E Paci Dalò ricorda il genocidio armeno (Messaggeroveneto 21.09.16)

UDINE. Cent’anni, un milione e mezzo di morti e il primo grande olocausto della storia. Queste tre frasi bastano a strozzare il fiato in gola, al ricordo del Medz yeghern, così come chiamano gli armeni il loro genocidio del 1915.

Grande crimine, questo il nome scelto, come se fosse umano comporre una classifica delle atrocità. E se pensare a una graduatoria dove infilare come macabre perline le barbarie umane fa quasi rabbrividire, un sospiro di speranza intellettiva ed emotiva lo suscita il fatto che qualcuno, attraverso l’arte, abbia deciso di contrastare l’oblio che queste barbarie portano con sé. Oblio di popoli e delle loro culture.

Roberto Paci Dalò è questo che ha provato a fare, con il suo 1915: The Armenian Files, progetto multimediale ispirato, appunto, dal Genocidio armeno, uscito nel 2015. E proprio con questo incredibile lavoro, Paci Dalò, compositore, regista teatrale, artista visivo e sonoro, inaugurerà stasera, alle 21, la stagione autunnale di Visi(on)Air, rassegna organizzata al Visionario dal Cec e curata dai The Mechanical Tales.

Un colpo di quelli pesanti, messo a segno dal Cec. Pesanti come la memoria legata al genocidio degli armeni da parte del governo ottomano e mai riconosciuto dal governo turco.

A partire da testi del poeta armeno Daniel Varoujan, torturato e ucciso a 31 anni nell’agosto del 1915, Paci Dalò ha deciso di mescolare elettronica, voci, strumenti acustici, ritmi e trame sonore tratte da materiale d’archivio in una tessitura fatta di suggestioni e citazioni che sono ormai il suo tratto distintivo. Boghos Levon Zekiyan (attualmente Arcivescovo di Istanbul) è la voce narrante di questo lavoro.

Attraverso la sua arte, è come se Paci Dalò voglia far nuovamente vibrare le corde vocali di quel milione e mezzo di morti, voglia ridare voce a un popolo sterminato, nel tentativo di non farlo ricadere nel buio della storia, e delle coscienze. Un lavoro non facile.

Non facile da recepire, ma anche da far vivere. Perché per parlare di morte, il compositore riminese fa parlare la vita. Quella vita che aveva celebrato Varoujan nelle sue poesie e che sembra quasi stridere con il graffio musicali che il pubblico udinese avrà il privilegio di ascoltare questa sera.

Graffi e profondità. Memoria e speranza. Morte e vita. Ossimori contenuti in un’opera che non è solo di ricerca, ma anche di denuncia, di «nota critica a Erdogan», così come ha dichiarato in un’intervista all’uscita del suo lavoro Paci Dalò, vincitore con 1915: The Armenian Files del Premio Napoli 2015 per essere «una delle figure più versatili del panorama italiani, uno dei nostri artisti più noti all’estero».

E proprio grazie alla sua versatilità, Paci Dalò avrà il merito di portarci dritti al cuore della nostra drammatica contemporaneità con una storia di cent’anni fa. «Tutte le parole chiave di questo lavoro – ha dichiarato il compositore in un’intervista – evocano qualcosa che ci è abbastanza vicino, perché noi stiamo parlando non soltanto di genocidio, noi stiamo parlando di profughi, rifugiati, allontanamenti, di separazioni, di famiglie…e se questo non è l’oggi, che cos’è?».

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Kardashian: «Negare il genocidio armeno è come negare l’olocausto» (Letteradonna 20.09.16)

Ad aprile il Wall Street Journal aveva diffusso la pubblicità di un’organizzazione pro-turca che non ammette la portata del massacro. La Kardashian si era opposta con un post sul suo blog. Ora ha pubblicato il suo messaggio anche sul New York Times.

kim kardashianKim Kardashian è di origini armene e ne va fiera. Nel 2015, insieme alla sua famiglia, si era recata nel Paese eurasiatico a pochi giorni dalla commemorazione del centenario del genocidio (morirono per mano dell’Impero Ottomano circa un milione e mezzo di armeni) che aveva costretto i suoi parenti ad emigrare negli Stati Uniti. Durante la celebrazione, un’organizzazione pro-turca che nega l’importanza della strage e rifiuta di definirla ‘genocidio’, aveva diffuso una pubblicità sul Wall Street Journal e la Kardashian aveva risposto con un post sul suo blog.

L’IMPEGNO DELLA KARDASHIAN
Sabato 17 settembre, la star ha confermato il suo impegno per la causa facendo stampare un messaggio su un’intera pagina del New York Times. Nella lettera la Kardashian condanna la decisione del quotidiano economico statunitense di contribuire alla diffusione di una pubblicità che «sostiene la negazione del genocidio da parte del Paese che ne è responsabile». Una scelta che reputa del tutto sbagliata: «È imprudente, triste e pericoloso», ha affermato, sottolineando che «una cosa è quando un cattivo giornale fa profitti inventando scandali, altra cosa è invece che un quotidiano rispettato come il WSJ fa dei profitti su un genocidio». La star non ha dubbi: è offensivo e inaccettabile. «Cosa sarebbe successo se con una pubblicità si fosse negato l’olocausto o la strage dell’11 settembre?», ha aggiunto la Kardashian.

L’IMPORTANZA DELLA VERITÀ
Infine la star ha ricordato che il governo federale degli Stati Uniti non riconosce il genocidio armeno: «Dobbiamo onorare la verità nella nostra storia, per proteggere il futuro dei nostri figli. Dobbiamo fare meglio di come fatto fino a ora».

LE RISPOSTE DEL WALL STREET JOURNAL
Il quotidiano aveva risposto alle critiche emerse ad aprile dicendo di accettare un ampio ventaglio di pubblicità, «anche quelle che esprimono opinioni controverse» che comunque, aveva evidenziato, appartengono all’autore sell’annuncio.

