Posti fantastici e dove trovarli Yerevan, ai piedi del monte Ararat (bergamopost.it 27.07.19)

Ci sono luoghi che spesso anche chi ha girato il mondo ha colpevolmente saltato: uno di questi è sicuramente Yerevan. Se non sapete dove sia, non preoccupatevi: siete in buona compagnia. La capitale dell’Armenia è solo di recente uscita dall’anonimato, e piano piano sta sempre più facendo capolino quando si parla di viaggi originali e fuori dall’ordinario. Città tra le più antiche del pianeta, è un interessante mix tra la plurimillenaria cultura armena e i lasciti dell’occupazione sovietica del ventesimo secolo. Le tracce di quest’ultima sono le più evidenti ad un primo sguardo, sia nell’architettura che nel gusto con cui sono state realizzate statue e fontane.

La scalinata, in primis. Una visita della città non può non iniziare dalla Cascade, una scalinata monumentale realizzata in pietra calcarea, dalla cima della quale godere della vista su tutta la città. Si tratta di un monumento ancora in costruzione, che funge da ingresso per un museo di arte moderna finanziato dal mecenate americano Gerard Cafesjan, di origine armena. Al museo appartengono le statue presenti nel giardino alla base del monumento.

Non potrete poi non farvi prendere dalla vitalità della zona di piazza della Repubblica, la principale della città, che stupisce i turisti con le sue fontane, su cui si affacciano il Palazzo del Governo ed il Palazzo dei Musei, dove trovano spazio il Museo di Storia e la Galleria d’Arte di Armenia. Proseguendo per il quartiere non potrete non fermarvi in uno dei tanti bar a sorseggiare il caffè e il cognac, il brandy nazionale il cui produttore dell’epoca, all’esposizione universale di Parigi del 1900, ottenne il diritto di chiamare alla francese. Se invece voleste perdervi tra bancarelle ed immergervi in un mondo bohemien, non dovete perdere il Vernissage, il mercato all’aperto dove potete trovare artisti, pittori, scultori, venditori di tappeti, strumenti musicali e gioielli. Proseguendo nella zona centrale, vale la pena visitare la cattedrale dedicata a San Gregorio Illuminato, il più grande luogo di culto della Chiesa Apostolica Armena. Una visita alla città non può però dirsi completa senza una visita allo Tsitsernakaberd, il memoriale del genocidio del popolo armeno, inaugurato nel 1995, con l’annesso Museo e il parco della memoria. Spostandosi dal centro città possono ancora essere visitate le rovine di Katoghike Tsiranavor, la chiesa più antica della città datata fine del VI secolo, e della fortezza di Erebuni, risalente all’VIII secolo A.C., le cui rovine sono state riportate alla luce nel diciannovesimo secolo.

Le gite fuori porta. Ma Yerevan è soprattutto una splendida base per indimenticabili gite fuori porta, per visitare bellezze naturali e monasteri sotto la presenza massiccia del monte Ararat. La gita più conosciuta è quella al Tempio di Garni, un tempio in stile Ionico, ricostruito a partire dal 1880 dopo che un terremoto nel 1679 lo aveva raso al suolo. Nei pressi del tempio vi è il monastero più famoso d’Armenia, patrimonio mondiale dell’Unesco: Geghard. Costruito nel IV secolo, e ricostruito quasi un millennio più tardi a seguito della sua distruzione a causa di un’incursione araba, è parzialmente scavato nel terreno roccioso. Il suo nome in armeno significa “il monastero della lancia”, poiché vi era conservata quella che viene ritenuta essere la lancia che trafisse Gesù in croce. Si narra che a portarla fin li fosse stato l’apostolo Taddeo. Oggi si trova ad Echmiadzin, il complesso religioso dove risiede il Catholicos, la figura religiosa più importante della Chiesa armena. Le chiese della località, a poche decine di chilometri da Yerevan, assieme alle vicine rovine della città di Zvarnots, rappresentano anch’esse un’escursione veloce ma da non perdere. Ma ricordate: se avete deciso di affittare una macchina per raggiungere queste località, il tasso alcolemico tollerato è pari a zero, quindi state alla larga dal cognac!

Vai al sito

Armenia: nidi di gru e melanzane ripiene (unimodno 26.07.19)

Il treno notturno Tbilisi– Yerevan è parcheggiato solerte al binario tre. Lo staff fuma in cerchio sul marciapiede reso umido dalle piogge. Attese. Il macchinista esamina con noncuranza il biglietto, mi indica distrattamente la cuccetta: uno spazio ridotto caratterizzato da quattro brandine in legno grezzo poste a castello, qualche coperta ed un tavolino pieghevole d’acciaio. Sbadigli e chiazze di marmellata sulle lenzuola. La locomotiva scricchiola, borbotta, esita e infine schizza via con un colpo assordante e metallico.  Macina chilometri attraverso rocce, polvere ed ampie vallate che si perdono al circolo massimo.

L’Armenia: una terra ancora in grado di regalare tracce autentiche di passato, quel misto di nostalgia e freschezza che rende un viaggio avventura. Lande secche di abili mercanti, crocevia del passato.  Situato tra Russia, Turchia, Asia, Medio Oriente ed Europa, il paese risente fortemente dell’influsso culturale dei paesi vicini pur mantenendo un’identità compatta. L’Armenia si è sviluppata maggiormente attraverso l’architettura, la scultura, la religione ma anche attraverso la musica, caratterizzata dal suo strumento più tipico, il Duduk. Simile ad un flauto, ma con un suono più struggente. Il proprietario di una piccola bottega vicina al centro di Vardenis, la scorsa estate, mi ha riferito che nel campo letterario assumono ancora grande importanza le fiabe, i proverbi ed i racconti popolari, tramandati di anno in anno da numerosi nuclei famigliari. È invece Avag, 63 anni, che ora, nella calura mattutina, narra un passo “altrove” districandosi tra venti parole in inglese e tanti schizzi abbozzati. “Il nome originario dell’Armenia era Haya, divenuto poi Hayastan, traducibile come <<la terra di Haik>>. Secondo la leggenda Haik era un gran condottiero e discendente di Noè, che stando alla tradizione cristiana è antenato di tutti gli armeni. Haik si stabilì ai piedi del monte Ararat, partì poi per assistere alla costruzione della Torre di Babele. Ritornando a casa sconfisse il re assiro Nimrod presso il lago di Van, nell’attuale Turchia” racconta l’uomo guardando lontano.

