelli Naomitsu e Tokinari Yahiro, con l’intento di promuovere e valorizzare lo strumento in Italia e in Europa, e diffonderne la pratica.

Quella del taiko è musica ancestrale, le cui prime origini risalgono a circa 2000 anni fa, spesso usato in battaglia per intimorire e spaventare i nemici. Oltre all’aspetto marziale, è sempre stato utilizzato in contesti popolari, culturali, religiosi e spirituali. Trovava spesso parte in cerimonie religiose sia buddiste che shintoiste, una tradizione che è perdurata fino ai nostri tempi. Nella credenza popolare giapponese si dice che con la sua vibrazione sia in grado di purificare l’ambiente in cui viene suonato scacciando i demoni o le impurità che lo abitano. Nei villaggi le feste venivano celebrate con il suono del tamburo, la gente lo suonava per rallegrare ed elevare lo stato d’animo. È da queste feste che si sono sviluppati gran parte dei ritmi tradizionali, fonte di ispirazione per tutti i percussionisti di taiko moderni. Lo scopo di chi “pratica” il taiko, con un severo allenamento, è quello di far risvegliare, sviluppare e manifestare la propria forza interiore, creando una condizione di armonia nel corpo, nel cuore e nella mente e condividerla con chi gli è vicino. La postura, il movimento e la concentrazione sono fondamentali: “Bisogna focalizzarsi su come si muove il corpo per arrivare a colpire il tamburo, liberare la mente per sentire il suono e risuonare con la vibrazione per entrare nel ritmo” conclude Mugen Yahiro.

La giornata si apre in Sala Casella con il concerto (ore 20) della flautista armena Veronika Kizanishvili, che insieme alla pianista Oh Yunwoo, esplora autori armeni e georgiani, fra cui in particolare l’armena Elena Mardian (1960) per cui la flautista ha dedicato un progetto editoriale e discografico. Altri autori in programma i georgiani Otar Taktakishvili (1924-2989) e Aram Chačaturjan (1903-1978), e per l’Armenia Padre Komitas (1869-1935) e Grigor Narekatsi (951-1003). In programma anche Cantabile ed Presto di George Enescu virtuoso violinista e compositore rumeno. Nata a Tbilisi in Georgia, in una famiglia per metà armena e per metà georgiana, Veronika Kizanishvili è cresciuta in una famiglia d’arte, respirando fin da piccola la musica in ogni sua declinazione, dal repertorio antico alla musica tradizionale armena e georgiana, fino al repertorio flautistico classico. Dal Conservatorio della sua città, si trasferisce a Roma dove si laurea al Conservatorio di Santa Cecilia nel 2014 in flauto e successivamente in flauto traversiere, perfezionandosi poi all’Accademia Internazionale di Imola. Il concerto è realizzato in collaborazione con l’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia.

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30 giugno, i ritmi ancestrali del taiko con i Munedaiko e concerto della flautista Veronika Kisanishvili (ArgoOnline)

Il film sul grande Komitas va sottratto all’oblio. La Rai agisca, c’è per questo (Tempi 26.06.25)

“Songs of Solomon” è molto di più di una rievocazione del genocidio armeno. Tutti dovremmo guardarlo. Aiuta a sconfiggere l’odio, induce al perdono. La tv pubblica si muova subito
Song of Solomon

Quando tutto fa cascare le braccia, mi è apparsa di nuovo davanti agli occhi la “croce di pietra” (Khatchkar), che esiste solo in Armenia, e costella ogni angolo della nostra terra. La nostra croce è diversa dalle altre, come le altre è piantata sul Calvario, ma ecco che dalla base conficcata del Khatchkar, dai piedi di Cristo, balzano su radici fiorite, che parlano già di risurrezione. La morte di papa Francesco ha questo stesso profumo per noi. Ha donato se stesso risorgendo come il Cristo vivo nella nostra fede così scadente.
Noi armeni ci ricorderemo per sempre quando ci ospitò in San Pietro il 12 aprile del 2015, nella Messa per i “martiri armeni”. Erano cent’anni dal “Grande Male”, la strage (il martirio) di un milione e mezzo di cristiani. Egli osò dire che «il primo genocidio del XX secolo ha colpito il popolo armeno, prima nazione cristiana». Il governo turco, per bocca di Erdogan, lo accusò di calunnia. Il governo italiano (allora di sinistra, ma che differenza c’è?) tacque.

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UE-Azerbaigian, visita a Baku: il rappresentante Kallas evita toni duri sul regime autoritario. (Sardegnagol 26.06.25)

La visita dell’Alto Rappresentante dell’Ue, Kaja Kallas, a Baku il 25 aprile, ha sollevato più di una perplessità, soprattutto per la moderazione – se non l’arrendevolezza – mostrata nei confronti del regime autoritario azero.

Durante gli incontri con il presidente Ilham Aliyev, il ministro degli Esteri e alcuni rappresentanti della società civile, Kallas ha evitato critiche esplicite sulle gravi violazioni dei diritti umani e sul sistematico accentramento del potere nelle mani del presidente azero. Il comunicato della Commissione del 27 giugno riferisce che la visita ha toccato temi come i diritti umani, lo Stato di diritto e la cooperazione regionale, ma le dichiarazioni ufficiali si limitano a vaghi richiami al “mutuo rispetto” e ai “valori fondamentali”.

Nessun riferimento diretto alle pressioni su attivisti e giornalisti indipendenti, alla repressione delle opposizioni, né alla crescente censura nei media locali. Il tono conciliatorio scelto dall’Alto Rappresentante contrasta poi fortemente con la crescente preoccupazione espressa da ONG internazionali e dal Parlamento europeo, che da tempo chiedono una linea più dura verso Baku.

