La “pista armena”, Alì Ağca e l’attentato a Papa Wojtyla. “Riaprire le indagini” (Il Giornale 15.05.25)

A 44 anni dall’attentato a Papa Giovanni Paolo II spunta l’ipotesi di una “pista armena”. Lo scrittore Ezio Gavazzeni: “connessioni tra l’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia (ASALA) e il Papa”

Il papà per quattro ore in lotta con la morte“. Titolava così il Corriere della Sera all’indomani dell’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto alle ore 17.17 del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro a Roma. A sparare tre colpi all’indirizzo del pontefice, che in quel momento stava salutando i fedeli dalla sua Jeep di colore bianco, ribattezzata dalla stampa con il nome di “papamobile”, fu il turco Mehmet Ali Ağca, all’epoca 23enne. Due proiettili, esplosi con una rivoltella Browning calibro 9, colpirono e ferirono Karol Wojtyla, che fu sottoposto a un delicato intervento chirurgico a seguito di lesioni profonde riportare all’addome. L’attentatore, un militante dei Lupi Grigi, già condannato e ricercato in Turchia per l’omicidio del giornalista Abdi İpekçi, venne arrestato subito dopo la sparatoria. Il 22 luglio 1981, la Prima Corte d’Assise di Roma condannò l’imputato all’ergastolo per tentato omicidio di capo di Stato estero (il Vaticano ndr). Il 13 maggio del 2000 Ağca ricevette la grazia dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi come atto di clemenza per il Giubileo del Duemila, su richiesta di Giovanni Paolo II, e fu estradato nel Paese d’origine, dove scontò la restante pena per l’assassinio del caporedattore del quotidiano turco Milliyet.

Le successive indagini, volte a individuare mandanti ed eventuali complici di Ağca, si concentrarono sull’ipotesi della “pista bulgara” (a tale conclusione erano giunti i giudici Ilario Martella e Rosario Priore al termine delle rispettive istruttorie). Nell’ottobre del 1984 tre cittadini bulgari e altri di nazionalità turca furono rinviati a giudizio e poi assolti per insufficienza di prove. Tra gli imputati turchi solo Omar Bagci venne condannato a 3 anni e 2 mesi di reclusione per aver introdotto in Italia la pistola utilizzata da Ağca per sparare a Wojtyla. Successivamente l’attentato al pontefice fu oggetto d’indagine da parte della Commissione parlamentare di inchiesta concernente il “dossier Mitrokhin” (2002-2006).

A 44 anni dagli spari in piazza San Pietro, un nuovo libro d’inchiesta – “Il Papa deve morire”, edito da Paper First – esplora le possibili connessioni tra il tentato omicidio di Giovanni Paolo II e l’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia (ASALA), puntando l’attenzione su una trattativa tra i terroristi armeni e lo Stato Italiano, conclusa proprio nel 1983. “Ho presentato un esposto alla procura di Roma per chiedere la riapertura delle indagini”, spiega a Il Giornale l’autore del volume, Ezio Gavazzeni, scrittore milanese con undici pubblicazioni all’attivo, tra cui “La Furia degli Uomini” (Mursia, 2022), scritto con la collaborazione di Salvatore Borsellino, il fratello del magistrato Paolo Borsellino.

Ezio Gavazzeni, come ha scoperto l’esistenza di una nutrita documentazione che avvalora l’ipotesi di una “pista armena” dietro l’attentato a Papa Giovanni Paolo II?

“È avvenuto quasi per caso. Tempo fa, un amico che si trovava nell’Archivio Centrale di Stato, perché stava svolgendo una ricerca, trovò tra i vari faldoni un plico contenente alcuni documenti. Ne fotografò alcuni e me li inviò. Notai subito qualcosa di strano: si parlava di sei anni di minacce al Papa da parte di un gruppo terroristico armeno, in un periodo antecedente all’attentato di Mehmet Ali Ağca. Una volta recuperato l’intero faldone, mi sono accorto che c’era tutta una storia, rimasta inesplorata fino a quel momento, che tracciava una serie di connessioni tra l’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia (ASALA), un’organizzazione terroristica fondata e capeggiata da Hagop Hagopian, e il Papa. Da qui ho iniziato a ricostruire i fatti, che poi ho messo nero su bianco nel libro”.

Quando venne fondata l’ASALA e chi ne faceva parte?

“L’ASALA nacque a Beirut nel 1975 sotto l’ala protettiva dell’OLP, ma soprattutto del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina guidato da George Habash. Tant’è che aveva la sede nel campo di addestramento di quest’ultimo. Era un’organizzazione terroristica di stampo marxista-leninista che, però, aveva una fortissima componente nazionalista”.

Cosa rivendicava?

“L’ASALA rivendicava le terre usurpate dai turchi e voleva vendicare il genocidio armeno, avvenuto tra il 1915 e il 1923 da parte dell’Impero Ottomano. In quel momento, cioè nel 1975, l’Armenia – quel che ne restava, a dire il vero – era sotto il blocco sovietico. E dunque nelle intenzioni dell’organizzazione terroristica guidata da Hagopian c’era la volontà di rifondare la ‘Grande Armenia’”.

Chi finì nel mirino dell’ASALA?

“Il primo obiettivo furono i diplomatici turchi, poi i terroristi armeni presero di mira le linee aeree e gli uffici. Ma un fatto di cui nessuno era a conoscenza, emerso durante le mie ricerche, è che proprio a cavallo di quegli anni era attiva un’organizzazione che vedeva direttamente coinvolti il Dipartimento di Stato Americano, con l’allora consigliere alla Sicurezza nazionale Henry Kissinger, il governo italiano e il Vaticano”.

