Armenia: premier Pashinyan, povertà va contrastata attraverso il lavoro (Agenzia Nova 09.01.20)

Erevan, 09 gen 11:07 – (Agenzia Nova) – La povertà va contrastata e superata attraverso il lavoro. Lo ha dichiarato il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, durante la riunione parlamentare odierna. “Il nostro obiettivo principale è la creazione di tutte le condizioni necessarie a sostenere il lavoro dei cittadini, che devono però impegnarsi ad aiutare il governo nell’adempimento delle sue funzioni”, ha detto il premier, ricordando che a partire dal primo gennaio di quest’anno le microimprese in Armenia non sono più soggette a tassazione. Nel suo intervento, Pashinyan ha sottolineato gli ottimi risultati raggiunti nel corso del 2019 nel settore del turismo prevedendo una nuova crescita durante l’anno corrente. “Alla luce di ciò, è fondamentale rafforzare e migliorare ancora i servizi a disposizione dei cittadini e dei turisti che vengono in visita nel nostro paese”, ha aggiunto il premier. (Res)

Jacopo Santini. Armenia 301 – Parte prima. Armenia: la memoria del genocidio (Arte.go.it 08.01.2020)

In mostra una selezione di immagini da un progetto in corso del professore di fotografia presso Studio Arts College International Jacopo Santini.
Santini presenterà la prima fase di un progetto, realizzato grazie al Fondo di Sviluppo istituito da SACI, il cui scopo è documentare come il ricordo e la negazione o rimozione di uno stesso evento, il genocidio Armeno, abbia plasmato profondamente le società Armena e Turca e continuerà il progetto in Turchia, Siria e Libano anche nel 2021.

301 (dopo Cristo) è l’anno in cui, stando alla tradizione e dopo una serie di cruente indecisioni, l’Armenia accolse il Cristianesimo, per volontà del re Tidrate III, e ne fece la religione nazionale, primo – si dice – fra i popoli. 301 è anche l’articolo del codice penale turco che sanziona – con pene detentive – ogni offesa all’identità turca”, disposizione usata spesso e volentieri per punire varie forme di dissenso e, ovviamente, ogni menzione di ciò che da 100 anni è in Turchia negato, Metz Yegern: il grande dolore, il primo genocidio del ‘900 che, tra il 1915 e il 1918 (con sanguinosi strascichi successivi), per piano e mano dei Giovani Turchi, costò la vita a circa 1. 500. 000 Armeni all’epoca residenti nei territori del fu Impero Ottomano, soprattutto nell’attuale Anatolia orientale (o Armenia occidentale). Questo genocidio ha potuto contare sull’ipocrita complicità di un buon numero di nazioni che, ad oggi non lo hanno riconosciuto come tale, nonostante il concorde avviso della comunità scientifica internazionale circa la copiosità, l’univocità e l’inconfutabilità delle prove.

“La fotografia” – disse Oliver Wendell Holmes nei suoi tempi pionieristici – “è uno specchio dotato di memoria”. Può tuttora esserlo, perfino in un’epoca in cui, complice la rivoluzione digitale, è lecito dubitarne. Il dilemma è cosa fotografare a distanza di un secolo dai fatti, quando gli ultimi, pochissimi sopravvissuti, sono fragilissimi centenari, per non ridurre il lavoro ad un esercizio stucchevole di documentazione “archeologica”.

“Ho pensato, iniziando la ricerca di una struttura per il progetto, all’Angelus Novus di Walter Benjamin (e al quadro di Klee da cui mosse il pensiero del filosofo tedesco), gli occhi fissi sul passato, sulle catastrofi che, sotto il suo sguardo trascinato verso il futuro dalla tempesta che chiamiamo progresso, sono un solo cumulo di rovine. [.. . ] Parlare oggi del genocidio, con la fotografia, non può che avvenire misurandosi con il presente, con ciò che, tangibilmente, resta del passato nel presente, con la memoria di quel passato nelle parole e nei comportamenti degli individui o in quelli delle società, nei luoghi teatro di quegli eventi lontani, nelle cose, in tutte le terre in cui si consumò Metz Yegern, Armenia, Turchia, Siria, Libano. [.. . ]L’idea è cucire ricordi, parole ed immagini e dar testimonianza del presente come traccia e riflesso del passato, forse debole ma esistente. Non si tratta di un atto di indagine, già compiuta e con risultati indiscutibili, ma di una testimonianza. La storia la si racconta spesso osservandola riflessa negli occhi di chi, dovunque sia nato, le è sopravvissuto, come nelle pupille dell’Angelus Novus non ancora chiuse dal vento del progresso. ”
Jacopo Santini

Inaugurazione: Giovedì, 15 gennaio, ore 18

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Dettagli

Inizio:
Mercoledì 15 Gennaio 2020
Fine:
Domenica 9 Febbraio 2020

Luogo

SACI GALLERY
Via Sant’Antonino, 11
Firenze, 50122 Italia 
+ Google Maps
Telefono:
055 289948
Sito web:
www.saci-florence.edu

 

Oggi, nel 1880, nasceva Hrand Nazariants: intorno a lui, a Bari, “I poeti della via” (Molalibaera 08.01.20)

Affamati di spiritualità, di trascendenza, figli di un ideale vigoroso e di nobili valori “I poeti della via” (Angeloro, Sinisi, Montella, Pellecchia, Mastrini, Potito, Santoro e Sorrenti), così come si definirono, potrebbero essere considerati gli ultimi tizzoni di una rinascenza culturale che fiorì a Bari nei primi anni del novecento attorno (e anche) alla figura dell’intellettuale armeno Hrand Nazariantz (08 gennaio1880 – 25 gennaio 1962).