L’unico tema su cui la Kallas ha speso parole più decise è stato il processo di normalizzazione tra Armenia e Azerbaigian, appoggiando con convinzione i negoziati e accogliendo con favore l’accordo preliminare su un progetto di trattato di pace. Tuttavia, anche in questo caso, la narrazione è rimasta su un piano formale, senza mai accennare alle tensioni ancora vive né ai timori armeni riguardo alle ambizioni territoriali azere.

Il “basso profilo” tenuto da Kallas rifletterebbe la volontà dell’UE di preservare i legami energetici con l’Azerbaigian, partner strategico per la diversificazione delle forniture di gas. Tuttavia, questo approccio sta suscitando crescenti critiche: l’Unione infatti sceglie di sacrificare i principi di democrazia e diritti umani sull’altare della realpolitik.

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Armenia, Chiesa e Stato in conflitto in vista delle elezioni (Osservatorio Balcani e Caucaso e altri 25.06.25)

In vista delle prossime elezioni in Armenia, si intensifica lo scontro politico e ideologico tra la leadership post-rivoluzionaria e il radicato establishment religioso, espressa dalle figure leader: il primo ministro Pashinyan e Karekin II, capo della secolare Chiesa apostolica armena

25/06/2025 –  Onnik James Krikorian

Il miliardario russo-armeno Samvel Karapetyan è stato posto la scorsa settimana in custodia cautelare per due mesi con l’accusa di aver invitato al rovesciamento del governo armeno. La minaccia percepita è stata formulata quando si è schierato apertamente dalla parte del Catholicos armeno, Karekin II, attualmente coinvolto in un altro scontro con il primo ministro Nikol Pashinyan.

Il Servizio di sicurezza nazionale aveva inizialmente tentato di arrestare Karapetyan con un raid notturno, fallito, che a quanto pare è costato il posto al capo dell’agenzia. Il giorno successivo, Pashinyan ha anche privato Karapetyan del controllo della rete di distribuzione elettrica nazionale, ENA, che aveva acquisito dalla russa Inter RAO nel 2015.

Sebbene il governo abbia poi ritrattato la minaccia di nazionalizzare ENA per non allarmare gli investitori, il messaggio è chiaro. Nell’anno pre-elettorale, nessuno è intoccabile. L’episodio ha anche segnato un punto di svolta in quella che è ormai diventata una vera e propria guerra politica e ideologica tra la leadership post-rivoluzionaria dell’Armenia e un radicato establishment religioso.

Al centro c’è Karekin II, capo della secolare Chiesa apostolica armena, a lungo considerata un pilastro dell’identità nazionale, ma ora chiaramente vista da Pashinyan come un ostacolo ai piani di normalizzazione delle relazioni con Azerbaijan e Turchia.

L’ultimo scontro è iniziato con una serie di attacchi pubblici di Pashinyan sui social media, in cui accusava il Catholicos di aver violato il voto di celibato e di essere padre di un bambino: un’accusa risalente ad almeno un decennio fa, ma ora riproposta in termini più aspri. Sua moglie, Anna Hakobyan, ha associato clero e pedofilia.

Sebbene Karekin II non abbia pubblicamente negato le accuse, i suoi sostenitori affermano che gli attacchi violano il codice penale armeno. Con le elezioni parlamentari previste per giugno 2026, la tempistica è considerata da molti anche politica, soprattutto dopo il coinvolgimento della Chiesa nelle proteste dell’opposizione nel 2022 e nel 2024.

Pochi giorni prima dei post di Pashinyan, Karekin II si trovava in Svizzera, dove ha partecipato ad una conferenza sul patrimonio culturale armeno in Karabakh, una questione che Pashinyan evita accuratamente in questo momento.

Hakobyan ha specificamente insultato la Chiesa per aver partecipato all’evento, ora più incline a ostacolare un possibile accordo di pace che a contribuirvi. Il governo aveva già segnalato che farlo ora avrebbe comportato significative preoccupazioni per la sicurezza nazionale.

Nel frattempo, il fratello del Catholicos, l’arcivescovo Yezras Nersessyan (capo della diocesi russa, con noti legami con gruppi militanti filo-russi) è arrivato in aereo da Mosca per dimostrare pubblicamente il suo sostegno a Karapetyan, che aveva anche pagato gran parte della cauzione di 4 milioni di dollari per liberare l’acerrimo nemico di Pashinyan, l’ex presidente Robert Kocharyan, nel 2020. Il ministero degli Esteri russo ha dichiarato di seguire attentamente gli eventi a Yerevan.

Il governo di Pashinyan accusa la Chiesa armena di violare la separazione costituzionale tra Chiesa e Stato, opponendosi al fragile processo di pace con l’Azerbaijan e intromettendosi nella politica interna. I critici affermano che Pashinyan stia violando lo stesso principio cercando di estromettere Karekin II attraverso un meccanismo recentemente proposto che preparerebbe il terreno per la sua sostituzione.

Karekin II, nato Ktrij Nersessyan, è stato eletto nel 1999 sotto l’allora presidente Robert Kocharyan, tra accuse di manipolazione politica. In effetti, dalla Rivoluzione di velluto di Pashinyan del 2018, la Chiesa è rimasta una delle poche istituzioni sopravvissute ad un regime apparentemente filo-russo, lanciato da Kocharyan e portato avanti dal suo successore, Serzh Sargsyan. Non c’è da stupirsi che funzionari russi, media e persino pop star si siano espressi a sostegno di Karapetyan, che lì ha fatto fortuna.

Pashinyan ha chiarito che sradicare l’eredità di Kocharyan e Sargsyan è fondamentale per la sua visione di una nuova Armenia. Ciò implica affrontare i clan imprenditoriali rimasti fedeli a loro e la Chiesa, i cui leader, a suo avviso, incarnano la stessa politica nazionalista che ha fatto fallire i passati sforzi di pace.