Che tipo di organizzazione?

“Questa organizzazione, varata con il nome di Operazione Safe Haven, si occupava di espatriare gli armeni dall’Armenia Sovietica e portarli a Roma, dove venivano smistati in 16 pensioni, e poi successivamente trasferiti negli Stati Uniti”.

Perché i migranti armeni provenienti dall’Urss venivano portati a Roma?

“Anzitutto bisogna precisare che il trasferimento dei migranti armeni avveniva in aereo e non con imbarcazioni di fortuna, come invece accade oggi. Quanto alla sua domanda, va detto che in un primo momento la tappa era Beirut. Tuttavia, quando nel 1975 cominciò la guerra civile in Libano, si decise di optare per Roma”.

Per quale motivo?

“Perché Roma era più sicura e la polizia italiana poteva garantire questo flusso migratorio senza particolari difficoltà, contando anche sulle organizzazioni vaticane (Consiglio Mondiale delle Chiese, la Cei eccetera) ed altre straniere, come la Tolstoj Foundation americana. Sta di fatto che il coinvolgimento dell’Italia nell’Organizzazione Safe Haven suscitò le ire dei terroristi armeni, i quali cominciano a colpire vari obiettivi nel nostro Paese e a minacciare di morte il Papa”.

Nel libro lei racconta che ci sarebbero stati sei anni di minacce di morte al Papa da parte dei terroristi armeni. Inoltre l’ASALA avrebbe rivendicato alcuni attentati di tipo dinamitardo a Milano e Roma, avvenuti molti mesi prima che Alì Ağca attentasse alla vita di Giovanni Paolo II. Perché non è mai trapelato nulla al riguardo?

“Questa è una domanda ancora aperta ed è ciò che mi ha spinto a presentare un esposto in procura a Roma per chiedere la riapertura delle indagini sul tentato omicidio del Papa”.

Circa l’attentato in piazza San Pietro del 13 maggio 1981, sappiamo per certo che fu Mehmet Ali Ağca a sparare tre colpi all’indirizzo di Giovanni Paolo II. In considerazione delle ostilità decennali tra Armenia e Turchia, per quale motivo
l’ASALA avrebbe ingaggiato l’allora terrorista turco? Qual era il punto di contatto tra Ağca e l’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia?

“La figura di raccordo tra Ali Ağca e l’ASALA era Teslim Töre, il leader del Partito Comunista turco TKEP – definito da qualche giornalista il ‘Renato Curcio’ della Turchia – che organizzò alcuni attentati con l’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia e aveva legami con l’organizzazione palestinese di Habash. Secondo le dichiarazioni rese dallo stesso Ağca, fu Töre che lo avviò ad addestrarsi, dapprima in un campo di George Habash a Beirut nel 1977, per 40 giorni, e l’anno successivo in Siria, in un campo gestito dai servizi segreti bulgari e dal KGB. L’attentatore del Papà raccontò di questi addestramenti anche in un memoriale scritto nel 1981”.

A quanto le risulta, Ağca ha mai avuto contattati diretti con l’ASALA?

“Ho trovato un documento del SISDE in cui si legge che Ağca avrebbe incontrato un emissario del terrorismo armeno in un bar di Roma alcuni giorni prima di compiere l’attentato. Una circostanza che reputo attendibile, dal momento che a Roma era presente una cellula dell’ASALA. Inoltre, come si legge nel libro, ho avuto modo di intervistare un uomo che ha militato nell’Esercito Segreto per la Liberazione dell’Armenia in Italia. Lui stesso si è definito ‘un armeno militante di Roma’”.

Un altro particolare rilevante che emerge dal suo lavoro d’inchiesta riguarda l’esistenza di una trattativa tra lo Stato italiano italiano e l’ASALA, mediata dall’OLP e gestita da Abu Hol, il braccio destro di Arafat, a cavallo tra il 1980 e il 1983. Il documento finale venne firmato dall’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro. In cosa consisteva questa trattativa?

“La trattativa, che andò avanti circa due anni e mezzo, verteva proprio a interrompere il flusso migratorio degli armeni in Italia. In buona sostanza, l’ASALA assicurava di interrompere gli attentati sul territorio italiano qualora il nostro Paese, e in particolar modo il Vaticano, si tirasse fuori dalla Operazione Safe Haven. L’accordo andò in porto, anche perché il flusso migratorio terminò proprio nell’83, come ha confermato la figlia dei proprietari di una delle 16 pensioni che ospitavano i migranti armeni a Roma”.

Chi imbastì la trattativa e dove avvenivano le riunioni?

“Le riunioni, come documentato nel libro, avvenivano a Beirut. Alla trattativa partecipò anche l’allora comandante della seconda divisione SISMI, il generale Sportelli. Inoltre dai verbali si evince che durante questi summit non si parlava solo di armeni, ma anche di traffico di armi e dei rapporti tra il terrorismo mediorientale e le Brigate Rosse”.

Sembra che l’ex magistrato Ilario Martella, il giudice istruttore che indagò per primo sull’attentato a Papa Giovanni Paolo II, non fosse a conoscenza di questa trattativa.

“Proprio così. Ho intervistato il giudice Martella e ha rivelato di essere all’oscuro dell’accordo tra lo Stato italiano e l’ASALA, nonostante all’epoca avesse contatti giornalieri con i servizi italiani e ‘più di una volta‘ ebbe modo di incontrare l’allora ministro degli Interni Scalfaro”.

Il motivo?

