Addio a Goulian, ponte fra Parma e Medio Oriente (Gazzettadiparma.it 07.01.19)

Era un cittadino del mondo, Michel Joseph Goulian, l’imprenditore nativo dell’Armenia scomparso nei giorni scorsi; era diventato parmigiano d’adozione oltre cinquant’anni fa occupando un ruolo di riferimento fra Parma ed il Medio Oriente per le grandi industrie, a cominciare dalla Bormioli.
La sua era una famiglia numerosa. I genitori erano scappati al Cairo dopo le persecuzioni dei turchi dando vita a tredici ragazzi che si erano sparsi nel mondo rivestendo compiti importanti nella finanza e nel commercio. L’arrivo di alcuni dei quarantotto nipoti e dei parenti dall’Australia, dal Canada e da altri paesi lontani ha indotto quelli parmigiani a rinviare a lunedì e martedì prossimi sia il rosario che il funerale programmati nella comunità di Betania a Marore della quale Michel era un fervente sostenitore. Oggi sulla Gazzetta l’annuncio della famiglia.
Michel Joseph Goulian era arrivato a Parma, reduce da un contratto di rappresentanza per la Saint Gobain, come un perfetto sconosciuto, mentre nel 1963 i giornali di Roma l’avevano definito un «eroe» in quanto aveva salvato la vita ad una hostess che rischiava di morire nello schianto e nell’incendio di un aereo atterrato ad Atene, proveniente da Roma. Pur subendo diverse ustioni, Michel aveva strappato alle fiamme la ragazza portandola all’uscita e gettandosi con lei dallo sportello che era stato aperto, riportando nel salto la frattura di entrambe le gambe.
Un’impresa che aveva fornito un quadro del suo coraggio e della sua dedizione nel prodigarsi per chi necessitava di un aiuto. Era rimasto ricoverato alcuni mesi in ospedale, dove aveva ricevuto la visita dell’hostess salvata, sotto i flash dei fotografi. Nella sagrestia del Santuario di Fontanellato fra gli ex voto c’è anche il suo di ringraziamento alla Madonna con l’articolo di un giornale.
Dal Cairo Michel si era trasferito in Francia, trovando lavoro nel mondo del vetro nella Saint Gobain e, dopo i risultati positivi, aveva ricevuto un’offerta di contratto della Bormioli che sarebbe diventata la sua seconda casa. Per l’azienda vetraria parmigiana Michel aveva allacciato contatti nei paesi arabi, dove la sua diplomazia e la conoscenza della lingua e di alcuni dialetti, avevano aperto porte che rimanevano ben chiuse.
A Parma Michel era diventato un sostenitore della squadra di calcio allacciando una bella amicizia con Scala e con diversi giocatori. L’entusiasmo era stato tale da fondare, con l’aiuto dei nipoti, due Parma Club al Cairo e a Beirut, come riportato dalla rivista ufficiale della società allora presieduta da Giorgio Pedraneschi. Il suo posto in tribuna centrale è stato lo stesso sino ai primi sintomi della malattia che ha stroncato il suo pur forte fisico.

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La storia dimenticata: incontro sul genocidio armeno (Ilrestodelarlino.it 06.01.19)

Ferrara, 6 gennaio 2019 – Occasione unica e preziosa per riflettere sul secondo genocidio del Novecento, quello armeno, troppo spesso dimenticato assieme al primo, quello degli Herero in Namibia, l’incontro di domani, alle 17.30 in Camera di Commercio, con la scrittrice Antonia Arslan (autrice de ‘La masseria delle allodole’), la filosofa americana Siobhan Nash-Marshall e lo studioso Vittorio Robiati Bendaud. Al centro dell’appuntamento la presentazione del libro ‘I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno’ (Guerini editore), scritto da una delle più importanti voci della filosofia americana contemporanea. Docente di filosofia teoretica al Manhattanville College di New York, la pensatrice cattolica ha molto riflettuto su Aristotele, Boezio e Tommaso D’Aquino. Con una formazione che spazia dalla letteratura italiana al pensiero classico, dalla lingua armena alla cultura umanistica statunitense del XX Secolo, Nash-Marshall indaga cause, modalità ed effetti di un buco nero della storia: il massacro sistematico di un milione e 500mila armeni, 800mila cristiani assiri e 300mila cristiani greci del Ponto. Agli assassini, i Giovani Turchi, si unirono per calcoli geopolitici, bellici o di affinità ideologiche, la Germania (dalla seconda metà dell’Ottocento sino al genocidio del 1915), la Russia boscevica e le titubanze e le contraddizioni delle potenze occidentali. Il tutto sulla pelle di un’antica popolazione cristiana autoctona, già provata nei secoli dalla subalternità impostale dall’Islam che la governava (gli Arabi prima, gli Ottomani poi). A tutto ciò ha fatto seguito il negazionismo di Stato su cui si è costruita e sviluppata la Repubblica di Turchia attuale, come sostenuto dallo storico Taner Akçam, oggi fuorilegge per il governo di Erdogan. L’originalità del testo sta nelle riflessioni filosofiche per destrutturare, e così comprendere, il negazionismo, strutturale al genocidio e non accessorio. Non solo: la filosofia moderna, con un percorso accidentato che si snoda da Cartesio a Sorel, dagli idealisti tedeschi (Kant, Fichte, Schelling e Hegel), da Nietzsche a Marx, avrebbe fornito i rudimenti ideologici per l’opera genocidaria, sia da parte dei Giovani Turchi che lessero questi pensatori sia, ancor più, da parte dei sodali tedeschi. Che la filosofia moderna ponga dei problemi in relazione ai due principali genocidi del Novecento, quello armeno e quello ebraico, non è cosa nuova. Ecco quindi la tesi scomoda – che sta già facendo molto discutere negli Usa – di Nash-Marshall, che della filosofia ha fatto la sua ragion di vita. Interessanti le reazioni della nutrita comunità armena americana (circa un milione e mezzo di persone), dove il libro è divenuto in pochi mesi un best seller.

