Accadde oggi, 13 settembre 1922 l’incendio e l’immane eccidio di Smirne da parte dei Turchi (Dilucca.it 13.09.16)

Una strage di cristiani, ebrei, Greci, armeni che la storia ricorda poco o niente. Fu operato dall’esercito turco, sconfitto nella Prima Guerra Mondiale e che sfogò la sua rabbia con la “pulizia etnica” e religiosa su una città di tradizioni cosmoplite. Un calcolo preciso non è mai stato fatto, ma si parla di almeno 30-40.000 vittime e di centinaia di migliaia di persone evacuate verso la Grecia!

di Daniele Vanni

Smirne in greco, è il nome della mirra, quella portata dai Magi a Gesù Bambino e che cresce nei dintorni della città che si affaccia sull’Egeo e che si vanta di aver dato i natali ad Omero.

Certo fu fondata nello stesso periodo di Troia. Fu poi conquistata dagli Ittiti e quindi cadde sotto la dominazione dell’importante città, capoluogo della Caria, che fu Mileto:  con essa fondò molte colonie nel Mediterraneo. Poi fu Persiana, e di nuovo greca sotto Alessandro e ricostruita dai Romani dopo un terribile terremoto. Bizantina fino al primo secolo dopo il Mille, fu turca e ceduta due secoli dopo ai Genovesi e per altri due secoli in mano agli Ospitalieri, che dovette lasciarla agli Ottomani.

Sotto il dominio ottomano, la città divenne un importante scalo commerciale, snodo fra le piste carovaniere dell’Asia e le rotte mediterranee. La sua popolazione era un modello tipico della società ottomana, multi-etnica, multi-confessionale e poliglotta.

Solo metà della popolazione era musulmana.

Il trattato di Sèvres (1920), conseguente la sconfitta ottomana nella prima guerra mondiale, aveva assegnato l’amministrazione di Smirne alla Grecia.

Ma la guerra tra Grecia e la Turchia di Ataturk, il padre della patria, ancora esposto con ritratti in tutti i locali commerciali e non, di Istanbul, andò avanti fino al 1922, con la sconfitta della Grecia, abbondonata e raggirata dalla potenze vincitrici del conflitto, forse per la benevolenza della monarchia ellenica verso la Germania. Ma anche per loro tornaconti particolari: ad es. l’Italia aveva perso a favore dei Greci proprio il protettorato su Smirne!

Comunque questa guerra (si vede che le nazioni non erano sazie di sangue!) vide veri e propri genocidi: dei Greci verso i Turchi, di questi verso gli Armeni e poi verso gli stessi Greci!

In questo disastro umano, s’inquadra l’occupazione per la seconda volta di Smirne dell’esercito turco repubblicano comandato da Mustafà Kemal (1922): quattro giorni dopo, il 13 settembre 1922, la città è incendiata e devastata da un catastrofico incendio, che distrusse gran parte della città vecchia. Durante l’incendio, tra devastazioni e saccheggi, le popolazioni cristiane, principalmente quelle greca e armena, o meglio: coloro che si salvarono dal massacro, si imbarcavano sulle navi dell’Intesa alla fonda nel porto, trovando poi rifugio in Grecia.

La città, multietnica e cosmopolita, prima dell’incendio contava 370.000 abitanti di varie culture.

La popolazione numericamente prevalente era quella greca con 165.000 unità, seguita da quella turca (80.000). Altre comunità consistenti erano quella ebraica (55.000 persone) e armena (40.000).

Numerosi Armeni e Greci della città furono massacrati dall’esercito turco.

Il metropolita ortodosso Crisostomo di Smirne (al secolo Chrysostomos Kalafatis, guarda caso il santo che si celebra proprio in questa data del 13 Settembre!), che rifiutò di fuggire con le truppe greche, venne linciato sulla pubblica piazza. Le sue orecchie, il suo naso e le sue mani furono tagliate mentre veniva sgozzato con un coltello.

L’incendio distrusse gli antichi quartieri greco e armeno, insieme a quello “franco” (il quartiere degli europei, italiani compresi) di Smirne.

Le vittime tra i cristiani, morti tra le fiamme, massacrati o annegati buttandosi in mare, ammontarono a 30.000!

