Cristiani perseguitati: Martinez alla Conferenza internazionale dell’Osce a Yerevan (SIR 22.11.17)

Salvatore Martinez, presidente della Fondazione vaticana “Centro internazionale Famiglia di Nazareth” e dell’Osservatorio sulle minoranze religiose nel mondo e sul rispetto della libertà religiosa, su invito e delega alla rappresentanza del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, interverrà oggi alla Conferenza internazionale in programma a Yerevan, capitale dell’Armenia, sul tema: “Contrastare e prevenire i crimini di odio contro i cristiani e i membri di altri gruppi religiosi – Prospettive dall’Osce e oltre”. L’evento è organizzato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), con il supporto del Ministero degli Affari esteri dell’Armenia. All’iniziativa parteciperanno ministri o alti rappresentanti provenienti da diversi Paesi del mondo. Il Forum prevederà un confronto tra diversi stakeholders e costituirà una preziosa occasione per esplorare le sfide, condividere best practices e fornire raccomandazioni sui temi oggetto dell’incontro. Sarà articolato in tre sessioni aventi ad oggetto come tematiche: “I crimini di odio contro i cristiani e i membri di altri gruppi religiosi nell’area Osce e oltre”; “Prevenzione e risposta ai crimini di odio e agli incidenti nei confronti di cristiani e dei membri di altri gruppi religiosi nell’area Osce e oltre: risposte internazionali, nazionali e locali, complementarità e coordinamento internazionale tra organizzazioni ed iniziative”; “ Il ruolo della società civile: best practices e raccomandazioni per affrontare le discriminazioni, l’intolleranza e la negazione dei diritti ai cristiani”. L’iniziativa si pone nel solco tracciato dal Santo Padre Francesco, recatosi in Armenia, in visita apostolica, dal 24 al 26 giugno 2016.

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Turchia: aumentano nei media “hate news” contro ebrei, armeni e siriani (mainfatti.it 21.11.17)

“Nei media turchi, cartacei e digitali, crescono a ritmi elevati le ‘hate News’ e gli interventi che esprimono disprezzo e incitamento all’odio verso singole persone e gruppi umani identificati su base nazionale, etnica o religiosa. Tra i gruppi più colpiti ci sono gli ebrei, i siriani e gli armeni” viene riportato in un comunicato dalla Fides, citando un rapporto diffuso dalla Fondazione Hrant Dink.
“Secondo la Fondazione, che porta il nome del giornalista turco di origine armena assassinato nel 2007, nel periodo da maggio ad agosto 2017 sui media turchi sono apparsi 2466 discorsi di incitamento all’odio rivolti contro 48 gruppi diversi” prosegue l’agenzia di stampa cattolica.
“Oltre a ebrei, siriani, e armeni, anche i greci in Turchia sono diventati bersaglio di ‘hate News’. Secondo quanto riportato dal giornale ‘Agos’, testata bilingue armena-turca pubblicata a Istanbul, il rapporto della Fondazione Hrant Dink fa notare che spesso su alcuni media turchi la parola ‘ebreo’ viene utilizzata come un insulto” comunicano in conclusione dall’organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie.

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Armenia-Russia: presidente Sargsyan, relazioni cresciute notevolmente negli ultimi 25 anni (Agenzianova 21.11.17)

Erevan, 21 nov 12:28 – (Agenzia Nova) – Negli ultimi 25 anni le relazioni russo-armene sono cresciute al livello più elevato, toccando tutti i settori della cooperazione intergovernativa. Lo ha detto il presidente armeno, Serzh Sargsyan, durante l’evento dedicato al 25mo anniversario delle relazioni bilaterali fra i due paesi organizzato in concomitanza con la visita del ministro degli Esteri Sergej Lavrov a Erevan. “La cooperazione strategica armeno-russa si distingue per l’elevata fiducia del dialogo politico. Abbiamo sviluppato un coordinamento sulla politica estera nello scenario internazionale”, ha detto il presidente armeno, secondo cui grazie “agli sforzi congiunti abbiamo rafforzato la partnership di successo nei campi della difesa e tecnico-militare, oltre che una produttiva cooperazione in termini commerciali, e nei settori energetico e dei trasporti”. (Res)

Cultura: Torrenti, contrastare degrado chiesa armena a Trieste (Ilpiccolo 21.11.17)

Trieste, 21 novembre – “La chiesa degli armeni di via Giustinelli, così legata alla storia di Trieste, non può cadere in rovina. Vanno subito intraprese delle azioni che ne contrastino il degrado”.