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I germi della violenza genocida vengono dal pensiero di Cartesio (La Lettura 06.01.19)

La filosofa americana Nash-Marshall risponde a un articolo di Marcello Flores su «la Lettura». Il Terrore giacobino prefigura le stragi successive, come quella degli armenid ai turchi nel corso della Prima guerra mondiale

di SIOBHAN NASH-MARSHALL

Sono arrivata in Italia per il Natale, e mi sono trovata sulla scrivania la «polemica» che Marcello Flores ha scritto contro il mio libro e pubblicato su «la Lettura» #368 del 16 dicembre scorso. Conosco da tempo Marcello (abbiamo fra l’altro entrambi partecipato a un seminario sul genocidio tenutosi a Lugano un paio di anni fa) e apprezzo il suo lavoro. Lui sembra non apprezzare il mio, e per ragioni che non posso che credere radicate in un’involontaria incomprensione di me e del mio lavoro. Scrivo per chiarire entrambe queste cose.

Per cominciare, non sono «docente di filosofia cristiana», come scrive Flores. Sono professore ordinario di filosofia teoretica. Ho anche l’onore di avere un’endowed chair: la Mary T. Clark Chair of Christian Philosophy. Definirmi docente di filosofia cristiana simpliciter è confondere il nome della mia endowed chair con la mia disciplina accademica. Sarebbe come dire che sono Mary T. Clark.

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Quanto al mio libro, non ho affatto «messo sotto accusa l’intera tradizione filosofica occidentale degli ultimi due secoli e mezzo … di avere preparato il terreno alla violenza genocidaria», come sostiene Flores nella sua «polemica». Sarebbe stato sciocco farlo. La filosofia occidentale non è mai stata – né potrebbe essere – monolitica. Non lo è stata nella sua prima grande fioritura in Atene, quando Aristotele fece intendere che per quanto amicus Plato, magis amica veritas. E non lo è stata ovviamente neppure negli ultimi due secoli e mezzo: Kant non sopportava le teorie morali di Bentham, Jacobi tuonava contro Fichte, Burke contro i philosophes, Russell non sopportava Sartre o Wittgenstein e così via.

In secondo luogo, se Flores avesse capito il ragionamento dell’introduzione che cita, avrebbe visto che io sostengo che è stato l’approccio cartesiano alla realtà e alla conoscenza ad «aver preparato il terreno alla violenza genocidaria». Avrebbe anche compreso che contestare quel ragionamento richiede una di due cose: 1) dimostrare come quell’approccio – la distinzione cartesiana tra la res cogitans e la res extensa, il suo disprezzo per i fatti concreti, la sua affermazione che lo Stato debba essere «rovesciato per essere riedificato», e la sua certezza che il nuovo metodo avrebbe evitato all’essere umano ogni errore – non prepari (o abbia preparato) «il terreno alla violenza genocidaria»; oppure, 2) dimostrare che l’approccio cartesiano non è quello che io dico che sia.

Terzo. Non affermo mai che «regicidio» equivale a «genocidio», come farebbe intendere la citazione tagliata che Flores riporta: «Non c’è nessuna distinzione logica o formale tra rovesciare un Ancien Régime tramite spargimenti di sangue e distruggere un popolo e una cultura: un genos. Se si è convinti che un’idea possa giustificare l’uccisione di un re … allora non si può non giustificare il genocidio». Quello che io invece affermo in quel passaggio è: 1) che non vi è distinzione formaletra ciò che fecero i rivoluzionari francesi agli aristocratici e ai Vandeani e un genocidio; 2) che sia il Terrore che la guerra in Vandea avevano la precisa intenzione di imporre un ordine razionale sulla Francia. Tutto questo è chiaramente detto nella parte omessa della citazione: «della sua corte e di coloro che lo difendono e che la morte di una categoria di persone sia una condizione necessaria per rendere il mondo conforme a un’idea razionale».

Non comprendere questo punto sull’attività del Comitato di salute pubblica è fraintendere sia ciò che condusse Lemkin a definire il crimine di genocidio, sia la Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite. La Convenzione, infatti, afferma inequivocabilmente che è l’intenzione genocidaria a definire il crimine di genocidio. E l’intenzione genocidaria è, per citare la Convenzione stessa, quella di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». L’intenzione del Comitato di salute pubblica per quanto concerne «il re, la sua corte e coloro che la difendevano» era inequivocabilmente quella di «distruggerla» nella sua interezza. La fonte di questa intenzione, poi, era quella di ricostruire il mondo ad immagine e somiglianza di un’idea. Flores ha forse dimenticato il Tempio alla Dea Ragione?

Quarto, non ho mai proposto nel mio libro una nuova definizione di genocidio che «sembra sfidare tutte quelle finora suggerite da giuristi, storici, sociologi, e filosofi». Anzi, ho esplicitamente scritto che accetto come definizione di genocidio quella della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite – e invito gli storici a fare la stessa cosa (p. 51).

Quinto, spero che l’orrore mostrato da Flores verso la mia affermazione che il genocidio è «un esempio tremendo e radicale di male morale» non indichi che crede il contrario. Di certo non può credere che il genocidio sia un bene, una cosa «deliziosa» o «normale». Per quanto concerne la mia affermazione che il male è intrinsecamente irrazionale, lo inviterei alla lettura delle opere dei filosofi che hanno come me sostenuto che lo è. Includono, tanto per citarne alcuni, Platone, Aristotele, Boezio, Kant e Hannah Arendt. Quanto al suo rifiuto della mia affermazione che l’irrazionale è cosa che non ammette spiegazione esaustiva razionale, gli chiederei di insegnarmi come si fa a spiegare razionalmente l’irrazionale.

Sesto, la frase che Flores riporta e definisce sillogismo («se è vero che le politiche negazioniste … sono parte integrante del Genocidio armeno … ne consegue che il Genocidio armeno è ancora in atto») tecnicamente proprio non lo è, come neppure il mio ragionamento completo sull’argomento.