Venerdì sono stati arrestati decine di sostenitori della Federazione rivoluzionaria armena (ARF-D), un gruppo nazionalista affiliato a Kocharyan e alla Chiesa. Tra loro c’erano seguaci dell’arcivescovo Bagrat Galstanyan, il religioso estremista che ha guidato le proteste contro Pashinyan lo scorso anno con l’approvazione di Karekin II.

Le linee di frattura ideologiche sono ormai chiare: da un lato una visione dell’Armenia fondata sul nazionalismo e sulla rete di élite post-sovietica, dall’altro la promessa di Pashinyan di integrarsi a livello regionale dopo decenni di semi-isolamento.

Fondamentale sarà la firma di un accordo di pace con l’Azerbaijan. Con le elezioni del 2026 che si avvicinano, questo confronto potrebbe rivelarsi la resa dei conti tra il passato e il futuro dell’Armenia.

Quello che è iniziato come uno scontro politico tra Pashinyan e un clero ribelle è ora una lotta su vasta scala per l’Armenia e l’identità nazionale nell’era post-Karabakh. Con potenti interessi coinvolti, da Mosca alla Chiesa passando per gli oligarchi, sembra chiaro che la battaglia è ormai in corso.

Mentre questo articolo stava per essere pubblicato oggi, il Servizio di Sicurezza Nazionale Armeno ha annunciato che l’Arcivescovo Galstanyan e membri dell’opposizione parlamentare della Federazione Rivoluzionaria Armena-Dashnaktsutyun (ARF-D) sono stati arrestati e i loro beni perquisiti. “I partecipanti e i leader del movimento ‘Santa Lotta’ pianificavano di compiere atti terroristici e azioni volte a prendere il potere nella Repubblica di Armenia”, si leggeva in un comunicato. Il giorno prima, un sito web pro-Pashinyan aveva pubblicato quello che sosteneva essere un piano di 7 pagine trapelato per organizzare un colpo di Stato.

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Armenia, sventato colpo di Stato: coinvolto un alto ecclesiastico (L’Indipendente)

Il premier armeno Pashinyan denuncia un tentativo di colpo di stato (Internazionale)

“Voleva rovesciare il governo”: Golpe in Armenia, l’Arcivescovo a capo dei ribelli. Sequestrate armi e piani segreti. (Scenari Economici)

La proposta indecente in Armenia: il premier Pashinyan si offre di mostrare il pene al capo della Chiesa ortodossa (Euronews)

Il premier armeno Pashinyan denuncia un tentativo di colpo di stato (Internazionale 25.06.25)

Il 25 giugno il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha affermato che le forze di sicurezza hanno sventato un tentativo di colpo di stato in cui è coinvolto un ecclesiastico, un’accusa respinta dall’opposizione, in un contesto di forti tensioni tra il governo e la chiesa apostolica.

Secondo il Comitato d’inchiesta armeno, al centro del presunto tentativo di colpo di stato ci sarebbe l’arcivescovo Bagrat Galstanyan.

L’anno scorso Galstanyan aveva guidato un movimento di protesta contro Pashinyan, accusato di aver ceduto dei territori all’Azerbaigian.

“Le forze di sicurezza hanno sventato un vasto piano, ordito da membri criminali del clero, per destabilizzare l’Armenia e prendere il potere”, ha dichiarato Pashinyan su Telegram.

“Sono in corso perquisizioni nelle abitazioni dell’arcivescovo Galstanyan e di una trentina di suoi collaboratori”, ha affermato il Comitato d’inchiesta.

Un video diffuso dal sito d’informazione News.am mostra Galstanyan che lascia la sua casa circondato da agenti mascherati, mentre i suoi sostenitori gridano: “Nikol è un traditore”.

Il deputato Garnik Danielian, considerato vicino all’arcivescovo, ha dichiarato alla stampa che “queste scene sono degne di un regime dittatoriale”.

Un altro politico d’opposizione, Ishkhan Saghatelyan, del partito nazionalista Dashnaktsutyun, ha riferito che la polizia ha perquisito anche membri della sua formazione.

Il 20 giugno alcuni esponenti dell’opposizione, appartenenti al partito Dashnaktsutyun e vicini a Galstanian, erano stati arrestati mentre Pashinyan era in visita ufficiale in Turchia, un nemico storico dell’Armenia.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’Armenia ha combattuto varie guerre con l’Azerbaigian per il controllo della regione contesa del Nagorno Karabakh, che è stata conquistata definitivamente da Baku nel settembre 2023.

La sconfitta militare ha però causato forti tensioni in Armenia.

Nel giugno 2024 Galstanian aveva guidato le proteste contro la cessione all’Azerbaigian di alcuni villaggi al confine, che Pashinyan aveva definito necessaria per evitare un nuovo conflitto.

Galstanian, che chiedeva le dimissioni di Pashinyan, si era perfino temporaneamente dimesso dalle sue funzioni religiose per candidarsi alla carica di primo ministro. Tuttavia, aveva poi fatto marcia indietro perché la sua doppia cittadinanza armena e canadese gli impediva di ricoprire la carica.

All’inizio di giugno Pashinyan ha invitato i fedeli della chiesa apostolica a rovesciare il suo capo Karekin II, accusandolo anche di avere una figlia segreta.

Armenia – Accordo con l’Italia sulla disabilità e l’identità di Eloyan (Assadakah 24.06.25)

Letizia Leonardi (Assadakah News)Inclusione, diritti e trasformazione: sono queste le parole chiave che hanno scandito la visita ufficiale del ministro per le Disabilità, Alessandra Locatelli, in Armenia.

Il 20 giugno, a Yerevan, Locatelli ha firmato un memorandum d’intesa con il ministro del Lavoro e degli Affari sociali della Repubblica di Armenia, Narek Mkrtchyan. «L’obiettivo – ha spiegato il ministro italiano – è sviluppare e attuare progetti comuni, condividere esperienze e buone pratiche per garantire la protezione e la promozione dei diritti delle persone con disabilità».