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Sandra Matuella intervista Charles Aznavour all’Arena di Verona (Ladigetto.it 18.09.16)

Charles Aznavour, l’ultimo osannato chansonnier francese, ha festeggiato lo scorso 14 settembre, i suoi primi settanta anni di carriera, con un concerto all’Arena di Verona: era l’unica tappa italiana del tour mondiale di questo grande artista francese di origini armene, che ha richiamato più di ottomila spettatori da tutta Italia e anche dall’estero.
Era presente anche la stampa nazionale e straniera, per una serie di dirette televisive, interviste e servizi di approfondimento (nel sito di Rainews24 c’è una bella intervista di Fausto Pellegrini ad Aznavour).
Questo evento aveva anche un cuore trentino, poiché media sponsor dell’evento era Radio Italia Anni Sessanta, per l’accordo di radio partner ufficiale del concerto, firmato dal Coordinatore nazionale Alessandro Raffaelli con la Produzione (foto seguente).
Gli striscioni con il logo della radio spiccavano in tutta l’Arena e perfino sotto il palco stesso.
«È stata una grande soddisfazione – osserva Raffaelli – poiché riconosce la professionalità e l’ampia portata musicale della nostra radio, che ogni giorno viene seguita fedelmente da più generazioni di ascoltatori.»
E per applaudire Aznavour sono accorsi in Arena anche tanti trentini, tra cui il comico Lucio Gardin, Ugo Bertoldi di Mediolanum, Massimiliano Zadra di Fashion Gallery e gli amici del Mas dela Fam.

Charles Aznavour per la prima volta all’Arena, era in effetti un evento unico, vista l’importanza dell’artista, unita alla suggestione dell’Arena stessa: era la combinazione ideale per un pubblico raffinato, elegante in abito gran soirée, un po’ come quello che segue l’opera, formato da persone mature, ma anche da tanti giovani, attratti da un mito vivente che non ha età.

Classe 1924, 92 anni compiuti a maggio e portati con grande charme e vitalità, Aznavour entra in scena vestito di nero, in perfetto stile esistenzialista, sdrammatizzato però, quando si toglie la giacca, da due bretelle rosse.
Saluta platealmente, e sfodera subito il piglio da grande chansonnier che intrattiene il pubblico mentre propone un concerto trilingue, in francese, in italiano e inglese «per i turisti»: accompagnato da una band formata da otto musicisti illuminati da disegni di luci che alternano l’effetto bianco e nero con delle sfumature cromatiche dal blu al fucsia, Aznavour propone una scaletta che fonde la chanson francese con il jazz e il cabaret, per delle canzoni romantiche che parlano d’amore, di nostalgia e di danza.

Lo stesso Aznavour spesso accenna a dei passi, scherzando su quanto sia pericoloso ballare sul palco dell’Arena, per il rischio di finire nella buca dell’orchestra.
Scherza anche sulla sua età e su eventuali vuoti di memoria, per rimediare ai quali, «basta piegarsi» spiega mimando l’azione, e leggere le parole delle canzoni su un video, che ha rimpiazzato il più rudimentale «gobbo» di carta. Anche tanti altri suoi colleghi più o meno giovani lo usano, «ma a differenza di loro, io lo dico».

In quasi due ore di concerto senza interruzioni, salutate con una standing ovation finale di tutta l’Arena, Aznavour con la voce suadente e ben timbrata di sempre, intona i suoi grandi successi tra cui «Les émigrants», «Sa jeunesse», «Il faut savoir», «La bohème», «La vie est faite de hasard», e poi «Lei», «Morir d’amore» e una ispiratissima «Ave Maria».
Il tripudio del pubblico, soprattutto italiano, arriva puntuale con la celeberrima trilogia: «L’istrione», «Ed io tra di voi» e, naturalmente, «Com’è triste Venezia» che il cantante ha definito la sua «canzone planetaria».

La scaletta alternava i titoli francesi con quelli italiani ed esprimeva bene la centralità della questione linguistica nell’arte di Aznavour, poiché anche alla versatilità nelle lingue (canta infatti in francese, inglese, spagnolo, italiano, napoletano, tedesco e russo), deve il suo successo internazionale.
In Arena Aznavour ha sottolineato l’importanza della traduzione di una canzone in un’altra lingua: la traduzione ideale deve restituire non solo il significato del testo, ma anche la musicalità stessa delle parole, per questo ha elogiato il talento poetico di Mogol e di Giorgio Calabrese, i suoi traduttori italiani prediletti.

Discorso a parte merita il suo rapporto con una lingua davvero speciale, ossia quella armena: monsieur Aznavour o, più precisamente, Aznavourian, è originario dell’Armenia, un paese per il quale ha svolto e svolge una intensa attività diplomatica a sostegno della sua complessa causa, al punto che ha ricevuto diverse onorificenze; è diventato perfino eroe nazionale dell’Armenia, con tanto di monumento in suo onore nella capitale Erevan.

Nel pomeriggio del concerto, appena terminate le prove, Aznavour ci ha commentato con interesse la seconda edizione di uno dei rari metodi di apprendimento della lingua armena, pubblicato nel 1999, che ospita la sua prefazione. Lo stesso Aznavour ci racconta.
«Io sono nato a Parigi, figlio di genitori apolidi, e pur conservando una parte importante della mia specificità armena, ho assimilato e mi sono completamente integrato nel mio paese, la Francia.
«Il francese è e resta la mia “prima seconda” lingua, quella in cui penso e mi esprimo al meglio.
«Da bambino della prima generazione di apolidi quale ero, non ho avuto la possibilità di frequentare il collegio armeno in cui apprendere la lingua.
«L’armeno ha una ricchezza eccezionale, eppure è sconosciuto – spiega Aznavour, – così un metodo di apprendimento di una lingua antica e preziosa, ma poco diffusa come l’armeno è importante per le nostre radici, per la nostra cultura, per la memoria delle generazioni che ci hanno preceduto, e la memoria, non dimentichiamolo mai, di coloro che sono morti in condizioni drammatiche e inaccettabili, nei tempi in cui “soluzione finale” era la parola d’ordine per annientare un popolo, la sua cultura, la sua fede e la sua lingua.»