Per concludere, c’è qualcosa di cui la nostra epoca ha bisogno disperato: l’abitudine al vero dialogo filosofico, cioè comprendere i ragionamenti altrui, mettere in discussione se stessi e le proprie cognizioni acquisite. Questo serve sia a me che all’amico Marcello Flores. L’atmosfera che ci circonda oggi sembra avercelo fatto dimenticare.

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Armenia: Anonymous, Integrity Initiative coinvolta in copertura giornalistica “Rivoluzione di velluto” (Agenzianova 05.01.19)

Washington, 05 gen 10:10 – (Agenzia Nova) – I documenti pubblicati ieri sera dal noto gruppo di hacker Anonymous sul progetto Integrity Initiative coinvolgono anche l’Armenia. Nei materiali relativi alla rete di contro-informazione finanziata dal Regno Unito per contrastare l’influenza russa nel mondo occidentale, figurano anche una lista di giornalisti, articoli e ricevute di pagamento. I documenti, rivelati da Anonymous, includono un elenco di pubblicazioni sui media sulla Russia e sul suo presunto ruolo negativo nel mondo, fra cui l’articolo di un ricercatore, Eduard Abrahamyan, sulle recenti proteste in Armenia, intitolato “Mosca teme che la ‘Rivoluzione di velluto’ armena potrebbe ridurre la sua influenza su Erevan”. A quest’articolo si allega una fattura di 250 sterline destinate ad Abrahamyan per aver “informato il pubblico sulle dinamiche in corso nella politica interna ed estera dell’Armenia”. (Was) © Agenzia Nova – Riproduzione riservata

Dalle albicocche ai khachkars i simboli della tradizione dell’Armenia: da Noè all’Ararat l’orgoglio di un popolo (Turismoitalianesa.it 05.01.19)

Simboli che parlano di storia, tradizioni, cultura, arte, perfino gusto e sapori. Ogni Paese ne ha, lo sappiamo bene noi italiani. A questo non sfugge neppure l’Armenia dove albicocche, duduk, vigneti e khachkars (le artistiche croci di pietra) sono autentici patrimoni che contraddistinguono nel mondo questo Paese nel Caucaso meridionale.

(TurismoItaliaNews) Gli armeni ci tengono a ricordare come il loro sia il Paese delle albicocche. In effetti la storia del frutto riconduce direttamente ad Alessandro Magno: è stato proprio lui nel quarto secolo avanti Cristo ad “esportarlo” dall’Armenia in Grecia e da qui fino a Roma, contribuendo alla sua diffusione in Europa. “L’indicazione delle albicocche come ‘mele armene’ (nome scientifico Mela armeniaca, Pomum armeniacum) nelle opere di Plinio, Dioscorida e Columella, confermano ulteriormente questa teoria – ci spiegano allo State Museum of Armenian History – è innegabile che le nostre albicocche, a causa delle condizioni climatiche del Paese, hanno un sapore unico pieno di sole e venti della valle dell’Ararat”. Ancora oggi l’origine armena delle albicocche è ricordata dai botanici che hanno designato il frutto “Armeniaca”.

Dalla natura all’artigianato. E sì, perché l’albero dell’albicocco, con il suo legno, fornisce il materiale più adatto – anzi, esclusivamente questo – più adatto per la produzione del più amato e famoso strumento musicale armeno: il duduk. “Lo strumento è stato inventato prima della nostra era, durante i giorni del regno di Urartu – ci dicono alla National Art Gallery of Armenia – il nome armeno originale dello strumento è tsiranapokh ed è realizzato esclusivamente con legno di albicocco, poiché assicura una sonorità speciale. Come nessun altro strumento, il duduk è in grado di esprimere l’anima della nazione armena: il suo suono consente un’esperienza spirituale elevata che a volte può condurti fino alle lacrime”. Provare per credere.
Quando si parla di Armenia il pensiero non può non correre all’Ararat. Anche se oggi questa montagna alta ben 5.137 metri appartiene territorialmente alla Turchia, nelle immediate vicinanze del confine con Armenia, Azerbaijan ed Iran, la sua storia è indissolubilmente legata agli armeni. Secondo la Bibbia, l’Arca di Noè si arenò su questo monte, che divenne in tal modo il luogo di origine del popolo armeno. Ecco perché l’Ararat è considerato una montagna santa, complice forse anche la sua bellezza straordinaria che l’ha portato a simboleggiare la madrepatria per ogni armeno. E il simbolo culturale e nazionale più riconoscibile dell’Armenia può di fatto essere visto ovunque, a partire dall’emblema dello stato e fino ai loghi nazionali. Incluso il famoso omonimo brandy.

L’argomento brandy conduce a parlare di un altro simbolo: l’uva. E pure qui la storia parte da lontano: Noè piantò una vite portata dal giardino dell’Eden quando scese dall’arca. “Si ritiene che da allora le uve siano cresciute sul suolo armeno, simboleggiando ricchezza e abbondanza” sottolineano allo State Museum of Armenian History. E nemmeno a dirlo uno dei piatti più deliziosi della cucina nazionale armena, il dolma, viene preparato utilizzando foglie di vite. Peraltro sin dalla prima vendemmia, Noè è stato in grado di produrre vino.
“Tenendo conto delle tradizioni bibliche e dei fatti scientifici, l’Armenia si può considerare la culla della vinificazione – dicono ancora allo State Museum of Armenian History – in particolare nelle grotte di Areni gli scavi archeologici hanno consentito di individuare la primissima azienda vinicola del mondo, antica di oltre 6.000 anni”. E come culla della vinificazione, l’Armenia considera il vino come uno dei simboli nazionali. Rimanendo fedele alle tradizioni, il primo sabato di ottobre di ogni anno, l’Armenia organizza l’annuale festival del vino pan-armeno: l’Areni Wine Festival, con una mostra e una degustazione di vini. Come diceva Charles Aznavour “il buon vino armeno contiene tutto ciò che puoi sentire, ma non può essere espresso in parole…”.