Il termine Armenia fu coniato dai popoli confinanti a partire dal nome della più potente tribù presente nel territorio. Gli armeni, appunto. Fonti precristiane riportano invece la derivazione dal termine Nairi, “terra dei fiumi”, che è l’antico nome della regione montuosa del paese. Le colline corrose dal vento caucasico ipnotizzano, cullano nell’uniformità del paesaggio. Malgrado la spiritualità galoppante, non vi è alcun fiume. Tum tututum. Il cielo è effimero come il tempo. Instancabile viaggiatore.

Dal finestrino si vedono tante cose. Case grezze in legno e mattoni. Oche e mucche nella stalla costruita a due passi dall’uscio domestico. Le carcasse dei pulmini sovietici abbandonate ai lati della strada, arenaticome mostri terrestri senza anima. Famiglie in viaggio a bordo di vecchie macchine scassate colme di angurie e meloni. Le ruote anteriorifaticano a toccare terra visto il peso complessivo della ciurma. Gli oleodotti neri, anch’essi, corrono via veloci nelle vallate. Le gallerie in cui i vagoni si infilano sono buchi artigianali scavati nella roccia nuda, priva di lampioni o luminarie. Ogni ripartenza è uno sferragliare di tubi, ingranaggi, rotaie cigolanti, mani frenetiche che salutano dalla banchina. Il mezzo partito ieri notte dal cuore della vicina Georgia è composto da otto carrozze, quattro per la prima classe e quattro per la seconda. Ad attendere i passeggeri, nell’ultima carrozza, ci sono nientedimeno che due cuoche burbere e schive, intente a mangiare un piatto di melanzane ripiene.

Nel centro del tavolo svetta una moca di caffè caldo e fumante.Quando gli spazisi riducono i convenevoli cadono lenti come piume. Svetlana, una russa dalle guance rosse, imbandisce la tavola di Khorovadz e Madzun, teneri Baklava a chiudere il lauto pasto. Sulla sinistra, gonfie nuvole e sporadici raggi di sole dipingono il cielo di uno spento color grigio verde, mentre il treno scivola via nella notte che velocemente cala. Il fascino dei viaggi lenti.  Superiamo cimiteri in marmo, fabbriche abbandonate invase dai nidi della gru: animale che qui assume un forte significato migratorio legato alla diaspora del popolo armeno. Gli scompartimenti sono inondati da canzoni tradizionali trasmesse da un paio di piccole casse acustiche in legno d’ebano. Il Caucaso saluta il treno notturno con un abbagliante tramonto sul mar Nero, che funge da sfondo ad un ponte diroccato su cui mucche e tori brucano la poca erba rimasta. Ad un passo dal confine turco un giovanissimo venditore di pannocchie si aggira tra i camion fumanti, spingendo un carretto illuminato da una lampada ad olio. Passato e presente. Vecchio e nuovo. 

Vai al sito

Il ripostiglio dei ricordi di un giovane armeno. Arshile Gorky secondo Gabriella Belli ( artribune.com 25.07.19)

LA DIRETTRICE DELLA FONDAZIONE MUSEI CIVICI DI VENEZIA RIPERCORRE LA STORIA DI ARSHILE GORKY, PROTAGONISTA DELLA MOSTRA ALLESTITA A CA’ PESARO E INAUGURATA DURANTE L’OPENING DELLA SCORSA BIENNALE.

Quando nel 1920 il poco più che adolescente Vostanig Adoian, alias Arshile Gorky, arrivò nel porto di Ellis Island a New York, era come se avesse già vissuto una vita intera. Sofferenze, lutti, fughe, fame: la sua era stata un’infanzia segnata dalla violenza e i suoi occhi potevano testimoniare uno dei più cruenti episodi d’intolleranza etnica della storia. Ma nel buio di quella fanciullezza negata, era nata in lui, e continuava a resistere ‒ pur davanti alle drammatiche vicende che ne segnarono i giorni e i mesi degli anni vissuti in una Armenia sconvolta dalla guerra ‒ una certezza non negoziabile, quella di voler diventare un artista.
E questa certezza è stata il motore di tutta la sua vita, senza mai un dubbio o un inciampo. Che questa vocazione fosse già in nuce negli anni in cui con la madre viveva a Khorkom e poi lungo la strada che tra mille traversie lo porterà, via Costantinopoli, in America, è un fatto che la bellissima biografia di Matthew Spender sembra in più punti suggerire, descrivendo in lui una quasi precocissima premonizione, forse anche incoraggiata dalla madre. Che un giovane potesse in quelle tragiche circostanze immaginarsi pittore è a mio avviso una delle cose più sorprendenti della sua biografia, testimonianza di quanto l’immaginario creativo per un ragazzo poco più che adolescente potesse costituirsi come un rifugio e un protetto nascondiglio dalle orribili verità degli adulti.
E fa molto riflettere che, dentro quel ripostiglio della mente, Gorky proteggesse non gli orrori ma le storie più belle, i colori più vivi, i profumi più intensi della sua terra, del suo lago prediletto, delle luci e delle ombre di quell’Armenia di cui mai o quasi mai vorrà parlare apertamente, anche se ne canterà con la sua voce ben impostata la malinconia nelle serate trascorse con gli amici pittori newyorchesi, e ne perpetuerà l’amore nel distillato dei suoi ricordi, che, come fantasmi buoni, ancora oggi noi sentiamo aleggiare nelle sue opere più potenti.

Per l’adolescente Gorky l’immaginario creativo è un rifugio”.