Dalla catastrofe riuscirono a fuggire 250.000 cristiani, sia smirnioti che altri greci arrivati in città da altre zone per fuggire dal fronte della guerra, insieme ad armeni ed altri.

In seguito alla devastazione le popolazioni cristiane abbandonarono la città e la maggior parte di esse si rifugiò in Grecia.

Smirne non fu mai più la stessa!

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Christian Bale, Oscar Isaac e il genocidio armeno nel trailer di The Promise (Quotidiano.net 12.09.16)

Un triangolo amoroso, la guerra che esplode, la lotta per la sopravvivenza di un’intera comunità: ecco gli ingredienti del film The Promise, presentato in anteprima mondiale l’11 settembre durante il Toronto International Film Festival.

La storia è ambientata in Turchia alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel 1914, quando Istanbul si chiamava Costantinopoli e quando la Turchia era solo una parte del più vasto Impero Ottomano. È in questo contesto che incontriamo Michael Boghosian (Oscar Isaac). È un brillante studente di medicina che sbarca nella capitale dell’Impero determinato a portare le sue conoscenze mediche agli abitanti di Siroun, nel sud della Turchia, villaggio d’origine della sua famiglia e luogo nel quale da secoli convivono pacificamente armeni cristiani e turchi musulmani.
I nobili intenti del giovane medico sono contrastati da due eventi: il primo è l’ingresso in guerra dell’Impero Ottomano e la conseguente persecuzione delle minoranze etniche al proprio interno, premi fra tutti gli Armeni; il secondo è l’incontro con Ana (Charlotte le Bon), un’artista arrivata a Costantinopoli da Parigi insieme al fotoreporter Chris Myers (Christian Bale), che è innamorato di lei. Le cose si complicano enormemente perché scocca la scintilla tra Michael e Ana e perché entrambi hanno sangue armeno nelle vene.
Il regista e sceneggiatore di The Promise è il nordirlandese Terry George, famoso soprattutto per aver scritto Nel nome del padre (1993) e per aver scritto e diretto Hotel Rwanda (2004). Le immagini del primo trailer ufficiale ci aiutano a capire che tipo di pellicola ha confezionato, in attesa di conoscere le date d’uscita nelle sale di tutto il mondo.

Genocidio degli armeni, Ziberna (Fi): «Questione poca conosciuta, iniziative pubbliche volte alla commemorazione» (Triesteprima.it 11.09.16)

Genocidio degli armeni, Ziberna (Fi): «Questione poca conosciuta, iniziative pubbliche volte alla commemorazione»

«Promuovere ed attuare iniziative pubbliche volte alla commemorazione del genocidio degli armeni, alla diffusione ed alla conoscenza dei fatti storici ad esso relativi, al fine di sostenere la cultura della democrazia, della pace e dell’autodeterminazione dei popoli».

È quanto chiedono i consiglieri regionali di Forza Italia Rodolfo Ziberna (primo firmatario)Roberto NovelliBruno MariniGiovanni Barillari e Mara Piccin in una mozione presentata alla giunta regionale.

«Un secolo fa (tra il 1915 ed il 1916) – rileva Ziberna – centinaia di migliaia di persone furono giustiziate sommariamente dai militari dell’esercito ottomano e dai curdi, anch’essi presenti nel territorio dell’Armenia storica, che vennero strumentalmente contrapposti agli Armeni dalle autorità politiche di Istanbul. Nelle deportazioni di massa, vere e proprie marce della morte, furono coinvolte circa 1.200.000 persone e molte morirono di stenti, di fame e di sfinimento».

«Il massacro si configurò come una vera e propria operazione di pulizia etnica, poiché l’obiettivo dell’impero ottomano era quello di realizzare una nazione turca etnicamente omogenea. I deportati appartenevano, infatti, per la maggior parte alla Chiesa apostolica armena, che è la più antica chiesa cristiana del mondo ed in quel periodo gli Armeni, nel segno dell’autodeterminazione dei popoli, ambivano ad ottenere la piena autonomia e l’indipendenza dall’impero ottomano di Istanbul».