Il ministro italiano ha poi partecipato al panel “Decent Work for ALL: Empowerment of Women, Youth, and Persons with Disabilities”, nell’ambito della conferenza internazionale “Uniting For Social Justice”.

Durante il suo intervento, Locatelli ha sottolineato la portata della riforma in atto in Italia: «Si passa da una visione meramente assistenzialista alla valorizzazione delle potenzialità e delle competenze di ciascuno. Un cambio di prospettiva che può generare nuovi investimenti e occasioni concrete di lavoro, grazie anche al bando “Vita e opportunità” in fase di elaborazione”.

Nella stessa giornata, il ministro ha visitato l’orfanotrofio “Mankan Tun” di Yerevan, accompagnata dalla viceministra armena Tatevik Stepanyan. «Grazie di cuore a tutti gli operatori per l’impegno e l’attenzione che ogni giorno dedicano ai bambini, alcuni anche con gravi disabilità», ha scritto Locatelli su X, «offrendo amore e sostegni indispensabili per farli crescere supportando i bisogni di ognuno».

E proprio tra i margini, dove fragilità e forza si incontrano, si muove anche l’arte di Armen Eloyan, artista nato in Armenia e oggi voce affermata del panorama internazionale.

Il suo lavoro, intriso di influenze americane ed europee, attinge all’universo dei cartoni animati e dei fumetti di George Herriman. Le sue figure, grottesche e deformate, sembrano una parodia dei codici visivi e delle strutture sociali contemporanee, mettendo in scena un mondo segnato da consumismo, alienazione e instabilità identitaria.

Come nei progetti di inclusione sociale si tenta di ricomporre esistenze frammentate, così nei dipinti di Eloyan linguaggio, narrazione e simboli si frantumano, si sfaldano, sfuggono a ogni rigida definizione. Ma proprio in quella rottura si apre uno spazio nuovo per raccontare la complessità dell’essere umano.

Nel cuore del Caucaso, dunque, l’Italia stringe un patto di collaborazione con l’Armenia, mentre l’arte ci ricorda che la giustizia sociale non è fatta solo di leggi e progetti, ma anche di sguardi che sanno vedere l’invisibile.

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Armenia, storia d’un grande massacro (Il Foglio 24.06.25)

ll’inizio di giugno 1915 l’arcivescovo Angelo Maria Dolci, delegato apostolico a Costantinopoli, era venuto per la prima volta a conoscenza di avvenimenti riguardanti le aree interne dell’Impero ottomano. “Centinaia di armeni – così riteneva ancora in quel frangente e lo scriveva in un telegramma cifrato a Roma – sarebbero in fuga a causa delle persecuzioni perpetrate da musulmani. Voci di massacri, veritiere oppure artatamente diffuse, accompagnano questi flussi di profughi”. Il 22 di giugno venne a sapere che anche ad Adana era in corso un tentativo di “sradicare la componente armena e cristiana dall’intera provincia”. Centinaia di famiglie venivano scacciate con la forza dalle loro case, dai villaggi e dalle città e “messe sulla strada senza avere una meta certa dove recarsi”.

 

All’inizio di luglio gli venne inoltre comunicato che 700 cattolici, tra i quali l’arcivescovo armeno-cattolico mons. Ignatius Maloyan, erano stati vittime di un massacro pianificato. Anche dalle altre province dell’est del paese gli arrivavano notizie di un complessivo allontanamento forzato di tutti gli armeni cattolici e non, e dell’uccisione di migliaia di uomini tra i quali sacerdoti e vescovi. Furono queste le ragioni che lo spinsero a indirizzare, all’inizio di luglio del 1915 una richiesta scritta di grazia al Gran Visir dell’Impero ottomano, Said Halim. Nel frattempo, mentre gli armeni ortodossi a causa delle loro rivendicazioni per l’uguaglianza di diritti politici erano generalmente malvisti, e per i loro contatti con la sede del catholicos di Etchmiadzin, la città santa degli armeni, situata nella parte russa della loro area di insediamento, erano accusati di collaborazionismo con il nemico, non sussisteva alcun dubbio sul fatto che gli armeni legati a Roma fossero tra i più fedeli sudditi del sultano. Anche nel caso in cui i turchi avessero giustificato le deportazioni come misura di prevenzione contro pericolose insurrezioni, non c’era alcun motivo di coinvolgere i cattolici, proprio perché costoro avevano rinunciato a qualsiasi attività politica, causando peraltro una forte irritazione nei loro confratelli ortodossi.

Eppure, per quanto il delegato apostolico facesse presente che con questo atto di clemenza nei confronti dei cattolici armeni si sarebbe accattivato la benevolenza della Santa Sede, il Gran visir non lo degnò della benché minima risposta. “Alla luce del male che questo stato stava causando alle popolazioni non musulmane – scrisse mons. Dolci il 19 luglio del 1915 al cardinal Girolamo Gotti, le potenze cristiane avevano il dovere di intervenire”. Alla fine di luglio l’Osservatore Romano riferiva di massacri contro i cristiani di Diyarbekir. Il mese successivo non c’era più alcun dubbio sulla portata delle aggressioni poste in essere dai turchi. “Questo governo si è reso colpevole di terribili atrocità nei confronti di cittadini armeni innocenti nelle aree interne dell’Impero. In alcune regioni sono stati massacrati, in altre deportati in luoghi sconosciuti, per farli morire di fame lungo il percorso. Ci sono madri che hanno venduto i propri figli, per preservarli da morte certa. Si lavori instancabilmente per fermare questa barbarie”.

