Udine ricorda l’eccidio degli Armeni (Messaggeroveneto.it 25.04.16)

La comunità armena, nel parco di via III Novembre a Udine, ha commemorato i 104 morti nel genocidio di un popolo strappato dalle proprie abitazioni e condotto a una mattanza spaventosa, inspiegabile se non alla luce dello spietato disegno politico attuato dal governo turco di allora. (Videoproduzioni Petrussi)

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Dal Genocidio armeno alla Diaspora dei cristiani d’Oriente. (Artciolo21 25.04.19)

C’è una lunga scia rossa che attraversa oltre un secolo nella storia della comunità cristiana d’Oriente. Una sorta di Diaspora dei Cristiani, disseminata anche di persecuzioni, massacri, lunghe prigionie e distruzioni di chiese e santuari, oltre che di espropriazioni ed esili forzati, di fughe per la vita. Ha preso spesso le sembianze di una “guerra di religione”, soprattutto tra islamici, predominanti, e cristiani, vittime designate. Ma in realtà si è tratta di una lotta senza quartiere e non convenzionale per la supremazia economica, culturale e territoriale, che si ammanta di ideologizzazioni religiose, per coinvolgere come “braccia armate” proprio quelle fasce sociali più deboli o più sensibili ad essere strumentalizzate dai potentati fondamentalisti islamici del Medio ed Estremo Oriente.

Il tutto inizia in Turchia tra il 23 e il 24 Aprile del 1915 e culmina, almeno per ora, nelle stragi in Sri Lanka la domenica di Pasqua di questo 21 Aprile.

Oltre un secolo fa, mentre l’Europa si dilaniava nella Prima Guerra Mondiale, in Turchia il Movimento dei Giovani Turchi, guidati dal futuro “padre della patria” Mustafa Kemal Ataturk, disarcionava del tutto il regime dispotico di quello che per lungo tempo era stato l’Impero Ottomano. Ma a caro prezzo per la comunità cristiana armena e non solo. Il “Medz Yeghern, ovvero il “Grande Male” si perpetrò fino al 1917 con il massacro scientifico della popolazione cristiana (siro cattolici, siro ortodossi, assiri, caldei e greci), ma soprattutto di 1,5 milioni di armeni su una popolazione di 2 milioni, presenti su quei territori da Tremila anni! Allo sterminio presero parte, secondo documenti storici, anche ufficiali dell’Impero prussiano, alleato della Turchia nella guerra.

Dovettero passare 70 anni perché la comunità internazionale lo riconoscesse questo genocidio: nel 1985, con una delibera della Sottocommissione dei diritti umani dell’Onu, e poi nel 1987 con il Parlamento Europeo.Condanna che l’Europarlamento ha ribadito con una risoluzione del 16 aprile 2015, nella quale s’invitavano “l’Armenia e la Turchia ad utilizzare il Centenario del genocidio armeno per rinnovare le relazioni diplomatiche, aprire i confini e spianare la strada per l’integrazione economica”, sottolineando la necessità che la Turchia ammettesse “il genocidio armeno”.

Tra i maggiori paesi che riconoscono il genocidio, quasi una trentina, ci sono l’Italia (Risoluzione votata dalla Camera nel Novembre 2000), e la Francia, dove vive la comunità armena più numerosa con 350mila persone ed è stato introdotto il reato di “negazionismo” come per la Shoah ebraica. Il primo stato al mondo a riconoscere l’Olocausto degli armeni, nel 1965, fu comunque l’Uruguay. Nel 2015, Papa Francesco durante le celebrazioni del Centenario a Erevan, capitale dell’Armenia, definì il massacro come “il primo genocidio del XX secolo” scatenando l’ira della Turchia, dove l’utilizzo del termine è punito con il carcere in base all’articolo 301 del codice penale che prevede il reato di “vilipendio dell’identità turca”. A giugno 2018 il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, anche a seguito di una rinnovata alleanza geopolitica con la Turchia (nemica della Siria dilaniata dalla guerra con l’ISIS, a sua volta aiutata dalle truppe degli Indipendentisti Curdi), fece invece slittare “sine die” il dibattito alla Knesset sul riconoscimento del genocidio.

Ambigua la posizione degli Stati Uniti, dove il Congresso approvò nel marzo 2010 una risoluzione che chiedeva al presidente Obama il riconoscimento di questo Olocausto; ma lui non mantenne la sua promessa elettorale del 2008, quando si schierò per il riconoscimento ufficiale del “genocidio armeno”. Nel saluto inviato agli Armeni per il Centenario, ha invece optato per parole più diplomatiche pur di non offendere la Turchia “alleato privilegiato” e il suo presidente-dittatore Erdogan, che ha fustigato il discorso di Papa Francesco sul genocidio e che si è detto pronto ad espellere gli ultimi 100 mila armeni ancora rimasti sul suolo turco. Anche per l’attuale presidente USA, Donald Trump, il termine “genocidio” non sembra appropriato; per lui si trattò solo di “atrocità di massa”.