«Ancora oggi – prosegue l’esponente di Forza Italia – il governo turco non riconosce, nelle motivazioni e nelle dimensioni messe a fuoco dagli storici, il genocidio degli Armeni e punisce con l’arresto e la reclusione sino a tre anni chi pubblicamente ne fa menzione perché è antipatriottico».

«Con una risoluzione del 16 novembre del 2000 la Camera dei Deputati ha riconosciuto il Genocidio armeno, ponendo il riconoscimento come condizione essenziale affinché la Turchia entri nell’UE ed il 15 aprile del 2015 anche il Parlamento europeo ha approvato per alzata di mano una risoluzione che riconosce il genocidio degli armeni, rende omaggio alle vittime, propone l’istituzione di una giornata europea del ricordo e deplora ogni tentativo di negazionismo».

 «Visto che l’Unione Europea ha una responsabilità particolare nel promuovere e salvaguardare la democrazia ed il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, sia all’interno che all’esterno del suo territorio – conclude Ziberna – chiedo alla Regione di farsi promotore di iniziative volte alla conoscenza del tragico evento storico, nonché a ribadire con forza nelle sedi opportune (Parlamento, Governo, Unione europea), che una delle condizioni indispensabili poste alla Turchia per il suo ingresso nell’UE è rappresentata dal riconoscimento ufficiale del genocidio degli Armeni».


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Online il trailer di The Promise, il film sul genocidio degli armeni (Justnerd.it 10.09.16)

The Promise verrà diretto da Terry George (già regista di Hotel Rwanda) e il film farà il suo debutto al TIFF (Festival Internazionale del Cinema di Toronto) di questo week-end, nonostante non abbia una data di lancio ufficiale. Questa la sinossi del film.

È il 1914. Con il profilarsi della Grande Guerra, il vasto Impero Ottomano sta decadendo. Costantinopoli (l’odierna Istanbul), una volta vibrante capitale multiculturale, sta per essere consumata dal caos. Michael Boghosian (Oscar Isaac), arriva nella città cosmopolita come studente di medicina determinato a portare la medicina moderna a Siroun, il suo villaggio natale nella Turchia del sud dove i turchi musulmani e gli armeni crisitiani hanno vissuto fianco a fianco per secoli.

Il foto reporter Chris Myers (Christian Bale), arriva in Turchia solo per coprire la geo-politica. È ipnotizzato dal suo amore per Ana (Charlotte Le Bon), un’artista armena che l’ha accompagnato da Parigi dopo la tragica morte del padre di lei.

Quando Michael incontra Ana, il loro patrimonio genetico armeno crea una scintilla d’attrazione tra i due che esplode in una rivalità tra i due uomini. Dopo che i Turchi si alleano con i tedeschi nella guerra, l’Impero si rivolta violentemente contro le sue minoranze etniche. Nonostante i loro conflitti, tutti cercano un modo per sopravvivere, nonostante questi eventi monumentali avvolgano la loro vita.

Le premesse non sono per niente male, spero solo non ci si ritrovi in un film troppo concentrato sulla storia d’amore tra i protagonisti ma che, al contrario, ci faccia capire quale tragedia fu il genocidio degli armeni.

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Ventidue anni in trincea. Reportage dal Nagorno Karabakh (Tempi.it 10.09.16)

Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Nagorno Karabakh. Sferragliano impercettibilmente i barattoli nel vento. Più ruggine che latta, conficcati a migliaia nel filo di ferro, ben distanziati fra loro in file ordinate che si perdono lontano. Lontano come i 180 chilometri di trincee della linea del fronte che separa i soldati armeni del Nagorno Karabakh da quelli azeri dell’Azerbaijan. È così che i primi si difendono dalle incursioni notturne dei secondi: non col filo spinato, se non per brevi tratti, ma col filo barattolato, che diffonde il suo clangore d’allarme se qualcuno cerca di passarci attraverso o strisciarci sotto. Come fanno spesso di notte gli incursori azeri, per saggiare le difese del nemico, da 22 lunghi anni. I 22 anni trascorsi dal cessate il fuoco del 5 maggio 1994, quando le due parti firmarono l’armistizio che poneva fine a sei anni e tre mesi di conflitto che aveva causato 30 mila vittime.