Lo ha affermato l’assessore regionale alla Cultura, Gianni Torrenti, a margine dell’incontro con i rappresentanti della comunità armena e del comitato sorto a difesa della chiesa edificata nel 1859 e originariamente intitolata alla Madonna delle Grazie.

Torrenti ha raccolto le istanze presentate dalla delegazione guidata dal delegato pontificio, Levon Zekyan, responsabile della Congregazione armena Mechitarista che, dal 2015, è anche vescovo dell’Arciparchia degli armeni ad Istanbul, attivandosi immediatamente per effettuare un sopralluogo alla chiesa in accordo con la Soprintendenza, in maniera tale da affrontare le prime, necessarie misure per tamponare l’emergenza legata all’incipiente degrado.

“Ritengo necessario – ha sottolineato l’assessore – che sia l’intera collettività a prendersi carico di questo bene, anche in nome delle radici comuni che legano la storia di Trieste alla presenza degli armeni. Le istituzioni devono certamente fare di concerto la loro parte in questa fase di emergenza e, a seguire, con una progettazione e un piano di lavori che consentano il recupero strutturale dell’edifico e la salvaguardia dei beni”.

A questo proposito, Torrenti ha ricordato che “bisogna avere un occhio di riguardo per l’organo fatto costruire a Vienna da Julius Kugy. La chiesa è infatti uno scrigno per il bellissimo organo Rieger donato dal famoso alpinist, che qui veniva a suonare ogni giorno: non possiamo permetterci che sia compromesso dal tempo e dall’incuria”.

La chiesa di via Giustinelli, intitolata al ricco possidente armeno che nel 1846 fece ottenere ai padri mechitaristi, già scappati da Trieste, il terreno per edificare un nuovo edificio di culto e un monastero, alcuni anni fa era sede della comunità cattolica tedesca che l’aveva affittata per il proprio rito.

Si tratta di uno dei complessi storici più interessanti e misconosciuti di Trieste. Autore del progetto dell’edificio è Giuseppe Bernardi che ne pubblica nel 1859 i disegni all’interno di un album intitolato Chiesa della Congregazione Mechitarista di Vienna, con la speranza di consegnare “alla posterità un monumento d’imperitura memoria” (Bernardi, 1859). I lavori iniziano nel marzo del 1859 e pochi mesi dopo i Mechitaristi decidono l’apertura di un collegio-convitto con l’avvio del primo corso del ginnasio e della scuola reale di lingua italiana.

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«Va subito contrastato il degrado della chiesa armena di Trieste» (Diario di Trieste 21.11.17)

TRIESTE – «La chiesa degli armeni di via Giustinelli, così legata alla storia di Trieste, non può cadere in rovina. Vanno subito intraprese delle azioni che ne contrastino il degrado». Lo ha affermato l’assessore regionale alla Cultura, Gianni Torrenti, a margine dell’incontro con i rappresentanti della comunità armena e del comitato sorto a difesa della chiesa edificata nel 1859 e originariamente intitolata alla Madonna delle Grazie. Torrenti ha raccolto le istanze presentate dalla delegazione guidata dal delegato pontificio, Levon Zekyan, responsabile della Congregazione armena Mechitarista che, dal 2015, è anche vescovo dell’Arciparchia degli armeni ad Istanbul, attivandosi immediatamente per effettuare un sopralluogo alla chiesa in accordo con la Soprintendenza, in maniera tale da affrontare le prime, necessarie misure per tamponare l’emergenza legata all’incipiente degrado.

«Ritengo necessario – ha sottolineato l’assessore – che sia l’intera collettività a prendersi carico di questo bene, anche in nome delle radici comuni che legano la storia di Trieste alla presenza degli armeni. Le istituzioni devono certamente fare di concerto la loro parte in questa fase di emergenza e, a seguire, con una progettazione e un piano di lavori che consentano il recupero strutturale dell’edifico e la salvaguardia dei beni». A questo proposito, Torrenti ha ricordato che «bisogna avere un occhio di riguardo per l’organo fatto costruire a Vienna da Julius Kugy. La chiesa è infatti uno scrigno per il bellissimo organo Rieger donato dal famoso alpinist, che qui veniva a suonare ogni giorno: non possiamo permetterci che sia compromesso dal tempo e dall’incuria». La chiesa di via Giustinelli, intitolata al ricco possidente armeno che nel 1846 fece ottenere ai padri mechitaristi, già scappati da Trieste, il terreno per edificare un nuovo edificio di culto e un monastero, alcuni anni fa era sede della comunità cattolica tedesca che l’aveva affittata per il proprio rito. Si tratta di uno dei complessi storici più interessanti e misconosciuti di Trieste. Autore del progetto dell’edificio è Giuseppe Bernardi che ne pubblica nel 1859 i disegni all’interno di un album intitolato Chiesa della Congregazione Mechitarista di Vienna, con la speranza di consegnare «alla posterità un monumento d’imperitura memoria» (Bernardi, 1859). I lavori iniziano nel marzo del 1859 e pochi mesi dopo i Mechitaristi decidono l’apertura di un collegio-convitto con l’avvio del primo corso del ginnasio e della scuola reale di lingua italiana.