Sospesa tra realtà e finzione, tra concretezza e immaginazione è stata tutta la sua vita. Raccontarsi e raccontare delle storie, sia nella vita reale che in quella artistica, è la cifra che ha segnato tutta la sua non lunga esistenza, dalla scelta di cambiare il nome trovando congeniale la fittizia parentela con lo scrittore russo Maxim Gorky al costruirsi un passato artistico, che a dir suo lo aveva visto a Parigi, all’epoca agognata meta per tutti gli artisti americani, che avevano avuto prova all’Armory Show del 1913 di quanto fertile fosse quella città per chi all’arte voleva completamente dedicarsi.
Tutta concretezza fu la sua scelta del Museo, luogo da cui trarre insegnamento, un tirocinio non dissimile da quello degli artisti rinascimentali dentro l’atelier di qualche illustre Maestro. Immaginazione fu invece ciò che Gorky creò nella piena autonomia del segno e nella preveggenza di una libertà espressiva, formale e spirituale, inimmaginabile prima di lui, quando, chiuse le porte del Museo, egli si trovò a dipingere nelle calde estati a Crooked Run Farm, a contatto della Natura, à rebours verso la casa di Khorkom.

Vai al sito

“Ho vissuto all’inferno”: la vita in un ospedale psichiatrico in Armenia (Osservatorio Balcani e Caucaso 24.07.19)

“Ho vissuto all’inferno per un anno. Vero, loro non mi picchiavano, non hanno commesso violenza fisica contro di me, ma la mia anima provava sempre dolore; ero torturata psicologicamente”.

Gayane (non è il suo vero nome) ha trascorso un anno come paziente in uno degli ospedali psichiatrici dell’Armenia. Dice di non capire ancora perché i suoi genitori abbiano deciso che non potesse più vivere a casa, ma che dovesse essere spostata in un’unità psichiatrica.

“Ero rinchiusa tra quattro mura; c’erano momenti in cui non vedevo nemmeno la luce del sole”, dice Gayane. “Mi torturavano così. Se disturbavo lo staff, c’erano giorni in cui mi lasciavano con la fame; mi davano cibo per maiali. Ho lottato per persuadere mia madre a riportarmi a casa”, dice.

La madre di Gayane dice che considerava l’ospedale un posto in cui sua figlia potesse ricevere un percorso intensivo di trattamento per la sua malattia.

“Abbiamo notato che Gayane aveva uno strano comportamento. Aveva una doppia personalità”, racconta. “Si rinchiudeva per ore nella sua stanza, parlava con i muri, o lasciava la casa e bussava alla porta dei vicini per cercarmi quando le avevo detto un’ora prima che stavo andando al lavoro”.

“Ci siamo rivolti ad uno specialista. La diagnosi è stata dolorosa – schizofrenia. All’inizio abbiamo deciso che si sarebbe sottoposta al trattamento a casa, ma sotto consiglio dello specialista l’abbiamo poi spostata in un ospedale psichiatrico”, dice lei, aggiungendo che è arrivata a questa decisione con grande difficoltà.

La madre di Gayane visitava sua figlia regolarmente durante l’anno in ospedale. Inizialmente non prendeva seriamente Gayane quando si lamentava di essere maltrattata e umiliata, credendo che la sua malattia glielo avesse fatto immaginare. Ma dopo dice di aver realizzato che sua figlia stava dicendo la verità.

“Vero, lei non era sempre conscia della situazione, ma [alla fine] è riuscita a convincermi. Abbiamo dovuto aspettare un lungo percorso di cura prima che nell’ospedale considerassero la fase di terapia conclusa e mi dessero indietro mia figlia”.

Nonostante quanto Gayane sostiene, sua madre è convinta che lei fosse soggetta anche a violenza fisica in ospedale. “Lei non vuole parlarne”, dice.

“Dopo essere ritornati a casa, nascondeva la testa tra le mani ogni volta che qualcuno faceva un movimento improvviso – come se stesse cercando di proteggersi”.

“Ancor oggi, Gayane si spaventa quando, per esempio, rompe un bicchiere; diventa improvvisamente pallida e mi guarda terrificata”, racconta la madre.

Nadya Vardanyan, direttrice del Centro per la salute mentale di Gyumri, specifica che i pazienti sono accettati all’ospedale solo con una richiesta scritta dal paziente o dal loro tutore legale, che dichiari che la persona vuole sottoporsi alle cure in ospedale e prendere medicazioni psichiatriche.

La dottoressa Vardayan specifica che se in 72 ore il paziente non acconsente volontariamente ad essere trattato e la sua condizione pone in pericolo lui stesso o quelli vicino a lui, l’ospedale è obbligato a rivolgersi al tribunale per prendere una decisione.

Secondo il ministero della Salute armeno, ci sono circa 54mila persone con malattie mentali in Armenia. Nonostante tutti questi siano sotto la supervisione di un dottore, molti cercano di evitare di ricevere le cure in un ospedale psichiatrico: alcuni temono di rivelare i problemi di salute a causa della forte stigmatizzazione sociale; altri sono semplicemente terrorizzati dall’idea di vivere in un istituto.

Un rapporto del 2018 del Difensore dei Diritti Umani dell’Armenia sui diritti dei pazienti negli ospedali psichiatrici sottolinea che queste paure non sono infondate. Il rapporto di 112 pagine ha riscontrato che le condizioni negli ospedali psichiatrici armeni sono scadenti e che i diritti umani dei pazienti vengono spesso violati.

Il rapporto è il risultato di una serie di ispezioni negli istituti psichiatrici condotte dal Difensore dei Diritti Umani durante il 2017. Gli ispettori hanno scoperto una serie di violazioni, tra cui pazienti legati e picchiati. Hanno scoperto inoltre che molti istituti usano medicine per calmare i pazienti senza l’approvazione dal tribunale. In molti istituti psichiatrici, gli ispettori hanno detto che non vi erano stanze separate in cui i pazienti venivano “limitati” quando avevano atteggiamenti pericolosi e che quindi il processo era svolto di fronte ad altri pazienti.