Sandra Matuella – s.matuella@ladigetto.it

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Nagorno Karabakh: generazioni in guerra, euronews tra i due fronti del conflitto (Euronews 16.09.16)

Soldati che non hanno nemmeno vent’anni. Alcuni si sono trovati a combattere per la prima volta questa primavera.

In quell’occasione gli scontri fra l’esercito della repubblica autoproclamata del Nagorno Karabakh e quello dell’Azerbaijan hanno rilanciato un conflitto congelato per quasi trent’anni.

“Difendiamo la nostra patria, la nostra famiglia e tutti coloro che vivono su questa terra”, dice Aram Yegoryan.

Annessa all’Azerbaijan in epoca sovietica, questa regione del Caucaso meridionale, popolata prevalentemente da armeni, nel 1991 proclamò l’indipendenza.

La guerra che seguì fece più di 25 mila morti e un milione di sfollati. Nel ’94, dopo la vittoria militare armena, fu raggiunto un cessate il fuoco. Da allora gli incidenti sono frequenti.

Gli scontri sono scoppiati lo scorso aprile a nord della cosiddetta linea di contatto. La calma ritrovata da allora resta fragile.

“Non siamo autorizzati ad andare al di là di queste trincee – spiega il soldato – Dall’altro lato, le forze azere sono solo a un centinaio di metri. Allora, nonostante il cessate il fuoco, i soldati stanno di guardia giorno e notte”.

Sostenuto ad aprile da numerosi volontari giunti dall’Armenia, l’esercito del Nagorno Karabakh si dice pronto in ogni momento a un’offensiva da parte delle forze azere.

“Dal 1994 il nemico ha sempre violato il cessate il fuoco. Sono loro che hanno cominciato lo scorso aprile – sostiene l’ufficiale di artiglieria, Sevak Sardaryan – Non c‘è ragione per cui non ricomincino. Adesso siamo più preparati, e se questo dovesse succedere, la nostra resistenza sarà vigorosa”.

A poca distanza dal fronte troviamo il villaggio armeno di Talish, già trovatosi al centro del conflitto negli anni Novanta.

La scorsa primavera è stato di nuovo interamente distrutto. Tutte le abitazioni sono state evacuate.

Tre civili che si rifiutavano di abbandonare il villaggio sono rimasti uccisi nell’offensiva, ci viene detto.

Garik torna con noi sul posto, per mostrarci ciò che resta della sua casa.

“Ecco, questa è la mia casa – indica Garik Ohanyan – Ho sofferto vent’anni per costruirla. Vent’anni! Vivevamo in nove qui, nove persone!”

“Guardate – aggiunge Garik – non c‘è più niente, è tutto distrutto. Non so più che cosa fare”.

Garik ha trovato rifugio in un villaggio vicino, dai suoceri, con sua madre, sua moglie e i loro cinque figli.

Le condizioni di vita sono difficili, ma hanno paura di tornare a Talish.

“L’altro mio figlio è caduto in battaglia, ricevo una pensione per questo – racconta Amalya Ohanyan, la madre di Garik – Mi resta solo un figlio maschio, che ha cinque figli. Che cosa faremo adesso? Non abbiamo più casa, né lavoro, siamo costretti a rimanere qui!”

“Da quando siamo fuggiti dal villaggio la prima volta nel ’92, e fino a oggi, ci si aspettava che la guerra ricominciasse – ricorda Garik Ohanyan – Ci sono sempre stati degli spari. Adesso tutto quel che vogliamo è che si trovi una soluzione pacifica”.

Vogliamo passare dall’altro lato del fronte, in Azerbaijan, ma è impossibile farlo direttamente. Le strade che collegano il Nagorno Karabakh all’Azerbaijan sono chiuse.

In linea d’aria, una quindicina di chilometri separano il villaggio di Talish dalla regione di Terter, dove abbiamo appuntamento con i militari azeri.

Siamo costretti ad andare in auto fino a Yerevan, la capitale armena, poi passare in Georgia, unico modo di raggiungere Baku, capitale dell’Azerbaijan.

E una volta a Baku ci attende di nuovo un lungo viaggio per poter arrivare sull’altro lato del fronte, quello azero.

Anche qui i soldati sono in allerta costante.

Le truppe armene si trovano, più o meno, a un centinaio di metri da qui.

“Avete trenta secondi per filmare, dare un’occhiata e uscire”, intima un soldato azero.

Da una delle alture riconquistate in primavera si vede chiaramente il villaggio di Talish.

Anche l’esercito azero accusa quello avversario di aver dato avvio alle ostilità nell’ultimo conflitto.

“Sono loro ad aver causato gli scontri in aprile! Ci hanno provocato. Di conseguenza il nostro esercito ha risposto al fuoco e respinto il nemico – afferma Valen Rajabov, colonnello dell’esercito azero – Il nostro esercito è professionale, competente e potente. Come dice sempre il nostro comandante, non cederemo mai nemmeno un centimetro del nostro territorio al nemico”.

Ci spostiamo nel villaggio azero più vicino.

Gli scontri di aprile non hanno fatto vittime civili, ma molti danni.

Gli abitanti sono potuti tornare rapidamente. Qui lo Stato finanzia la ricostruzione.

“Questa è una delle case rimaste distrutte ad aprile – aggiunge l’ufficiale – Più di duecento sono state danneggiate, ma tre mesi dopo quasi tutto è già stato riparato. Questa casa è stata distrutta da due razzi Grad, mi dicono”.

In epoca sovietica, gli scambi erano frequenti fra gli abitanti azeri di questo villaggio e i loro vicini armeni di Talish.

Le fondamenta di questa casa sono state costruite da armeni quarant’anni fa.

Ma oggi regna l’ostilità fra le due comunità.

“La fonte dove ci procuriamo l’acqua si trova dall’altro lato delle posizioni armene – spiega Nasraddin Mustafayev, residente nel villaggio di Tapqaraqoyunlu – Ci andiamo di notte per non farci vedere. Capita spesso che chi va a prendere l’acqua rimanga ucciso”.

Anche qui, come a Talish, si teme una ripresa dei combattimenti.