Il responso del terreno diceva che in quel momento i 150 mila armeni del Nagorno Karabakh erano riusciti nell’impresa miracolosa di respingere le truppe azere – cioè di un paese con 9 milioni di abitanti – dal loro territorio, 11 mila chilometri quadrati di altopiani e montagne (tanto quanto l’Abruzzo, per capirci) che da quel momento poterono considerarsi indipendenti di fatto, dopo che l’assemblea legislativa locale li aveva dichiarati tali il 2 settembre 1991. C’erano riusciti grazie all’aiuto in uomini e in armi della vicina Repubblica di Armenia, anch’essa un nano demografico nel confronto con l’Azerbaijan (3 milioni di abitanti la prima, e una superficie di 30 mila chilometri quadrati scarsi, contro i 9 milioni di azeri che rivendicavano la sovranità su 86.600 chilometri quadrati).

Ma ad un prezzo molto alto: delle 30 mila vittime del conflitto, la metà sarebbe rappresentata da armeni karabaki, sia combattenti che civili, in una guerra dove la linea di separazione fra i primi e i secondi è stata tenue fino, in alcuni casi, all’inesistenza. Un armeno del Karabakh su dieci è morto per la libertà di questa regione, per un’indipendenza statuale fino ad oggi non riconosciuta da nessun paese al mondo. Le principali località che hanno subìto distruzioni sono state ricostruite e migliorate, ma quelle prossime alla linea del fronte (conosciuta a livello internazionale come Linea di contatto) sono una successione di ruderi spettrali e campi incolti. Oggi però tutti questi sacrifici sono messi a repentaglio dagli sviluppi militari e geopolitici di questa inquieta regione del mondo.

La notte fra l’1 e il 2 aprile scorsi la danza dei barattoli non è servita a proteggere le linee armene dagli attacchi azeri, perché quella notte sui soldati karabaki sono piovuti obici di artiglieria, cannonate di carri armati, razzi sparati da lanciatori multipli, granate da mortai e altro ancora. «Questa postazione che adesso vedete ricostruita è andata in pezzi per la cannonata di un tank», dice il soldato Ari, mentre la pioggia ha cominciato a cadere fredda e rada, tichettando sul suo elmetto. «Non abbiamo avuto nemmeno un ferito, perché parte di noi era protetta da un bunker e le sentinelle erano in punti della trincea distanti da quello dell’esplosione. Abbiamo subito risposto al fuoco».

La postazione ricostruita si protende verso il territorio nemico con una specie di capsula seminterrata; una lunga feritoia orizzontale interrotta a metà da una protezione guarda verso la prima linea azera, distante non più di 300 metri. Una lama di terra gialla cespugliosa e di cielo bianco più vicino e azzurro in lontananza (laggiù non piove) entra dalla feritoia e illumina la semioscurità della garitta. L’attacco di quella notte e della mattina successiva ha interessato tutta la Linea di contatto da nord a sud. Negli ultimi 22 anni le violazioni del cessate il fuoco, quasi sempre azere, sono state migliaia e hanno causato qualche decina di morti da ambo le parti: colpi di mortaio, proiettili di cecchini, qualche elicottero attaccato. Ma un’offensiva come quella di aprile non s’era mai vista.

Le rovine di Agdam
Il suo obiettivo era di attirare le forze armene all’estremo nord e all’estremo sud della prima linea, per poi sfondare al centro sulla direttrice che porta a Stepanakert, la capitale della repubblica, distante da qui una cinquantina di chilometri. I karabaki non hanno abboccato, e hanno mantenuto le loro forze nelle posizioni di partenza, facendo affluire volontari dalle retrovie verso le zone critiche. Il risultato è stato che gli azeri hanno conquistato un po’ di territorio a nord e a sud, nulla al centro, e la controffensiva armena dei giorni 3 e 4 aprile ha permesso di recuperare parte del terreno perduto. Quando il giorno 5 aprile è stato ripristinato il cessate il fuoco, gli azeri occupavano 8 chilometri quadrati più di prima. Gliene mancano ancora 19 mila se vogliono riprendersi il Nagorno Karabakh più gli altri sette distretti di territorio azero che gli armeni karabaki hanno occupato nella guerra finita nel ’94 sia per mettere in sicurezza la loro capitale, sia per creare una continuità territoriale con la Repubblica di Armenia, dalla quale in epoca sovietica il Nagorno Karabakh era separato formando un’enclave circondata da territorio azero.