Il rapporto ha anche sottolineato che sono stati rinvenuti medicinali scaduti nelle farmacie degli ospedali e nelle sale degli interventi delle cliniche di Nubarashen, Gyumri, Lori e Vardenis.

In alcuni casi, gli ispettori hanno trovato pazienti che acquistavano medicinali da farmacie nelle vicinanze senza supervisione.

Samvel Khudoyan, a capo del dipartimento di psicologia applicata all’Università statale di Pedagogia, insiste sul fatto che le pratiche adottate dagli istituti psichiatrici armeni “non sono sbagliate”. Khudoyan ha assistito a seminari all’estero e ha visitato dei centri per confrontare i metodi usati negli ospedali psichiatrici armeni con quelli usati in altri paesi. “Noi seguiamo l’esperienza europea; vengono adottate le migliori pratiche”, ha detto. “Il problema è che queste [pratiche] sono violate ogni tanto. Anche le condizioni dell’edificio dell’ospedale sono  molto rilevanti, è come se i muri avessero un impatto sul paziente. Se si ha un ospedale dove le pareti ricordano quelle di una colonia penale, il paziente ha l’impressione di essere imprigionato”, dice Khudonyan.

La direttrice del Centro per la salute mentale di Gyumri, Nadya Vardanyan, concorda con Khudonyan. Dice che stanno cercando di fare il meglio che possono con limitati mezzi finanziari. “Il nostro edificio non è stato originariamente progettato come ospedale psichiatrico, perciò ci sono delle inconvenienze: le stanze sono piccole, i letti devono essere messi fianco a fianco, ma noi non limitiamo mai la libertà dei nostri pazienti. Possono uscire dall’edificio e fare una passeggiata [sul suolo dell’ospedale]”, sottolinea Vardanyan.

Il Centro per la salute mentale di Gyumri era uno degli istituti criticati nel rapporto del Difensore dei Diritti Umani. Il rapporto ha sottolineato che il centro era sovraffollato, che i pazienti potevano lavarsi solo ogni 10 giorni, che mancavano tavoli e sedie nella sala da pranzo, e che non c’erano telefoni. “Sono d’accordo su alcuni punti”, dice Varanyan, rispondendo al rapporto. “Si, un po’ di tempo fa l’edificio era sovraffollato; avevamo più di 60 pazienti. Ma è sbagliato dire, per esempio, che non abbiamo i mobili adeguati nella sala da pranzo”.

Ci sono attualmente 42 pazienti al Centro per la salute mentale di Gyumri. Nel rapporto vi è anche scritto che a Gyumri venivano utilizzate cinture di cuoio per bloccare fisicamente i pazienti e che questi ultimi venivano picchiati. “Noi non usiamo camice di forza”, dice Vardanyan. “Se riteniamo che un paziente sia fuori controllo, cerchiamo di calmarlo con le medicine. E non ci sono maltrattamenti”.

Il rapporto dice anche che è stato trovato nel Centro anche un medicinale scaduto. Secondo Vardanyan il budget dell’ospedale è così limitato che non possono permettersi di comprare abbastanza medicine da lasciare che una singola pillola duri abbastanza da scadere.

In risposta allo sconvolgente rapporto pubblico del Difensore dei Diritti Umani sugli ospedali psichiatrici, il ministro della Salute ha ordinato che lavori di ristrutturazione venissero avviati in alcuni istituti psichiatrici. Letti, mobili, lenzuola, prodotti igienici, in aggiunta ad appropriati strumenti di controllo fisico sono stati acquistati così come altri rifornimenti necessari.

Sono state inoltre proposte varie bozze di legge in relazione ai metodi di cura psichiatrica utilizzati e ai servizi per persone con disturbi ed è stata aumentata la cooperazione con il mondo associativo per provare a migliorare la situazione.

Vai al sito

Armenia: hai 30 anni? Troppi per aver diritto ad un lavoro (Osservatorio Balcani E Caucaso 19.07.19)

In Armenia la discriminazione sul lavoro basata sull’età è un problema serio, come dimostrano le testimonianze di Karine, Karen e Anna. Una proposta di legge che cambierebbe la situazione è però in fase di discussione in parlamento

19/07/2019 –  Armine Avetysian Yerevan

Nella Repubblica di Armenia si sta discutendo la proposta per cui i datori di lavoro non avranno più il diritto di specificare restrizioni di età nelle offerte di lavoro, in quanto verrà proibito per legge.

A giugno, un progetto di legge è stato discusso e adottato in prima lettura dall’Assemblea Nazionale che, se adottato in via definitiva, modificherà il Codice del lavoro dell’Armenia, prevedendo che l’età dell’impiegato non può essere un limite legale o una ragione per non firmare un contratto di lavoro eccetto che per specifici casi regolati per legge. 

Karine

Karine, 40 anni, ha lavorato per 5 anni come addetta alle pulizie in un salone di bellezza a Yerevan. Dice di avere dovuto fare quel lavoro in quanto non aveva altre alternative.

“Sarei dovuta diventare sociologa, ma ho abbandonato gli studi. Ero al mio secondo anno in università quando ho incontrato il mio futuro marito, mi sono innamorata, sposata, sono rimasta incinta subito e ho dovuto sospendere gli studi. Poi non sono più tornata all’università, anche se ho sempre pensato che l’avrei finita più avanti”, racconta Karine.

All’età di 25 anni Karine era già madre di tre figli. All’inizio le piaceva stare a casa con i figli, vivevano grazie al salario del marito ma quest’ultimo ha poi avuto problemi alla schiena e non ha più potuto fare lavori pesanti. Karine ha allora iniziato a cercare un lavoro.

“Avevo solo 35 anni quando ho cominciato a cercare un lavoro. Pensavo, per esempio, che avrei trovato un lavoro come commessa, ma dovunque mi candidassi, ricevevo rifiuti: dicevano che ero troppo vecchia. Roba da non credere. guardano in faccia una donna di 35 anni e le dicono che è vecchia, che non è adatta al lavoro. Mi sono candidata in più di 12 posti e ho sentito le stesse risposte. Alla fine sono dovuta andare a fare la donna della pulizie. Insomma, avevamo bisogno di soldi”, dice la donna.