 

Questo scriveva il 20 agosto del 1915 monsignor Dolci al cardinal Pietro Gasparri, segretario di stato, per poi aggiungere quello steso giorno “è uno spettacolo barbaro, che mi spezza il cuore e mi riempie di orrore”. Più di ogni altra cosa però lo affliggeva il senso di personale impotenza. “Mi sono recato più volte dal Gran visir e dal sottosegretario per gli affari esteri. Nel corso dei colloqui il Gran visir mi ha sempre dimostrato grande benevolenza nei confronti dei cattolici armeni, la cui fedeltà al suo governo non gli era certo sfuggita, promettendomi che sarebbero stati rispettati. Eppure alle promesse non ha fatto seguito alcuna azione concreta”. E infatti alla fine del mese altri 7.000 cattolici armeni vennero deportati da Angora (Ankara). Altri loro confratelli erano stati già deportati alla fine di luglio: tutti i maschi tra 15 e 70 anni dopo una marcia di sei ore erano tasti aggrediti di sorpresa dalle unità speciali turche e ammazzati a colpi di vanga, martello, ascia e scure, affinché sembrasse un assalto delle popolazioni delle campagne. A molti dei circa 500 cadaveri, che rimasero insepolti sul fondo di una valle per settimane, vennero amputati naso e orecchie e cavati gli occhi.

 

Un mese dopo, il 27 agosto, 1.500 cattolici armeni tutti di sesso maschile vennero arrestati, tra di loro anche il vescovo e 17 sacerdoti. In seguito al loro rifiuto di convertirsi all’islam, vennero privati di ogni proprietà e imprigionati. Due giorni dopo, prima un gruppo di 800 poi i restanti 700 dovettero abbandonare la città, incatenati a coppie. Vennero però esiliati e non uccisi grazie a un intervento comune dell’ambasciata tedesca e austriaca, del mmministro degli esteri bulgaro e di monsignor Dolci, che fecero forti pressioni sul ministro dell’Interno Talaat Bey per una soluzione diplomatica. La settimana seguente vennero deportate le donne e i bambini di Angora, cui spettò il privilegio di vedersi risparmiato un tratto di strada a piedi verso il campo di concentramento nel deserto siriano: poterono infatti viaggiare nei vagoni bestiame di un treno.

 

Proprio questi risultati apparentemente positivi, di cui beneficiarono i cattolici armeni, irritarono gli ortodossi. Anche quando Dolci in un memorandum per il patriarca armeno-ortodosso assicurò di aver avviato un processo di allentamento delle persecuzioni, al quale verosimilmente anche l’ambasciatore statunitense Morgenthau avrebbe dato il suo apporto, disposto com’era a intervenire su Scheich-ul Ilam, Enver Pascha e Talaat Bey così come sul ministro della giustizia Ibrahim Bey, rimase nell’aria un vago sentore di diffidenza. Al Patriarca non piaceva che degli apparenti privilegi fossero riservato ai soli cattolici, il che nel vilayet di Angora aveva portato perfino a dei passaggi in massa di Armeni gregoriani nelle file della Chiesa Cattolica, il che non rientrava certo tra gli auspici del Papa. In questo senso il Segretario di Stato Gasparri raccomandò al delegato apostolico che il suo impegno non fosse circoscritto ai cattolici “io sono padre di tutti i cristiani, anche di quelli che non mi accettano come tale”, sono le parole con le quali Benedetto XV aveva definito un suo “ecumenismo del sangue”.

 

Per un mese e mezzo Papa Benedetto XV si era affidato al talento diplomatico del suo delegato, a questo punto però prese direttamente lui in mano le redini. Sempre durante il mese di agosto, così venne fatto sapere a Dolci, il Pontefice dapprima si rivolse al kaiser Guglielmo II e all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe chiedendo loro di intercedere a favore degli armeni presso gli alleati turchi. Quindi prese egli stesso la parola e scrisse di propria mano al sultano. “Il Santo Padre – rese noto il cardinale Gasparri alla nunziatura di Vienna – è sconvolto dalle notizie dei terribili massacri contro gli armeni commessi da musulmani, e con il cuore gonfio di compassione per questi sventurati, ha deciso di scrivere a sua maestà, il sultano Mehmet V, per far sì che Egli, avvalendosi dei suoi poteri istituzionali, ponga fine a questa atroce carneficina”. Attraverso l’ambasciata di Costantinopoli il testo autografo giunse nelle mani di monsignor Dolci, che doveva personalmente recapitarlo al palazzo del sultano. Vi si leggeva testualmente: “Maestà, tra le afflizioni che ci procura la grande guerra nella quale si trova coinvolto il potente impero di Vostra Maestà assieme alle grandi nazioni d’Europa, ci spezza il cuore l’eco dei dolorosi lamenti di un intero popolo, che nel territorio governato dagli ottomani è sottoposto a indescrivibili dolori. La nazione armena ha già visto molti dei suoi figli giustiziati, mentre molti altri sono stati arrestati o mandati in esilio. Tra di loro ci sono anche numerosi religiosi e perfino alcuni vescovi.

 

E ci è stato recentemente riferito che gli abitanti di interi villaggi e città sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, per essere quindi dislocati in remoti campi di raccolta tra grandi dolori e pene indicibili, dove tra angherie psichiche e terribili privazioni, devono sopportare ogni tipo di mancanza e perfino i morsi della fame. Noi crediamo, Maestà, che eccessi di questo genere si siano verificati contro la volontà del governo di Vostra Maestà. Per questa ragione ci rivolgiamo, colmi di fiducia nella Vostra Maestà,  invitandovi fervidamente, nella Vostra sublime Magnanimità, a dimostrare compassione e a intervenire a favore di un popolo che proprio grazie alla religione nella quale si riconosce, viene invitato a servire fedelmente e devotamente la persona della Vostra Maestà. Dovessero risultare tra gli armeni dei traditori della patria o persone responsabili di altri crimini, costoro dovranno essere giudicati e puniti in conformità al diritto vigente. Possa quindi la Vostra Maestà in virtù del suo grande senso di giustizia non lasciare che degli innocenti ricevano la stessa pena di chi è colpevole e possa la Vostra sovrana clemenza raggiungere anche coloro che hanno commesso delle mancanze”.