I SOGNATORI DIMENTICATI

“I poeti della via” si muovevano declamando i loro versi tra Bari e paesi limitrofi tra il 1950 e il 1968.

Un’opera di Hrand Nazariantz pubblicata dalla casa editrice Humanitas di Piero Delfino Pesce

Portavano in seno un progetto di ricostruzione, la pianticella tenera, seminata in anni di incertezza e inquietudine, quelli cioè del primo ‘900.

Giulio Gigante li chiamava per eventi organizzati dall’università popolare di Conversano, perché sapevano essere protagonisti di atmosfere magiche e intense. Erano serate pensate come occasione per accordar l’orecchio e allenare l’occhio alla bellezza che, attraverso l’arte si svela, esalta e tutti eleva!

In Giulio la cultura era come fontanella d’acqua dolce per il bene comune ed essi erano un riferimento importante, perché sapevano rapportarsi con immediatezza senza essere banali.

La semplicità e la concretezza era il costume de “I Poeti della Via”.

La ricerca di forme migliori per emozionare non era mero esibizionismo, né progetto d’evasione, tanto meno intrattenimento o distrazione dalla vita grama, ma e, soprattutto, convinzione che l’Arte fosse forza propedeutica per alimentare, nei concittadini, la visione di paese capace di valorizzarsi.

Caricatura di Nazariantz di anonimo

Giulio Gigante riconosceva in questi uomini la risorsa umana, l’energia salutare che unisce il senso pratico a quello ideale, frutto della contemplazione, intesa come spirito della ricerca dell’essenza di bellezza e serenità, insomma ogni incontro organizzato dell’università popolare Conversanese aveva una funzione sociale.

La loro “rappresentazione mentale di paese”, vedeva nello studio non il passaporto per fughe all’estero, quanto il mezzo per uscire dai margini della vita con un’offerta di prodotti qualificati e non omologati a dei canoni decisi da pochi.

La cultura come mezzo per costruire ponti, favorire scambi per avere una visione veramente globale del pianeta. Per offrire una vivacità di colori e sapori che fossero espressione peculiare del luogo, paesaggio delle meraviglie.

“I poeti della Via” per molti erano tollerati come ingenui, privi del senso concreto della realtà e per questo, spesso messi alla berlina. Era come se non riflettessero l’immagine comune del commerciante che punta subito al sodo.

Una delle maggiori opere di Hrand Nazariantz

Per tanti la Cultura non era strumento di identificazione e mezzo per cogliere le potenzialità di un territorio, quanto un abito per opulenti e per fannulloni. I caffè o i cenacoli erano salotti per ricchi non certo luoghi di aggregazione o confronto.

Cosa rappresentarono il Caffè Sottano del buon Don Armando Scaturchio? Cosa era lo storico Caffè Stoppani, ritrovo degli intellettuali baresi? Cosa è rimasto nell’immaginario collettivo della città schiusa a oriente, attenta ai venti e alle onde di mare che, come bastimenti, approdano e ripartono?

I luoghi dell’incontro, la vetrina sociale erano le piazze e i corsi per le passeggiate nei giorni di festa! I sognatori o gli artigiani del pensiero erano un ingombro per quanti ignorano che l’Arte vera è espressione di bagliori interiori. La sintesi di percorsi che interpretano l’animo in relazione coll’immensità cosmica, ma soprattutto sono il manifesto di dimensioni invisibili ma reali dei quali l’artista è testimone e interprete.

Un’altra opera di Hrand Nazariantz pubblicata dalla casa editrice Humanitas di Piero Delfino Pesce

Eredi di un ideale, quale il “Manifesto Graalico che ha per confini solo Amore e Luce” (1951), per il quale “In quest’ora di fatale oscillazione che distoglie l’umanità dai suoi fini veri… di generale disfacimento morale”, si fecero latori della Poesia come seme di ricchezza d’animo.

L’Arte intesa non come semplice forma estetica per nascondere la miseria del cuore, quanto folgore che disperde la tenebra e mostra il vero, il bello e il buono di ogni essere.

Animati dall’Aurea di Calliope, vivevano ogni spettacolo o opera d’arte come missione redentrice che li tributava aedi e sacerdoti della Poesia, pronti a sacrificare se stessi sull’altare della creatività e “…rendere la propria vita migliore dei propri versi…”, finirono coll’essere isolati, ma fecero della loro emarginazione un crogiolo fecondo tutto da scoprire in un contraddittorio di bisogno di stabilità e innovazione.