“Difficile a dirsi. Lo stesso giudice Martella è rimasto sorpreso, visto che durante la sua istruttoria interpellò i capi dei servizi italiani come testimoni e non gli fu riferito alcunché”.

Il giudice Martella sostiene che dietro l’attentato in piazza San Pietro vi sia la cosiddetta “pista bulgara”. Come si concilia questo scenario con l’ipotesi del terrorismo armeno?

“Non credo che uno scenario escluda l’altro. La mia idea è che vi fosse un disegno molto più ampio, che coniugava più volontà e molteplici interessi attorno alla figura di Papa Giovanni Paolo II. Ağca fu l’esecutore materiale dell’attentato, ma dubito che abbia agito come un ‘lupo solitario'”.

In un passaggio del testo scrive che “qualcosa del terrorismo armeno dietro l’attentato al Papa interseca la vicenda della povera Emanuela Orlandi“. Quindi riporta un appunto del SISDE con oggetto “Emanuela Orlandi” da cui emergerebbe quella che lei definisce “una curiosa coincidenza“. Di che si tratta?

“Mi riferisco a una telefonata fatta dai presunti rapitori di Emanuela Orlandi al padre della giovane l’8 luglio del 1983, circa un mese dopo la scomparsa. Il telefonista commette un lapsus, apparentemente freudiano, nel fare riferimento a una precedente telefonata all’agenzia ANSA, pronunciando una parola che suona come ASALA. A parer mio, questo
errore si presta a una duplice interpretazione”.

Cioè?

“Da un lato potrebbe rivelare l’appartenenza del telefonista all’organizzazione terroristica armena, dall’altro questo ‘errore’ potrebbe essere stato commesso al fine di depistare gli inquirenti che all’epoca stavano indagando sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Peraltro, dopo la pubblicazione del libro, ho trovato un’altra curiosa coincidenza che, però, mi riservo di approfondire successivamente”.

Ritornando all’inchiesta, crede sia possibile individuare i mandanti dell’attentato al Papa a distanza di 44 anni?

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Allo Spazio Corsaro di Chia il concerto di Giuseppe Dal Bianco per ricordare il genocidio del popolo armeno (Tusciaup

Data

16 Mag 2025

 

Ora

19:00

 

Luogo

Chia-Soriano nel Cimino

 
 Categoria

 

 

Venerdì 16 maggio, alle ore 19.00, allo Spazio Corsaro di Chia è in programma una serata in ricordo del 110° anniversario del genocidio del popolo armeno con il concerto di Giuseppe Dal Bianco, polistrumentista di strumenti a fiato etnici.

A seguire, rinfresco armeno e proiezione di “Mayrig”, film drammatico francese del 1991 diretto da Henri Verneuil che racconta la storia di una famiglia armena rifugiatasi in Francia per sfuggire al feroce Impero Ottomano.

Nel corso dellla Prima guerra mondiale (1914-1918), nell’area dell’ex Impero Ottomano in Turchia, si consuma il genocidio del popolo armeno (1915-1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, al potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena presente nell’area anatolica fin dal VII secolo a.C. Gli storici stimano che persero la vita circa i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, quindi circa un milione cinquecentomila persone. Metz Yeghern – il Grande Male – è l’espressione con la quale gli armeni nel mondo definiscono il massacro subito in Anatolia dal loro popolo, tra il 1915 e il 1916.

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A Santa Maria Maggiore Divina Liturgia in Rito Armeno (L’Osservatore Romano 13.05.25)

di Robert Attarian

«Pellegrini di fede e di speranza è con il cuore colmo di gioia e commozione che ci riuniamo oggi in questa città eterna, testimone da secoli di preghiera e devozione. Ed è in questa maestosa basilica di Santa Maria Maggiore, sotto l’ombra protettrice della Madre di Dio, che celebriamo insieme il dono della fede e l’eredità spirituale trasmessa dal compianto e venerato Papa Francesco nel contesto dell’Anno Santo dedicato alla speranza». Sono le parole con cui Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian, patriarca di Cilicia degli armeni, ha introdotto l’omelia durante la Divina Liturgia in rito armeno presieduta ieri, 12 maggio, nella Cappella Paolina della basilica Liberiana, in occasione del Giubileo delle Chiese orientali.

Al rito, celebrato sotto lo sguardo dell’icona della Salus Populi Romani, poco distante dalla tomba di Papa Francesco, erano presenti anche il prefetto e il segretario del Dicastero per le Chiese Orientali, rispettivamente il cardinale Claudio Gugerotti e l’arcivescovo antoniano maronita Michel Jalakh, insieme ad altri membri delle Chiese orientali e rappresentanti diplomatici, tra cui gli ambasciatori armeni presso la Santa Sede, Boris Sahakian, e in Italia, Vladimir Karapetyan. Nell’assemblea anche pellegrini armeni provenienti da vari Paesi del Medio oriente, assieme ai loro vescovi e parroci.

Nell’omelia il patriarca ha definito quello attuale un «tempo di grazia di rinnovamento» e una «occasione per lasciar andare ogni forma di odio». Ha ricordato le parole di Papa Francesco e il suo invito a «recuperare il senso autentico della fraternità universale». «Noi, figli della Chiesa armeno-cattolica orientale, testimoni di secoli di fede e di martirio, siamo chiamati oggi, in questo tempo di continue guerre in Medio oriente e nel mondo, a testimoniare con la vita e con il sangue la fedeltà a Cristo, rafforzando la nostra fede radicata nella carità e nell’amore cristiano», ha affermato Sua Beatitudine Minassian, invitando i presenti a rinnovare l’impegno a testimoniare con coraggio e con fedeltà il Vangelo, seguendo l’esempio di Cristo, «affinché la speranza possa risplendere in ogni cuore e in ogni famiglia, portando pace e amore nel mondo».