 

La notizia dell’intervento del Papa venne resa nota dalla stampa, come previsto. Il cardinale Gasparri, segretario di stato, tentò inoltre di mobilitare la diplomazia austriaca e tedesca. In due comunicazioni scritte (del 15 settembre e del 2 ottobre) incaricò ambedue i nunzi, Scapinelli a Vienna e Fruehwirth a Monaco, di adoperarsi preso quei governi “con discrezione ma anche con grande energia”, affinché “venisse posta immediatamente fine a questo barbaro operato”. Se non avessero agito con sufficiente sollecitudine, Austria e Germania si sarebbero rese corresponsabili dei massacri. Con queste parole mons. Fruehwirth si rivolse a Mathias Erzberger, il delegato centrale bavarese e alla commissione missionaria del Comitato centrale dei Cattolici di Germania, che si riunì il 29 ottobre del 1915 a Berlino. In quella stessa giornata l’organismo decise di redigere una petizione rivolta al cancelliere del Reich Friedrich Alfred von Bethmann Hollweg, affinché “venisse posta immediata fine alle misure punitive oltremodo dure che venivano impiegate contro gli armeni da parte del governo turco” e venisse fermato “l’incombente annientamento dell’intero popolo armeno”.

 

In una lettera del 10 novembre il cancelliere agì di conseguenza dando mandato all’incaricato d’affari il Freiherr von Neurath, di “far valere – in qualsiasi occasione gli si presentasse ed esercitando la massima pressione – la sua influenza presso la Sublime Porta a favore degli armeni e di prestare articolare attenzione affinché le misure coercitive della Sublime Porta non si estendessero ad altri gruppi della popolazione cristiana residenti in Turchia”. Questo tentativo però non sortì alcun effetto. Ciononostante l’impegno di ambedue i nunzi fu riconosciuto dal Papa che li elevò al rango cardinalizio il 6 dicembre di quello stesso anno. In quegli stessi giorni monsignor Dolci si trovava di fronte a un problema totalmente differente. La Sublime Porta si rifiutava  infatti ostinatamente di concedergli udienza presso il sultano, che avrebbe ricevuto dalle sue mani la lettera autografa del Papa. Soltanto l’intercessione dell’ambasciata tedesca ottenne il risultato sperato: sei mesi dopo, il 23 ottobre del 1915, il delegato apostolico venne finalmente ammesso al cospetto del sultano.

 

La risposta del sultano si fece attendere altre quattro settimane e giunse il 19 novembre 1915. Tanto più deludente fu però il suo contenuto, che si limitava a sbandierare la bugia propagandistica già diffusa dalla Sublime Porta, secondo la quale “le deportazioni erano la legittima risposta del governo nei confronti di un complotto degli armeni. Per questa ragione era impossibile per lo stato turco e i suoi ufficiali operare una distinzione tra elementi ribelli e pacifici”. Monsignor Dolci sperava comunque che l’iniziativa del Papa avesse quantomeno dimostrato una sua efficacia. “Il risultato era stato assai positivo. Non soltanto si era ottenuto un improvviso miglioramento delle condizioni, ma anche le barbariche persecuzioni erano quasi del tutto cessate”, scriveva il 12 dicembre. Gli era stata perfino promessa un’amnistia per tutti gli armeni in occasione delle festività natalizie. Soltanto poco a poco Dolci si rese conto di quanto fosse stato ingannato e imbrogliato. In nessun caso i cattolici vennero fatti rientrare nelle loro città e nei loro villaggi. Al contrario, “ci sono ulteriori casi di deportazioni e c altri massacri,” dovette infine malinconicamente ammettere rivolgendosi ai suoi referenti a Roma.

 

“Questa promessa (del ministro degli Esteri Halil Bey a monsignor Dolci) , che del resto non era stata espressa in forma vincolante , non è stata mantenuta” dichiarò a Berlino in tono asciutto e referenziale il 27 dicembre anche il nuovo ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte Paul Wolff Metternich. In realtà in quel periodo le grandi deportazioni nei sette vilayets armeni si erano già da tempo interrotte, solo pochi altri erano stati spediti tardivamente nel deserto. A Costantinopoli quasi nessuno era a conoscenza di quanto accadeva da quelle parti e cioè che nei campi di concentramento non solo ogni giorno centinaia di armeni morivano di fame e per le epidemie, ma venivano anche trucidati dai commando delle forze speciali. “La question arménienne n’existe plus”, “non esiste più una questione armena” aveva spiegato Talaat Bey già il 31 agosto all’ambasciatore tedesco ad interim, il conte Ernst Hohenlohe-Langenburg. Un solo risultato aveva ottenuto l’intervento del Papa: agli Armeni di Costantinopoli era stato risparmiato ogni ulteriore provvedimento o deportazione. Non vennero inoltre adottate altre misure nei confronti delle istituzioni cattoliche.

 

Verso la fine dell’anno anche Monsignor Dolci dovette rassegnarsi a constatare che un indescrivibile numero di almeno un milione di Armeni gregoriani, tra i quali 48 vescovi e 4.500 sacerdoti, era stato trucidato fino ad allora e un ulteriore mezzo milione doveva seguirli nella tomba nel 1916. Inoltre fino a quel momento erano rimasti vittima dei massacri cinque vescovi armeno-cattolici, 140 sacerdoti, 42 religiosi e circa 85.000 fedeli. Undici Diocesi (Angora, Kaisery, Trebizon, Erzurum, Sivas, Malatya, Kharput, Diyarbekir, Mardin, Musch e Adana) erano state totalmente evacuate, 70 chiese e anche molte scuole erano state confiscate. In altre due diocesi, Aleppo e Marasch, le persecuzioni proseguirono mentre la sola diocesi di Brousse era stata fino ad allora risparmiata.  I turchi avevano palesemente infranto la  promessa di risparmiare i cattolici armeni.