Diversamente, invece, si sono comportati i tedeschi, nonostante abbiano sul loro territorio 4 milioni di abitanti di origine turca. Sempre nel 2015, Angela Merkel dichiarò: “Oggi la Germania considera il massacro di 100 anni fa come un genocidio”. Ancora oltre andò l’allora Presidente della Repubblica, Joachim Gauck, che riconobbe anche la “corresponsabilità” tedesca. “Dobbiamo indagare nella nostra memoria”, disse Gauck. E in merito ai consiglieri tedeschi che all’epoca aiutarono a pianificare le deportazioni, affermò: “La Germania ha avuto una responsabilità condivisa, forse anche una colpa condivisa, per il genocidio degli Armeni”. La strage degli Armeni in effetti fu una specie di “prova generale” delle tecniche di sterminio, poi attuate dai nazisti, cui si ispirò lo stesso Hitler, come dichiarò pubblicamente.

Da allora, nei libri ufficiali di storia è scritto solo di turchi massacrati dagli armeni e ancora oggi parlare di genocidio equivale ad un “insulto all’identità turca”, secondo l’articolo 301 del codice penale turco. Si può essere incarcerati, perseguitati, come lo scrittore Premio Nobel Orhan Pamuk, o addirittura uccisi, come successe il 19 gennaio del 2007, al giornalista armeno Hrant Dink, fondatore della rivista bilingue turco-armena Agos, assassinato a Istanbul per aver parlato e scritto pubblicamente del genocidio.

Il 10 aprile la Camera dei Deputati ha approvato, con 382 voti a favore, 43 astenuti (di Forza Italia) e nessun voto contrario, una “Mozione unitaria che impegna il governo a riconoscere ufficialmente il genocidio e a darne risonanza internazionale”. Forse questo documento, nonostante le rimostranze diplomatiche turche, servirà a smuovere una nostra ritrosia, che trova le sue fondamenta nella stessa Alleanza Nato. E che si cementa anche nel corposo interscambio commerciale, finanziario e industriale, che pone l’Italia al quarto posto con 19,8 miliardi di dollari di interscambio totale, di cui 11,3 miliardi di dollari in esportazioni e 8,5 miliardi di dollari in importazioni e una quota di mercato del 5,1%.

La Diaspora contemporanea dei Cristiani d’Oriente ha ripreso a solcare le terre desertiche, le alture, i mari e i fiumi dell’Iraq e della Siria. Dalla Prima guerra del Golfo nel 1991 alla seconda e più terribile nel 2003 contro l’Iraq, qui la comunità cristiana è stata sterminata. Certo, ha prevalso l’immagine di uno scontro religioso tra sunniti e sciiti, da una parte, e la galassia dei riti cristiani dall’altra. In realtà si è trattato di una vera e propria espropriazione territoriale della presenza di quei ceti sociali, che contavano a livello economico, culturale e politico nazionale ed internazionale. Basti pensare al potente ministro dell’esteri iracheno, il cristiano Tarek Aziz.

In Iraq vivevano 1,5 milioni di cristiani agli inizi degli anni Novanta. Oggi, secondo le statistiche stilate dalle organizzazione internazionali umanitarie ne sono rimasti appena 146 mila, “una decimazione”, come ha recentemente annotato Lucia Annunziata in un suo reportage da quelle terre martoriate dall’ISIS su Huffington Post.

Cattolici greco-ortodossi di Antiochia, ortodossi siriaci, cattolici melchiti, maroniti, armeni, caldei, persino piccolissimi nuclei di protestanti evangelici: ma prima di tutto popoli euroasiatici che si erano stabiliti in tutto il Medio Oriente, poco dopo l’evangelizzazione cristiana in epoca imperiale romana, molti secoli prima della nascita e dello sviluppo dell’Islam predicato da Maometto. Gli sciiti iraniani da una parte e i sunniti dell’ISIS, fomentati dai salafiti e dai wahabiti dell’Arabia Saudita, sono riusciti nell’intento di scalzare dalle élites locali i cristiani, attuando una sorta di pulizia etnica, anche ammantata da motivazioni religiose. In realtà, si cerca di creare una separazione geografica e sociale tra mondo islamico e mondo occidentale. Non si tratta quindi di uno scontro religioso, di nuove crociate, ma di una strategia per la supremazia territoriale per sfruttare le fonti energetiche, minerali rari, incrementare le risorse finanziarie e demarcare gli stili di vita socio-culturali.

Secondo le statistiche dell’autorevole Pew Research Center di Washington prima della guerra in Siria, si calcola che la comunità cristiana contasse il 13% della popolazione, all’incirca 2,5 milioni di persone. Aleppo nel Nord con 300 mila cristiani era la terza maggiore città cristiana del mondo arabo, dopo Beirut e Il Cairo. Si stima che almeno 900 mila cristiani siano fuggiti dal paese e abbiano ingrossato i campi profughi di Giordania e Libano, mentre altri hanno tentato le tortuose e pericolose strade della migrazione verso l’Europa. Oggi, sarebbero rimasti solo 250 mila cristiani tra le macerie delle città siriane.