Karen

Karen è originario di Gyumri, ma vive a Yerevan. Ha 38 anni ed è un economista di professione. Ha lavorato in un’azienda privata per circa 5 anni. Sono già passati due anni da quando ha perso il lavoro e da allora non è riuscito a trovare un’occupazione nel suo campo. Oggi lavora come tassista.

“Quando l’azienda in cui lavoravo ha chiuso, ero più che sicuro che avrei trovato un lavoro in un’altra azienda molto velocemente, ma non è successo. Ovunque mi candidassi, dicevano che rispettavano le mie competenze e la mia esperienza, ma che avevano bisogno di una squadra più giovane”, ricorda Karen.

Karen non ha trascorso molto tempo alla ricerca di un lavoro da dipendente. Racconta di aver compreso la realtà dei fatti molto velocemente ed ha allora deciso di iniziare il lavoro di tassista. “Non potevo perdere tempo, ho due bambini, dovevo nutrire la mia famiglia. Ho registrato la mia macchina come taxi e ho cominciato a lavorare. Non mi lamento ora, viviamo normalmente. È solo un peccato non lavorare nel mio campo”, racconta Karen.

Anna

Anna, 35 anni, risiede a Vanadzor, Armenia settentrionale. È da diversi anni che cerca un lavoro. È laureata in storia. “Dopo essermi laureata non riuscivo a trovare un lavoro in nessun scuola. Ho provato a candidarmi per la posizione vacante di insegnante di storia in parecchi posti, ma non sono stata presa da nessuna parte. Sono stata rifiutata per varie ragioni. Di fatto sino ad alcuni anni fa era impossibile ottenere un lavoro in Armenia senza nessuna “conoscenza”, e io non avevo questa “conoscenza”, dice Anna.

Un anno fa ha avuto luogo in Armenia una rivoluzione non-violenta, denominata la rivoluzione di velluto, che ha implicato grandi cambiamenti nella classe dirigente. Da quel giorno, Anna era convinta che sarebbe finalmente riuscita a trovare il lavoro desiderato perché le cose erano cambiate.

“Ho partecipato a un concorso di lavoro e non l’ho ottenuto; come storica avevo bisogno di un po’ di preparazione in più, dovevo rinfrescare la memoria. Ero così stanca che ho deciso di abbandonare il sogno di diventare un’insegnante di storia e ho cercato un altro lavoro. Si è rivelato impossibile”, dice Anna.

Anna ha seguito vari annunci di impiego ma è ancora disoccupata. “Non ricordo nemmeno dove mi sono candidata. Le mie richieste di lavoro, da commessa a maestra di asilo, sono state rifiutate. In tutti i posti insistevano sul fatto che sono troppo vecchia”.

Ogni tipo di discriminazione dovrebbe essere proibita in Armenia

Nel 1995, l’Armenia ha ratificato la Convenzione di Ginevra adottata nel 1958 dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro, che proibisce la discriminazione di assunzione basata sull’età. Anche la Costituzione della Repubblica di Armenia vieta la discriminazione. Secondo l’articolo 29 della Costituzione, la discriminazione basata su genere, razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione, visione del mondo, visione politica, essere parte di una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età o altre circostanze personali o sociali, è proibita. Quest’anno a giugno l’argomento è stato anche trattato dell’Assemblea Nazionale; poi il progetto di legge summenzionato è stato adottato in prima lettura.

L’autore del progetto di legge è il Deputato Tigran Urikhanyan del partito Armenia Prospera. Il giorno della discussione Heriknaz Tigranyan, vice-presidente della Commissione permanente sulla sanità e gli affari sociali dell’Assemblea Nazionale, nel suo intervento ha sottolineato che il governo ha dato una valutazione negativa sul progetto di legge, ma durante la discussione in sede di commissione a Tigran Urikhanyan è stato suggerito di aggiornare la bozza di legge e definire la descrizione di discriminazione sulla base di quanto già contenuto nella Costituzione.

“La proibizione della discriminazione basata solo sull’età non è stata considerata sufficiente, vi è il bisogno di una formulazione più esauriente, per questo abbiamo aggiunto altre specifiche”, ha dichiarato Tigranyan, sottolineando che al primo firmatario del progetto di legge verrà proposto di sottoporlo a revisione durante il periodo tra la prima e la seconda lettura del documento, inserendo che negli annunci di lavoro il datore di lavoro non potrà indicare quelle qualità che non sono condizionate dalle qualifiche professionali dell’impiegato o che non hanno a che fare con la sua preparazione, ad eccezione dei casi dove quelle restrizioni emergono dalla natura specifica del lavoro.

Al momento, la versione aggiornata della progetto di legge si trova sul sito dell’Assemblea Nazionale  in stato di seconda lettura.

Vai al sito

Armenia: premier, Forze armate dovrebbero essere più preparate della regione (Agenzianova 19.07.19)

Erevan, 19 lug 12:48 – (Agenzia Nova) – Le Forze armate armene dovrebbero essere le più preparate della regione. Lo ha dichiarato il primo ministro del paese caucasico, Nikol Pashinyan. “Anche lo studio fa parte del servizio militare: il nostro obiettivo è quello di spingere per far sfruttare al meglio questo periodo di preparazione, in modo che i soldati possano terminare il loro addestramento con un bagaglio culturale ancora maggiore rispetto a quello con cui hanno iniziato”, ha detto il premier durante un incontro con gli ufficiali e i cadetti delle Forze armate, a cui hanno preso parte anche il ministro della Difesa, Davit Tonoyan, e il capo di Stato maggiore delle Forze armate armene, Artak Davtyan. (Res)

DIARIO DAL LIBANO di Pietro Kuciukian (Gariwo 17.07.19)

Una riflessione dal Libano del Console onorario d’Armenia in Italia e Cofondatore di Gariwo Pietro Kuciukian, sulla nascita del primo Giardino dei Giusti nel Paese, nel villaggio di Kfarnabrakh, il 29 giugno 2019.