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Misericordia: card. Krajewski ad Albano, case accoglienza diocesi sono “piccole realtà di puro Vangelo” (SIR 08.01.20)

“Non contano i numeri, ma piccole realtà come queste, sempre aperte per i poveri. Sono esperienze di puro Vangelo”: il card. Konrad Krajewski definisce così tre strutture di accoglienza della diocesi di Albano presenti sul litorale laziale, di cui l’elemosiniere del Papa ha incontrato gli ospiti questo pomeriggio. “Ascoltando le vostre esperienze mi viene da dire che la carità senza la vita consacrata non esiste”, ha osservato il card. Krajewski. Sono infatti le suore missionarie dell’Incarnazione ad accogliere a Torvaianica cinque famiglie in difficoltà (17 persone in totale) provenienti da Sri Lanka, Armenia e Italia. Sedici persone, soprattutto madri sole con figli, sono ospiti invece ad Anzio della casa di prima accoglienza “Card. Pizzardo”, gestita dai padri orionini. Arrivano da Italia, Russia, Nigeria, Tunisia, Marocco, Romania, rappresentano un microcosmo culturale e religioso e vengono accolte per tempi anche lunghi, in attesa di stabilità abitativa e lavorativa. La casa “Mons. Dante Bernini” di Tor San Lorenzo, infine, affidata da qualche mese a due francescani del terz’ordine regolare, coinvolge nove padri separati e un uomo solo in un progetto annuale di accoglienza e reinserimento, con possibilità di ospitare anche i figli. Tra loro c’è Roberto, 56 anni, palermitano. Nel 2009 ha visto fallire l’attività che aveva intrapreso, poi si è separato dalla moglie e si è trovato a dormire in macchina. “Ho scoperto questa struttura su internet e da maggio 2019 sono qui – racconta al Sir –. Ho ricominciato a dialogare con altri e riscoperto una dimensione di socialità. Avevo cresciuto una figlia mia e i tre figli della mia ex moglie. Alla mia età, nonostante quarant’anni di esperienza, è difficile trovare lavoro e mi trovo ad accettare piccoli impieghi notturni saltuari. L’incertezza per il futuro è ciò che più mi rende inquieto”, conclude.

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Armenia: premier Pashinyan, paese diventerà primo nella regione per Pil pro capite (Agenzianova 07.01.20)

Erevan, 07 gen 09:06 – (Agenzia Nova) – L’Armenia si appresta a diventare il primo paese nella regione del Caucaso meridionale in termini di Pil pro capite. Lo ha scritto sul suo profilo Facebook il capo del governo di Erevan, Nikol Pashinyan, commentando una serie di dati diffusi dal Fondo monetario internazionale (Fmi). “Nel 2019 abbiamo superato la Georgia, e quest’anno è possibile che riusciremo a superare anche l’Azerbaigian diventando il primo paese del Caucaso meridionale in termini di Pil pro capite”, ha scritto il premier. (Res)

“Armenia: una tragedia dimenticata tra storia e letteratura”, due incontri a Reggio Emilia (Modena2000.it 6.01.20)

L’UCIIM in collaborazione con ANTEAS O.d.V di Reggio Emilia organizza nelle giornate di lunedì 13 e lunedì 20 gennaio 2020 due incontri sul tema “Armenia: una tragedia dimenticata tra storia e letteratura”.

Gli incontri si svolgono con inizio alle ore 16.30 presso l’Istituto San Vincenzo de’ Paoli, via Franchetti 4 – Reggio Emilia. Sarà rilasciato attestato di partecipazione.

Relatrice è la prof. Maria Chesi, laureata in lettere classiche con tesi in archeologia cristiana e già insegnante di italiano e latino presso il liceo classico “Ludovico Ariosto” di Reggio Emilia. E’ autrice di articoli riguardanti le pievi dell’Appennino reggiano pubblicati su “Reggio storia” e del libro, scritto a quattro mani con il padre Sandro,”Medioevo canossiano”.

E’ stata presidente diocesana di Azione Cattolica ed è ideatrice dei progetti famiglia dell’AC.

Nel 2015 ricorreva il centenario del Genocidio del popolo Armeno – il Metz Yeghern, il “Grande Male – perpetrato dall’Impero Ottomano.

Il 12 aprile dello stesso anno, nel suo messaggio al popolo armeno Papa Francesco affermava: “Un secolo è trascorso da quell’orribile massacro che fu un vero martirio del vostro popolo, nel quale molti innocenti morirono da confessori e martiri per il nome di Cristo”. E aggiungeva: “Non vi è famiglia armena ancora oggi, che non abbia perduto in quell’evento qualcuno dei suoi cari: davvero fu quello il Metz Yeghern, il “Grande Male”, come avete chiamato quella tragedia”.

Parole che avevano scatenato le ire di Erdogan e del governo della Turchia, colpito nel vivo, che non ha mai voluto sentir definire quelle stragi – centinaia di migliaia furono le vittime, uomini e donne di ogni età – “un genocidio”, anzi il primo genocidio del sec. XX.

Perché il Comune di Reggio Emilia non ricorda nella toponomastica cittadina l’orrendo “Genocidio degli Armeni” perpetrato dai Turchi? Perché non fare memoria di tante centinaia di migliaia di martiri: donne, bambini, anziani, giovani e adulti? Sarebbe un doveroso omaggio alle vittime.

D’altro canto – come si legge nel volume di Agop Manoukian Presenza armena in Italia. 1915-2000 – il Comune di Reggio Emilia in data 22 aprile 2005 approvò un documento di riconoscimento del genocidio armeno.