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La strage armena sul palco. Chiodi colpisce pure Brescia (Laprovinciadivarese.it 20.11.17)

Il regista varesino da domani sarà al Teatro Stabile. Nello spettacolo anche la star Elisabetta Pozzi

Andrea Chiodi esordisce a Brescia: da domani sarà al Teatro Stabile per una produzione nuova di zecca.

«Debuttiamo con un nuovo spettacolo – spiega il regista varesino – con Elisabetta Pozzi. Siamo al quinto spettacolo insieme. Sono contento d’esser stato chiamato a lavorare per un teatro di questo genere. Il testo, “Una bestia sulla Luna”, poi è bello ed interessante, e tocca un argomento poco conosciuto: la strage degli armeni. È un pezzo di storia di cui si parla poco, ma con uno spettacolo abbiamo la possibilità di recuperarlo e di tirare fuori cose che ci parlano dell’oggi, in un momento in cui la cronaca ci parla quotidianamente di migranti».

Aram, Seta e un genocidio

Al centro della vicenda c’è una coppia. «Sono entrambi migranti. Lui, Aram, lo è per sfuggire al genocidio del suo popolo. Lei, Seta, lo è perché, come spesso accadeva, lo ha sposato per procura. Siamo nel primo dopoguerra, negli anni ’20 a Milwaukee». Ne nascerà una storia d’amore difficile, in bilico tra conflitti e silenzi, tradizione e voglia di cambiamento, dolore del passato e speranze per il futuro. Chiodi porta in scena un testo commovente, vincitore di cinque premi Molière in Francia, con la magistrale interpretazione di una delle più grandi attrici del teatro italiano.

«Il direttore mi ha chiamato qualche tempo fa, proponendomi di immaginare un lavoro triennale insieme ad Elisabetta Pozzi, una attrice straordinaria» che lo scorso luglio l’abbiamo ammirata a Varese al festival “Tra Sacro e Sacro Monte”, diretto proprio da Chiodi.

Una proposta ben accetta perché «sarebbe il desiderio di ogni regista avere una continuità con un teatro stabile. E poi mi fa piacere che ci sia attenzione al mio lavoro anche in altre città».

Una nuova sfida

Il testo, di Richard Kalinoski, è una sfida per il varesino. «Non mi sono trovato, come di consueto, di fronte a un testo epico quale potrebbe essere Shakespeare, ma di fronte a una drammaturgia storica, a un testo che ha una sua epica “quotidiana con un respiro universale». Oltre alla Pozzi, sul palco ci saranno Fulvio Pepe, Alberto Mancioppi e Luigi Bignone.

Il sipario si alzerà per la prima volta sulla pièce proprio nella serata di domani. «Sarà in scena per un mese ed è già quasi tutto esaurito».

Non nega la soddisfazione il varesino Andrea Chiodi che attribuisce il successo “annunciato” «ad un autore di qualità, grandi artisti e alla scelte del Teatro di Brescia che ha da tempo una programmazione meravigliosa e, cosa non da poco, produce spettacoli».

Una stagione da grandi

Nel corso del 2017/2018 saranno presentate al pubblico bresciano 11 nuove produzioni: in stagione e nelle rassegne da “I due gentiluomini di Verona” fino appunto a “Una bestia sulla luna”. Undici titoli per oltre 95 repliche che la colloca Brescia tra le realtà più fervide e rilevanti del panorama teatrale italiano.

«È bellissimo che una realtà come Brescia, per certi versi simile a Varese, abbia una realtà produttiva ed artistica di eccellenza e storicamente così importante. Mostra quanto una città di provincia possa avere fermento culturale e grandi proposte».

Si potrebbe replicare anche a Varese un teatro stabile pubblico? «Sì, bisogna prendere decisioni importanti, lavorare in un certo modo e mettere insieme grandi cose. Brescia include realtà di territorio e punta, al contempo, ad una qualità a livello nazionale, coinvolgendo grandi attori».