Una Diaspora, intramezzata da stragi terroristiche di fondamentalisti islamici, che non ha risparmiato neppure l’Egitto, paese arabo che vanta la maggiore presenza di cristiani, oltre 4 milioni di copti, ovvero il 5% rispetto ai 76 milioni di islamici, il 95%. In pochi anni la loro presenza ha subito un calo dall’8%. Ora in Medio Oriente e in Nord Africa, la presenza dei cristiani si è assottigliata allo 0,6% e si va ancor più marginalizzando

Certo, nell’Africa subsahariana, la presenza dei cristiani, sempre secondo il Pew Research Center, è maggioritaria (46,53% rispetto al 40,46% dei musulmani): 500 milioni, il vero serbatoio di credenti e di vocazioni per il futuro della Chiesa di Roma. Ma nello stesso tempo crescono le violenze nei loro confronti da parte dei gruppi terroristici islamisti, spinti e sostenuti da oligarchi locali e finanziati dagli oligarchi del Golfo arabo, proprio per ridurre l’influenza di quegli strati sociali che finora dominavano la politica e l’economia dei paesi principali dell’Africa nera.

A questa Diaspora dei Cristiani d’Oriente potrà opporsi la testimonianza evangelica di Papa Francesco, così impegnato nella sua strategia di riconciliazione con l’Islam? E’ questo il fine ultimo del Documento sulla “Fratellanza Umana”, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio scorso insieme alla più alta autorità musulmana, il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb. Come di recente ha sentenziato: “Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra”.

Ma se i paesi occidentali, specie l’Unione Europea, non acquisiscono la consapevolezza di agire in prima persona nello scacchiere geopolitico orientale; discernendo le alleanze con i paesi islamici dagli interessi meramente economici, energetici e finanziari; anteponendo invece i propri valori secolari in difesa dei diritti universali delle persone, delle libertà individuali e collettive, della non-violenza, della tolleranza e reciprocità religiosa, assisteremo ad un’escalation di terrorismo e di “guerre non convenzionali per procura” fin dentro i nostri confini.

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Turchia: Erdogan condanna paesi che criticano Ankara per questione armena (Agenzianova 24.04.19)

Ankara, 24 apr 16:23 – (Agenzia Nova) – Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è scagliato oggi contro quei paesi che “danno lezioni alla Turchia sul genocidio armeno”, inclusa la Francia, accusata dallo stesso capo dello Stato di essere responsabile del genocidio in Ruanda. In un discorso trasmesso in diretta televisiva, Erdogan ha dichiarato: “Se guardiamo a coloro che stanno cercando di dare lezioni alla Turchia su diritti umani e democrazia sfruttando la questione armena e la lotta contro il terrorismo, vediamo che tutti hanno un passato sanguinoso”, ha dichiarato Erdogan. “È ovvio che coloro che hanno ucciso 800 mila persone nel genocidio in Ruanda, sono i francesi”, ha dichiarato Erdogan facendo riferimento anche al passato coloniale francese in Algeria. “Abbiamo archivi e documenti che lo dimostrano molto chiaramente”, ha aggiunto. La questione armena resta un tema caldo per la Turchia che ha sempre rifiutato l’utilizzo del termine “genocidio” per definire il massacro che secondo diverse stime ha visto l’uccisione di 1,5 milioni di persone tra il 1915 e 1917 da parte delle forze dell’allora Impero ottomano. Le autorità turche hanno vietato oggi una manifestazione a Istanbul per ricordare il massacro armeno: la polizia ha disperso un centinaio di manifestanti che si erano radunati di fronte all’ex carcere di Istanbul, dove vennero condotti il 24 aprile 1915 i primi armeni arrestati dalle forze ottomane.

Il 24 aprile la Comunità armena commemora il genocidio da parte dei turchi (Tgcom24 24.04.19)

Il 24 aprile la Comunità armena commemora il genocidio da parte dei turchi

Il 104° anniversario del genocidio armeno (Radioradicale 24.04.19)

Il ricordo del Genocidio armeno. A RadioRadicaleAntonia Arslan (Ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova)Siobhan Nash-Marshall (Insegna Filosofia Teoretica al Manhattanville College di New York) e Vittorio Robiati Bendaud (Filosofo. Coordina il Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia).

Cent’anni di storia, prima dimenticata, poi negata nonostante la mobilitazione internazionale. Anche di recente, con la dura risposta turca alla condanna di papa Francesco. Eppure i numeri sono impietosi, un milione di morti: è il genocidio degli Armeni, nel 1915.

Una tragedia che ha le sue radici nel 1894, con le prime, violente repressioni della protesta armena da parte degli ottomani e della fazione dei “giovani turchi”, dopo secoli di pacifica convivenza, e culmina con le stragi del 1915, complice l’ingresso della Turchia in guerra. A scatenare la violenza è la decisione di alcuni armeni di arruolarsi nell’esercito russo. Tanto basta perché i turchi comincino a uccidere i soldati armeni del proprio esercito e l’elite culturale di quel popolo, a Istanbul. Ed è solo l’inizio: leggi speciali, deportazioni, massacri.

La notizia del genocidio comincia a diffondersi, nel mondo. Le reazioni sono indignate. Gli Stati Uniti inviano aiuti, l’Inghilterra, a fine guerra, preme perché si arrivi a un processo. I responsabili delle stragi vengono condannati a morte, ma riescono a fuggire. La vendetta armena li raggiungerà lo stesso.