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“Là dove giace il cuore. Note e parole d’esilio” il 23 gennaio all’ Auditorium Parco della Musica (Romadailynews 05.01.20)

Dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden, la storia di Israel è segnata dalle peregrinazioni e dalla nostalgia per il Paradiso perduto. Dalla deportazione Babilonese, alla schiavitù in Egitto, dalla espulsione dalla Spagna nel 1492, fino alla fuga dai pogrom e dalle guerre nel Novecento, la condizione di esilio e sradicamento ha segnato nel profondo l’identità del Popolo ebraico, accompagnandone la storia. Il 7° Concerto della Memoria, “Là dove giace il cuore. Note e parole d’esilio”, si impegna ad illuminare e far risuonare, attraverso la parola e la musica, l’esperienza di tutti coloro i quali ieri e oggi, ebrei e non, hanno condiviso il medesimo destino di separazione, allontanamento e abbandono della propria identità: ebrei askenaziti e sefarditi, armeni, africani deportati come schiavi, italiani e irlandesi imbarcatisi in un passato recente in cerca di fortuna, profughi contemporanei respinti alla frontiera o separati dai figli.

“Si può a lungo discutere su che cosa sia l’esilio” – spiega Viviana Kasam, ideatrice del concerto – “Essere deportati, tratti in schiavitù? Scappare dalla guerra e dalla persecuzione? Lasciarsi famiglia e casa alle spalle per cercare di sfuggire a un destino di miseria e sradicarsi lontano? Nella mia visione, quello che conta è che la condizione di esiliato è comunque simile per tutti, e lo testimoniano sia le canzoni sia i testi che ho raccolto, con la preziosa collaborazione dello scrittore Edmund De Waal (“Una eredità di ambra e avorio”, 2011), che ha recentemente creato la “Biblioteca dell’esilio – Psalm”. Sono parole di scrittori e di poeti di origini diversissime, da Dante e Foscolo, a Neruda e Nabokov, a Jabès e Hanna Arendt, da Miriam Makeba al poeta armeno Yeghishe Charents, uniti dall’esperienza di sradicamento e perdita di identità”.

“‘L’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma terribile a viversi – spiega Marilena Citelli Francese, co-ideatrice dell’iniziativa – È una crepa che si impone con la forza degli eventi e che si insinua tra l’essere umano e il posto in cui è nato. Non dimentichiamo che le conquiste di un esule sono costantemente minate dalla perdita di qualcosa che si è lasciato per sempre alle spalle. e molte volte, per fortuna, diventa testimonianza attiva. La nostra storia è frutto di esili ma l’apice viene raggiunto nel secolo scorso macchiato dal sangue di due guerre mondiali e dalla vergogna delle leggi razziali. Partiamo da questa sofferenza condivisa per coinvolgere un pubblico più ampio a riflettere affinché il concerto diventi un messaggio di dialogo fra popoli e religioni”.

I testi selezionati saranno letti da Manuela Kustermann e Alessandro Haber, che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa.

Un cast di interpreti internazionali farà rivivere le canzoni composte da musicisti esiliati in epoche e Paesi diversi. Protagonista per il terzo anno del Concerto della Memoria, Cristina Zavalloni, accompagnata dall’ensemble di solisti jazz Lagerkapelle (Vince Abbracciante, Giuseppe Bassi, Seby Burgio, Andrea Campanella, Gaetano Partipilo, Giovanni Scasciamacchia). Le guest stars sono Raiz, protagonista della scena musicale partenopea e interprete della pellicola di John Turturro “Passione” e, dall’Armenia, Gevorg Dabaghyan, considerato uno dei massimi suonatori di duduk, lo strumento nazionale armeno, che farà rivivere la voce del genocidio del suo popolo attraverso le note di Padre Komitas, compositore ed eroe nazionale che trascrisse, salvandole dall’oblio, le musiche tradizionali.

Da Toronto arriva per la prima volta a Roma l’ARC Ensemble (Artists of The Royal Conservatory), tre volte nominato per il Grammy Award e specializzato nella ricerca e nel recupero delle opere di compositori ebrei che fuggirono dalla Germania nazista. Per il Concerto della Memoria l’ARC Ensemble eseguirà brani sinfonici di Walter Kaufman (“String Quartet n°11 – Finale”) e Julius Chajes (“Palestinian (Hebrew) Suite”), e di Michael Csanyi Wills “The Last Letter”, una canzone composta sul testo della lettera-testamento che sua nonna scrisse per incoraggiare figli e nipoti a lasciare l’Ungheria. Il Coro delle Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretto da Piero Monti, aprirà il concerto con “Và pensiero”, una delle pagine più celebri della storia della musica, paradigma di tutti gli esili. Canti sefarditi (“La Roza enflorence”), afroamericani (“I Be So Glad… When The Sun Goes Down”, “Homeland”), armeni (“Dle Yaman”), italiani (“Ma se ghe pensu”, “Lacreme napulitane”) rievocheranno la condizione dello sradicamento, della nostalgia, della speranza, sentimenti comuni a tutti gli esiliati.