“L’unica soluzione al problema del Nagorno Karabakh è la guerra – sostiene faig Mustafayev, un altro residente di Tapqaraqoyunlu – Fintanto che gli armeni non saranno pronti al compromesso. Dobbiamo liberare la nostra terra attraverso la guerra, per me non c‘è altro modo”.

L’ultima guerra aveva rilanciato i colloqui sotto l’egida del gruppo di Minsk, guidato da Russia, Stati Uniti e Francia, in seno all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Senza raggiungere risultati convincenti.

La comunità internazionale non riconosce né l’indipendenza dell’autoproclamata repubblica, né le sue istituzioni, che hanno sede nella città di Stepanakert.

“Pensiamo che si debba far tornare il Nagorno Karabakh al tavolo dei negoziati – dice il ministro dell’autoproclamata repubblica – Il popolo del Nagorno Karabakh ha votato due volte, nel 1991 e nel 2006, per l’indipendenza di questa Repubblica. La decisione del popolo del Nagorno Karabakh, il risultato del doppio voto, deve essere preso in considerazione, ed essere la pietra miliare di qualunque accordo futuro”.

Priva di riconoscimento internazionale, la piccola enclave fatica a sviluppare la propria economia, ad attirare investitori, e si appoggia sul sostegno finanziario di Yerevan e della diaspora armena. L’agricoltura rimane la risorsa principale di questa fertile regione.

Abbiamo appuntamento nella principale impresa di trasformazione alimentare del Nagorno Karabakh. L’85% della produzione è destinata all’esportazione. Per aggirare gli ostacoli politici, le imprese locali accedono ai mercati stranieri attraverso la creazione di joint venture con società armene.

“Poiché il Nagorno Karabakh non è riconosciuto ufficialmente, non possiamo esportare i nostri prodotti direttamente sul mercato internazionale – spiega Armen Tsaturyan, direttore dell’azienda Artsah Fruit – Questo ci costringe a trovare dei partner, grazie ai quali riusciamo a esportare”.

Ma quando gli chiediamo chi siano i paesi destinatari dei prodotti:

“No, preferisco non dirvelo”, ribatte Armen.

“Perché no, per via della politica?”, chiede la giornalista di euronews

“Sì, e anche a causa dei miei partner commerciali”, conclude l’imprenditore.

I paesi importatori non riconoscono ufficialmente la repubblica.
L’indirizzo indicato sugli imballaggi si trova in Armenia. Ma il nome della compagnia tradisce chiaramente l’origine dei prodotti: Artsakh vuol dire Nagorno Karabakh.

Anche Karen e la sua famiglia aspirano al riconoscimento ufficiale di quello che per loro è uno Stato. Karen è andato a vivere a Stepanakert dopo essere sfuggito con la moglie e il loro bambino al pogrom di cui furono vittime gli armeni dell’Azerbaijan nel 1988 nella città di Sumgait.

“È stato davvero orribile. Bruciavano le persone vive, violentavano le donne, e perfino alcuni bambini – ricorda Karen Matevosyan – Non auguro nemmeno al mio peggior nemico quel che abbiamo dovuto sopportare in quei tre giorni a Sumgait”.

Karen e sua moglie non pensano più di andarsene dal Nagorno Karabakh, terra dei loro antenati e ora terra loro. La guerra di aprile ha risvegliato dolori del passato, quando hanno visto il loro figlio partire per il fronte.

“L’unica buona decisione da prendere sarebbe se l’Azerbaijan riconoscesse la nostra indipendenza – aggiunge Karen – Dovrebbero dire: ‘vivete come volete’, e noi faremmo lo stesso. In quel caso potremmo riavvicinarci, ma come due Stati indipendenti. Senza riconoscimento, la situazione attuale potrebbe durare ancora molto tempo, cento, duecento anni, e continueremo a vivere sotto pressione e nell’incomprensione reciproca”.

Riconoscere l’indipendenza del Nagorno Karabakh, una prospettiva inconcepibile a Baku. Al massimo il governo di Ilham Alyev sarebbe disposto a concedere all’enclave un’ampia autonomia.

E in cambio chiede il ritorno dei profughi azeri dalla regione. In ogni caso la soluzione deve essere pacifica, insiste un deputato azero: “È nell’interesse dell’Azerbaijan recuperare i suoi territori occupati attraverso i negoziati di pace – dichiara Rovshan Rzayev – Ma il 20% del territorio dell’Azerbaijan è sotto occupazione. Naturalmente, l’Azerbaijan indipendente non accetterà mai quest’occupazione. Queste terre devono essere restituite”.

Ci spostiamo ora a Quzanli, nella regione di Agdam, uno dei territori confinanti con il Nagorno Kharabak posti sotto controllo armeno dopo il conflitto degli anni Novanta, per limitare i rischi di un’offensiva da parte degli azeri.

Meno di un quarto della regione di Agdam è rimasta sotto il controllo dell’Azerbaijan.

Qui vivono circa 50 mila azeri fuggiti dal Nagorno Karabakh, più della metà della popolazione locale.

Un peso per una regione dall’economia a pezzi.

Qui la disoccupazione è diffusa, soprattutto fra i profughi, che dipendono dall’aiuto dello Stato.

“Non abbiamo fabbriche qui – dice Aga Zeynalov, vice presidente della Regione di Agdam – Non abbiamo industrie locali, perché è una zona a rischio. Nessun’impresa vuole venire a investire qui!”

Scappati dal loro villaggio nel ’93, Eldar e sua moglie Mazali hanno cresciuto i loro figli in questa casa.

Vivono qui come in sospeso. Il loro sogno è poter tornare nella loro terra natia.

Sono inconsolabili da quando il loro primogenito, militare, è morto in combattimento due anni fa: “Se le nostre terre saranno liberate, allora la morte dei soldati avrà un senso – sostiene Eldar Ahmedov – Il nostro terreno trabocca del sangue dei martiri. Se i territori saranno liberati, questo darà sollievo alle loro anime, non saranno morti per niente”.

“Voglio solo che i miei figli restino vivi, siano al sicuro”, aggiunge sua moglie Mazali.