Poi, nel 1923, nasce la nuova Turchia di Ataturk. Il genocidio diventa argomento scomodo, al punto che, oggi, sono moltissimi i turchi che negano quanto accaduto cento anni fa.

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“Genocidio degli armeni, l’allarme inascoltato dell’ambasciatore italiano a Costantinopoli ” (Lastampa.it 24.04.19)

Laura Mirakian

È il 28 agosto 1896 quando da Costantinopoli l’ambasciatore Alberto Pansa, accreditato presso la Sacra Porta e decano del corpo diplomatico, trasmette a Roma un telegramma del seguente tenore: «Ho testé inviato al Sultano, anche a nome delle Grandi Potenze, una urgente missiva per descrivere i massacri, gli assassini, le violenze in atto contro gli armeni. Stermini nelle strade e altresì nelle case sono in corso nella Capitale e in altri villaggi del Bosforo. Ho chiesto che egli dia ordini immediati, precisi, categorici, perché si metta fine allo stato delle cose, che è tale da condurre alle conseguenze più disastrose per il Suo impero».
E prosegue, l’ambasciatore Pansa, informando Roma che se non otterrà risultati «entro domani» si recherà personalmente con i cinque colleghi ambasciatori dal Sultano stesso per confermare la «più formale protesta». E a fine pagina annota che, mentre sta scrivendo, «due armeni sono stati assassinati davanti all’Ambasciata».
Questa preziosa testimonianza, un testo redatto in francese secondo il costume dell’epoca, in due fogli consunti dal tempo ma perfettamente leggibili, è stata inserita per la prima volta tra i documenti storici esposti nella vasta rassegna in corso alla Farnesina a cura del Servizio storico del ministero degli Esteri sulla diplomazia italiana. È corredata da stralci delle note personali dell’ambasciatore, ove trapelano senza mezzi termini forte riprovazione e scandalo.
Onore all’ambasciatore Pansa, esempio di coraggio, sensibilità, dirittura morale, lealtà al giovane Stato italiano. Testimonianza preziosa, perché poco è stato rivelato delle persecuzioni, deportazioni, spoliazioni di beni, l’immensa tragedia (Metz Yeghern) di quegli interminabili anni, conclusisi solo nel 1922 con gli incendi dei quartieri di Smirne abitati dagli armeni, che vi erano approdati alla fine di lunghe marce forzate attraverso l’intera Anatolia. Quegli incendi segnarono l’esodo definitivo dalle loro terre di insediamento.

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La deportazione degli armeni

Solidarietà con gli ebrei
Oggi che papa Bergoglio ha pubblicamente riconosciuto il genocidio, e che negli anni molti parlamenti europei (Germania, Francia, Svizzera, Austria, Svezia e altri, ivi incluso il Parlamento europeo) hanno formalmente statuito che di questo si è trattato, possiamo commemorare insieme quel 24 aprile 1915 in cui l’intera intellighenzia armena fu appesa ai pali dell’impiccagione. Lo facciamo in totale solidarietà con il popolo ebraico, tragicamente erede di quel primo genocidio del XX secolo, rabbrividendo di fronte alle parole beffarde di Hitler mentre ne sanciva la «soluzione finale»: «Chi ricorda più lo sterminio degli armeni?».
Un popolo sconfitto? Certamente no. Esiste, in un lembo di Caucaso, una giovane Repubblica di Armenia che nell’aprile del 2018 ha dato prova di saper transitare pacificamente verso una modernizzazione economica e politica, nella ricerca di un difficile equilibrio geopolitico tra Oriente e Occidente. Una «rivoluzione colorata», si direbbe, che ha condotto al potere Nikol Pashinyan, attivista dei diritti e delle libertà democratiche. Trai suoi primi gesti, i contatti con l’Azerbaigian per rafforzare il cessate-il-fuoco nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, aprire canali di comunicazione, lasciar transitare aiuti umanitari. Ed esiste una diaspora armena in Europa e nel mondo che, fin dalla prima ora, ha dato prova di grande vitalità nel percorrere un modello di piena, fruttuosa integrazione nei Paesi di accoglimento senza mai sconfinare nell’assimilazione.
Gli armeni sono impegnati in una straordinaria, silenziosa battaglia contro l’oblio. Sorretta dalle croci rosa di pietra intagliata (khachkars) di cui hanno costellato le loro terre e dalle preziose miniature religiose degli amanuensi medievali, e dall’amore per l’arte, la musica e la cultura, in una visione liberale e aperta a quella degli altri.

Tra due imperi
Tutto mirabilmente documentato nella mostra al Metropolitan di New York intitolata semplicemente «Armenia». Sorretta da una storia che li ha collocati tra due grandi imperi, romano e persiano, arricchita dai contatti con le città mesopotamiche e con gli antichi greci, giù dalle montagne fino al Mediterraneo, e più tardi snodo cruciale dei grandi circuiti commerciali sul tragitto della Via della Seta, fino a Venezia. E sorretta soprattutto dalla religione cristiana, adottata fin dal 312 d.C. precedendo Costantino. No, il progetto di pulizia etnica e ingegneria sociale che ha colpito gli armeni nel passato non ha potuto spegnerne la forza d’animo, non ha potuto annientarli. Noi ne siamo i fieri e orgogliosi figli.