Qui nella trincea 127, per esempio, siamo in territorio azero. Alle nostre spalle, distanti una decina di chilometri, ci sono le rovine di Agdam che abbiamo attraversato in un paesaggio di ruderi ed erba alta, reso più spettrale dal cielo livido. Era una cittadina azera che gli armeni occuparono e rasero al suolo per poi spingersi avanti fino a qui e creare la profondità strategica necessaria a rendere Stepanakert irraggiungibile dalla gittata dei proiettili dell’artiglieria dell’Azerbaijan. Lungo tutta la linea del fronte corre una carrabile infossata sotto il livello del terreno, una strada trincea al riparo dagli avvistamenti del nemico. Là dove la strada emerge alla vista si notano delle piastrine metalliche appese a un filo con sopra impressa una lettera M: è l’avviso che ci si trova esposti agli sniper del fronte avverso. Dal viale trincea si dipartono stretti percorsi laterali dal fondo cementato, che sfociano nella linea delle trincee vere e proprie, parte fangose e parte piastrellate a cemento, che fronteggiano le forze azere. Incisa su un mattone collocato sul cumulo di terra scura all’ingresso della trincea 127 c’è una croce nera. Dai bracci si dipartono sottili raggi dello stesso colore, come un’aura protettiva.

La croce e il crocifisso sono una presenza consueta nel panorama del Nagorno Karabakh, e non solo perché qui si trovano alcuni dei più antichi monasteri e delle più antiche chiese armene. Per strada al collo delle donne si possono scorgere medagliette con la croce, nelle bancarelle di souvenir non mancano mai rosari di legno leggero col simbolo cristiano, presente con discrezione nei cimiteri dei caduti della guerra di indipendenza, e persino dentro alla sede del ministero degli Affari esteri, dove una pittura murale raffigura una grande Madonna con la spada in mano che sovrasta un Cristo sulla croce. Settant’anni di ateismo comunista non hanno spento la fede di quello che è stato il più antico regno cristiano della storia (l’Armenia assunse il cristianesimo come religione di Stato nell’anno 301, quasi ottant’anni prima dell’editto di Teodosio che stabilì la stessa cosa nell’Impero romano), ma hanno influito sui comportamenti. Basti pensare che il tasso di fecondità armeno è praticamente identico a quello italiano, un misero 1,38 di figli per donna.

Il ruolo di Ankara e quello di Mosca
«Ma questa non è una guerra di religione», ci dicono all’unisono il capo di gabinetto del presidente dell’Armenia Vigen Sargsyan, l’ambasciatore del Nagorno Karabakh in Medio Oriente Garo Kababjian, il ministro degli Esteri karabako Karen Mirzoyan e il vice ministro della difesa dell’Armenia Davit Tonoyan, che incontriamo in successione. Alcuni fra loro indicano il nazionalismo esclusivista degli azeri e l’opportunismo politico del presidente azero Aliyev, la cui famiglia detiene un potere assoluto nel paese da 23 anni, come le cause essenziali della mancata soluzione dell’ultraventennale crisi. Altri, come Kababjian, vedono la ragione del ritorno di fiamma della guerra (gli scontri di aprile hanno causato più di 200 morti in quattro giorni) nel rinnovato progetto panturchista di cui la Turchia di Erdogan sarebbe oggi la forza trainante.

Il panturchismo è stato il progetto, accarezzato dal governo dei Giovani Turchi responsabili del genocidio armeno del 1915, di riunire tutte le stirpi turche del mondo (turchi, azeri, turcomanni, uzbeki, kirghisi, turkmeni, tatari, kazaki, tagiki, eccetera) in unico stato. Dopo le delusioni della Primavera araba e dei tira e molla dell’Unione Europea circa l’ingresso della Turchia, dismesse le ambizioni neo-ottomane Erdogan propenderebbe ora per un’espansione della sfera di influenza del suo paese fra gli stati di stirpe turca. All’indomani della guerra dei quattro giorni, da Ankara il presidente ha dichiarato che la Turchia «sta al fianco dei nostri fratelli dell’Azerbaijan. Il Karabakh tornerà un giorno al suo possessore originario, e questo sarà l’Azerbaijan». Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha stigmatizzato le dichiarazioni come «assolutamente inaccettabili», perché «questi non sono appelli alla pace, ma alla guerra».