Torniamo a Stepanakert, al centro Tumo, nato con l’obiettivo di aprire una finestra sul mondo per gli adolescenti del Nagorno Karabakh.

Workshop e strumenti avanzati permettono loro di imparare gratuitamente, dopo la scuola, tutte le tecnologie creative.

Samvel ha perso suo zio nel conflitto. Una ferita che ha ispirato il suo primo progetto: una mostra fotografica dedicata alla vita quotidiana dei soldati armeni al fronte.

“Volevo che il pubblico vedesse la nostra forza, il nostro spirito guardando queste foto. E che vedesse che questi uomini sono sempre pronti – spiega Samvel Sargsyan, studente presso il Centro TUMO – Volevo mostrare gli aspetti positivi, non volevo mostrare gli aspetti negativi. Ho visto il lato negativo delle cose, ma ho scelto di mostrare quello positivo”.

Sui due lati del fronte lo spettro della guerra è radicato nello spirito dei ragazzi del conflitto del Nagorno Karabakh.

Nella regione di Agdam, in Azerbaijan, si tiene una partita di calcio dedicata a un comandante morto in combattimento.
I soldati azeri giocano contro i civili provenienti dai campi degli sfollati.

Una convivenza naturale per Shunasib e i suoi compagni.

“Abbiamo sempre bisogno di soldati. Senza di loro non potremmo vivere tranquillamente qui – dice Shunasib Edilli, un giovane di Quzanli – Sono sicuro che i nostri territori saranno liberati, e i soldati ci proteggeranno sempre. Saranno sempre accanto a noi. Sono il nostro orgoglio. Ci difenderanno sempre”.

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Nagorno-Karabakh, un’enclave esplosiva che minaccia l’Europa (Euronews 16.09.16)

Sophie Claudet: “Valérie perché il Nagorno-Karabakh è una zona che non trova pace? Cosa c‘è di così importante? Risorse naturali? Un conflitto di lunga data tra cristiani armeni, turchi, e musulmani azeri?

Valérie Gauriat: “Ci sono risorse naturali in Nagorno-Karabakh come l’oro, certo non in quantità sufficienti a giustificare una guerra. Non è uno scontro di religione, azeri musulmani e armeni cristiani hanno convissuto per secoli nella regione. Questo piccolo territorio continua ad essere al centro di interesse perché se il conflitto dovesse davvero degenerare potrebbe influenzare non solo la regione, ma l’intera zona del Caucaso e destabilizzare tutta l’Europa e oltre.”

S.C.: “La Russia ha legami storici con l’Azerbaijan, rapporti con l’Armenia, mentre la Turchia confina con quest’ultima, una bella posta in gioco?”

V.G: “Il quadro è molto complesso: La Russia ha sempre sostenuto l’Armenia, è il suo principale fornitore di armi; dispone di due basi militari, e una confina con la Turchia. Ha un trattato di difesa con l’Armenia, che stabilisce di proteggere il Paese stesso in caso di conflitto. Ma la Russia è anche molto vicina all’ Azerbaijan, gli fornisce armi e questo incide sul bilancio delle casse russe. E’ un modo per garantire la sua influenza sulla regione. Inoltre anche la Turchia vorrebbe ampliare la propria influenza nell’area, nel Caucaso, quindi, non parliamo di una vera e propria guerra, ma di una guerra di potere.”“

S.C.: “La Russia fornisce armi a entrambi i paesi Armenia e Azerbaijan, particolare di non poco conto. Qual è il ruolo della Turchia al di là di un semplice rapporto di sostegno?”

V.G.: “Ci sono diversi legami economici, interconnessioni; c‘è la volontà della Turchia di controllare le rotte energetiche. Infine, e forse cosa più importante, c‘è la volontà di Erdogan di dimostrare che sta sostenendo le minoranze musulmane turche in tutto il mondo e questo è un elemento molto importante per Ankara.”

S.C.: “Quindi per il momento possiamo dire che il conflitto è congelato in qualche modo, non c‘è nessuna prospettiva di pace ma nemmeno un nuova cruenta escalation di violenze?”

V.G.: “Questo potrebbe essere lo scenario e ancora una volta si deve parlare di conflitto congelato. Ci sono stati morti per oltre 20 anni e ci saranno ancora se non si troverà una soluzione”.

S.C.: “Quale potrebbe essere un deterrente considerando le implicazioni regionali di un nuovo conflitto?”

V.G.: “Se venissero coinvolti la Turchia, l’Iran o un qualsiasi altro paese vicino, come la Georgia, allora la situazione potrebbe diventare davvero molto grave e drammatica per l’intera regione, per tutta l’Europa e oltre. Il fattore X che potrebbe svolgere un ruolo decisivo è la personalità dei leader coinvolti: Aliyev in Azerbaijan, Sargsyan in Armenia, Erdogan in Turchia e Putin naturalmente.

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Turchia: a perdere è sempre il giornalismo (Osservatorio Balcani e Caucaso 15.09.16)

Il tentato golpe del 15 luglio, le ripercussioni sui media e giornalisti turchi. L’editoriale di uno dei giornalisti arrestati in quei giorni

15/09/2016 –  Bülent Mumay* Istanbul

“Figlio di puttana! Bastardo, traditore della patria!”; “Disonorato! E così sei un traditore? Sei da prendere a bastonate…”; “Devi stare muto!”; “Figlio di puttana! La pagherai!”

Frasi, anche non troppo originali, che potrebbero essere utilizzate in un litigio tra adolescenti; o urla deliranti di un gruppo di ultras durante una partita. Ma non è vera né la prima né la seconda ipotesi. Sono messaggi pieni d’odio inviati su Facebook ad un giornalista – che sono io, salve a tutti! – dopo il suo arresto. E vi ho risparmiato i messaggi che esprimevano il desiderio di avere rapporti sessuali con mia madre o altre fantasie riguardanti il sottoscritto.