Genocidio Armeno (Giorgioperlasca.it 24.04.19)

Durante la prima guerra mondiale (1914-1918) si compie, nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C.
Dalla memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. La deportazione e lo sterminio del 1915 vennero preceduti dai pogrom del 1894-96 voluti dal Sultano Abdul Hamid II e da quelli del 1909 attuati dal governo dei Giovani Turchi.
Le responsabilità dell’ideazione e dell’attuazione del progetto genocidario vanno individuate all’interno del partito dei Giovani Turchi, “Ittihad ve Terraki” (Unione e Progresso). L’ala più intransigente del Comitato Centrale del Partito pianificò il genocidio, realizzato attraverso una struttura paramilitare, l’Organizzazione Speciale (O.S.), diretta da due medici, Nazim e Chakir. L’O.S. dipendeva dal Ministero della Guerra e attuò il genocidio con la supervisione del Ministero dell’Interno e la collaborazione del Ministero della Giustizia. I politici responsabili dell’esecuzione del genocidio furono: Talaat, Enver, Djemal. Mustafa Kemal, detto Ataturk, ha completato e avallato l’opera dei Giovani Turchi, sia con nuovi massacri, sia con la negazione delle responsabilità dei crimini commessi.
Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente.
Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo.
L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno.
Il 24 aprile del 1915 tutti i notabili armeni di Costantinopoli vennero arrestati, deportati e massacrati. A partire dal gennaio del 1915 i turchi intrapresero un’opera di sistematica deportazione della popolazione armena verso il deserto di Der-Es-Zor.

genocidio armenoIl decreto provvisorio di deportazione è del maggio 1915, seguito dal decreto di confisca dei beni, decreti mai ratificati dal parlamento. Dapprima i maschi adulti furono chiamati a prestare servizio militare e poi passati per le armi; poi ci fu la fase dei massacri e delle violenze indiscriminate sulla popolazione civile; infine i superstiti furono costretti ad una terribile marcia verso il deserto, nel corso della quale gli armeni furono depredati di tutti i loro averi e moltissimi persero la vita. Quelli che giunsero al deserto non ebbero alcuna possibilità di sopravvivere, molti furono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nel fiume Eufrate e nel Mar Nero.
Anche qui la presenza di alcuni Giusti permise al mondo di sapere quello che stava succedendo. Ne ricordiamo due Armin T. Wegner e Giacomo Gorrini

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24 aprile, il genocidio armeno (Riforma.it 24.04.19)

Il 24 aprile è la data scelta per commemorare annualmente la terribile azione perpetrata dall’impero ottomano ai danni della popolazione armena, il genocidio armeno, che fra il 1915 e il 1916 portò alla morte almeno un milione e mezzo di persone.

In una riunione della Nato tenutasi il 12 aprile ad Antalya, le autorità turche, che confutano l’uso del termine genocidio per definire la questione armena, hanno denunciato la decisione di Emmanuel Macron di rendere il 24 aprile, in Francia, una Giornata commemorativa di questo dramma. Il presidente transalpino aveva annunciato tale decisione all’inizio di febbraio alla cena annuale del Ccaf, il Consiglio di coordinamento delle organizzazioni armene in Francia.

Ad Antalya, Sonia Krimi, deputata del partito di Macron Lrem (La Rèpublique en marche), è intervenuta per protestare contro tali accuse. Scatenando la reazione del ministro degli Esteri turco che ha rinfacciato alla Francia il suo passato coloniale in Algeria e la sua azione in Ruanda.

La Francia, che ha circa 300.000 cittadini di origine armena sul territorio, porta una responsabilità di questo genocidio non avendo risposto all’epoca agli appelli disperati dei sopravvissuti. Ma nel 2001, il Parlamento francese fu uno dei primi a riconoscere il genocidio armeno, con grande rabbia dei turchi.

Creata al tempo degli “stati-nazione”, la nuova Turchia nata dalla dissoluzione dell’impero ottomano doveva essere omogenea, da un punto di vista etnico e religioso. Il passato cristiano multi-millenario non trovò dunque spazio nel plasmare la nuova narrativa nazionale. Allo stesso tempo, la requisizione delle proprietà armene arricchì il nuovo stato.

Riconoscere il genocidio armeno metterebbe quindi in discussione tale processo. Agli occhi di molti turchi sarebbe, aprire il vaso di Pandora della diversità etnica, culturale e religiosa del paese, cioè rischiare nuove rivendicazioni territoriali e far rivivere lo spettro del suo smantellamento.

Nei giorni scorsi intanto, il 10 aprile, la Camera dei deputati in Italia ha votato una mozione che impegna il governo a «riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale». Immediata la reazione di Ankara che ha convocato l’ambasciatore italiano Massimo Gaiani per esprimere «il dispiacere per la scelta del parlamento italiano e per chiedere chiarimenti a riguardo».

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Arslan: «Riconoscere il genocidio armeno è un dovere morale» (Tempi.it 24.04.19)

 

n collaborazione con iStoria Viaggi, Tempi organizza un viaggio in Armenia dal 4 al 12 settembre 2019. Qui tutte le informazioni. A tutti i partecipanti sarà regalato un abbonamento a Tempi.