Infine i khachkars, ovvero le croci di pietra: sono tipicamente armene e identificano la cultura cristiana in Armenia. L’arte del khachkar costituisce il contributo più originale del popolo armeno al patrimonio della cultura mondiale: fondata sull’arte monumentale di antica di tradizione, la produzione di questi simboli si è sviluppata nei primi anni del cristianesimo e ha raggiunto il suo apice nel medioevo. C’è un luogo particolare dove ammirarle tantissime: il cimitero di Noratus – nella regione di Gegharkunik, sulla sponda destra del fiume Gavaraget – è la seconda area più vasta dopo quella di Jugha (Nakhichevan) con i suoi innumerevoli khachkar (più di 2.700), alcuni dei quali si trovano nel cortile di Echmiazin. Tuttavia dal 1998 al 2005 i khachkar di Jugha sono stati sistematicamente distrutti dall’Azerbaigian e dunque Noratus è diventato il primo e più grande museo all’aperto di khachkar al mondo.
Come primo stato ad adottare il cristianesimo (all’inizio del IV secolo) in Armenia, nell’epoca in cui questa fede ha iniziato a diffondersi qui, ha cominciato ad emergere una nuova natura dell’espressione religiosa, che ha lentamente ma inesorabilmente integrato l’identità nazionale. Invece di templi e altari nel Paese hanno iniziato a spuntare croci di legno, poi sostituite (per la loro breve durata) a partire dal nono secolo da croci incise sulle pietre (khach – cross, kar – stone). Oggi sono simboli unici per la cultura armena e considerati di grande valore architettonico. Dal 2010 i khachkar sono inclusi nell’elenco Unesco dei beni culturali immateriali. A Noratus ci sono splendidi esempi di ogni periodo della loro formazione. Le origini dell’arte del khachkar riconducono al periodo prescristiano, quando venivano scolpiti i vishap (drago), pietre monumentali di culto a forma di steli collocate vicino alle fonti d’acqua.“È sorprendente scoprire come ognuno dei simboli nazionali dell’Armenia sia diventato e si siano influenzato a vicenda nel processo di sviluppo storico” sottolineano dallo State Tourism Committee dell’Armenia.

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Armenia: autorità Erevan chiedono a Repubblica Ceca estradizione nipote ex presidente Sargsyan (Agenzianova 04.01.19)

Erevan, 04 gen 13:59 – (Agenzia Nova) – I documenti necessari per l’estradizione del nipote dell’ex presidente dell’Armenia Serzh Sargsyan, sono stati inviati alle forze dell’ordine della Repubblica Ceca. Lo riferisce il direttore del dipartimento per le pubbliche relazioni dell’ufficio del Procuratore generale armeno Arevik Khachatryan, citato dall’agenzia “Armenpress”. “I documenti richiesti per l’estradizione sono stati inviati dall’ufficio del procuratore generale e agli organi preposti all’applicazione della legge della Repubblica Ceca il 28 dicembre”, ha detto Khachatryan. In base alla Convenzione europea di estradizione, la persona arrestata può rimanere in detenzione preventiva per un massimo di 40 giorni, e se in tale periodo non viene presentata la domanda di estradizione, le autorità possono rilasciare il detenuto. Il periodo di estradizione scade a metà gennaio. (segue) (Res) © Agenzia Nova – Riproduzione riservata

Da Teheran gli auguri per il nuovo anno. Vescovo armeno: In Iran c’è libertà di culto (Asianews.it 03.01.19)

Teheran (AsiaNews/agenzie) – Nel messaggio di auguri per il nuovo anno che si è appena aperto, il ministro iraniano degli Esteri Mohammad Javad Zarif – artefice dello storico accordo sul nucleare (il Jcpoa) del 2015 sconfessato da Trump – augura “la pace per tutto il pianeta”. Rivolgendosi ai cittadini e ai leader mondiali, il capo della diplomazia di Teheran auspica una azione comune contro “il terrorismo, le guerre e la fame nell’anno 2019”.
In un post rilanciato su twitter, Zarif afferma di sperare “in un Nuovo Anno felice, sano e pacifico”. Il leader iraniano dice inoltre di pregare perché nessun uomo, donna o bambino innocente debba perdere la propria vita a causa della fame, dei conflitti o del terrorismo.
In precedenza era stato lo stesso presidente Hassan Rouhani a rivolgere un messaggio di auguri ai leader mondiali e ai cristiani iraniani per l’inizio del 2019, dicendosi fiducioso che il mondo possa crescere “il welfare e la prosperità” mediante uno sforzo collettivo. In occasione del Capodanno, egli ha quindi incontrato i parenti del martire armeno iraniano Alfred Gabri e del veterano di guerra Hasou Keshish Danilian.
Il capo di Stato ha ringraziato la comunità armena iraniana per il suo contributo in un’ottica di mantenimento della sicurezza nazionale. “Oggi – ha detto Rouhani – sono pronti a ulteriori sacrifici e questo è davvero ammirevole”. Egli ha quindi sottolineato che i musulmani considerano Gesù Cristo e la Vergine Maria come figure sacre e ha esaltato gli armeni – la più importante minoranza religiosa del Paese – per quanto fatto durante la Rivoluzione islamica del 1979 e la guerra con l’Iraq fra il 1980 e il 1988.
In Iran vivono fra i 300mila e i 500mila cristiani, in maggioranza armeni, assiri e caldei. I cristiani hanno rappresentanti in Parlamento (Majlis) che godono degli stessi diritti e rappresentatività dei loro colleghi musulmani. Ieri il vescovo Sipan Kashjian, leader degli armeni a Isfahan e nel sud dell’Iran, ha ricordato la libertà religiosa di cui godono i cristiani del Paese. “A dispetto della propaganda occidentale – ha dichiarato – i fedeli delle diverse religioni godono di completa libertà di culto e possono praticare in piena libertà e autonomia”. “Spero che il nuovo anno – ha concluso – possa portare maggiore conoscenza e consapevolezza nel mondo sull’Iran”.