Il giornalista è uno noto per il suo approccio critico, mantenuto per tutti i 19 anni di esperienza giornalistica. I messaggi di cui sopra sono arrivati dopo il mio arresto con l’accusa di aver sostenuto il golpe dello scorso 15 luglio, una delle notti più terrificanti della Turchia. Erano trascorsi già 10 giorni dal golpe ed il turno, nelle varie ondate di arresti, è arrivato ai giornalisti. Tutti coloro i quali lavoravano nelle testate legate a Fethullah Gülen, leader della confraternita Hitzmet – che si è chiarito essere dietro a quella sanguinosa notte – sono stati progressivamente arrestati. E i giornali, le televisioni, i siti internet che sostenevano Gülen, residente negli Stati uniti, sono stati chiusi.

I gülenisti, che fino a pochi anni fa godevano dell’ampio sostegno del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) – alla guida della Turchia da 14 anni – e che dalle forze di sicurezza alla magistratura si erano visti spianata la strada, dopo il golpe sono stati dichiarati terroristi. E naturalmente anche i giornalisti che lavoravano in quei circoli…

La tensione – che ha preso avvio tre anni fa dopo la rottura della coalizione informale tra Erdoğan e Gülen – dopo il tentato golpe si è trasformata in una caccia alle streghe. I nomi elencati in liste riaggiornate quotidianamente sono finiti in galera. Ovviamente, come in ogni caccia alle streghe che si rispetti, si è aggiunto alla lista il nome di chi non c’entrava nulla né con il golpe e nemmeno con i gülenisti: persone critiche nei confronti della maggioranza al potere!

Il governo, utilizzando la scusa del golpe, ha iniziato ad arrestare figure prese di mira già prima, ma che non aveva avuto modo di punire. Grazie all’impunità garantita dalla legge sullo stato d’emergenza, dichiarato dopo il golpe, chi si era dimostrato critico nei confronti del governo – ma anche di Gülen – è stato aggiunto nelle liste dei ricercati. Una notte è stato arrestato addirittura uno storico marxista, con l’accusa di sostenere la confraternita islamica dei gülenisti. La sera del 26 luglio è arrivato il mio turno. Come l’avevo capito? Vedendo nella prima pagina di un quotidiano filogovernativo la mia foto con sopra impressa la parola WANTED…

E così sono venuti a suonare alla mia porta, quella di un giornalista che aveva protestato contro le pressioni che la coalizione AKP-Gülen esercitava, quando era ancora salda, sulla stampa; uno che era sceso in piazza per i colleghi arrestati e di cui era nota l’identità di oppositore.

Sono stato arrestato alle 22.30 con l’accusa di “sostegno e favoreggiamento all’ ‘organizzazione terroristica’ Gülen e al golpe”. Si è trattato del momento di più forte incredulità della mia vita. Se siete giornalisti che lavorano in Turchia è impossibile non fare la conoscenza dei commissariati di polizia e delle prigioni. Ma ci sono imputazioni tipiche che più o meno si riesce a prevedere. Se ad esempio trattate in maniera critica della questione curda vi mandano in prigione accusandovi di “separatismo”. Se criticate i leader politici vi arrestano per “offesa arrecata ai rappresentanti dello stato”.

Sono accuse che prima o poi ci si aspetta e, quando capita, vengono considerate “normali” dai giornalisti in Turchia. Ma da giornalista che ha fondato quasi tutta la propria vita professionale sull’opposizione ai colpi di stato e alla confraternita [di Gülen, n.d.t], essere incluso nella bolgia dei giornalisti a favore del golpe è stata la cosa più strana che potesse capitarmi in tutta la vita. Non sono stato l’unico a essere rimasto sorpreso. Colleghi locali e stranieri, tutti quelli che conoscevano il lavoro che svolgevo, il mio orientamento politico, le mie posizioni contrarie alla confraternita [di Gülen, n.d.t] e al governo sono entrati in uno stato di disorientamento totale.

Tre notti spaventose trascorse in un’angusta cella di 5 metri quadri… Quando al quarto giorno mi hanno spedito in tribunale non sapevo che avrei dovuto sperimentare nuove sorprese. Prima di andare in udienza sono stato interrogato dal procuratore. Il mio pensiero dominante nel corso delle 3 notti trascorse in cella, prima di vedere il procuratore è stato: “Come è possibile che mi associno ai gülenisti? Io sostenitore del golpe? Che tipo di collegamenti potranno fare? Quali saranno le prove?”

Quando sono entrato nella stanza del procuratore la risposta a tutte queste domande è stata un’altra grande sorpresa. La prima pagina del mio fascicolo che il procuratore aveva davanti a sé era la stampa del mio profilo Linkedin. Per un attimo mi è sembrato di dover sostenere un colloquio di lavoro. E che di fronte a me vi fosse il responsabile delle risorse umane e non un pubblico ministero. Quasi come se non fosse stato lui a farmi arrestare e a trattenermi per tre notti in prigione! Ha sfogliato qualche altra pagina del fascicolo dove si trovavano “le prove”. Non c’era nient’altro al di fuori di un paio di notizie che scrissi qualche anno fa e di alcuni tweet che non c’entravano niente con il golpe o i gülenisti. Era ovvio che cercavano di dichiararmi “un terrorista” con le prime cose che avevano trovato googlando il mio nome.

Esito dell’ingiustizia che ho vissuto personalmente dopo il golpe: 3 notti in prigione, 1 giorno in procura per poi riavere la libertà. È evidente che hanno voluto darmi una lezione, spaventarmi perché in passato ho dato fastidio al governo. Non tutti tra quelli arrestati nella mia stessa lista sono stati altrettanto fortunati. Hanno arrestato quasi tutti coloro i quali lavoravano nei giornali dei gülenisti, gli stessi che Erdoğan, dopo la rottura della coalizione, ha dichiarato terroristi dicendo di essere stato “ingannato”. Quanto successo a me è nulla a confronto a quanto capitato ad altri, sia nell’intera storia della stampa della Turchia che nel periodo successivo al golpe.

In Turchia la libertà di stampa è sempre stata minacciata. I giornalisti sono stati puniti sia dai golpisti che si impossessavano del potere che dagli stessi governi che riuscivano a respingere i colpi di stato. Anche il risultato emerso dopo il sanguinoso tentativo di golpe del 15 luglio, attuato da nemici del popolo, non è stato differente. È difficile però fare ora un bilancio perché la situazione cambia quotidianamente. Decine di radio, televisioni, quotidiani e siti web sono stati chiusi. Un centinaio di giornalisti sono stati messi in prigione.