Tra poco più di un mese Chiodi parteciperà alla realizzazione corale del Presepe vivente a Varese. «In questa fase iniziale, sarò meno presente, ma poi ci sarò. Ho iniziato e dato un imprinting; ora aiuterò a coordinare e curare l’allestimento. Ormai è una realtà che cammina con le proprie gambe».

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Armenia-Russia: Lavrov a Erevan, deposta corona di fiori al memoriale del genocidio armeno

Erevan, 20 nov 17:03 – (Agenzia Nova) – Il ministro degli Esteri russo è arrivato a Erevan, in Armenia, nel quadro di un mini-tour che lo ha portato ieri e oggi a Baku, in Azerbaigian, volto a favorire una soluzione al conflitto del Nagorno-Karabakh, la regione contesa fra i due paesi. Il capo della diplomazia russa ha visitato il memoriale Tsitsernakaberd dedicato al genocidio armeno accompagnato, secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa “Armenpress”, dal viceministro degli Esteri armeno, Shavarsh Kocharyan, e dall’ambasciatore russo a Erevan, Ivan Volinkin. Lavrov ha in previsione un incontro con l’omologo Edward Nalbandian che, oltre che sulle relazioni bilaterali molto positive fra i due paesi, si incentrerà sul prossimo colloquio fra i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian che la copresidente del Gruppo di Minsk dell’Osce (Francia, Russia e Stati Uniti) intende organizzare nel prossimo periodo. (segue) (Res)

Con la forza degli anni alla marcia in memoria della deportazione degli Ebrei (Gonews.it 20.11.17)

Un fiume di persone sospinto dalla forza delle convinzioni, dalla forza debole di una testimonianza disarmata, dalla “forza degli anni”, come il convegno che a Firenze ha fatto parlare gli anziani delle strade possibili per impiegare bene tante energie, anche quelle della memoria che non possono non fare i conti con la Shoah. Così nei giorni scorsi, giovedì sera 16 novembre, la Comunità di Sant’Egidio insieme al Centro internazionale La Pira, i Focolari, gli evangelici, il Comune e la Città Metropolitana di Firenze rappresentate da consigliere Andrea Ceccarelli, le scuole di italiano con i richiedenti asilo e le scuole della pace con i bambini, ha ricordato la deportazione degli Ebrei di Firenze, avvenuta il 6 novembre del 1943.

Un vero e proprio pellegrinaggio della memoria – il quinto, a partire dal 2013 – nelle strade del centro storico, partito da via del Corso e in movimento fino alla sinagoga di via Farini, dove i partecipanti al corteo sono stati accolti dal rabbino Amedeo Spagnoletto e i responsabili della Comunità Ebraica – con la vicepresidente Daniela Misul, il consigliere Gadiel Liscia e Sara Cividalli per l’Ucei.
Anche quest’anno, dunque, la Comunità di Sant’Egidio, in accordo con la Comunità Ebraica, ha rinnovato questo gesto al quale hanno aderito tra l’altro la Comunità islamica di Firenze, la Comunità Armena, i buddisti della Soka Gakkai. Grazie alla collaborazione dell’Ataf, da Brozzi un autobus ha portato in centro più di cinquanta tra bambini, adulti e anziani, che hanno preso parte al cortero.
La marcia della memoria si colloca nel 2017 a 74 anni dalla prima deportazione degli Ebrei fiorentini.
Può essere utile ricordare alcuni dati.
Il 6 novembre 1943 il comando nazista avviò a Firenze la cattura e la deportazione degli Ebrei fiorentini. Vennero arrestate oltre 300 persone. Il 9 novembre furono caricate sui treni diretti verso Auschwitz, dove arrivarono il 14 novembre. Solo 107 superarono la selezione per l’immissione nel campo: gli altri vennero immediatamente eliminati.
Nell’elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884.
I tedeschi avevano completato l’occupazione di Firenze nel settembre 1943. Qui i nazisti poterono contare per la razzia sul sostegno attivo dei fascisti, in particolare su quello della banda Carità.
Degli Ebrei deportati nei lager dal 6 novembre del ’43 in poi, solo 15 tornarono indietro: otto donne e sette uomini.