Un miracolo quello della nascita del primo Giardino dei Giusti in Libano, a Kfarnabrakh, un villaggio a 45 chilometri da Beirut che non raggiunge i diecimila abitanti, ma che ospita mille e cinquecento rifugiati siriani. Una volontà comune ha unito Gariwo e l’associazione libanese Annas Linnas, nata nel 2009 per opera di Padre Abdo Raad con l’obiettivo di favorire la convivenza tra la popolazione locale e i rifugiati. Bene comune, solidarietà, accoglienza, pace, voci flebili in un mondo che sta arretrando su traguardi che consideravamo acquisiti. Rilanciare la memoria del bene come via di riconciliazione e smentita effettuale dell’odio, qui, in Libano – crocevia di culture e di sofferenze, dove i rifugiati siriani hanno rinnovato memorie di guerra e di miseria a una popolazione che vive l’“assoluto presente”, perché non vuole o non può guardare indietro non avendo più spazio per il dolore -, è di fatto un miracolo. Alberi di olivo, simboli di pace, nove nomi di Giusti di ieri e di oggi incisi nella pietra bianca del Libano, appartenenti a etnie, religioni e credi diversi, adornano un Giardino che vuole essere luogo di incontro e di dialogo, che vuole rendere visibile l’invisibile e dare speranza, soprattutto ai bambini.

Prima di partire per Beirut ho visto il film Cafarnao – Caos e miracoli della regista libanese Nadine Labaki. Zain, il bambino protagonista, sopravvive come tante altre migliaia di coetanei, nei nuovi ghetti delle periferie cittadine, senza scuola, senza gioco, senza futuro. Eppure, come osserva Filippo Bocci commentando il film, quella di Zain è la voce di una speranza ostinata, il grido alto della coscienza sbattuta in faccia a un mondo avvitato nella disumana e irreversibile logica della miseria; aggiungerei soprattutto nella logica dell’ingiustizia.

Nel Giardino Educativo Sensoriale che sorge sulla collina di Kfarnabrakh nella catena del Monte Libano – scuola e spazio aperto per la meditazione individuale e per la discussione collettiva a contatto con la natura oggi arricchito dal Giardino dei Giusti dell’Umanità – sono proprio la popolazione locale e i rifugiati a vincere il caos e a compiere il miracolo di poter restituire ai bambini il loro tempo, cambiare la loro vita. “Si è pensato a un Giardino perché capire e difendere la Natura, per assicurare una vita migliore per tutti, è un’aspirazione comune a gruppi etnici, religioni, nazionalità e classi di età diversi. Amare la Natura è una preghiera a Dio, poiché tutte le religioni riconoscono il proprio Dio come creatore della Natura”, ha spiegato Padre Abdo Raad. Il Libano è una terra difficile, carica di storia e cultura, ferita da guerre e conflitti. È una realtà multietnica segnata da rancori non sopiti, dove il riconoscimento dell’altro, come condizione di ogni relazione, non viene esercitato, perché su esso prevale la preoccupazione di autopreservarsi in una realtà complessa e politicamente fragile.

Per questo viaggio in Libano, ho dovuto rifare un nuovo passaporto, il mio vecchio portava il timbro di uno Stato non riconosciuto dalle autorità libanesi. Sceso dall’aereo, superati i controlli, mi sono trovato immerso in un flusso continuo di automobili, dai grandi SUV, Ferrari, Porsche, alle utilitarie in pessime condizioni. Pochi i semafori, rarissime le strisce pedonali di attraversamento. Per raggiungere casa di un amico bisogna chiedere ai passanti, ai negozianti: le vie raramente hanno un nome e quasi mai i numeri civici. Ingorghi ovunque e spazzatura onnipresente. Non ho visto trasporti pubblici. Ogni edificio possiede il proprio generatore elettrico, poiché la corrente spesso manca. Bourj Hammoud è il grande quartiere armeno che risale al tempo del genocidio: un ammasso di casupole modeste divenuto suk. Erano 250.000 gli abitanti armeni di Bourj Hammoud, sono rimasti in 50.000. I figli e i nipoti dei sopravvissuti sono emigrati in Canada e negli Stai Uniti.

Il Paese è diviso in clan di fedi diverse: maroniti, sunniti, sciiti, drusi, armeni, assiri, hezbollah, palestinesi. Fra loro, vi sono rapporti difficili dopo la guerra fratricida che ha insanguinato persone, comunità, rioni, menti. La linea verde di separazione, ora scomparsa, è presente nei cuori e nelle abitudini delle persone. In Libano si parlano tutte le lingue: inizio una conversazione in armeno, la continuo in italiano, poi passo al francese e all’inglese. Mi viene risposto in arabo. Quasi la metà della popolazione è costituita da immigrati clandestini ai quali, in alcune aree e paesi del retroterra, è imposto il coprifuoco. Dopo le 20 possono circolare solo con un permesso. Pochi sono inseriti nella società, i più non sono riconosciuti e lavorano di nascosto; accolti da alcune comunità locali. Ma in genere vengono lasciati a sé stessi e malvisti dai movimenti politici confessionali libanesi spesso ostili. Non si sa quanti siano. Il censimento è temuto perché il risultato potrebbe rompere la tregua fra islamici e cristiani e minare drammaticamente la Costituzione, che prevede un presidente cristiano, un primo ministro sunnita e un presidente del Parlamento sciita. La grande natalità degli islamici preoccupa i cristiani di tutte le fedi.