L’AKP è stato fondato nel 2001 da un gruppo che si definiva più liberale rispetto al partito islamista da cui si era distaccato. Un anno dopo, grazie al risultato ottenuto alle elezioni, è riuscito ad andare al potere. La leadership dell’AKP però, sapendo che la compagine governativa si muoveva su un terreno estremamente fragile, a causa di precedenti colpi di stato e crisi, ha sentito il bisogno di adottare delle precauzioni per rendere più forte il proprio potere. Ed ha stretto un’alleanza con una delle confraternite più rilevanti del paese, che dopo il golpe del 12 settembre 1980 era stata alcune volte solo tollerata ma altre anche sostenuta contro la crescita della sinistra.

L’AKP, che si definisce un partito musulmano-democratico, sotto la leadership di Erdoğan si è accordato allora con Fethullah Gülen. Grazie ai gülenisti, subdolamente infiltratisi tra i ranghi dello stato, formando quello che oggi viene chiamato “uno stato parallelo”, ha cercato di impedire eventuali attacchi nei propri confronti. Dalla polizia alla finanza, dai media al mondo del calcio, i seguaci di Gülen hanno iniziato a rappresentare la squadra dell’AKP in seno alla burocrazia. Questa coalizione segreta ha inflitto duri colpi alla libertà dei media condannando ad esempio varie testate giornalistiche a pagare multe in ambito fiscale del valore di diversi miliardi di euro. Altre volte ha messo in prigione centinaia di generali kemalisti con processi promossi al fine di indebolire il potere dell’esercito.

Ma come in tutte le alleanze, prima o poi è inevitabile una crisi. La coalizione è cresciuta, è divenuta sempre più influente e ad un certo punto i due partner si sono chiesti chi fosse il più potente. Non si sa esattamente quale sia stata la scintilla. Tuttavia, coloro che fino a ieri si chiamavano fratelli oggi si accusano reciprocamente di essere dei terroristi.

La Turchia sta vivendo una delle fratture più rilevanti della sua storia recente. Fratture che a volte riescono a divenire motivi di speranza. Riusciremo ad avviarci lungo un percorso che ci porti ad una democrazia migliore e, per noi giornalisti, ad una maggiore libertà di stampa? Sfortunatamente non abbiamo molti motivi per essere ottimisti. Nella storia, dalla lotta tra due leader islamisti, non è mai emersa una democrazia migliore.

 

* Bülent Mumay è un giornalista freelance. Editorialista del quotidiano turco Birgün e del tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, è docente di giornalismo digitale presso la Kadir Has University. Nel 2013, Mumay ha ricevuto il prestigioso premio per i diritti umani del South East Europe Media Organization (SEEMO), organizzazione affiliata all’International Press Institute (IPI), per il suo “approccio editoriale attento alla situazione dei diritti umani nonostante le pressioni subite durante le proteste a Gezi park”.

Pmi:accordo Sace per sviluppo in Armenia (Ansa 13.09.16)

ROMA, 13 SET – Spinta agli investimenti per le pmi italiane in Armenia. Sace (Gruppo Cassa depositi e prestiti) e Eiaa (Export Insurance Agency of Armenia) hanno infatti annunciato la firma di un accordo di collaborazione destinato ad ampliare le opportunità di business tra i due paesi. E’ quanto annuncia una nota di Sace, precisando che nell’ambito dell’accordo, le due società di credito all’esportazione si impegnano a promuovere e sviluppare il commercio e gli investimenti tra i due Paesi attraverso l’individuazione di progetti di comune interesse, lo scambio di informazioni e la condivisione di best practices, inclusa la possibilità di avvalersi di servizi di advisory e assistenza tecnica per supportare le pmi nello sviluppo di progetti integrati di filiera in settori chiave per le economie dei due Paesi. L’Italia è il secondo esportatore europeo nel Paese dopo la Germania, con 108 milioni di euro di beni venduti nel 2015, soprattutto nel settore tessile e della meccanica strumentale.


 

Sace: firma accordo con societa’ di credito all’export armena

(Il Sole 24 Ore Radiocor Plus) – Roma, 13 set – Sace e Eiaa (Export Insurance Agency of Armenia) hanno firmato un accordo di collaborazione finalizzato ad ampliare le opportunita’ di business tra Italia e Armenia. Lo riferisce una nota. ‘Questa intesa ci consente di supportare attivamente i rapporti economico-commerciali tra Italia e Armenia, per contribuire all’identificazione di nuove opportunita’ cross-border per le nostre imprese’, ha spiegato Michal Ron di Sace. L’Armenia rappresenta oggi una delle economie piu’ dinamiche dell’area caucasica con un tasso di crescita del Pil che supera il 4% e un business climate in costante miglioramento grazie alle misure di consolidamento economico messe in campo. L’Italia e’ il secondo esportatore europeo nel Paese dopo la Germania, con 108 milioni di euro di beni venduti nel 2015, soprattutto nel settore tessile e della meccanica strumentale. Interessanti opportunita’ e ambiti di cooperazione per il futuro sono presenti soprattutto nei settori petrolchimico, delle infrastrutture (autostradale e ferroviario), ma anche nel tessile e abbigliamento, agroalimentare e farmaceutico.


 

Italia-Armenia: accordo Sace e Eiaa per far crescere business (2)

(AdnKronos) – Dopo la firma dell’accordo, inoltre, Sace ha organizzato una tavola rotonda con i rappresentanti del Ministero Italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, Ice, Confindustria e Simest al fine di discutere iniziative comuni e occasioni di business tra Italia e Armenia. L’Armenia rappresenta oggi una delle economie più dinamiche dell’area caucasica con un tasso di crescita del Pil che supera il 4% e un business climate in costante miglioramento grazie alle misure di consolidamento economico messe in campo.