Alla cerimonia nel piazzale della sinagoga, dopo il saluto commosso del rabbino Spagnoletto e un intervento del consigliere Andrea Ceccarelli, che ha ripercorso con attenzione e partecipazione le vicende della Comunità ebraica a Firenze, Dario, un liceale del Pascoli, ha letto a nome dei giovani una frase di Anna Frank, tratta dal suo diario: “Noi giovani facciamo doppiamente fatica a mantenere vivi i nostri ideali in un tempo in cui ogni idealismo viene distrutto e schiacciato, in cui le persone fanno conoscere il loro lato peggiore, in cui si dubita della verità, della giustizia e di Dio.
Questa è la difficoltà della nostra epoca: gli ideali, i sogni, le belle aspettative non fanno in tempo a nascere che vengono già attaccati e distrutti dalla realtà più crudele. E’ davvero un miracolo che io non abbia perso i miei sogni dato che sembrano assurdi e irrealizzabili. Eppure li tengo stretti, nonostante tutto, perché credo ancora nell’intima bontà dell’uomo. Non posso costruire tutto sulla base di morte, miseria e confusione.
Vedo il mondo mutare lentamente in un deserto sento sempre più spesso avvicinarsi il tuono che ucciderà anche noi, provo la sofferenza di milioni di persone. Eppure se guardo il cielo penso che tutto questo si concluderà per il meglio, che anche questa crudeltà finirà, che nel mondo regnerà nuovamente la tranquillità e la pace. Nel frattempo devo preservare intatti i miei ideali, nei tempi che verranno forse potrò ancora metterli in pratica”.
Questo pensiero del 15 luglio 1944 – ha ricordato Giovanna (allieva di una IV elementare) – è “tra le ultime parole che Anna Frank ha scritto nel suo diario. Anna non ha potuto realizzare il suo sogno di vivere in pace, per questo noi vogliamo impegnarci a realizzarlo credendo nell’amicizia senza essere razzisti”. A questo punto Greta, anche lei in quarta elementare, ha letto una poesia su Anna: “Come un uccello/messo in gabbia/ tanta sofferenza/ paura e disperazione/ solo per essere ebrea./ Oggi invece è diverso,/ non c’è più la guerra da noi,/ eppure alcune persone/ nutrono ancora odio./ Però tanti bambini/ credono nell’amicizia/ e se anche a quel tempo/ ci fosse stata un po’ più di amicizia,/ tu saresti vissuta!/ Tu avevi tanta speranza/ e cercavi di non avere odio verso nessuno./ Tu Anna non hai potuto volare,/ ma noi voleremo per te e per il tuo sogno!”.
Sono parole che dicono della forza degli anni nei giovani; ragazzi e ragazze che diventano testimoni e che raccolgono, per non dimenticarle, le memorie degli altri, come quelle di Dory Sontheimer, intervenuta in Palazzo Vecchio al convegno “La forza degli anni”, dove ha raccontato la sua scoperta di essere ebrea. Alla marcia di Firenze è stata Renata Calzolari a prestarle la voce e a leggerne la storia:

“Sono nata a Barcellona nel 1946. La seconda guerra mondiale era finita solo da un anno. I miei genitori erano tedeschi e io ricevetti un’educazione cattolica nel collegio di Santa Elisabetta gestito da suore tedesche.
La mia famiglia era formata solo dai miei genitori, da mio fratello e da me. Da piccola mi chiedevo sempre perché fossimo così pochi in casa e la risposta era sempre la stessa: “Morirono in guerra”.
Ho avuto un’infanzia felice. A Barcellona sono cresciuta fisicamente, spiritualmente e professionalmente. Ho fatto la mia carriera universitaria, sono laureata in farmacia. Mi sono sposata con un medico catalano con il quale condivido la mia vita da 48 anni. Abbiamo formato una famiglia di tre figli che a loro volta ci hanno dato dieci nipoti.
Quando compii 18 anni, i miei genitori mi dissero, con una certa segretezza, che le origini della nostra famiglia erano ebree, però mi dissero anche di non dirlo a nessuno perché sarebbe potuto essere pericoloso.
Questa notizia mi sorprese molto ma ricordo che pensai con gran sollievo al fatto che la mia famiglia non fosse nazista.
Mio padre morì nel 1984. Mia madre, nonostante fosse una persona con un carattere forte, cadde in una profonda depressione dalla quale si liberò solo il giorno della sua morte, molti anni dopo. Pochi giorni dopo la morte di mia madre, ho dovuto fare il triste lavoro di raccogliere e riordinare tutte le sue cose. Nella mia camera di ragazza, su di un soppalco, trovai sette casse. In quel momento non potevo immaginare che il contenuto di quelle sette casse avrebbe cambiato la mia vita.
Ogni cassa era etichettata: subito riconobbi la grafia di mio padre. Al loro interno cartelline contenenti fotografie, documenti e lettere, centinaia di lettere che le famiglie dei miei genitori si scambiavano in quei difficili anni. Migliaia di parole con infinità di nomi che per me non significavano nulla, nonostante fossero persone a me molto vicine, come i miei stessi nonni. Era un passato completamente nascosto.
C’erano anche delle fotografie. Ho visto immagini che testimoniano la felicità prima dell’olocausto e immagini del dopo, della “normalità del dopo” se questa è possibile.
Fu una cartellina in particolare a richiamare fortemente la mia attenzione. Era etichettata con il nome “Friburg”. In quella cartellina erano archiviate tutte le lettere che mia nonna Lina aveva scritto ai miei genitori e le risposte che loro le avevano inviato.
Le lettere cominciavano nel 1939, quando mia nonna ancora viveva nella sua casa di Friburgo. Tramite queste lettere ho potuto conoscere il martirio che hanno dovuto sopportare.
I miei genitori si erano conosciuti a Barcellona quando si trovarono lì fuggiti dall’antisemitismo imperante in Germania. I loro genitori, vedendo le difficoltà che avevano gli ebrei in Germania, li avevano mandati a Barcellona per proteggerli. Si sposarono nel 1936, e, quando finì la guerra civile Spagnola, si ritrovarono, ancora una volta, sotto il regime di una dittatura simile a quella dalla quale erano fuggiti.
Per la paura cambiarono identità. Mio padre cambiò il nome in Conrado, e mia madre in Rosita. Si convertirono al cattolicesimo e riuscirono ad ottenere la nazionalità Spagnola con la speranza di poter salvare quanti più parenti avrebbero potuto. Invece furono testimoni impotenti della tragica fine delle loro famiglie.
Negli ultimi anni ho scoperto che più di quaranta persone della mia famiglia furono sterminate solo per il loro essere ebrei. Tra loro i miei nonni materni dei quali non conoscevo neppure i nomi e che furono deportati nel 1940. I miei genitori cercarono di salvarli dal ampo di concentramento di Gurs, a soli trenta chilometri dai Pirenei. Lottarono contro il rifiuto del regime franchista di concedergli un visto di ingresso in Spagna. Fecero di tutto, anche tramite i contrabbandieri dei Pirenei. Tutto fu inutile.
Il 30 agosto 1942 arrivò l’ultima lettera dei miei nonni. Dicevano che erano stati messi nelle liste di deportazione e che non sapevano quale sarebbe stata la loro prossima destinazione.
Furono condotti ad Auschwitz con il convoglio numero 29 insieme ad altre 1.000 persone delle quali 889 furono portate direttamente alle camere a gas.
Cosa dovette rappresentare questo per mia mamma! Pensare che non le fu possibile salvare i suoi genitori…..
Nonostante questo riuscirono a rianimarsi: formarono una famiglia nella quale i loro figli riuscirono a crescere in un ambiente felice ed integrati nella società spagnola. Gli orrori vissuti erano il loro segreto. Non ne parlarono mai, li nascosero fino alla loro morte, fino a che si rivelarono a me, nascosti in quelle sette casse.
Adesso, settantacinque anni dopo l’insediamento al potere di Hitler, posso capire il silenzio dei miei genitori. Però comprendo soprattutto il decadimento delle facoltà mentali di mia madre nel momento in cui morì suo marito, mio padre, il compagno con il quale aveva condiviso tutto, gli orrori vissuti, i silenzi e con il quale era riuscita a riprendersi per poter educare i suoi figli in libertà. Durante i primi anni della sua malattia, mia mamma ogni tanto si metteva a gridare “La Gestapo ci porta via!!! La Gestapo ci porta via!!!”

Ha vissuto tanti anni nascondendo la paura, e questa è riapparsa con la perdita delle sue facoltà intellettuali. Capii che doveva aver sofferto un dramma molto importante che volevo conoscere ma del quale non osavo chiedere per non farla soffrire. Fu dopo aver conosciuto l’interno delle sette casse, che capii mia madre, il suo valore, il suo vigore vitale, la sua malattia e la sua morte. Posso pensare con soddisfazione di aver compiuto il suo desiderio di rimanere a casa propria fino alla fine, circondata dal nostro amore.