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Sulle tracce di mio padre (Internazionale 03.01.19)

Mio padre si chiamava Setrak. Era nato a Karputh, verosimilmente in un secolo che aveva solo otto anni e non manifestava ancora segni di follia. La sua famiglia faceva parte della comunità armena di Anatolia che all’epoca contava due milioni di anime. Mio padre è fuggito dal suo villaggio in una sera di aprile del 1915, dopo che un’orda di soldati, di gendarmi e di ausiliari curdi – i tchété che hanno assillato le nostre notti d’infanzia – ha invaso la fattoria in cui viveva una famiglia di trenta persone.
Questa gente viveva di poco, ma diversi testimoni affermano che si trattava di persone accoglienti, sempre pronte a offrire un tetto e un pasto ai viandanti che si guadagnavano il pane quotidiano in cambio di qualche giornata di lavoro. Preparare delle forme di sterco di vacca facendole seccare per il focolare dell’inverno era un’attività che occupava tutti permanentemente. Quattro mesi di neve con una temperatura che scendeva a dieci gradi sotto lo zero, e delle estati così calde da far spaccare i muri di argilla, paglia e sassi.
La casa aveva un tetto piatto, e il piccolo Setrak aveva scoperto il piacere di giocare con le palle di neve, perché ai bambini era affidato il compito di liberare il tetto dalla neve. Setrak raccontava anche di quando, durante l’estate, sguazzava nello stagno con una zucca secca legata in vita a mo’ di boa. Quel mondo si è dissolto in qualche ora. La casa era abituata alle incursioni di uomini in divisa che venivano a prelevare imposte particolarmente gravose per le famiglie armene, e che portavano via anche pecore e marmellate per migliorare il loro rancio. Come pure delle monete d’oro: di oro si parlava molto, e solo ora ne ho finalmente capito l’importanza.
Pietà filiale, passaggio obbligato di un lutto, bisogno tardivo di vedere se il sangue dei massacri si è essiccato? Non ho una risposta unica, ma ho sentito un bisogno imperioso di percorrere l’Anatolia, come se fosse arrivato il momento di calcare il suolo di questa terra misteriosa. E nelle città ho visto quest’oro grondare dalle vetrine dei gioiellieri. L’oro che tutti i contadini compravano con il ricavato del raccolto e che sotterravano nel punto più remoto della loro casa o in fondo al pozzo, in previsione dei giorni bui. Quel giorno del 1915 gli adulti hanno pensato di placare il furore dei gendarmi offrendogli le loro ricchezze. Ma neanche questo bastava: obbedivano ad altri ordini e avevano una missione ineludibile da portare a termine. Setrak è salito sul tetto e da una botola ha visto lo sterminio di tutti i suoi, i sussulti di suo padre, il cranio fracassato a colpi di pietre.
In quel momento il bambino è diventato adulto. Ha capito l’atmosfera pesante e i mormorii delle donne, le paure delle ultime settimane sulla piazza del mercato dove i turchi portavano alla cintura i loro lunghi pugnali ricurvi e guardavano gli “infedeli” con occhi sospettosi. È fuggito per un vagabondaggio che gli avrebbe fatto capire cosa sono il terrore, la fame, l’odore della morte, le zanne ferine. Per giorni? Per settimane?
Lingua morta
All’aeroporto di Elazig si respira un’aria di campagna, c’è molta gente che continua a occuparsi delle proprie faccende in tutta tranquillità. Un’ostinazione che già rimpiango mi ha spinto a compiere da solo questo strano pellegrinaggio. Pensavo che mi sarei fatto capire, mescolando le lingue, che avrei trovato un vecchio cicerone armeno che mi avrebbe raccontato la storia del mio villaggio. La realtà s’impone sempre in modo brutale: né in questi luoghi né altrove in Anatolia c’è ancora un’anima viva che parli la lingua che il potere dei Giovani Turchi (movimento riformista e ultranazionalista) ha ostinatamente e metodicamente cancellato, a partire dal 24 aprile 1915.
La città nuova si estende come un lungo nastro che percorre la vallata. Dovrò proprio far pace con questa sensazione di cantiere permanente, con i tondini di ferro che spuntano dappertutto, con le strade dissestate, e la polvere che avvolge tutto. Già in aereo le donne anziane coperte dal velo e le ragazze vestite secondo la moda occidentale mi avevano fatto ricordare che mi trovavo in un altro continente. Però questi uomini… Hanno un che di familiare.
Mi sembra di essere uno straniero che arriva troppo tardi per seppellire le sue illusioni
La forma dei loro baffi è indice, a quanto pare, del loro impegno politico. Di loro ho sempre sentito dire che erano nostri nemici.
A parte qualche frase di cortesia, non parlo il turco. Ma è una lingua che mi è familiare, che riconosco anche se non la capisco. Era la lingua segreta degli adulti, riservata a raccontare le sciagure dalle quali si volevano proteggere i bambini. Quanto all’autista del mio taxi che ha vissuto per alcuni anni in Germania, la nozione di quartiere armeno gli è oscura quanto il linguaggio dei semafori.
A parte l’eleganza dei minareti, l’esotismo dei negozi di “fotocopi”, gli “ambulans”, la “polis” e le cabine di “telefon”, la città trasuda noia non appena ci si allontana dall’opulenza del mercato che trabocca di legumi e di frutti estivi. Melanzane, peperoni, montagne di menta, angurie, ciliegie, albicocche e nespole (che chiamavamo yeni dugna): la cucina, i gusti e gli odori che mi pervadono mi stanno facendo rituffare nella mia Little Armenia di Marsiglia, dove gli esuli dell’Anatolia hanno ricreato i loro villaggi perduti. A dire il vero, e questo nonostante la familiarità dell’ambiente, non mi sento per niente a mio agio, oppresso dal fatto di assomigliare a un turista senza storia in quei luoghi dove la mia immaginazione riesce a scovare solo qualche piccolo frammento della barbarie passata.
Dismisura
Ci siamo lasciati alle spalle la città senz’anima per arrampicarci verso le alture della mitica Karputh. Karputh che mi hanno sempre descritto come un punto d’incontro importante per gli intellettuali armeni, una città dove un tempo si viveva in pace con i turchi in un paesaggio ricco di vigneti, di allevamenti di bachi da seta e di frutteti. Un luogo dove si dividevano le seterie, le fabbriche di tappeti, dove i conciatori di pelli vivevano fianco a fianco con gli artigiani che lavoravano il rame. Dai racconti dell’infanzia di Setrak mi sono fatta un’immagine smisurata del suo borgo. Mi raccontava della cinquantina di città e villaggi che erano legati al suo paradiso perduto dell’infanzia, delle sessanta chiese, dei nove monasteri. Karputh e la sua popolazione di quarantamila armeni che potevano disporre di novanta scuole.
La catena del Tauro svetta all’improvviso sul nostro orizzonte e la cittadella in rovina si staglia sull’alto delle montagne. La fattoria della mia famiglia si doveva trovare da quelle parti, avevo coltivato il sogno che un giorno mi sarei trovato sotto il tiglio a chiacchierare con i nipoti dei curdi, del tutto ignari delle spoliazioni.