L’Italia è il secondo esportatore europeo nel Paese dopo la Germania, con 108 milioni di euro di beni venduti nel 2015, soprattutto nel settore tessile e della meccanica strumentale. Interessanti opportunità e ambiti di cooperazione per il futuro sono presenti soprattutto nei settori petrolchimico, delle infrastrutture (autostradale e ferroviario), ma anche nel tessile e abbigliamento, agroalimentare e farmaceutico.

 

Armeno il nuovo segretario generale CSTO (Agccomunication.eu 13.09.16)

RUSSIA – Mosca 13/09/2016. La Russia cercherà di rafforzare la cooperazione militare con l’Azerbaigian dopo l’annuncio che il rappresentante dell’Armenia sarà nominato segretario generale della Csto.

Ne da l’annuncio l’agenzia Trend che riporta le parole di Sergey Markov, consulente del presidente russo, membro della Duma. La notizia della nomina del rappresentante armeno era stata annunciata in precedenza da Interfax che cita fonti del governo armeno. Seyran Ohanyan, ministro della Difesa armeno, verrà nominato, infatti, segretario generale della Csto. «L’Armenia è un membro a pieno titolo della Csto, quindi i suoi rappresentanti non sono privati ​​del diritto di occupare posizioni di alto livello. Ma la Russia è consapevole che questa nomina sarà percepita negativamente a Baku» ha detto Markov. «L’Azerbaigian è un importante alleato della Russia, quindi penso che la nomina del ministro armeno come segretario generale Csto sarà compensata rafforzando alcuni altri aspetti della cooperazione militare tra Russia e Azerbaigian», ha aggiunto Markov. La nomina, per il parlamentare russo, non influenzerà gli sforzi di Mosca per risolvere il conflitto del Nagorno-Karabakh, su cui vi è una reale possibilità di un serio passo avanti.

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La storia e il cinema al Toronto Film Festival (Euronews 13.09.16)

Gli attori Christian Bale (inglese) e l’americano di origini guatemalteche Oscar Isaac si sono dati appuntamento al Toronto Film Festival per la proizione del film di cui sono protagonisti “The Promise” che evoca l’eccidio di massa del popolo armeno durante la prima guerra mondiale.

Nel film, scritto e diretto dall’irlandese Terry George, Isaac interpreta uno studente di medicina armeno e Bale un giornalista americano che amano entrambi una artista armena interpretata da Charlotte Le Bon. Sullo sfondo quel’aprile del 1915 in cui le milizie ottomane iniziano a deportare e sterminare i leader della comunità armena.

La cinematografia passa in fretta dall’evocazione storica alla vicenda personale cosi’ a Toronto è stato presentato anche “Lion” cioè la storia di Saroo Munchi Khan, che, ancora bambino, perse la sua famiglia negli slum di Calcutta, e che anni dopo, usando la memoria e Google Maps, ritrova i genitori. La biografia di Saroo è diventata un film interpretato da Dev Patel, Rooney Mara e Nicole Kidman.

Il film è stato ben accolto dalla stampa britannica e verrà distribuito da una delle maggiori case internazionali, aprirà anche il Film Festival di Zurigo il 22 settembre e il 12 ottobre sarà anche al Festival di Londra.

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Raccontami dei fiori di gelso, di Aline Ohanesian (Meloleggo.it 13.09.16)

Una storia per raccontare la tragica sorte di centinaia di migliaia di armeni. Il ricordo di una donna che diventa il ricordo di più di un milione di persone, deportate e uccise durante il genocidio pianificato dal sultano ottomano alle soglie della Prima guerra mondiale.

Raccontami dei fiori di gelso

Raccontami dei fiori di gelso

Raccontami dei fiori di gelso (Garzanti) è il tributo che Aline Ohanesian offre alla memoria di questo popolo. Scrittrice all’esordio, anche lei trova le sue origini nel popolo armeno.

Il filo rosso della storia è il ricordo. Quello di Seda, ora anziana donna che vive negli Stati Uniti, in un ricovero popolato di testimoni del massacro armeno come lei, e che fa di tutto per dimenticare. Seda ha sotterrato la memoria – e con lei la sofferenza – sotto una spessa corazza, impenetrabile persino per l’adorata nipote, che rappresenta tutto ciò che è rimasto della sua famiglia.

Ma un giorno, al ricovero, si presenta un giovane turco di nome Orhan che dice di essere alla ricerca di risposte. Suo nonno Kemal è appena morto e ha lasciato la casa di famiglia proprio a Seda. La famiglia turca non capisce perché la propria casa debba finire nelle mani di una sconosciuta, e Orhan è arrivato negli Stati Uniti per conoscere Seda e scoprire il motivo del lascito del nonno.

Orhan riesce a vincere la reticenza di Seda e a farsi raccontare tutta la storia: la storia di una famiglia di cristiani armeni, rispettata e con una buona posizione sociale, quella di un giovane Kemal, musulmano, innamorato della figlia del suo datore di lavoro, e quella di Seda, che a poco a poco scopre di ricambiare questo amore sbocciato all’ombra di un gelso in fiore.

Ma l’idillio si interrompe troppo presto. È il 1915 e il genocidio armeno ha inizio: la famiglia di Seda viene espropriata dei suoi beni e costretta a intraprendere una marcia della morte, una deportazione che costringerà la giovanissima Seda ad assistere impotente al perpetrarsi di una violenza senza senso contro il suo popolo e la sua famiglia. Il suo coraggio sarà la sola arma che le permetterà di sottrarsi alla morte, ma non basterà a cancellare le cicatrici che il dolore ha inflitto alla sua anima. La sua vita è destinata ad incrociarsi di nuovo con quella di Kemal, ma in un modo che lascia al lettore un sapore dolceamaro.

Questa è una storia che va letta perché sia possibile coglierne tutte le sfaccettature. Nell’insieme delicata, cruda quando serve, rispettosa del dolore di un popolo che ha subito un’ingiustizia spesso dimenticata: è questa la scrittura di Aline Ohanesian. Il libro alterna il racconto del passato alle azioni dei personaggi nel presente, lasciando il giusto tempo per assimilare il racconto di una tragedia che merita di essere ponderata.

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