Mi piacerebbe terminare con una frase del Mahatma Gandhi: “Dove c’è amore c’è vita”. Ogni essere umano sente l’amore, da quando nasce fino alla fine della sua vita. Grazie per avermi lasciato condividere questo tempo con voi, con la speranza che tutti saremo capaci di costruire un mondo più comprensivo e umano”.
Al termine un’anziana e un bambino, Maria ed Hector, hanno deposto una corona di fiori davanti alla lapide che riporta i nomi di tutti i deportati della Comunità Ebraica di Firenze.

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Da Milano i Giardini dei Giusti arrivano in tutto il mondo (Tempi.it 19.11.17)

Lunedì sapremo se Milano è stata scelta come sede dell’Agenzia europea del farmaco, vincendo la concorrenza di città come Amsterdam, Bratislava e Copenaghen; nel frattempo da ieri, 16 novembre, è la sede di GariwoNetwork, la rete che collega i 79 Giardini dei Giusti esistenti in Italia e nel mondo, 75 dei quali sono sorti per impulso di Gariwo, la Onlus milanese nata per onorare e mantenere viva la memoria di quanti hanno rischiato o perduto la vita per impedire genocidi e altri crimini contro l’umanità, fondata da due milanesi discendenti di sopravvissuti di olocausti: l’ebreo Gabriele Nissim, saggista e giornalista, e l’armeno Pietro Kuciukian, medico e console onorario della repubblica di Armenia.

Gariwo è l’acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide. Dunque l’idea che anima l’iniziativa è quella di estendere a tutto il mondo il modello del Giardino dei Giusti concepito per la prima volta in Israele presso il museo dell’Olocausto dello Yad Vashem a Gerusalemme per onorare i non ebrei che hanno agito per mettere in salvo degli ebrei al tempo della Shoah. Nel 2003 Gariwo ha inaugurato al Monte Stella di Milano il primo Giardino dei Giusti d’Italia. Le prime tre personalità furono Moshe Bejski, l’uomo che creò il Giardino dei Giusti dello Yad Vashem, Svetlana Broz, dottoressa che ha fatto conoscere storie di solidarietà interetnica dei tempi della guerra nella ex Jugoslavia, e lo stesso Pietro Kuciukian che da anni fa conoscere al mondo i Giusti (ottomani) del genocidio armeno.

Nel dicembre dello stesso anno entrò a far parte del Giardino anche Andrej Sacharov. Per ognuno di essi è stato piantato un ciliegio selvatico. Oggi i nominativi sono diventati 53, e nel marzo prossimo diventeranno 57, quando saranno aggiunti quelli di Ho Feng Shan, console cinese a Vienna che fornì visti di espatrio agli ebrei quando tutte le altre ambasciate li rifiutavano; Shero Hammo, yazida, capo del territorio del Sinjar che accolse e protesse migliaia di fuggiaschi armeni che cercavano rifugio per scampare al genocidio nel 1915; Costantino Baratta, muratore e pescatore di Lampedusa che ha salvato una decina di profughi durante la strage per il naufragio del 3 ottobre 2013 e Daphne Troumpounis, albergatrice di Lesbo impegnata nell’accoglienza dei migranti sull’isola greca.

L’idea di Gariwo ha avuto successo, e in questi ultimi 14 anni 69 Giardini dei Giusti sono nati per iniziativa di enti locali, scuole o semplici cittadini in tutta Italia: da Agrigento a Torino, da Catania a Busto Arsizio, da Albagiara (Sardegna) a Riva del Garda, in 62 diverse località italiane (in alcune, come Milano, sono presenti più di un giardino) si sono visti nascere piccoli boschi che ricordano testimoni coraggiosi dell’umanità. L’iniziativa ha trovato cuori sensibili e disponibili anche all’estero: Giardini dei Giusti sono sorti a Sarajevo, a Varsavia, a Neve Shalom in Israele, a Gyumri in Armenia, presso il Memoriale di Levashovo (San Pietroburgo) dedicato alle vittime delle purghe staliniane in Russia, dentro a un parco ecologico nella Giordania settentrionale e a Tunisi.

In questi anni Gariwo non si è limitata a promuovere i Giardini dei Giusti. Ha creato una rete della didattica, per diffondere la conoscenza dei Giusti tra i giovani, che ha coinvolto 500 insegnanti. Le iniziative vanno dai progetti didattici alle visite guidate ai Giardini delle varie località (soprattutto quello del Monte Stella a Milano), dagli spettacoli teatrali alla creazione di nuovi Giardini, alla promozione del concorso per le scuole “Adotta un Giusto” che vede in gara testi letterari, videoclip, foto, ecc., sul tema “C’è un albero per ogni uomo che ha scelto il bene”.