“L’Unione delle Comunità ebraiche promuove per il settimo anno il Concerto della Memoria, con l’obiettivo di maturare senso di appartenenza e responsabilità attraverso la dimensione della musica e dell’arte teatrale” – dichiara Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – “Il tema dell’esilio, una delle conseguenze meno esplorate della Shoah, vuole generare nei giovani che hanno il privilegio di vivere in tempo di pace e di attraversare l’Europa per libera scelta, la consapevolezza su quanto accaduto ai nostri avi nei secoli. E ripercorrendo le vicissitudini storiche del popolo di Israel, desideriamo stimolare la riflessione su uno dei temi più attuali e più drammatici del mondo contemporaneo”.

Ad arricchire il programma è anche la partecipazione della giovane contralto Nathalie Coppola – cantante italiana di origine haitiane, che canterà Homeland di Miriam Makeba con il coro delle Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia – e quella straordinaria di Daniela Ayala e Pasquale Di Simone, ballerini di tango noti per la partecipazione a Ballando con le stelle.

Il concerto è organizzato da BrainCircleItalia, Musadoc, Accademia Nazionale di Santa Cecilia e Euro Forum, con il contributo di Mediocredito Centrale, Salini Impregilo, Acea e Lundbeck Italia; con il sostegno dell’Ambasciata del Canada, dell’Ambasciata della Svizzera e di Gomitolorosa; con la media partnership di Rai Cultura.

 

Concerto per il Giorno della Memoria 2020

Promosso da UCEI

Con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in collaborazione con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

LÀ DOVE GIACE IL CUORE

Note e parole di esilio

Giovedì 23 Gennaio 2020, ore 20.30

Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli

Ingresso gratuito

Un progetto di: Viviana Kasam

In coproduzione con: Marilena Citelli Francese

 

IL CAST

Voce solista: Cristina Zavalloni

Guest Stars:  Raiz e Gevorg Dabaghyan

Narratori: Manuela Kustermann e Alessandro Haber

Lagerkapelle: Vince Abbracciante (fisarmonica), Giuseppe Bassi (contrabasso), Seby Burgio (pianoforte), Andrea Campanella (clarinetto), Gaetano Partipilo (sax), Giovanni Scasciamacchia (batteria)

ARC Ensamble – The Royal Conservatory of Music, Toronto

Coro delle Voci Bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretto dal maestro Piero Monti

Regia: Angelo Bucarelli

Direzione musicale: Cristina Zavalloni e Giuseppe Bassi

Arrangiamenti: Giuseppe Bassi, Vince Abbracciante e Seby Burgio

Direzione artistica: Michelangelo Busco

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ASIA/TURCHIA – Patriarca armeno: le minoranze stanno vivendo il loro tempo migliore sotto Erdogan (Fides 03.01.20)

Istanbul (Agenzia Fides) – “Tutte le minoranze presenti in Turchia condividono questo medesimo avviso: sotto il potere del Partito Akp, stiamo vivendo il periodo più pacifico e felice dai tempi della fondazione della Repubblica turca”. Così vede la situazione Sahak II Masalyan, nuovo Patriarca armeno di Costantinopoli, secondo quanto riportato dai media turchi. Alcune dichiarazioni attribuite al l Patriarca – e diffuse in particolare giovedì 2 gennaio dal quotidiano nazionalista turco Akşam – sembrano destinate a far discutere. Nella sua esaltazione dell’attuale condizione delle minoranze nella Turchia guidata da Recep Tayyip Erdogan, il Patriarca cita i cambiamenti apportati nel 2008 nella legge sulle Fondazioni. Il Patriarca aggiunge che “il problema delle minoranze è sempre stato usato come argomento dalle potenze straniere per interferire negli affari dell’Impero ottomano”, e che al momento c’è da ritenersi soddisfatti “per il sostegno che riceviamo dallo Stato; raggiungiamo facilmente il nostro Presidente. I ministri spesso ci visitano e il Prefetto di Istanbul ci riserva sempre la sua benevola attenzione”.
Nelle sue dichiarazioni, il Patriarca ha sottolineato anche la distanza con gli ambienti della diaspora armena, che trasmette di generazione in generazione come fattore identitario la memoria dei massacri subiti dagli armeni in Anatolia nel 1915. ”Noi” ha aggiunto il Patriarca “siamo rimasti su questa terra dopo quegli eventi. Abbiamo scelto di vivere con il resto della popolazione, mentre la diaspora è rimasta ferma nel secolo passato”.
Nelle dichiarazioni riportate dai media turchi, il Patriarca ha ricordato che gli armeni apostolici in tutta la Turchia sono meno di 60 mila, in costante diminuzione, e che 33 delle 38 chiese facenti capo al Patriarcato sono concentrate nell’area di Istanbul.
L’Arcivescovo Sahak Masalyan è stato eletto Patriarca armeno apostolico di Costantinopoli lo scorso 11 dicembre. Il processo elettorale per la scelta del nuovo Patriarca (vedi Fides 12/12/2019) è stato sofferto e segnato da controversie destinate a avere strascichi anche in futuro, provocate almeno in parte dall’intreccio tra personalismi ecclesiastici e interferenze degli apparati secolari locali. Nel febbraio 2018, l’ufficio del governatore di Istanbul aveva azzerato il processo elettorale già avviato per cercare il successore del Patriarca Mesrob, colpito già dieci anni prima da malattia neurodegenerativa invalidante. A quel tempo, le autorità turche avevano bloccato l’iter elettorale facendo appello alla circostanza che il Patriarca Mesrob era ancora vivo, seppur ridotto in stato vegetativo, e le disposizioni giuridiche turche prevedono che si possa eleggere un nuovo Patriarca armeno solo quando la carica rimane vacante con la morte del predecessore. Più di recente, aveva suscitato polemiche il decreto del Ministero dell’interno turco volto a restringere la rosa dei candidati ai soli arcivescovi residenti in Turchia, escludendo l’eventuale candidatura di arcivescovi del Patriarcato residenti all’estero. L’organo di stampa Agos, pubblicato a Istanbul in armeno e in turco, in un editoriale non privo di passaggi polemici, poche ore prima dell’elezione del nuovo Patriarca aveva rilevato che i due Arcivescovi Sahak Masalyan e Aram Ateşyan, rimasti a contendersi la carica patriarcale, avevano proseguito “le loro rispettive campagne” senza tener conto di preoccupazioni e malessere espressi dalla comunità locale per l’esclusione dei candidati residenti fuori dalla Turchia. Un modus operandi che a giudizio di Agos avrebbe provocato nel tempo ripercussioni negative sul cammino del Patriarcato armeno apostolico di Costantinopoli. (GV) (Agenzia Fides 3/1/2020)