Mentre cerco affannosamente di attraversare la strada senza farmi travolgere dal flusso ininterrotto delle macchine, penso a quegli europei che osano lamentarsi dei pochi immigrati di casa loro. Ho appena parlato con una giovane coppia siriana con cinque bambini che si preparava a passare la notte sotto un alberello della corniche, la strada elegante che costeggia il mare. Accanto a quartieri ricchi, anzi ricchissimi, opulenti, ristoranti costosi, alberghi da mille e una notte e grattacieli sedi di un’infinità di banche e di compagnie di assicurazione. Al porto navi lussuose dondolano al ritmo lieve delle onde. I giovani rampolli fanno a gara per mettersi in mostra nei modi più sfacciati, mentre chi non ha denaro non conta nulla, anzi, non esiste.

Il Libano così descritto sembra un inferno, una follia, ma non lo è: ho incontrato persone innamorate della vita, vissuta al massimo dell’intensità, persone ironiche, critiche e lucide nelle loro analisi, persone che conoscono e amano il loro Paese. Il loro dire è amaro, paventano il prossimo orrore, ma non ci vogliono pensare. Non ho visto libanesi depressi, malgrado la fragilità della pace e il ricordo di lotte e di odi fratricidi. Forse proprio per questo, non c’è spazio per l’introversione, il dolore dell’anima, la “saudade”. Per alcuni libanesi è quasi un dovere detestare qualche gruppo sociale, qualche religione, qualche etnia. Ma il Libano è anche un Paese di gente che ha un cuore. Ne ho avuto la dimostrazione a Kfarnabrakhdove vivono drusi e cristiani e ogni famiglia ospita qualche immigrato. Ai piedi della nuova struttura educativa – che diverrà centro di convivenza, scuola e rifugio -, gli olivi che portano le targhe dei Giusti costituiscono un messaggio: aprire insieme la pagina della memoria del bene per poter guardare al futuro.

La cerimonia d’inaugurazione del Giardino ha visto una presenza multiconfessionale molto folta: famiglie di cristiani, islamici, drusi, venute da molti luoghi del Libano. Rappresentanti delle istituzioni laiche dei villaggi dello Chouf, intellettuali, l’ambasciatore d’Armenia Vahagn Atabekian, il consigliere Roberta Di Lecce dell’Ambasciata italiana a Beirut, il Vescovo melchita, il Mufti druso, il sindaco del villaggio, l’assessore alla cultura e i rappresentanti dell’Associazione Annas Linnas e dell’associazione svizzera Elias. Maria Dalla Francesca, che segue il progetto della scuola, ha lavorato con passione preparando con i bambini dei piccoli sacchetti di semi che ha donato ai partecipanti. Non è mancato il gioco a premi. Inevitabile commuoversi quando una ragazzina ha preso il microfono per raccontare: una voce che ha raggiunto alte tonalità senza perdere dolcezza e armonia. Un dono che ha accompagnato il nostro passaggio sino all’entrata del Giardino dei Giusti dell’Umanità.

Diventerà foresta? Spezzerà le catene dell’odio? Non ci saranno più parole impronunciabili, timbri inaccettabili? I Giusti alle volte compiono miracoli: fanno capire che il principio di umanità è universale, non esclude.

È stata una giornata trascorsa tra amici, in armonia. Anche se ho scritto di un altro Libano, diverso da quello di Kfarnabrakh.

Armenia-Usa: presidente parlamento incontra Nancy Pelosi, focus su rapporti bilaterali (Agenzia nova 17.07.19)

Erevan, 17 lug 15:48 – (Agenzia Nova) – Il presidente del parlamento di Erevan, Ararat Mirzoyan, ha incontrato l’omologa della Camera dei rappresentanti statunitense, Nancy Pelosi, a margine del Forum dei leader a Washington. Lo riferisce l’agenzia “Armenpress”, citando fonti del servizio stampa del parlamento armeno. Durante l’incontro, incentrato sulla discussione dei legami tra Armenia e Stati Uniti, Mirzoyan ha descritto gli ultimi sviluppi che hanno avuto luogo nel paese caucasico, ringraziando la presidente della Camera dei rappresentanti statunitense per aver investito molto nei rapporti tra Washington e Erevan nel corso degli ultimi anni.
(Res)

L’Azerbaigian distrugge siti archeologici di valore inestimabile, e l’Unesco applaude (Linkiesta 11.07.19)

Sarebbe stato bello se, tra i nuovi 29 siti aggiunti alla lista dell’Unesco, ci fosse stato quello di Culfa (noto anche come Djulfa), luogo magico che vanta la più grande concentrazione di croci di pietra medievali – a testimonianza dell’antica presenza nell’area di una “florida comunità di cristiani armeni”, come si scrive qui. Sarebbe stato bello, appunto, ma non è accaduto. Perché il sito di Culfa è stato raso al suolo e distrutto senza pietà dal governo dell’Azerbaijan, che ha ospitato quest’anno i lavori dell’Unesco.

Cose che succedono, certo, quando un Paese classificato come “non libero” porta avanti una politica di rimozione culturale nei confronti degli armeni, eliminando, nel silenzio generale, ogni traccia storica e archeologica del loro passato. Tutti si indignano per i Buddha distrutti dai Talebani. Tutti inorridiscono per l’Isis che fa a pezzi i siti romani. E perché nessuno ricorda i circa 100 soldati azeri che, armati di mazze, hanno abbattuto le antiche lapidi del cimitero medievale armeno di Culfa gettando i detriti e le polveri nel fiume vicino?

Secondo il governo azero questo episodio non sarebbe mai avvenuto. Le denunce sarebbero fasulle e le rivendicazioni politicizzate. Il sito di Culfa non esiste più per la semplice ragione che, spiega, non è mai esistito. Del resto, come si è scritto qui, dal 1997 al 2006 in quell’area (il Nakhcivan) sarebbe stata fatta piazza pulita di 89 chiese medievali – tra cui la cattedrale di Agulis, dedicata a San Tommaso, una delle più antiche del mondo – 5.840 croci di pietra (metà erano proprio a Culfa) e 22mila pietre tombali armene. O no? Secondo la linea ufficiale nessuna di queste cose è mai esistita.