Il patriarca ha poi rivolto parole di gratitudine al Signore per il dono di Leone XIV, al quale «con cuore filiale» ha augurato un ministero fecondo e ricco di benedizioni. «Viviamo questo tempo come un evento pasquale e, sotto la guida del nostro Pontefice, camminiamo insieme affidandoci alla misericordia di Dio che è nostra consolazione», ha detto ancora, evidenziando infine tre parole fondamentali per proseguire il cammino giubilare con Cristo: «Umiltà, che ci rende aperti alla volontà di Dio; semplicità che ci aiuta a vivere con purezza e autenticità; e carità che ci spinge ad amare senza riserve, testimoniando il Vangelo con coerenza e generosità».

Al termine della celebrazione, il cardinale Gugerotti ha salutato i presenti, accogliendoli «con l’abbraccio di Leone XIV» e ricordando anche Francesco che, il 12 aprile 2015, ha proclamato san Gregorio di Narek dottore della Chiesa universale.

Il prefetto ha menzionato anche la data del 24 aprile, memoria dolorosa per il popolo armeno, esortandolo a restare unito. «Siete vicini alla croce del Signore, con cui avete condiviso una serie di sofferenze», ha detto il porporato, definendo la Chiesa armena «una perla unica» all’interno della cattolicità e auspicando che il pellegrinaggio dell’Anno Santo permetta a questa perla di emanare bellezza e luce.

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Il patriarca armeno Minassian: il Giubileo, tempo per eliminare ogni forma di odio (VaticanNews)

Ambiguità del governo armeno: tentativo di rivalsa oppure doppio gioco? (Strumentipolitici 12.05.25)

Il percorso politico battuto dal governo di Erevan negli ultimi anni si è snodato in direzioni diverse, lasciando perplessi non solo gli alleati internazionali, ma anche gli stessi cittadini armeni.

Politica contraddittoria oppure bilanciata?

Da tempo l’attività del governo di Nikol Pashinyan oscilla fra la ricerca di un appeasement con Baku e un’apparente tentativo di rivalsa diplomatica – e forse militare – contro l’Azerbaigian. A riprova di tale atteggiamento vi è l’aumento significativo del budget per la difesa: addirittura il 20% in più rispetto al 2024, arrivando al 6% del PIL. Questi numeri fanno sospettare che Erevan non tenda veramente alla stabilità nella regione, ma si prepari piuttosto a un altro round col suo storico nemico. Anche sul piano delle alleanze talvolta fa dei passi su strade che paiono opposte. Pashinyan bussa alla porta dell’Unione Europea, ma torna a celebrare insieme a Putin il 9 maggio sulla Piazza Rossa, evento al quale era mancato lo scorso anno. A tali dubbi il premier armeno risponde così: Perseguiamo una politica estere bilanciata e complementare. Ciò non significa costruire relazioni in una sola direzione a spese delle altre.

Riarmo da tanti fornitori

Le grandi acquisizioni militari, elemento chiave di tale politica, avvengono da fornitori diversi. Con Spagna e Polonia sono in atto trattative, mentre con la Francia e l’India gli invii di armamenti sono ampiamente in corso. Parigi sta mandando decine dei suoi veicoli corazzati Bastion da 12 tonnellate, oltre agli obici Caesar da 155mm. Con gli USA l’Armenia ha siglato a gennaio un accordo di partner strategica, mentre con l’Iran ha appena condotto una serie di esercitazioni congiunte. È la prima volta che le organizzano con Teheran, con cui non sussiste alcun trattato in merito alla fornitura di armi o alla cooperazione militare, ma vi è una chiara convergenza di interessi geopolitici nella regione. Dunque il governo armeno è stato capace di convincere gli iraniani che il suo avvicinamento a Washington non implica in alcun modo una futura ostilità contro di loro.

India

Ma è con Nuova Delhi che la cooperazione militare e strategica sta crescendo verso un livello che non sfugge più alle osservazioni degli analisti, e soprattutto degli altri governi. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), fra il 2022 e il 2024 quasi la metà degli armamenti che l’Armenia ha importato sono giunti dall’India. Nel biennio 2016/2018, invece, questa cifra era virtualmente pari a zero. Per l’anno in corso, il Ministro della Difesa indiano prevede un totale di 600 milioni di dollari pagati da Erevan per le sue armi. Si tratta ad esempio dei sistemi anti-aerei Akash-1S, del lanciarazzi Pinaka e dei veicoli militari Tata, mentre sui sistemi missilistici BrahMos e ASTRA stanno ancora conducendo i relativi colloqui. A tal proposito, negli ultimi anni si è già recato diverse volte in India il ministro della Difesa armeno Suren Papikyan.

Senza la Russia

Sembra che il gioco condotto da Pashinyan sia quello di sfilare Erevan dall’amicizia con Mosca senza far collassare il loro secolare rapporto. Ciò significa sostituire la Russia in vari aspetti della cooperazione internazionale, evitando di andarle contro. Non è chiaro se ciò effettivamente convenga all’Armenia: gli stessi armeni non capiscono il senso di certe mosse del governo o sono contrari ad esse. Ma Pashinyan ha tirato in ballo l’India e anche gli Stati Uniti, allargando così lo spettro degli interessi in ballo e dei rapporti incrociati in cui viene coinvolta. La convenienza indiana qui è di carattere strategico, perché sta armando un nemico dell’Azerbaigian, il quale è amico della Turchia e soprattutto del Pakistan, che appunto è il nemico tradizionale dell’India. Poi gli USA, che sostengono un po’ gli un po’ gli altri, ultimamente con preferenza ad Ankara, come dimostra la cordialità dei rapporti fra Erdoğan e Trump.