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Trasporto aereo: Ryanair, annunciate nuove tratte Gyumri-Atene e Salonicco-Erevan (Agenzianova 03.01.20)

Roma, 03 gen 17:24 – (Agenzia Nova) – La compagnia aerea low cost Ryanair ha annunciato oggi due nuovi collegamenti aerei da Atene a Gyumri, in Armenia, e da Erevan a Salonicco a partire da maggio di quest’anno. Lo si apprende da un comunicato della compagnia, in cui si aggiunge che le tratte saranno operate due volte a settimana. “Continuiamo ad impegnarci per rafforzare i collegamenti tra i paesi europei e l’Armenia: i cittadini e i residenti nel paese adesso saranno in grado di prenotare un volo verso la Grecia fino ad ottobre 2020”, ha detto il direttore commerciale di Ryanair, David O’Brien. (Com)

Nagorno Karabakh: 30 anni fa il pogrom di Baku, simbolo di una guerra cristallizzata nel tempo: “Non ci arrenderemo mai” (Ilfattoquotidiano 01.01.2020)

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ma che si protrae nel tempo con periodiche violazioni del cessate-il-fuoco. L’autoproclamata Repubblica è oggi una lingua di terra in territorio azero, ma abitata da armeni, schiacciata, come Erevan, tra due potenze economiche cresciute enormemente negli ultimi decenni: Turchia e Azerbaigian

di Pierfrancesco Curzi | 1 GENNAIO 2020
Il primo gennaio del 1990 era un lunedì. Per le strade di Baku, allora capoluogo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, una folla di alcune decine di migliaia di persone intonava canti anti-armeni: “Gloria agli eroi di Sumqait” e “Lunga vita a Baku senza gli armeni”. Era l’annuncio di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve: era iniziato il Pogrom di Baku, la soluzione finale per liberare quel territorio dagli scomodi vicini. Soprattutto, era scattato quello che i testimoni del tempo chiamano “Il gennaio nero”.

Il grosso dei cittadini di origine armena residenti a Baku, circa 250mila, se n’era andato nei due anni precedenti, da quando, cioè, l’ideologia settaria aveva prodotto le violenze nella città di Sumqait, a nord dell’attuale capitale azera. In quel primo gennaio di trent’anni fa nella città appollaiata sulla sponda occidentale del mar Caspio rimanevano poche decine di migliaia di armeni, per la maggior parte persone vulnerabili, vecchi e ammalati. Le modalità repressive sembravano prendere spunto dai blitz nazisti nei ghetti ebraici di mezzo secolo prima: “I vertici azeri avevano formato delle squadre il cui scopo era entrare nelle nostre case senza alcun rispetto, dandoci il tempo di raccattare le poche cose e andarcene, facendo firmare un documento in cui si concedeva la vendita dell’immobile. A questi funzionari la gente doveva consegnare tutti i soldi e i beni preziosi e ad ogni casa svuotata seguiva una sorta di marchio all’esterno con il termine ‘pulita’”.

Saro Saryan ha combattuto ed è rimasto ferito nel conflitto interregionale scoppiato nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian per la contesa del Nagorno Karabakh. Prima di imbracciare il fucile, Saro ha vissuto sulla sua pelle il dolore dei pogrom e la fuga verso una nuova esistenza, scegliendo proprio il Nagorno Karabakh. Oggi vive con la sua famiglia a Shusha, secondo centro dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, e accoglie gruppi di turisti che si spingono nel profondo sud dell’Armenia per conoscere la storia complessa ed affascinante di una terra non riconosciuta ufficialmente a livello internazionale: “Fummo costretti ad andarcene, io e la mia famiglia, ma ad altri andò peggio, sono storie e momenti pesanti da ricordare – racconta Saryan – Quello tra il 1988 e il gennaio del 1990 è chiamato il pogrom di Baku ed è ricordato nella storia, ma di pogrom nei nostri confronti ce ne sono stati tanti, sin dal 1918, divisi tra Azerbaigian e Turchia. Da più di un secolo i due paesi vicini cercano di ‘conquistarci’ imponendoci le loro regole. Noi, in mezzo, resistiamo. Il loro obiettivo è legare la Turchia a tutte le ex repubbliche islamiche, fino a Kazakistan, Turkmenistan e le altre. Noi armeni, in questo senso, li disturbiamo, per questo siamo costretti a subire le loro continue provocazioni, come il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Sì, io ho combattuto e sono rimasto ferito due volte e alla causa armena del Karabakh ha contribuito anche mio figlio”.