Le sorgenti dell’Eufrate nella regione di Erzurum, Anatolia sudorientale, 1997. (Rainer Drexel)
Con la pianta dei luoghi tra le mani il tassista si addentra nelle stradine, ma le immagini impresse nella mia immaginazione si sfilacciano e le ricche abitazioni annidate ai piedi della scarpata scompaiono. Nella parte più bassa ci sono ancora i resti delle case in rovina, invasi dalle erbacce, dai papaveri che fanno venire la tristezza, dalle lucertole che s’infilano dappertutto. E grandi fosse che squarciano il paesaggio morto. La Karputh dei miei sogni è scomparsa. E con lei il prestigioso collegio dell’Eufrate che immaginavo simile al mio liceo, le missioni protestanti, la chiesa.
Mi sono seduto ai piedi della montagna per impregnarmi del paesaggio dei miei, stringere tra le mani le foglie lanuginose del cotogno, inebriarmi del colore dei melograni, ritrovare il profumo degli alberi di fico. E mi sembra di essere uno straniero che arriva troppo tardi per seppellire le sue illusioni. Devo guardare ancora i noci e gli olivi, riscaldare le mie mani sulle pietre coperte di muschio. Tracce di un ambiente che i miei hanno guardato, calpestato sotto i loro piedi. Forse Setrak
si sarà arrampicato su uno di quegli alberi, un po’ meno alto, in questa luce stranamente provenzale. È là che i bambini giocavano nelle loro capanne? Nella vallata la costruzione di una diga ha sconvolto tutto il paesaggio, e i contadini che si sono arricchiti con i terreni espropriati si sono fatti costruire delle abitazioni di quattro piani, degli “apartman” di tipo cittadino.
Fifty-fifty
Il tassista ha finalmente compreso la mia ricerca e si ferma davanti a delle case dove non risuonano voci, ma io non oso varcarne la soglia. Brilla solo l’immagine del televisore, annunciato dalle parabole che ricoprono i tetti piatti di quest’immutabile architettura di terra. Alcuni giovani vengono verso di noi. I Geld, i “soldi” tedeschi, i gesti, i segni tracciati sul suolo, ma soprattutto il ricordo dei racconti ascoltati con scetticismo, mi fanno capire che per loro io sono uno di quegli armeni che hanno in tasca i punti di riferimento, una mappa, un albero, un pozzo che indica dove è sepolto il tesoro.
Attraverso gesti punteggiati dalle parole “fifty-fifty”, mi fanno capire che si può fare a metà, che loro sono abituati a trattare con i Kharpertsi di Los Angeles, eredi delle grandi famiglie che avevano introdotto la fotografia e la stampa nell’Impero ottomano.

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Arzu Abdullayeva: donna di pace tra Azerbaijan e Armenia (Osservatorio Balcani E Caucaso 02.01.19)