Lamentele azere

Baku allunga la mano a Erevan per stringere un accordo definitivo sul Nagorno Karabakh e sulla stabilità del Caucaso, ma non rimane in silenzio su ciò che non gradisce. Per esempio sulle fortificazioni militari e sugli spostamenti di mezzi e uomini, che a suo modo di vedere danno adito al sospetto che gli armeni si stiano preparando a un prossimo scontro. Lo ha detto parlando alla televisione nazionale il presidente azero Ilham Aliyev, che non ha lesinato critiche nemmeno alla Francia e all’India per i loro contratti di fornitura militare agli armeni. Senza mezzi termini ha affermato che devono smetterla di vendere armi a Erevan, la quale deve anzi restituire quanto già acquistato.

Armeni confusi

Le critiche di Baku sono di fatto dirette anche verso Bruxelles. Infatti, se da un lato l’Unione Europea si sforza di favorire pace e stabilità nel Caucaso meridionale (perseguendo comunque i propri interessi: tenersi l’Azerbaigian come fornitore energetico e premere sulla Russia da sud), dall’altro uno dei membri preminenti, la Francia, supporta in modo esplicito e concreto una parte in causa, l’Armenia. E la politica di Pashinyan sta suscitando confusione e ostilità fra gli stessi armeni. Forse per accontentare diplomaticamente gli avversari internazionali e placarli, ha sminuito la portata del genocidio subito nel secolo scorso ad opera dell’Impero Ottomano. Il presidente del parlamento Alen Simonyan ha infatti accusato l’opposizione di preoccuparsi troppo del lutto e del dolore passato invece che della costruzione del futuro. Anche Trump e i rappresentanti UE in Armenia stanno evitando di usare la parola “genocidio” e parlano genericamente di “vittime”, facendo così gongolare Erdoğan.

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Armenia, polemiche sul genocidio e tensioni politiche (Osservatorio Balcani e Caucaso 12.05.25)

Con l’approssimarsi delle elezioni parlamentari del 2026, si acuiscono le tensioni in Armenia: il premier Pashinyan spera ancora di normalizzare le relazioni con i paesi vicini, ma l’opposizione cerca di sfruttare la questione del genocidio armeno per esautorare il primo ministro

12/05/2025 –  Onnik James Krikorian

Lo scorso 22 aprile l’Assemblea nazionale armena è stata teatro di uno scontro, provocato dalla controversa proposta dei deputati dell’opposizione che chiedono sanzioni più severe per chi nega o mette in discussione le uccisioni di massa e le deportazioni di circa 1,5 milioni di armeni compiute dall’Impero ottomano nel 1915 – un evento ampiamente riconosciuto come genocidio.

“Chiediamo che la negazione e ogni tentativo di sminuire il genocidio armeno siano considerate di per sé un atto criminale, a prescindere dal fatto che siano accompagnate o meno dall’odio”, ha scritto in seguito su Facebook un deputato dell’opposizione.

L’Armenia dispone già di una normativa che vieta la negazione del genocidio, però il nuovo disegno di legge mira ad ampliarne la portata, punendo chiunque neghi il genocidio, non solo chi incita “all’odio, alla discriminazione o alla violenza”.

Se dovesse essere approvata, la legge proposta inasprirebbe le pene portandole ad un massimo di cinque anni di carcere. Considerando però che la proposta è stata avanzata dall’opposizione, è poco probabile che venga adottata.

Il nuovo disegno di legge si inscrive in un contesto più ampio, segnato dagli sforzi del primo ministro Nikol Pashinyan per normalizzare le relazioni con la vicina Turchia. Sforzi fortemente osteggiati dai partiti nazionalisti, compresa la Federazione rivoluzionaria armena Dashnaktsutyun (ARF-D), che vi vedono un’occasione per rimuovere Pashinyan prima delle elezioni del 2026 e riaccendere il fervore nazionalista.

“I suoi commenti che mettono in discussione la percezione storica e nazionale del genocidio armeno sono un tentativo di allontanare l’Armenia dalla storia che a lungo ha costituito un pilastro della sua identità e della sua politica estera”, scrive un quotidiano statunitense vicino al partito ARF-D. Anche altre forze di opposizione affermano di voler mettere sotto accusa Pashinyan in un prossimo futuro.

Un tentativo analogo, compiuto un anno fa, è andato a vuoto per mancanza di sostegno. Attivisti e analisti politici sperano ora in un esito diverso.

Alcuni membri della rock band armeno-americana System of a Down si sono uniti al coro di voci critiche. Il bassista Shavo Odadjian ha pubblicato su Instagram un’immagine di Pashinyan contrassegnata con una croce rossa e la didascalia: “Chi cancella […] la storia merita di morire”.

Il chitarrista Daron Malakian ha gettato ulteriore benzina sul fuoco, definendo i membri della band “velenose vipere armene” pronte ad “attaccare”.

In netto contrasto con questa retorica, lo scorso 24 aprile decine di migliaia di armeni a Yerevan hanno partecipato ad una marcia solenne verso il memoriale di Tsitsernakaberd. La sera prima, l’ala giovanile di ARF-D ha guidato una fiaccolata più piccola e provocatoria. Gli attivisti hanno bruciato bandiere dell’Azerbaijan e della Turchia, indossando abiti che celebravano l’Operazione Nemesi, una serie di omicidi perpetrati dal partito negli anni ‘20.