Il ruolo della Russia nella crisi è assolutamente speciale. Mosca fa parte insieme a Francia e Stati Uniti del terzetto di presidenza del gruppo di Minsk, l’entità Osce incaricata di favorire i negoziati per la soluzione del conflitto. Ma è anche la grande protettrice dell’Armenia, parte interessata nella crisi per il sostegno che ha dato e che dà ai secessionisti karabaki e per la prospettiva di una futura unificazione fra Nagorno Karabakh e Armenia. Mosca e Yerevan sono firmatarie di due accordi di mutua difesa: quello che ha istituito l’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, della quale fanno parte Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan, e quello bilaterale di amicizia, cooperazione e mutuo aiuto entrato in vigore nel 1998 e rinnovato nel 2010.

Sul territorio armeno sono insediate due basi militari russe, una per truppe di terra meccanizzate e una aerea, per un totale di 5 mila uomini. E sono russi il 100 per cento degli armamenti che l’Armenia importa dall’estero. Tuttavia Mosca vende armi in quantità anche all’Azerbaijan, l’85 per cento del crescente arsenale azero è di origine russa secondo le stime del Sipri di Stoccolma. La politica russa sembra dunque essere quella di mantenere un certo equilibrio militare fra le due parti, per non alienarsi del tutto l’Azerbaijan, paese ricco di gas e petrolio (24esimo al mondo per le sue riserve) e collocato in posizione strategica per il controllo di gasdotti e oleodotti vecchi e nuovi.

Rinunciare all’indipendenza? Mai
Per parte sua, l’Azerbaijan ha stretto con la Turchia un Accordo di partenariato strategico e di mutuo sostegno nel 2010 che prevede assistenza reciproca in caso di aggressione militare. La cooperazione è in realtà decollata solo quest’anno, ma ha subito galvanizzato i sentimenti revanscisti di Baku. Di qui i timori crescenti dei governi di Stepanakert e di Yerevan: l’inerzia geopolitica sembra andare nella direzione di una ripresa su larga scala del conflitto per il Nagorno Karabakh, nella quale contro gli armeni sarebbero allineate forze molto più potenti che in passato.

Questi timori non incidono però sulla posizione negoziale degli armeni, che sono disposti a discutere il problema dei profughi e sfollati interni della guerra (724 mila azeri e 413 mila armeni) e la restituzione di alcuni territori occupati, ma giammai a rinunciare al diritto all’autodeterminazione per il Nagorno Karabakh. «Questo territorio è sempre stato in grande maggioranza armeno e governato da armeni», dice l’arcivescovo apostolico Pargev Martirosyan, che partecipa alle celebrazioni del 25esimo anniversario della dichiarazione unilaterale di indipendenza a Stepanakert e alla commemorazione dei caduti. «A ignorarne la storia e ad assegnarlo all’Azerbaijan è stato Josif Stalin negli anni Venti. Sarebbe ora di fare giustizia».

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Operazione “fideicidio”. Storia della persecuzione comunista nell’Armenia cristiana (Tempi.it 09.09.16)

Articolo tratto dall’Osservatore romano – Subito dopo il genocidio, il popolo armeno dovette subire un altro terrore di massa e massacro collettivo che furono convalidati e firmati dai compagni comunisti dell’Armenia sovietica. La documentazione e la ricerca tuttora incompleta sulle decisioni e procedure ufficiali della famosa troika sovietica Nkvd (una speciale commissione istituzionale, utilizzata come strumento di punizione extragiudiziaria, senza regolare processo), rivela i nomi di più di 250 chierici, uccisi ed esiliati tra gli anni 1920-1950.