Originaria di Baku, Arzu Abdullayeva ricorda ancora quando aveva vicini di casa e amici armeni. Tuttavia, dopo una generazione di conflitto sul Nagorno-Karabakh, questa storica attivista per la pace sta diventando sempre più pessimista.
“Hanno detto che sono pro-armena, che ho sangue armeno, che mio padre, mia madre e mio nonno erano armeni. Non era abbastanza per loro: mi hanno minacciata, hanno tenuto una dimostrazione di fronte al mio ufficio e volevano che mi suicidassi. Tutto questo perché sono un’attivista per la pace”, racconta Arzu Abdullayeva, che guida la Helsinki Citizens Assembly a Baku.
La guerra per il Nagorno-Karabakh, la cui fase più intensa è stata tra il 1991 e il 1994, si è conclusa con un cessate il fuoco. Tuttavia, la pace è rimasta precaria: mentre Armenia e Azerbaijan negoziavano per porre fine al conflitto sono continuati combattimenti sporadici.
L’atteggiamento del governo azero nei confronti della costruzione della pace è cambiato nel corso degli anni, afferma Azra Abdullayeva.
“La situazione era migliore sotto l’ex presidente Heydar Aliyev. Non molto tempo dopo il suo insediamento ho fatto appello direttamente a lui e, come risultato, sono stati liberati 38 prigionieri armeni. Più tardi, la situazione è peggiorata. Ora è arrivata al punto che non possiamo attuare alcun progetto di pace”, dice.
Arzu Abdullayeva sostiene che le persone più difficili da raggiungere sono quelle che vogliono la guerra senza rendersi conto della profondità del dolore che porta e i politici che vedono il conflitto del Nagorno-Karabakh come un gioco.
Progetti di pace
Tuttavia, Arzu afferma di aver avuto una buona esperienza nell’attuazione di progetti di costruzione della pace con colleghi dell’Armenia, della vicina Georgia e di altri paesi.
“Certo, abbiamo ottenuto buoni risultati in questo settore. Abbiamo tenuto molti incontri ed eventi”.
Arzu Abdullayeva aggiunge che lei e i suoi colleghi hanno avuto un ruolo importante nel lavoro sui “Principi di Madrid”, uno degli accordi di pace proposti per il conflitto, oltre ad aiutare i familiari di 500 fra le circa 4.000 persone scomparse durante il conflitto.
Nonostante i successi, Abdullayeva vorrebbe poter fare di più.
“Fa male. Forse, se avessimo più esperienza, potremmo salvare più persone”, dice.
Gli stretti rapporti con i colleghi armeni nel Nagorno-Karabakh sono stati di vitale importanza per ogni successo, sottolinea, perché tutti credono nella pace, nell’umanità e nell’agire con coscienza.
“Attraverso di loro siamo riusciti a raggiungere quelle persone scomparse. Se non avessimo creduto nelle stesse cose e condiviso gli stessi sentimenti, nessuno dei nostri successi sarebbe stato possibile”.
Nel 2005, Arzu Abdullayeva ha ampliato il proprio attivismo per la pace e ha contribuito a creare un gruppo internazionale per la risoluzione del conflitto.
La sua organizzazione, insieme all’olandese IKV PAX Christi e alla Finnish Crisis Management Initiative, ha creato il Consiglio pubblico di esperti sulla soluzione del conflitto del Karabakh.
Il gruppo comprende peacekeeper, politologi, sfollati interni, giornalisti e altre figure, ma nessuno di nazionalità armena. Il gruppo sta lavorando su percorsi di risoluzione del conflitto.
“Ci riuniamo e discutiamo notizie e sviluppi relativi al problema del Karabakh e valutiamo la situazione. Poi condividiamo le nostre riflessioni con i nostri colleghi armeni. [La cooperazione] è piuttosto difficile, perché gli armeni non possono venire in Azerbaijan e viceversa”, dice Abdullayeva.
La guerra dell’aprile 2016 ha sottolineato la fragilità degli sforzi del gruppo per la costruzione della pace. Conosciuta anche come “Guerra d’aprile” o “Guerra dei quattro giorni”, è stata la peggior fiammata dal cessate il fuoco del 1994 e ha provocato la morte di almeno 200 persone. Giornalisti, politici e alcuni attivisti pacifisti da entrambe le parti sono diventati temporaneamente propagandisti di guerra online durante i combattimenti.
Abdullayeva rimane filosofica in merito: “La vera natura di una persona emerge in una crisi”, dice.
Durante i quattro giorni di intensi combattimenti, ha lanciato un appello pubblico, esortando entrambe le nazioni a porre fine al conflitto.
“Ho chiesto alle persone di controllare le emozioni, di pensare e agire razionalmente. La guerra non va a vantaggio delle persone in Armenia o in Azerbaijan”, dice Abdullayeva.
Donne e conflitto
Da attivista, Arzu Abdullayeva ha pagato un prezzo pesante per i propri sforzi per portare la pace nel suo paese.
A livello internazionale, tuttavia, il suo lavoro le ha portato elogi e riconoscimenti. Nel 1992 insieme alla collega armena Anahit Bayandur ha ricevuto il premio Olof Palme per la pace per gli sforzi volti a facilitare gli scambi di prigionieri di guerra e promuovere il dialogo durante le fasi più intense del conflitto.
Le due donne hanno anche scritto un libro sul peacekeeping, “Gender and Peace”, ora utilizzato nei corsi di formazione incentrati sui conflitti nel Caucaso meridionale.
Arzu Abdullayeva crede che le donne possano svolgere un ruolo importante nel costruire la pace, ma osserva che “non ci sono molte attiviste nel settore della costruzione della pace”.
“Penso che qualsiasi persona pacifica e gentile possa essere coinvolta nella costruzione della pace tra le comunità”.
Abdullayeva è ancora in lutto per Bayandur, scomparsa diversi anni fa.
“Non è riuscita a vedere la pace che desiderava così tanto. Era una persona giusta e gentile”.
La sua amicizia con Bayandur, in qualche modo, ha fatto eco ai suoi ricordi d’infanzia, ma ha anche sottolineato i legami culturali che i due paesi hanno perso a causa della guerra.
Essendo cresciuta a Baku prima dell’inizio dei combattimenti, Abdullayeva aveva molti amici e vicini armeni.
“Ho avuto molti amici armeni durante i miei anni di scuola. Nel nostro condominio c’erano due famiglie armene che vivevano al nostro piano. Siamo cresciuti insieme ai loro figli. Una di loro, Eliza Mahmutyan, era la mia migliore amica. Non avrei mai immaginato che ci potessero essere scontri tra queste due nazionalità a Baku. Ma è successo. Quando sono tornata a casa da Mosca, dove studiavo, loro [gli armeni che vivevano nell’edificio] non c’erano più”.
Oggi, armeni e azeri hanno contatti limitati. Abdullayeva non ha potuto nemmeno partecipare ai funerali di Bayandur in Armenia.
Ma la reputazione di Abdullayeva e il suo impegno a stringere legami con gli armeni hanno ispirato alcuni armeni etnici che vivono ancora in Azerbaijan a rivolgersi a lei per avere aiuto quando affrontano pregiudizi e ingiustizie, ad esempio essere licenziati, cacciati dalle proprie case e non poter riscuotere le pensioni statali.
“Ho dichiarato che queste persone sono fedeli all’Azerbaijan. Non sono andate da nessuna parte, sono rimaste qui. In cambio, dobbiamo difendere i loro diritti e sostenerli”, dice.
“La mia dichiarazione è stata accolta molto male. Ma stavo difendendo l’umanità”.
Tutti hanno colpa
Sia l’Armenia che l’Azerbaijan hanno perso molto tagliando i loro legami, dice Arzu Abdullayeva, affermando poi che entrambe le parti sono responsabili della rottura, anche se i pogrom degli anni ’80 hanno esacerbato le tensioni.
“È successo in Armenia e in Azerbaijan. È stato un processo doloroso. La nostra gente pensa che solo gli armeni abbiano perseguitato gli azerbaijani lì [in Armenia]. Ma non è vero; anche persone sconosciute in Azerbaijan hanno organizzato queste cose”, dice.
“Quindi, quando lavoriamo con le persone, diciamo sempre che nessuna parte è innocente. Entrambe hanno grandi colpe”.
Sottolinea che entrambi i paesi hanno molte cose in comune e le persone dovrebbero concentrarsi su questo, invece di contendersi la titolarità degli elementi della cultura che condividono.
Abdullayeva nota che la cronologia del conflitto – 26 anni di durata ormai – rappresenta un’intera generazione.
Con il passare del tempo, afferma, sta perdendo l’ottimismo.
“Ho passato tutta la vita a cercare di costruire la pace. Abbiamo cercato di riconciliare armeni e azerbaijani per anni. Sfortunatamente, non è stato possibile. Ecco perché sono delusa. In generale sono ottimista, ma con il tempo sto diventando anche pessimista”.