“Il primo ministro Pashinyan condanna l’azione, considerandola irresponsabile e inaccettabile. Anche il capo dello Stato non può considerare diversamente il tentativo di dare alle fiamme le bandiere di uno stato riconosciuto a livello internazionale, in particolare se si tratta di stati confinanti”, si legge in una dichiarazione ufficiale.

Anche Jeyhun Bayramov, ministro degli Esteri azerbaijano, ha condannato l’incidente, ormai una tradizione annuale, chiedendo che i responsabili venissero sanzionati.

Intanto, Pashinyan continua a muoversi con cautela. Durante il suo discorso del 24 aprile, anziché pronunciare esplicitamente la parola “genocidio”, ha deciso di utilizzare il termine Medz Yeghern – espressione armena per indicare gli eventi del 1915.

Altrettanto controversi i suoi precedenti commenti pronunciati in Svizzera dove ha invitato gli armeni a comprendere appieno le cause degli eventi del 1915 per evitare future tragedie. Anche in quell’occasione Pashinyan è stato criticato dai gruppi nazionalisti.

Persino la Missione dell’Unione europea in Armenia (EUMA) è stata coinvolta nella polemica. In un primo momento l’EUMA ha pubblicato su Twitter un messaggio commemorativo utilizzando l’espressione “genocidio armeno”, per poi cancellarla e sostituirla con una formulazione più ambigua.

Anche in passato le reazioni internazionali sono state caratterizzate da simili tentativi di bilanciamento, con figure come Barack Obama e Donald Trump che hanno optato per l’espressione Medz Yeghern per evitare eventuali conseguenze politiche.

All’inizio di aprile, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sottolineato come la normalizzazione delle relazioni tra Armenia, Azerbaijan e Turchia fosse una priorità.

“Dopo tre decenni di chiusura, l’apertura dei confini dell’Armenia con Turchia e Azerbaijan segnerà una svolta. Renderà l’Europa e l’Asia centrale più vicine che mai”, ha affermato la presidente della Commissione al primo vertice UE-Asia centrale.

Le attuali controversie ruotano attorno all’obiettivo mai raggiunto e, secondo alcuni, irrealistico di ottenere riparazioni finanziarie e territoriali dalla Turchia.

Quando, nei primi anni 2000, la Commissione per la riconciliazione turco-armena (TARC) chiese al Centro internazionale per la giustizia di transizione (ICTJ) di fare chiarezza su alcune questioni legali, la risposta non lasciò spazio all’ambiguità: la Convenzione sul genocidio del 1948 non può essere applicata retroattivamente.

In Armenia, la narrazione del genocidio è stata spesso strumentalizzata a scopi politici. Il termine “genocidio” è stato introdotto solo a distanza di decenni dagli eventi del 1915, pur essendo stato ispirato a quei fatti.

Nel frattempo, l’opposizione ha promesso di focalizzare la sua campagna elettorale sulla questione del genocidio e sulla perdita definitiva del Karabakh nel 2023. Tuttavia, legiferare sulle interpretazioni storiche rischia di soffocare il dibattito e di isolare ulteriormente l’Armenia.

Uno degli alleati di Pashinyan ha sintetizzato questo dilemma sui social. “Riconciliatevi con la realtà. Capisco che le nostre ferite sono profonde. Però solo riconoscendo la sconfitta potremo scegliere come costruire un’Armenia più forte. Un’intera nazione non può essere costantemente trascinata nel passato”, ha scritto Robert Ananyan.

Questo dibattito non è senza precedenti. Nel 2006, quando la Francia aveva preso in considerazione l’idea di criminalizzare la negazione del genocidio armeno, il giornalista turco-armeno Hrant Dink – poi assassinato – si era opposto fermamente alla proposta.

“Se il progetto legislativo dovesse diventare legge, sarei tra i primi a recarmi in Francia per violare quella legge”, aveva affermato Dink. “Quello di cui i popoli di questi due paesi hanno bisogno è un dialogo. E queste leggi non fanno che danneggiare tale dialogo”.

Nell’Armenia di oggi, l’avvertimento di Dink è spaventosamente attuale. Mentre gli schieramenti politici continuano a scontrarsi su storia e identità, il percorso verso la riconciliazione, interna e regionale, sta diventando sempre più difficile.

Rivolgendosi alla minoranza armena, o meglio a ciò che ne è rimasto, in Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha affermato che “i tristi ricordi del passato non dovrebbero tenere in ostaggio il presente e il futuro”.

Per Pashinyan invece “una Repubblica di Armenia sviluppata, sovrana, sicura, […] con confini demarcati, è la strada per sopravvivere alla tragedia del Medz Yeghern, la garanzia della nostra lealtà verso tutti i sacrifici e le vittime del nostro popolo”.