La storia si ripeteva nel profondo Caucaso, terra di tensioni interetniche e religiose. Stando agli storici, non esiste un numero certo sulle vittime causate dal pogrom di Baku, sebbene alcuni sostengano la tesi di un numero vicino alle 300 unità. Il grosso dei morti e dei feriti si verificò tra il 12 e il 19 gennaio e l’arrivo, tardivo, dell’esercito di Mosca il 20 gennaio contribuì a chiudere una delle pagine più drammatiche della storia sovietica. Al pogrom di Baku si lega, inevitabilmente, la questione del Nagorno Karabakh, questa fetta di territorio grande come la Basilicata contesa tra le due ex repubbliche sovietiche rivali.I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ossia con un uso limitato della forza. Applicato alla guerra del Nagorno Karabakh, in effetti, il concetto può avere un senso. Questa lingua di territorio al confine con l’Iran, da sempre al centro di una contesa territoriale che si perde nella notte dei tempi, dal 1988 ad oggi vede due eserciti affrontarsi in una sorta di guerra di trincea, con operazioni militari limitate a periodi di schermaglie più o meno intensi, dove a farla da padroni sono i cecchini. In trent’anni di conflitto il bilancio non raggiunge le 4mila vittime. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli tra il 1990 e il 1994, quando un cessate-il-fuoco coordinato dall’Osce sembrava aver chiuso una crisi esplosa proprio mentre il gigante sovietico si stava dissolvendo.

Geograficamente e politicamente la regione del Nagorno Karabakh è considerata territorio azero, anche se da sempre abitato da armeni. Azerbaigian e Armenia, appunto: due nazioni che di certo non si sono mai amate e la cui convivenza è stata forzatamente anestetizzata dall’influenza dei soviet sin dai tempi di Stalin che, tra il 1920 e il 1923, decise di creare l’oblast autonomo del Nagorno Karabakh, assegnando la regione a Baku.Forte dello scompenso istituzionale che avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla nascita di quindici (compresa la Russia) ex repubbliche in stati indipendenti, tra il 1991 e il 1992, la popolazione armena della regione (98% del totale) decise di fondare la Repubblica autonoma dell’Artsakh. A quell’epoca il conflitto armato tra Azerbaigian e Armenia era già iniziato, eppure la vera scintilla che innescò una crisi ormai senza fine e senza soluzione scoccò esattamente trent’anni fa. A Baku, così come a Sumqait, Ganja e altri centri a ridosso del confine conteso della regione autonoma, tra cui la ghost-town di Agdam. Decine di migliaia di persone di etnia armena furono costrette a lasciare le proprie case e riparare proprio in Nagorno Karabakh (altre scelsero mete diverse, tra cui la stessa Erevan, quella che di lì a breve sarebbe diventata la capitale dell’Armenia), in particolare a Stepanakert (Xankendi), attuale capitale dell’Artsakh, Shusha e Goris.

La possente Armata Rossa, ormai all’epilogo come l’intero sistema sovietico, caduto definitivamente il giorno di Natale del 1991, cercò invano di ripristinare la normalità, ma ormai il danno era stato fatto. La scintilla decisiva del conflitto tra Baku e Erevan è legata proprio al pogrom del gennaio 1990. Da allora, nonostante il cessate-il-fuoco del 1994, la guerra non conosce fine. Dall’inizio del terzo millennio, l’anno con più morti è stato il 2014 (72, soprattutto militari, pochissimi i civili). La recrudescenza dei fatti di sangue si ripete con puntuale drammaticità. Le analogie con altre crisi internazionali si sprecano. Per molti versi la situazione nel Caucaso somiglia alla guerra dei Balcani dei primi anni ’90, ma anche ai troubles nordirlandesi per numero di vittime e per le contrapposizioni religiose e, infine, alla questione palestinese. In questi giorni nella Repubblica autoproclamata dell’Artsakh sono partite le iniziative per celebrare i drammatici eventi dei primi di gennaio del 1990: commemorazioni e raccolte fondi a favore dei rifugiati armeni scappati dalle violenze. Tra gli organizzatori degli eventi c’è soprattutto Saro Saryan.Dalla fine ufficiale del conflitto in Nagorno Karabakh, nel 1994, ad oggi le cose a livello geopolitico sono cambiate molto. Sia la Turchia che l’Azerbaigian non sono più i paesi che erano allora, soprattutto a livello economico, mentre l’Armenia è sostanzialmente rimasta al palo. La guida della dinastia politico-affaristica azera della famiglia Aliyev, è passata da Heidar ad Ilham, quest’ultimo dal 2003 ad oggi sempre alla guida di uno stato arretrato, addirittura povero, diventato, in pochi anni, una potenza mondiale. Il moderno Azerbaigian si è trasformato in una sorta di emirato, alla stregua di Bahrein e Qatar, e Baku in una città da sogno proibito come Dubai. La scoperta e lo sfruttamento di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale nella sua porzione del mar Caspio hanno reso l’ex repubblica caucasica una meta affaristica, diversamente dai vicini. Questo distacco, al momento incolmabile, tra Azerbaigian e Armenia rischia di aumentare il tenore del conflitto cristallizzato in Nagorno Karabakh. Intanto, la Repubblica dell’Artsakh si prepara a un altro evento molto atteso: “A breve, in aprile, si terranno le elezioni, sia per il presidente che per il parlamento – conclude Saryan – Non dovrebbe cambiare molto, ma intanto la leadership nel nostro territorio riesce a garantire l’unità politica e sociale di un territorio contro l’invasione azera. Non ci arrenderemo mai”.