 

Deluso e amareggiato, Dolci scriveva questa lettera a monsignor Eugenio Pacelli, segretario agli affari esteri all’interno della segreteria di stato vaticana, proprio l’uomo che un giorno sarebbe diventato Papa: “Per difendere gli armeni, ho perso il favore di Cesare, il Nerone di questa infelice nazione. Intendo con queste parole il Ministro dell’interno Talaat Pascha, Gran maestro della Massoneria d’Oriente. Deve essere venuto a sapere delle forti pressioni esercitate sulle altre Ambasciate dopo l’intervento scritto del Santo Padre. Lo penso perché da quel momento in poi mi guarda davvero male. Per Benedetto XV non sussisteva alcun dubbio sul fatto che “lo sventurato popolo armeno andasse incontro a un quasi totale annientamento”. L’affermò testualmente il 6 dicembre 1915 in una allocuzione davanti al Concistoro, l’assemblea dei cardinali.  Che avesse ragione lo certifica un rapporto del patriarca armeno-cattolico che giunse a Roma sei mesi dopo, nel giugno del 1916.

 

“Il progetto di annientamento del popolo armeno in Turchia procede sempre a pieno regime. Gli armeni esiliati, esattamente come accaduto in precedenza, vengono condotti nel deserto e privati di ogni mezzo di sussistenza. Periscono così miseramente per la fame, le epidemie, le condizioni climatiche estreme. E’ certo che il governo ottomano ha deciso di eliminare il cristianesimo dalla Turchia prima della fine del conflitto mondiale. E tutto questo accade sotto gli occhi del mondo cristiano. Anche il tentativo da parte di Benedetto XV di fermare il genocidio degli armeni attraverso un intervento diplomatico, fallì miseramente. Eppure il Papa riuscì perlomeno ad attirare l’attenzione dei cristiani sul triste destino dei loro fratelli nella fede nell’Impero ottomano e sui crimini commessi dal regime turco.

 

Michael Hesemann è storico e scrittore tedesco, ha compiuto lunghe ricerche presso l’Archivio segreto vaticano, esaminando oltre 3.000 pagine di documenti fino ad allora inediti. Frutto di questo lavoro è il libro “Voelkermord an Armenien”, “Il genocidio armeno” (Monaco, 2015). Nell’autunno del 2015 ha presentato i suoi lavori all’Accademia statale delle scienze della repubblica di Armenia, che lo ha insignito di un titolo di dottorato ad honorem. Con Georg Ratzinger ha scritto il libro “Mio fratello il Papa”.

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Monsignor Quicke racconta il silenzio imposto a Ruyssen (Assadakh 23.06.25)

Letizia Leonardi (Assadakah News) – Non si è ancora spenta l’eco della rinuncia del professor Georges Ruyssen, costretto a non partecipare alla conferenza sul genocidio armeno prevista per il 18 giugno nella Chiesa Reale Belga di San Giuliano dei Fiamminghi a Roma. Per fare luce sull’accaduto, abbiamo intervistato il rettore della storica chiesa, Monsignor Gabriel Quicke.

Teologo e uomo di dialogo, Monsignor Gabriel Quicke è una figura autorevole della Chiesa cattolica contemporanea. Nato a Bruges nel 1961, ordinato sacerdote nel 1987, ha vissuto esperienze di insegnamento in Belgio e missione in Libano, prima di lavorare per dieci anni, dal 2009 al 2018, in Vaticano al Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani. Si è specializzato nei rapporti con le Chiese ortodosse orientali e ha partecipato a importanti tavoli di dialogo teologico. Rientrato in Belgio, è diventato presidente del Collegio dello Spirito Santo e del Seminario Leone XIII ed è stato aggregato alla Facoltà di Teologia e Studi Religiosi della KU Leuven (Belgio), dove, tra le diverse cose, ha insegnato nel corso ‘Eastern and Oriental Christianity’. Dal settembre 2021 è rettore della Chiesa e Fondazione Reale Belga San Giuliano dei Fiamminghi e rappresentante legale della Fondazione Lambert Darchis Liegi/Roma. Oltre all’insegnamento, è impegnato con i cristiani in Medio Oriente e in particolare con gli orfani nel Medio Oriente. Il rettore promuove incontri di spiritualità, memoria e cultura. È autore di diversi saggi e libri in lingua fiamminga, inglese e italiana, attento alle radici cristiane dell’Oriente, all’ecumenismo e alla spiritualità di Sant’Agostino.

Monsignor Quicke, che cosa è successo e perché ha tenuto lei la conferenza al posto del professor Ruyssen?

La sera prima della conferenza, prevista per il 18 giugno, il professor Ruyssen mi ha contattato per comunicare la notizia che non poteva tenere la conferenza. Il Generale della Compagnia di Gesù aveva ricevuto una lettera della Segreteria di Stato. Erano stati avvisati diplomaticamente della nostra iniziativa di organizzare una conferenza sul Genocidio armeno. Nella lettera, tra le righe, si chiedeva che l’iniziativa fosse cancellata.

Il professor Ruyssen è stato esplicitamente scoraggiato a tenere la conferenza. Alla fine, ho proposto di assumere il ruolo di mediatore. Non era più possibile per me avvisare tutti. Inoltre, avevamo anche organizzato il ricevimento con il catering.