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Incontro di coordinamento per la “Settimana della Cultura Armena” (Unich 12.05.25)

Si è svolto lo scorso 7 maggio un incontro di coordinamento presso il Teatro Marrucino di Chieti, in vista dell’organizzazione della “Settimana della Cultura Armena”, che si terrà dall’8 al 13 luglio 2025.
L’evento è frutto della collaborazione tra il Teatro Marrucino, l’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara e la National University of Architecture and Construction of Armenia (NUACA).
All’incontro erano presenti: il Prorettore vicario dell’Università d’Annunzio, Prof. Carmine Catenacci, una delegazione della NUACA guidata dal Prof. Armen Minassian, il Direttore amministrativo del Teatro Marrucino, Dott. Cesare Di Martino, il Direttore artistico del Teatro, Maestro Giuliano Mazzoccante, il Prof. Filippo Angelucci, Dipartimento di Architettura, e il Responsabile del Settore Relazioni internazionali, Dott. Glauco Conte.
Il Prof. Minassian, a nome della delegazione armena, ha dichiarato:
“Siamo profondamente grati per l’accoglienza ricevuta e ci sentiamo onorati di poter collaborare con istituzioni di così alto profilo.
Siamo certi che la Settimana della Cultura Armena sarà un evento di grande rilievo e un’opportunità preziosa di scambio culturale tra i nostri Paesi.”
L’iniziativa si propone di valorizzare il dialogo interculturale attraverso una serie di appuntamenti dedicati alla musica, al teatro, all’architettura e alla tradizione armena, che si svolgeranno nel prestigioso contesto del Teatro Marrucino.
Il programma completo sarà presentato ufficialmente nelle prossime settimane.

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Per non dimenticare il genocidio armeno (Il Torinese 11.05.25)

IL TORINESE WEB TV

Il genocidio armeno è uno degli eventi più tragici e significativi della storia del XX secolo. Si riferisce al massacro sistematico e alla deportazione di circa 1,5 milioni di armeni dall’Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale, tra il 1915 e il 1923. Questo genocidio è riconosciuto da molti paesi e dagli storici come uno dei primi genocidi del XX secolo, anche se la Turchia, erede dell’Impero Ottomano, ne nega ufficialmente la natura genocidaria. Le cause di questo orribile evento sono complesse e legate a tensioni etniche, politiche e religiose. Gli armeni, che erano una minoranza cristiana all’interno di un impero a maggioranza musulmana, erano spesso considerati come collaboratori degli eserciti nemici durante la guerra, anche se questa accusa è stata ampiamente contestata. Le autorità ottomane decisero di attuare una politica di sterminio e deportazione, che portò a massacri di massa, marce della morte e condizioni disumane nei campi di concentramento. Il riconoscimento del genocidio armeno è un tema ancora molto delicato e politico. Molti paesi e organizzazioni internazionali hanno riconosciuto ufficialmente questi eventi come genocidio, mentre la Turchia continua a negare questa definizione, sostenendo che si trattò di un conflitto civile e di perdite causate dalla guerra. Ricordare il genocidio armeno è importante non solo per onorare le vittime, ma anche per promuovere la consapevolezza e la prevenzione di simili atrocità in futuro. La memoria di questo evento ci invita a riflettere sui pericoli dell’odio, del razzismo e dell’intolleranza, affinché tragedie simili non si ripetano mai più. Ai nostri microfoni il presidente dell’Unione Armeni d’Italia Baykar Sivazliyan accademico, scrittore e attivista armeno-italiano, noto per il suo impegno nella preservazione della memoria storica armena e nella promozione della cultura armena in Italia.

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Da Locri a Dubai: il violinista Haik Kazazyan trionfa al Classic Violin Olympus (Il Reggino.it 11.05.25)

Lo scorso 29 aprile il grande violinista Haik Kazazyan ha vinto il primo premio da €200. 000 al Classic Violin Olympus International Competition 2025 di Dubai, insieme ad un violino modello Stradivari realizzato appositamente dal rinomato liutaio lucchese Fabio Piagentini.

Il violinista armeno si era esibito lo scorso ottobre presso il Teatro Palazzo della Cultura di Locri con la Senocrito Festival Orchestra sotto la direzione del M° Gianluca Marcianò.

Un talento unico che abbiamo avuto il privilegio di ascoltare dal vivo attraverso le composizioni del contemporaneo Baruch Berliner e il concerto doppio in Do maggiore di Vivaldi, al fianco del violinista Guinness World Record Nicolay Madoyan.

Considerato uno dei concorsi per violino più prestigiosi al mondo, il Classic Violin Olympus riunisce ogni anno i migliori talenti della scena internazionale.

Durante la finale, i dodici violinisti si sono confrontati in un programma diviso in sei fasi, progettato per mettere in luce diverse abilità, tra cui un’esibizione con l’Orchestra Sinfonica di Stato dell’Armenia e l’Orchestra Filarmonica di Madrid, oltre ad esibizioni soliste e una sessione di domande e risposte con la giuria.

«È davvero incredibile, come un sogno», sono state le parole di Haik sul palco dopo aver ricevuto il premio. «Grazie per aver apprezzato il mio modo di suonare e la mia arte. Sento una grande responsabilità nei confronti di tutti coloro che hanno creduto in me oggi, di continuare a migliorarmi costantemente».

Haik Kazazyan ha ereditato la passione per la musica, diventata poi la sua professione, da entrambi i genitori, amanti della musica classica; la scelta di suonare uno strumento quale il violino (divenuta negli anni la sua “scelta di vita”) è scaturita proprio dal padre che amava particolarmente le “Quattro Stagioni” di Vivaldi.

Il violinista si esibisce sui più prestigiosi palchi del mondo, come la Carnegie Hall di New York, la Berliner Philharmonie, la Victoria Hall di Ginevra, la Rachmaninoff Hall del Conservatorio di Mosca. Collabora con la Royal Scottish National Orchestra, la Mariinsky Orchestra, la Russian National Orchestra, la Prague Philharmonic Orchestra, la Irish National Orchestra, la State Academic Symphony Orchestra of Russia (Svetlanov Symphony Orchestra), l’Orchestre National de France e la Münchener Kammerorchester.

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L’Anno santo delle Chiese orientali (L’Osservatore Romano 10.05.25)

Fedeli e rappresentanti delle Chiese orientali cattoliche, i patriarchi e i metropoliti: a loro è dedicato l’evento giubilare in programma dal 12 al 14 maggio.