Il culmine di questa politica e persecuzione anti religiosa fu l’assassinio per strangolamento del catholicos Khoren i (1932-1938) per mano degli agenti della polizia segreta presso la sua sede di Etchmiadzin il 6 aprile 1938. Prima di ciò, tutti i 70-75 membri del clero di Etchmiadzin, a parte sette, furono arrestati, esiliati e giustiziati per «attività anti-rivoluzionarie». Quattro mesi dopo l’omicidio di Khoren i, il 4 agosto 1938, il Governo sovietico armeno emanò un decreto segreto per l’eliminazione del catholicossato armeno di Etchmiadzin. Nello stesso giorno un altro appello segreto a Stalin fu firmato dal segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista in Armenia che accusava Etchmiadzin di attività anti-comuniste e chiedeva il permesso del Politburo per attuare la decisione dell’elimiazione del catholicossato. Sebbene Stalin non abbia mai approvato la decisione dei comunisti armeni, il periodo di sede vacante (1938-1945) fu tra i più difficili nella storia della Chiesa armena. Nel 1940 erano rimaste in Armenia solo nove chiese in funzione, mentre prima del 1917, solo la diocesi di Artsakh (Karabakh) aveva 208 chiese, 14 monasteri, e 236 preti. Durante i 30 anni e più di persecuzione comunista (1920-1950) l’identità cristiana armena affrontò un altro orrore della storia umana, il “fideicidio”, che aveva per scopo l’eliminazione totale della fede cristiana e della Chiesa come istituzione. La figura di Khoren i, come capo della Chiesa armena, rappresenta così l’immagine collettiva del clero martirizzato nell’Armenia sovietica. È importante notare che già nel 1938, l’editoriale di «Hask», mensile ufficiale del catholicossato della Grande casa di Cilicia, pur assumendo la versione comunista ufficiale della morte di Khoren i per un improvviso attacco cardiaco, lo definì «santo martire». Inoltre, nell’editoriale del mensile ufficiale del patriarcato armeno di Gerusalemme «Zion» (maggio 1938), il patriarca di Gerusalemme arcivescovo Torkom Gooshakian, uno dei più stretti collaboratori di Khoren i, lo dichiarò «pontefice santo e martirizzato».

Tutte queste indicazioni di testimoni oculari contemporanei indicano implicitamente che, nonostante le pressioni del Governo sovietico per far accettare la versione ufficiale della morte di Khoren i, vi era la ferma convinzione, soprattutto nella diaspora armena, che il catholicos fosse stato ucciso per essersi rifiutato di consegnare i tesori della Chiesa. Tuttavia, bisogna tener presente che i tesori di Etchmiadzin erano stati già confiscati in massima parte negli anni Venti, e che la maggior parte degli edifici e delle opere d’arte religiose erano state alienate da quasi tutte le diocesi e le parrocchie dell’Armenia. Il motivo dell’uccisione del catholicos non fu soltanto il desiderio del Governo locale armeno di confiscare totalmente i tesori di Etchmiadzin, ma fu semplicemente provocato dall’adozione della nuova costituzione dell’Unione sovietica nel dicembre 1936. L’articolo 124 della Costituzione formulava la libertà religiosa in questi termini: «Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è separata dallo Stato, e la scuola dalla Chiesa. La libertà di culto religioso e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute per tutti i cittadini». Il nuovo atteggiamento del Governo sovietico incoraggiò evidentemente i capi della Chiesa in tutte le parti dell’Unione sovietica, e anche in Armenia, dove la libertà di religione creò un’atmosfera più o meno accettabile. I documenti di archivio riferiscono che nel 1935 le chiese e le parrocchie rimaste in Armenia erano coinvolte attivamente nella vita del Paese, mentre continuavano ad assicurare allo stesso tempo il servizio liturgico e missionario specialmente tra i rifugiati dall’Armenia occidentale. Inutile dire che per il Governo comunista una tale presenza attiva della Chiesa nella vita del popolo armeno non poteva essere accettabile. Ecco perché quasi tutti i dignitari ecclesiastici (vescovi e archimandriti), subito dopo la morte di Khoren i furono arrestati e giustiziati. Nel 1937, il periodo più oscuro della persecuzione contro la chiesa, più di 45 dignitari ecclesiastici furono giustiziati. Quindi, la decisione del Governo sovietico di eliminare definitivamente il centro spirituale di tutti gli armeni fu anche dovuta al fatto che nel 1936, secondo un sondaggio non ufficiale dell’opinione pubblica, la maggior parte degli armeni si identificavano come cristiani.