Il patrone di questa Fondazione è San Giuliano l’Ospitaliere. Nello spirito di ospitalità ho voluto accogliere tutti gli invitati, presentare un’umile introduzione al lavoro scientifico di Padre Ruyssen e dare voce a chi non ha più voce.

Avevo chiesto gentilmente di mantenere la serenità di costruire insieme ponti di pace e di giustizia e “di credere nella verità in modo da poter rinascere nella verità”, come dice Sant’ Agostino: “la verità non appartiene né a me né a chiunque altro, ma a tutti noi” (Confessiones XII, 25, 34).

Non sono un agostiniano, ma in un certo senso mi sento figlio di Agostino che parla di Christus mediator: “Cerchiamo di crescere per saper discernere il bene dal male e sempre più attaccarci al Mediatore che potrà liberarci dal male, con una guarigione interiore” (Tractatus in Iohannis Evangelium, 98, 6).

Dunque ho voluto essere mediatore! Avendo lavorato per 10 anni nel Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, dove ero responsabile del dialogo con i cristiani ortodossi orientali, e avendo anche seguito da vicino la relazione con la Chiesa apostolica armena, ho fatto un’introduzione al lavoro innovativo svolto dal professor Ruyssen.

In accordo con il professor Ruyssen ho fatto (durante la notte) la traduzione di un testo di un libro in inglese che avevo scritto qualche tempo fa sui cristiani in Medio Oriente (A Spiritual Discovery of Christians in the Middle East, Gompel&Svacina, Oud-Turnhout / ‘s-Hertogenbosch, 2020), in cui parlo anche del genocidio armeno, fra le altre cose.

Alla fine della conferenza ho ripetuto che questa era soltanto una introduzione umile al lavoro scientifico, originale e unico del professor Ruyssen. L’editore Il signor Pirolli aveva messo a disposizione una copia delle sue pubblicazioni sulla Questione Armena e sulla Questione Caldea e Assira. Per valorizzare il lavoro del professor Ruyssen ho incoraggiato tutti i presenti ad ordinare una copia della sua pubblicazione durante il ricevimento. Alla fine ho invitato tutti ad applaudire in onore del professor Ruyssen”.

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Roaco, al via la plenaria: focus su Medio Oriente e territori di guerra (VaticanNews 23.06.5)

Vatican News

La situazione delle Chiese orientali, alla luce anche della cronaca internazionale di queste settimane, a cominciare dal conflitto allargato in Medio Oriente, sarà al centro della 98.ma assemblea plenaria della Riunione Opere Aiuto Chiese Orientali (Roaco), i cui lavori si svolgeranno nella Sala Congressi del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani a partire da oggi pomeriggio, con lo Steering Committee, fino lunedì 23 giugno con il consiglio direttivo.

Come si legge nel programma, diffuso in una nota del Dicastero per le Chiese Orientali, martedì 24 giugno si terrà la celebrazione eucaristica inaugurale delle ore 8:30, presieduta dal cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali e presidente della Roaco, durante la quale si ricorderanno i benefattori vivi e defunti e si pregherà per la pace, affidando al Signore e all’intercessione della Tutta Santa Madre di Dio i Paesi che soffrono a causa della guerra.

Il focus su Terra Santa e Armenia

Nella prima sessione si entrerà subito nel vivo soffermandosi sulla situazione in Terra Santa, con particolare attenzione alla realtà di Gaza. La situazione sarà analizzata grazie ai contributi del patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa; del Delegato Apostolico a Gerusalemme, monsignor Adolfo Tito Yllana; del Custode di Terra Santa e Guardiano del Monte Sion, padre Francesco Patton, OFM;  del vice-cancelliere della Bethlehem University, fratel Hernan Santos, FSC. Durante il meeting verranno condivise informazioni relative alla Colletta Pro Terra Sancta del 2024.

Nel pomeriggio il focus si sposterà sull’Armenia. Sul tema interverranno il rappresentante pontificio in Armenia, monsignor Ante Jozić, e l’ordinario per i fedeli armeni cattolici in Europa Orientale, l’arciprete Kévork Noradounguian.

La situazione in Siria

La mattinata di mercoledì 25 sarà dedicata all’analisi della situazione in Siria, sconvolta ieri da un attentato suicida in una chiesa di Damasco. Sulla situazione interverrà monsignor Hanna Jallouf, OFM., vicario apostolico di Aleppo, e monsignor Joseph Tobji, arcivescovo maronita della medesima Sede. Al termine della mattinata di mercoledì, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali, offrirà una panoramica sull’azione diplomatica della Santa Sede su diversi fronti, con particolare riferimento alle situazioni che coinvolgono la presenza dei cristiani orientali, soprattutto nelle regioni maggiormente interessate da conflitti e da limitazioni nell’ambito della libertà religiosa.

La fragilità dell’Etiopia

La giornata si concluderà con una relazione di Smonsignor Tesfaye Tadesse Gebresilasie, MCCI, vescovo Ausiliare di Addis Abeba, sulla situazione in Etiopia, Paese che attraversa una fase di elevata fragilità istituzionale e politica dopo due anni di guerra che ha provocato migliaia di vittime e milioni di sfollati interni.

L’udienza con il Papa

I lavori si concluderanno con lo Steering Committee di fine plenaria, che programmerà anche gli appuntamenti futuri. Nella mattinata di giovedì 26 Papa Leone XIV, riceverà la Roaco in udienza.

Oltre ai relatori, parteciperanno alla plenaria i rappresentanti delle Agenzie Cattoliche che fanno parte della ROACO, i Superiori e diversi Officiali del Dicastero per le Chiese Orientali, alcuni rappresentanti della Segreteria di Stato, del Dicastero per l’Evangelizzazione, del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, del Dicastero per la Promozione dello Sviluppo Umano Integrale.

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La 98ª plenaria della Roaco (Osservatore Romano)