Tre giornate scandite da diverse celebrazioni: lunedì, nella cappella del Coro della basilica di San Pietro, alle 8.30, si tiene la Divina liturgia in rito etiopico, guidata dalle Chiese etiopiche ed eritree. Alle 11.30, nella cappella Paolina della basilica di Santa Maria Maggiore, è la volta della Divina liturgia in rito armeno, organizzata dalla stessa Chiesa armena. A seguire, nel medesimo luogo, alle 15, la Chiesa copta guida la Divina liturgia nel proprio specifico rito.

Il giorno successivo, 13 maggio, lo scenario sarà nuovamente la basilica Vaticana dove, alle 13, è in programma la Divina Liturgia in rito siro-orientale, con l’anafora di Addai e Mari, ovvero l’antica preghiera eucaristica cristiana, caratteristica della Chiesa d’Oriente. A coordinare la celebrazione saranno la Chiesa caldea e quella siro-malabarese.

Nel tardo pomeriggio, alle 18.45, la basilica Liberiana ospiterà i Vespri in rito siro-occidentale, organizzati dalla Chiesa siro-cattolica, da quella maronita e da quella siro-malankarese. Infine, alle 21, sul sagrato della medesima basilica, si terrà l’Acatisto, ossia l’inno di lode alla Madre di Dio tipico della tradizione liturgica della Chiesa ortodossa.

Mercoledì 14 maggio, ultimo giorno del pellegrinaggio giubilare delle Chiese orientali, si tornerà in San Pietro per la divina liturgia in rito bizantino che si terrà alle 14 e sarà guidata dalle seguenti Chiese: greco-cattolica melchita, greco-cattolica ucraina, greco-cattolica romena, insieme con le altre Chiese sui iuris di rito bizantino.

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Il Giubileo delle Chiese orientali: tre giorni ricchi di preghiere e di parole di speranza

Il musicista lucano Pippi Dimonte in concerto a Yerevan (Armenia) (Suditaliavideo 08.05.25)

Un nuovo interessante impegno internazionale attende il contrabbassista lucano Pippi Dimonte, infatti per Mercoledì 14 Maggio sarà a Yerevan, capitale dell’Armenia, alla Arno Babajanyan Concert Hall, sede dell’Orchestra Filarmonica di Stato, per un concerto frutto della collaborazione fra due musicisti armeni, due italiani e uno olandese.

Il progetto, che sarà alla sua prima assoluta mondiale, intende coniugare musica classica, sonorità della tradizione armena, suoni mediterranei e world music di autori contemporanei. Erik Manukyan al violino, Karen Ananyan al pianoforte, Tolga During alle chitarre, Enrico Pelliconi all’accordion, Pippi Dimonte al contrabbasso formano il quintetto AR-IT Music Project con cui iniziano questa nuova avventura e che in futuro dovrà portarli a tenere concerti in altre città armene, italiane e nel resto d’Europa. L’iniziativa è patrocinata dal Ministero della Cultura armeno e dall’Orchestra Filarmonica di Stato dell’Armenia. I nostri musicisti voleranno a Yerevan qualche giorno prima per effettuare le relative prove di preparazione dell’evento e per fare un giro turistico in città.

Erik Manukyan è primo violino dell’Orchestra Giovanile di Stato Armena, del Quartetto d’Archi Saryan e della Arms Symphony Orchestra. Diplomato al Conservatorio di Yerevan ha tenuto concerti sia in Armenia che all’estero.

Karen Ananyan compositore e pianista di fama internazionale ha studiato al Conservatorio di Yerevan dove attualmente insegna pianoforte e composizione. E’ autore di  musiche per pianoforte solo, per orchestra e musica da camera con le quali ha pubblicato diversi album. Ha tenuto concerti in Armenia, Russia e Francia.

Enrico Pelliconi pianista e fisarmonicista ha studiato presso i Conservatori di Bologna e Ferrara e già da giovanissimo si esibisce in orchestrine di liscio romagnolo come tastierista e cantante. Attualmente suona con numerose formazioni jazz e contemporaneamente insegna pianoforte e fisarmonica. Musicista e compositore poliedrico ha inciso tre Cd di composizioni proprie: Mai Troppo Piano, Avanzo di Balera e Breastroke.

Tolga During è un musicista e compositore di Amsterdam che vive in Italia da diversi anni. Ha pubblicato ben nove album con composizioni proprie che vanno dal gypsy, al mediterranean jazz, alla world music e suona una particolare chitarra acustica con due manici, di cui uno fretless, appositamente costruita per lui. La rivista Moors Magazine scrive di lui: “Musica di una bellezza incredibile che supera i confini di tempo e di genere”. E’ impegnato contemporaneamente in vari suoi progetti: OttoMani, LiberDjango, Amar Corda, Gypsy Trio, Quai des Brumes e ha tenuto concerti in tutta Europa.

Giuseppe ‘Pippi’ Dimonte è un musicista e compositore originario di Bernalda che vive a Bologna. Suona con numerose formazioni jazz e con il suo contrabbasso è sempre in giro per concerti sia in Italia che all’estero. Contrabbassista gypsy fra i più richiesti ha suonato con i più importanti chitarristi manouche in attività. Diplomato in Contrabbasso Classico (VO) ha studiato presso i Conservatori di Matera e Bologna. A 17 anni è già compositore iscritto alla Siae dove deposita i suoi primi lavori. Ha pubblicato cinque album con tutte composizioni proprie: Morning Session, Hieronymus, Trio Mezcal, Majara e Dinamo.