Il 24 aprile è il giorno della memoria dello Metz Yeghern, ossia il  Grande Male, il nome con cui gli armeni indicano il genocidio di cui furono oggetto a partire dal 1915 per volontà del governo dei Giovani Turchi nei giorni del tramonto dell’Impero Ottomano. Il 24 aprile 1915 furono arrestati e deportati gli esponenti delle élites armene di Costantinopoli, Smirne e Aleppo. Nei due anni successivi persero la vita un milione e mezzo di armeni a causa sia di massacri che di malattie e stenti dovuti alle condizioni in cui venivano spostati attraverso i territori dell’Impero. Recentemente la questione del genocidio armeno è tornata di attualità in Italia a causa del voto con cui il 10 aprile scorso il Parlamento italiano ha impegnato il governo a riconoscere ufficialmente l’evento e a darne risonanza internazionale. Antonia Arslan, scrittrice padovana di origini armene, è l’autrice de La masseria delle allodole, forse il più famoso romanzo al mondo ispirato alle vicende del genocidio armeno, e di altri romanzi che evocano tragedie antiche e contemporanee di quel popolo (La strada di Smirne, Il libro di Mush, ecc.). Con lei abbiamo fatto il punto delle principali questioni, a 104 anni dall’inizio della tragedia.

Antonia Arslan, quando diciamo genocidio armeno, di cosa stiamo parlando?

Stiamo parlando di quello che è stato il primo genocidio del XX secolo, stiamo parlando di una forma di sterminio che all’inizio del Novecento viene testata sul popolo armeno, e poi sui siriaci. Stiamo in sostanza parlando della distruzione di un’intera minoranza da parte del governo dello stato al cui interno questa minoranza si trovava. Come avrebbero poi fatto i tedeschi con gli ebrei che erano cittadini tedeschi come loro, così i Giovani Turchi hanno fatto con gli armeni e i siriaci, che erano minoranze riconosciute all’interno dell’Impero Ottomano. Queste non sono stragi, non sono massacri, è qualcosa di più: è uno sterminio organizzato con estrema freddezza e razionalità dall’alto.

Da dove deriva la certezza che i Giovani Turchi fossero mossi da un intento genocidario?

Il progresso degli studi negli ultimi vent’anni è stato straordinario, sono usciti una quantità di libri e di ricerche accademiche che portano prove. Particolarmente importante è un libro da poco tradotto in italiano: I peccati dei padri – Negazionismo turco e genocidio armeno di Siobhan Nash-Marshall. Questa studiosa, che è anche una mia carissima amica, ha trovato una quantità straordinaria di materiale e ha studiato il modo in cui la filosofia tedesca dell’Ottocento e le sue derive hanno influenzato l’ideologia dei nazisti. Nella Prima Guerra mondiale l’Impero tedesco si è alleato all’Impero Ottomano e ha inviato in Anatolia personale militare per addestrare e sostenere l’esercito turco che era molto degradato. Tutti loro hanno visto quello che succedeva e purtroppo, come dimostrano anche documenti recenti tradotti dall’armeno, hanno spesso approvato.

I Giovani Turchi erano affiliati alla massoneria e per lo più atei, ma in molti luoghi della Turchia e dell’Impero Ottomano gli atti omicidi nei confronti degli armeni furono condotti in nome del jihad, la guerra santa, cioè in nome di un concetto religioso islamico. Come si spiega questo fatto?

Faceva parte del progetto genocidario. Per muovere le folle non basta la teoria, ci vuole anche un forte appello religioso. I turchi convivevano con gli armeni da centinaia di anni, ma sempre sullo sfondo della divisione fra fedeli islamici da una parte e fedeli cristiani dall’altra. Le minoranze cristiane erano riconosciute dall’Impero Ottomano nel sistema del millet, cioè delle nazioni. All’interno di ogni nazione erano permessi un minimo di autonomia e di autogoverno. Dopo la grande sconfitta che l’Impero Ottomano subisce nel secondo Ottocento con l’indipendenza della Romania, della Bulgaria e prima ancora della Grecia, e dopo le guerre balcaniche degli anni Dieci del Novecento che gli strappano altri territori, era facile muovere le folle contro le minoranze cristiane, affermando che non erano più sudditi leali, che stavano distruggendo l’impero e che comunque erano dei dhimmi, degli assoggettati. Hanno scatenato le folle facendo leva su due cose. Il primo è il fattore religioso, che si manifesta soprattutto nell’est anatolico, nella regione adiacente al monte Ararat. E poi, aspetto importantissimo, il fattore dell’avidità. Cioè si è fatto capire alla gente che se avessero ucciso gli armeni non ci sarebbe stata punizione per questo mentre avrebbero ottenuto un ricco bottino. Il messaggio era: “vi potrete impadronire dei loro beni senza che vi succeda niente”. È avvenuto così un enorme spostamento di proprietà tolte agli armeni che va dalla capra dell’allevatore al terreno del piccolo contadino, alla sua casa e ai suoi attrezzi a beneficio di chi abitava l’est dell’Anatolia, contemporaneamente al massacro fisico.