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Il genocidio degli armeni è nato nella testa e nelle idee malsane dei teorici tedeschi (Ilfoglio 01.01.19)

Ci sono dei punti fermi, delle ben visibili pietre miliari, in questa straordinaria e tenace tessitura di idee che si va lentamente ma inesorabilmente intrecciando a proposito del genocidio armeno, modello e primo tragico esempio di una prassi di distruzione di massa che avrà tanti imitatori nel corso del Novecento. Si tratta di un percorso di conoscenza che prosegue ormai da una trentina d’anni: ed è già incredibile il fatto stesso che ogni indagine critica, ogni acquisizione di dati (siano essi i racconti dei sopravvissuti e di persone a vario titolo presenti nell’Impero ottomano in quegli anni cruciali, o le scoperte di documenti finora più o meno colpevolmente ignorati, o gli archivi finalmente aperti, come quelli tedeschi o vaticani) non contraddice le informazioni già acquisite, ma le completa, le amplia, le convalida.

Gli storici e studiosi più importanti che se ne sono occupati (armeni e no) sono riusciti a costruire un vero grande archivio di informazioni, dopo decenni in cui – a livello di conoscenza generale – dell’esistenza stessa degli armeni come popolo si era quasi perduta la memoria: penso a Vahakn Dadrian, Taner Akçam, Richard Hovannisian, Yair Auron, Robert Jay Lifton, Raymond Kévorkian, Marcello Flores e i tanti altri che hanno descritto con ricchezza di documenti la tragedia armena, ne hanno definito le caratteristiche genocidarie, controllato meticolosamente le perdite umane e le modalità di sterminio, regione per regione dell’Anatolia. Le numerosissime testimonianze dei sopravvissuti, trascritte o registrate a partire dal 1916, sono state poi raccolte e collazionate, e oggi costituiscono un insieme imponente, in cui le flebili voci dei superstiti si potenziano l’una con l’altra in un coro ripetuto e straziante. Ma, come ben scrive Taner Akçam, lo storico turco che si batte da tanti anni contro il negazionismo di stato del suo paese, il libro di Siobhan Nash-Marshall è qualcosa che ancora mancava in un panorama pur così ricco.

È la voce della filosofia, della riflessione che scava ad ampio raggio e trova le oscure e lontane radici di quelle ideologie e di quei comportamenti che a posteriori appaiono aberranti (come si è tante volte osservato a proposito delle persecuzioni antiebraiche e dei campi di sterminio nazisti), ma di cui spesso non riusciamo a comprendere la ragione profonda, il vero perché. Particolarmente interessante è l’analisi di quello che l’autrice chiama “il principio greco”. È infatti dalla pace di Adrianopoli del 1829, che sancisce il diritto del popolo greco ad avere come sua patria indipendente quella parte dell’Impero ottomano dove vivevano gli antichi greci (e tutta l’Europa, in pieno risveglio romantico, si mosse per sostenere questo diritto), che il diritto di nascita sostituisce, nel sentire comune, il “diritto di conquista”.

L’Impero romano – giusto per fare un esempio – considerava suoi i territori che conquistava, al punto da imporre ai popoli soggetti l’uso della lingua latina. Ma questo fu un disastro per l’Impero ottomano. Si giustificavano così le lotte irredentistiche di tutti i popoli sottomessi, ognuno dei quali rivendicava la sua terra, mentre ai turchi, che governavano lo stato, ma erano venuti dalle steppe d’oriente, una “patria”, un vatan, mancava. Lo cercarono, e lo trovarono, in Anatolia: e tuttavia, per ottenerlo, bisognava allontanare – o meglio, eliminare – gli abitanti autoctoni di quella regione.

È con la sensazione di assistere alla costruzione di una trappola inesorabile che il lettore segue, capitolo dopo capitolo, i tasselli di questo progetto di morte mentre si incastrano lucidamente l’uno nell’altro. Tutto si tiene, e ogni affermazione poggia su riscontri e citazioni precise, tracciando un disegno chiarissimo che va dalla cultura tedesca dell’Ottocento, fra teorie filosofiche e articoli divulgativi sugli armeni “che sono gli ebrei del medio oriente”, fino ai testi degli ideologi dei Giovani Turchi che di quella cultura si sono nutriti. Ed è a partire da queste basi che Siobhan Nash-Marshall, in questo libro affascinante e coraggioso, affronta con ampia documentazione anche il problema dell’accanito negazionismo di stato come “parte integrante del processo genocidario” (rav Giuseppe Laras). Ancor oggi infatti, dopo più di cent’anni, ogni diniego dei fatti, ogni capzioso distinguo rinnova nei cuori e nelle menti dei discendenti delle vittime l’orrore di quella tragedia infinita, la rende attuale e presente, allontana perdono e oblio.

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