Infine Gariwo si è battuta vittoriosamente per l’istituzione della Giornata europea dei Giusti e per la Giornata in memoria dei Giusti dell’Umanità in Italia. La prima è stata approvata dal Parlamento Europeo nel 2012 (nella data del 6 marzo), la seconda sta per essere definitivamente approvata dal Senato dopo il voto favorevole in commissione alla Camera dei Deputati. Al convegno di giovedì due politici italiani hanno raccontato come questo progetto si sia concretizzato. Gabriele Albertini ha raccontato l’azione da lui condotta al Parlamento Europeo per l’approvazione della proposta, e Milena Santerini quella condotta nel Parlamento italiano.

Nel suo intervento Gabriele Nissim ha spiegato che oggi, oltre a conservare la memoria dei Giusti del passato, è necessario assumersi la responsabilità di indicare i Giusti del presente: «Anche noi oggi vogliamo dare un nome a quelli che possiamo definire come i Giusti del nostro tempo, che si battono con azioni esemplari contro il terrorismo, l’antisemitismo, il fondamentalismo, per il dialogo, l’accoglienza e la libertà nei regimi dittatoriali. Noi tutti siamo chiamati a sostenerli perché vogliamo creare un grande movimento di emulazione. Anche queste persone rischiano come i Giusti di ieri, e siamo chiamati a sostenerli». A questo fine è stata redatta una Carta della responsabilità 2017, che riassume i valori di Gariwo.

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‘Nor Arax’, il villaggio armeno che restituisce la memoria alla città di Bari (Giornale di Puglia 18.11.17)

di PIERO FABRIS – Arax o Arasse è il nome di un fiume che bagna l’Anatolia, ma per molti armeni approdati a Bari, il nome di quel corso d’acqua assume un significato particolare; è il simbolo di un nuovo corso. Il villaggio “Nor Arax” fu certezza di fertilità e Speranza.
Quanti scampati agli eccidi e deportazioni approdarono a Bari, trovarono accoglienza e possibilità di sognare, progettare, di avviare una fabbrica di tappeti di alta qualità.

Di Nor Arax, ovvero del villaggio armeno sulla vecchia via per Capurso, della vocazione all’accoglienza costruttiva e, quella al commercio dei cittadini baresi si era persa memoria. Peggio, se ne ha una blanda idea. Il grande merito di questa pubblicazione è quello di ridare con immediatezza colore alle cose, e alla gente di un tempo sbiadito, seppellito in una matassa d’asfalto. Si colgono le atmosfere della gente di buona volontà che non si è lasciata inaridire dal dolore.

Per lungo tempo del genocidio armeno nessuno ne parlava e per alcuni sembrava il frutto della fantasia di qualche pazzo visionario, un massacro da nascondere sotto i granelli di sabbia, nei manti del deserto, ma la luce della verità è una fiaccola che non tarda a riempire il buio e a chiarire i fatti.

Il testo di Emilia Ashkhen De Tommasi semplicemente intitolato “Nor Arax – storia del villaggio armeno di Bari” (LB Edizioni pag. 114 € 10,00), è un’operazione di archeologia della memoria che viaggia non solo sui binari del rigore scientifico, ma su quelli del sentimento. Le righe palpitanti di amore per un popolo martoriato, per la propria gente in attesa di giustizia sono impreziosite dai ricami delicati dei ricordi.

Questo libro è un mattoncino che ridona alla storia di Bari pagine gloriose, così fluide che sanno sussurrare di gente vivace e di grande cuore, di esseri di gran forza che hanno saputo rinascere senza perdere la propria identità, amalgamandosi magnificamente per il bene comune.

Il testo si apre con un capitolo dedicato alla diaspora degli armeni, grazie al quale l’autrice ci aiuta a comprendere cosa accadeva già tra il 1894 e il 1896, quando era al potere il Sultano Abdul-Hamid. Un intero capitolo è dedicato a Hrand Nazariantz, il poeta Armeno che considerava la Puglia la sua terra d’esilio e che mai smise di guardare alla sua stella d’Oriente, ma ciò che ci sorprende di questo lavoro è la capacità evocativa che sboccia da spartiti di un villaggio nel quale il ritmo del telaio risuona ancora, si imprime e si espande insieme a canti e incenso che si innalza muto e profumato verso i cieli più alti, quelli dove gocce di luce sanno fare breccia nel buio e indicare il sentiero della bellezza,  tante volte affidata alle geometrie di tappeti stesi sulla soglia della Speranza

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