Ora: nessuno spera che il resto del mondo, già abbastanza impegnato per conto suo, si preoccupi anche di queste cose. Però l’Unesco dovrebbe. Anche se, si insinua sempre nello stesso articolo, la donazione azera di cinque milioni di dollari (dopo che Washington ha tagliato i fondi nel 2013 all’istituto) potrebbe aiutare a dimenticare.

All’origine di questa persecuzione culturale ci sarebbe, secondo alcuni, una persecuzione etnica. Con il crollo dell’Unione Sovietica, all’inizio degli anni ’90, la regione del Nakhichevan proclamò l’indipendenza ma rimase, come exclave, parte del territorio azero. La popolazione armena, da quel momento, comincia a diminuire fino a raggiungere quota zero, anche alla luce dell’espulsione forzata decisa, in un’ottica di scambio, durante la guerra con l’Armenia sulla secessione del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaigian.

È in quel clima bellico che appare, nella propaganda governativa, la figura dell’armeno come nemico comune dell’Azerbaigian. Secondo la propaganda, agirebbe attraverso la sua potente lobby per minare l’unità territoriale azera, rivendicando un passato archeologico su alcune aree del Paese. Questa posizione spiega la linea durissima dell’Azerbaigian sulla questione: negare, negare e negare, questo è il diktat. E quando non si può negare, distruggere.

Vai al sito

Libri da… Azerbaigian: Akram Aylisli (libri.icrewplay 12.07.19)

È quello che è successo a Akram Najaf oglu Naibov, l’autore azero di cui voglio parlarti oggi. Conosciuto con lo pseudonimo di Akram Aylisli, è uno dei più famosi e controversi scrittori dell’Azerbaigian, visceralmente amato dai suoi connazionali fino all’uscita del suo libro Sogni di Pietra, nel 2013.

AzerbaigianMa prima, una breve presentazione dell’Azerbaigian. Chiamato ufficialmente Repubblica dell’Azerbaigian, si affaccia sul Mar Caspio e confina con Russia, Georgia, Armenia e Iran. Per la sua natura di crocevia di culture, questa zona del Caucaso è da sempre teatro di scontri. In particolare, quello tra armeni e azeri arriva fino ai giorni nostri, con la guerra del Nagorno-Karabakh, enclave situata all’interno dell’Azerbaigian ma abitata da una maggioranza armena. Dopo la tregua firmata nel 1994 il conflitto è stato congelato ma, ancora oggi, non è stato risolto.

Akram Najaf oglu Naibov

Akram Aylisli nasce nel 1937 in un villaggio situato al confine con Armenia e Iran, in quella che allora era la parte sovietica dell’Azerbaigian e oggi è l’exclave azera del Naxçıvan. Studia a Mosca e diventa un poeta, scrittore e drammaturgo. Presto i suoi scritti raggiungono la popolarità in patria: protagonista dei suoi romanzi è la bucolica vita del suo villaggio natio, un tema molto apprezzato anche in Unione Sovietica.

La sua carriera decolla sia nel mondo letterario (sue sono le traduzioni in azero di grandi autori stranieri come Gabriel Garcia Marquez o Anton Chekhov) sia in quello cinematografico. In Azerbaigian, viene insignito del titolo di Scrittore del Popolo e gli vengono consegnati i due più importanti riconoscimenti dello Stato: le medaglie Shokhrat (Onore) e Istiglal (Indipendenza). Nel 2005 viene eletto nel parlamento azero. 

Nel 2007 finisce di scrivere Da yuxular (Sogni di Pietra, edito in Italia da Guerini e Associati) ma lo tiene in un cassetto. Sa che la sua pubblicazione scatenerà un putiferio tra i suoi connazionali. Nel 2012, a seguito di un increscioso episodio di violenza, l’ennesimo tra azeri e armeni, decide di pubblicarlo sulla rivista letteraria russa Druzba Narodov (Amicizia tra i popoli). E da questo momento per lui e la sua famiglia la vita cambia completamente. I suoi libri vengono bruciati, gli viene tolta la pensione e ogni onorificenza ricevuta. Viene insultato, sbeffeggiato, dichiarato traditore dai sui connazionali e apostata dal Gran Muftì. Viene anche messa una taglia sulla sua testa: tredicimila dollari per chi fosse riuscito a mozzargli un orecchio – ritirata solo dopo insistenti pressioni internazionali. Sua moglie e suo figlio perdono il lavoro. Ma nonostante questo e l’invito a espatriare, Akram Aylisli vive ancora nella sua casa a Baku, la capitale dell’Azerbaigian. Simbolo di una libertà di espressione che non si piega all’odio.

Sogni di Pietra

Sogni di Pietra di Akram AylisliCome si legge nella prefazione di Gian Antonio Stella, il libro “tenta di capire e di spiegare le ragioni dell’’altro. Di più: cerca di riconoscere, con onestà, i torti della propria parte.
Il pretesto narrativo è il ricovero in gravi condizioni di un noto attore azero che aveva osato difendere un anziano armeno massacrato da un gruppo di ragazzi azeri a Baku. Da qui, mescolando più piani temporali insieme, si racconta del lungo conflitto, purtroppo ancora in corso, tra armeni e azeri.

Sinossi

Baku. Sera di dicembre: un ferito giunge in ospedale. È un noto attore azero che ha difeso un vecchio armeno da un linciaggio ed è stato per questo massacrato da fanatici azeri. Nel racconto si intersecano due tragedie: lo scontro etnico/religioso fra armeni e azeri e il mondo violento e pericoloso che si è creato dopo la fine dell’impero sovietico.
I pogrom contro gli armeni, le aggressioni in strada, la corruzione dei nuovi padroni e il servilismo e l’opportunismo dei sudditi si intrecciano, senza sovrapporsi al dramma del suo protagonista, che vive questo mondo come estraneo ai suoi principi morali. Il suo spirito anela alla città sognata di Ajlis. Qui, pur dopo i massacri del 1919, fu possibile ricostruire l’armonia di musulmani e cristiani, azeri e armeni. Ma anche lì il tempo della tolleranza sta giungendo alla fine.

Vai al sito