È anche vero che ci sono stati musulmani di varie etnie – curdi, turchi, arabi – che hanno cercato di mettere in salvo degli armeni, in qualche caso al prezzo della vita. Che memoria conservano gli armeni di questo?

È una bellissima parte di questa tragica storia, ma bisogna sottolineare che questi giusti non sono tanti, non si deve enfatizzare al di là delle proporzioni. Tuttavia io sto leggendo un libro in inglese, Armenian Genocide by Ottoman Turkey. 1915. Testimony of Survivors. Collection of Documents, che contiene testimonianze di sopravvissuti raccolte nel 1916, cioè a genocidio e a Prima Guerra mondiale ancora in corso. A parlare sono armeni dell’est anatolico, della zona di Erzurum e del lago di Van, arrivati in quella parte di Armenia che allora apparteneva all’Impero zarista. Per decenni le loro testimonianze sono rimaste nella lingua armena originale, recentemente sono state tradotte in inglese. Da queste testimonianze emerge la programmazione minuziosa dello sterminio, lo schema ripetitivo, le dinamiche ricorrenti: la separazione degli uomini dalle donne, l’uccisione degli uomini, il ratto delle donne più giovani e graziose, l’eliminazione delle altre attraverso le marce e la fame, l’uccisione sistematica dei bambini, a volte in modo efferato. Con la stessa regolarità, i sopravvissuti raccontano dell’amico curdo che li ha nascosti, della tribù curda che non partecipava ai massacri presso la quale si sono rifugiati, dell’amico turco che li ha protetti. Naturalmente in alcuni casi questa salvezza è stata pagata con denaro e beni, però questi curdi e questi turchi sapevano che il cristiano non era il loro nemico, e questi sono i giusti, sono quelli che non guardano altrove, che non si girano dall’altra parte. E in genere questi giusti non hanno cercato di convertire gli armeni alla loro religione. Gli armeni di questi fatti conservano un’ottima memoria, in genere li raccontano sempre. Se in tutto questo oceano di orrore c’è stato un gesto positivo, in questo libro che sto leggendo lo si ritrova.

Veniamo alla questione di attualità: perché i governi turchi continuano a rifiutare di riconoscere il genocidio? Perché ogni volta che un parlamento nazionale vota una mozione per impegnare il proprio governo a riconoscere il genocidio armeno, come è successo pochi giorni fa in Italia, la Turchia protesta con veemenza?

Sono cento anni che negano, diventa un problema grosso dire oggi: «ci siamo sbagliati», oppure «abbiamo detto una bugia per cento anni». C’è una tale sovrapposizione di negazionismi, che credo che a questo punto anche qualcuno che fosse di buona volontà, troverebbe molte difficoltà a modificare la posizione turca tradizionale a livello di autorità dello Stato. A ciò si affianca la volontà di negare, perché in qualche modo l’orgoglio nazionale turco che hanno cercato di coltivare dal tempo della presa di potere da parte di Kemal Atatürk è sempre stato centrato su di un insegnamento che viene fatto ai bambini sin dalle scuole elementari: «siamo un popolo straordinario, che non potrebbe mai commettere una cosa del genere». Questo ha creato una situazione schizofrenica: da un lato ci sono tantissimi turchi che riconoscono la realtà del genocidio sia a parole, sia con gli scritti, sia pubblicando studi storici e rischiando di persona, perché non è facile in Turchia avere queste posizioni; dall’altro c’è una struttura dello Stato che ancora pervasivamente afferma che il genocìdio non è avvenuto. Ogni volta che c’è un riconoscimento come quello del parlamento italiano di qualche settimana fa, si ripete il solito balletto: la Turchia protesta, o ritira l’ambasciatore, o convoca l’ambasciatore del paese in questione, ecc. Dopodiché l’ambasciatore rientra. Se un piccolo Comune della provincia di Catanzaro vota una mozione sul genocidio armeno, le autorità turche minacciano la rottura dei rapporti economici fra Italia e Turchia. Sono reazioni automatiche, che poi non hanno conseguenze. Ripeto: siamo di fronte a una realtà schizofrenica, quando pensiamo che persino Hasan Cemal, nipote di quel Djemal Pasha che fu uno degli architetti del genocidio, ha scritto un  libro intitolato 1915. Genocidio armeno, tradotto in Italia da Guerini. Costui è stato allevato nel culto del nonno, ma ha fatto un lungo percorso di coscienza fino a scrivere un libro che riconosce la realtà del genocidio armeno. Dove ha scritto: «Finché noi turchi non prendiamo coscienza di ciò che è avvenuto, non potremo fare pace col nostro passato e considerarci una nazione con una storia». Ma oggi la Turchia è bloccata in una situazione molto pericolosa, e queste aperture del ceto intellettuale, che si sono verificate fino al 2015, appaiono in stallo.

Il negazionismo potrebbe dipendere anche dal timore della richiesta di indennizzi da parte dei discendenti delle vittime?