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Soffia il vento del cambiamento in Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra Yerevan e Baku. In vista delle prossime elezioni del 2020, la piccola Repubblica si sta aprendo alla competizione politica e al pluralismo delle idee. Le modifiche alla Costituzione del Karabakh, approvate con il referendum del 2017, rappresentano la premessa per il rinnovato clima di dialogo. Con la votazione, il sistema di Governo della Repubblica dell’Artsakh è stato trasformato da semi-presidenziale a presidenziale. La transizione alla nuova Costituzione avverrà nel 2020, quando scadrà il mandato dell’attuale Parlamento. Bako Sahakyan, che nel 2017 avrebbe dovuto terminare il suo regolare mandato come Primo Ministro, è stato nominato dal Parlamento Presidente ad interim fino al 2020, per accompagnare la Repubblica nella transizione dalla vecchia alla nuova Costituzione. Sahakyan, pur avendo dichiarato di non voler competere nelle prossime elezioni del 2020, sta ora godendo di grandi poteri senza essere stato regolarmente votato dagli elettori. L’attuale Presidente ha avuto un ruolo rilevante nel permettere al Governo di Yerevan di controllare da vicino il Karabakh, condannato a una realtà politica stagnante e priva di cambiamento.

Fig. 1 – Incontro fra Bako Sahakyan, Presidente del Nagorno Karabakh, e Nikol Pashinyan, neo Premier armeno, a Stepanakert, marzo 2019

2. LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO

La Rivoluzione di Velluto in Armenia (2018) ha rimescolato le carte in tavola anche a Stepanakert. Con la destituzione del Presidente armeno Sargsyan, perfino l’élite politica del Karabakh si è trovata disorientata e priva del suo più prezioso sostenitore. Alle elezioni del 2020 l’influenza esercitata da Yerevan sarà quindi molto inferiore rispetto a quanto accaduto negli anni passati. Sono in competizione formazioni politiche con diverse agende, alcune legate all’establishment e altre portatrici di rinnovamento. Il Movimento 88, guidato dal veterano di guerra Vitali Balasanyan, si presenta come l’unico partito in grado di “difendere la madre patria”. Libera Patria, sotto l’egida di Harutyunyan, sostiene la tradizionale élite di Stepanakert. Rimane incerto il ruolo di formazioni politiche minori, quali il Partito Democratico dell’Artsakh, il Partito Comunista dell’Artsakh e la Federazione Rivoluzionaria Armena, che risentono della scarsità di risorse amministrative. Inoltre, la candidatura di Samvel Babayan, che si era presentato come figura di spicco all’interno della nuova opposizione, è stata considerata costituzionalmente inaccettabile a causa della sua assenza dal Karabakh per più di dieci anni.

Fig. 2 – Le proteste di massa a Yerevan durante la Rivoluzione di Velluto del 2018

3. QUALI SARANNO GLI SCENARI FUTURI?

Il neo-premier armeno Nikol Pashinyan, in occasione del primo incontro ufficiale con il Presidente azero Ilham Aliyev a Vienna (marzo 2019), si era dichiarato disposto ad intraprendere un dialogo costruttivo per la risoluzione del conflitto in Karabakh. Le speranze suscitate in quell’occasione sono però state spente dai toni assunti negli ultimi mesi dal dialogo tra Baku e Yerevan. I due leader, infatti, negli ultimi giorni di novembre hanno intrapreso un botta e risposta a distanza, cercando di scaricare l’uno sull’altro le responsabilità dei principali massacri della storia dei due Paesi, quello di Khojali e quello di Sumgait. Il fatto che, ad oggi, non siano ancora arrivati a una corretta ripartizione delle responsabilità, dimostra che, nonostante le parole di conciliazione pronunciate ad inizio 2019, la riappacificazione è ancora molto lontana e ciascuno dei due Paesi guarda principalmente ai propri interessi, ma non alle proprie colpe, passate e presenti. Rimangono dunque aperti gli scenari per l’anno 2020 a Stepanakert: se da un lato l’Armenia reclama a gran voce il territorio, dall’altro il suo minore controllo sul processo elettorale del Karabakh potrebbe portare alla vittoria di un leader non disposto a seguire incondizionatamente i dettami di Yerevan. Un allentamento della presa da parte armena potrebbe avere ripercussioni sull’influenza esercitata su Stepanakert da Baku, che aspirerebbe a ottenere maggiore libertà di azione. La posta in gioco è quindi molto alta per tutti i protagonisti di questa storica contesa, e gli esiti delle elezioni potranno condizionare in modo duraturo il destino del Karabakh.