Sì, dipende anche da questo. Ci sono ancora armeni che conservano titoli di proprietà di beni immobiliari che avevano nell’Impero Ottomano. La base Nato di Incirlik sorge verosimilmente su un terreno di proprietà di una famiglia armena che conserva l’atto notarile di possesso, qualcosa di simile si può dire per l’area dove sorge il palazzo presidenziale ad Ankara. Perciò bisogna tenere conto anche di questo aspetto.

Alla memoria del genocidio armeno lei ha dedicato romanzi a sfondo storico di cui il più noto è La masseria delle allodole, che ha venduto oltre un milione di copie nel mondo. Cosa dice della memoria del genocidio armeno? È viva e coltivata, o è difettosa?

È una memoria molto coltivata all’interno delle comunità armene. Soprattutto le grandi comunità della diaspora – quelle francesi, americane e russe che hanno importanti strutture come chiese e scuole – conservano la memoria del genocidio come fattore fondante della loro identità. E questa purtroppo è diventata in qualche modo una prosecuzione della tragedia. L’introversione caratteriale armena dipende dal fatto che questi ricordi sono stati trasmessi a livello familiare e all’interno delle comunità ma non sono stati riconosciuti all’esterno. Adesso la questione si è aperta all’esterno e la memoria del genocidio coincide con una presa di coscienza verso l’esterno e questo fa fare esperienza di una maggiore libertà. Questo è dovuto alla terza e alla quarta generazione dopo il genocidio, che non avendo più le paure e le angosce dei primi, alimentate dal negazionismo turco, hanno parlato, si sono mosse, hanno fatto ricerche. Adesso poi con questa grande mole di libri, di studi, di ritrovamenti che sono in gran parte merito di giovani studiosi turchi molto bravi, straordinari, la memoria del genocidio esce rinforzata.

Un certo numero di studiosi afferma con sempre maggiore convinzione che ci sono le prove che il genocidio armeno è stato il modello del genocidio degli ebrei per mano nazista, che i nazisti si sono riferiti consapevolmente al genocidio armeno. Lei cosa dice?

Purtroppo sono d’accordo. Come si intuisce anche dal testo della mozione di riconoscimento del genocidio che è stata presentata al Bundestag tedesco. Lì si ammette che il genocidio è stato supportato anche dall’Impero tedesco. Documenti degli archivi di Stato tedeschi resi pubblici confermano che c’era la volontà da parte del governo tedesco di fornire il massimo supporto alle politiche turche. I tedeschi presenti allora nell’Impero Ottomano, mercanti, tecnici o ingegneri, tornavano a casa chiedendosi come fosse possibile che un popolo cristiano come quello tedesco assistesse senza alzare un dito allo sterminio di un altro popolo cristiano, o addirittura collaborasse. Questo scandalizzava molti tedeschi, e alcuni di loro si sono battuti per salvare vite armene, come ha fatto il console tedesco di Aleppo Walter Rössler. Ma la politica generale dell’Impero tedesco era di considerare la questione armena una questione interna dell’Impero Ottomano in cui non ci si doveva ingerire. Ma purtroppo dai documenti resi noti si desume che hanno anche attivamente collaborato. Certo, ci sono state eccezioni come il generale Liman von Sanders responsabile della zona di Smirne, che impedì che fossero deportati gli armeni della città. Il quartiere generale tedesco avrebbe potuto attuare questa politica anche altrove, se voleva, ma ci fu solo questa eccezione ben nota agli armeni: cercavano di raggiungere Smirne sapendo di questa protezione.

Concludendo: che importanza ha che il numero dei paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno cresca al di la delle due-tre decine attuali?

È molto importante, anche se non ha conseguenze pratiche: è una questione morale. I governi turchi possono protestare, minacciare di ritirare gli ambasciatori, ma il fatto che il numero dei paesi che riconoscono il genocidio armeno cresca è importante perché i turchi non potranno più dire che il discorso del genocidio è un complotto anti-turco degli armeni: è diventata una nozione consolidata che sempre più si afferma universalmente. Parlarne ancora, anche se può annoiare qualche volta, continua ad essere necessario.

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Giornata di commemorazione del genocidio armeno (Vaticannews 24.04.19)

La comunità armena, in patria o della diaspora, celebra oggi il “genocidio degli armeni” in ricordo di 1 milione e mezzo di persone uccise tra il 1915 e il 1923

Giancarlo La Vella – Città del Vaticano

La strage degli armeni avvenuta oltre un secolo fa è una realtà dolorosa. Ma oggi che cosa si sa di quell’evento? Il padre mechitarista, Vahan Ohanian, studioso del genocidio degli armeni attraverso i giornali americani dell’epoca, è convinto che non debba calare l’oblio su quella parte di storia che ha arrecato dolore e lutto ad un Paese intero e che ancor oggi attende venga acclarato il ruolo decisivo che ebbero gli ottomani.

La verità sulla strage armena

Con l’aiuto di tutta la comunità internazionale, afferma padre Ohanian, è possibile arrivare al riconoscimento del genocidio degli armeni senza passare necessariamente attraverso una condanna della Turchia di oggi sulle responsabilità dell’Impero Ottomano. E’ opportuno avviare con Ankara un dialogo sereno e aperto, affinché alle chiusure attuali si sostituisca la volontà di archiviare nella verità quella dolorosa pagina di storia.

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