L’indipendenza dell’Armenia dopo decenni di governo ateo ha portato molti sviluppi positivi nella vita della Chiesa armena. Le nuove pubblicazioni di materiali e documenti segreti sull’esecuzione e l’esilio del clero armeno negli anni 1920-1950 contribuirono largamente alla comune comprensione nazionale di ciò che la testimonianza e il martirio cristiano della Chiesa armena erano stati durante il periodo sovietico. A partire dal 7 settembre 1996 quando il corpo di Khoren i fu sepolto di nuovo a Etchmiadzin. La sua figura è diventata sempre più emblematica come immagine collettiva del martirio del clero armeno nell’Armenia sovietica.

Tuttavia, con l’indipendenza, la Chiesa e il popolo armeno hanno dovuto affrontare anche molte sfide. Una di esse — forse la più attuale — è la riconsiderazione del concetto di testimonianza e di martirio cristiano come un modo per essere in comunione con quanti hanno dato la loro vita per Cristo, ma che non sono stati riconosciuti come tali nella vita della Chiesa. In questo senso il martirio di più di duecento preti e vescovi durante il periodo sovietico in Armenia chiede di essere ufficialmente riconosciuto, avendo come esempio, ovviamente, la via percorsa dai martiri del genocidio armeno, che sono diventati da “vittime” a “vincitori”.

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TF annulla condanna Perinçek per discriminazione razziale (Swissinfo.ch 08.09.16)

Dopo la vittoria alla Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), il nazionalista turco Dogu Perinçek ha ottenuto dal Tribunale federale la revisione della condanna per discriminazione razziale inflittagli dalla giustizia vodese in relazione al genocidio armeno.

Il caso tornerà ora al Tribunale cantonale vodese, che dovrà prosciogliere l’attivista.

Nel marzo 2007, su denuncia dell’associazione Svizzera-Armenia, il Tribunale di polizia di Losanna aveva condannato il presidente del Partito dei lavoratori della Turchia (estrema sinistra nazionalista) – a 90 aliquote giornaliere di 100 franchi l’una con la sospensione condizionale e ad una multa di 3000 franchi – in seguito alle dichiarazioni pronunciate in pubblico sul genocidio armeno.

Nel corso di tre conferenze tenute a Losanna, Opfikon (ZH) e Köniz (BE) nel 2005, Perinçek aveva negato esplicitamente l’esistenza del genocidio armeno del 1915, definendola una “menzogna internazionale”.

Contrariamente alla giustizia vodese e al Tribunale federale, che aveva confermato la condanna in ultima istanza, Strasburgo ha ritenuto che le affermazioni del politico turco “non erano assimilabili a un appello all’odio o all’intolleranza” e che la sua condanna era contraria alla libertà di espressione.

Per i giudici della CEDU, “i tribunali elvetici sembrano aver censurato il ricorrente per aver semplicemente espresso una opinione divergente da quelle correnti in Svizzera”. La decisione era stata accolta con soddisfazione dalla Federazione delle associazioni turche della Svizzera romanda (Fatsr), mentre l’Associazione Svizzera-Armenia (ASA) aveva espresso la propria costernazione.

L’ASA e il canton Vaud dovranno versare a Perinçek 2500 franchi ciascuno per le spese della procedura di revisione.

Sentenza 6F_6/2016 del 25 agosto 2016

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Armenia: si dimette il premier (Ansa 08.09.16)

Hovik Abrahamyan si è dimesso da primo ministro armeno in modo da aprire la strada alla formazione di un governo di coalizione annunciata dal presidente Serzh Sargsyan già il mese scorso. Tra le cause della crisi politica in Armenia vi è l’assalto a una caserma di polizia di Ierevan da parte di un commando che è poi rimasto asserragliato nell’edificio per due settimane chiedendo la scarcerazione di un leader dell’opposizione e le dimissioni del governo. Molte persone hanno manifestato a favore del gruppo armato.

 

Papa in Georgia: mons. Giuseppe Pasotto (Tblisi), “pellegrino di comunione tra le Chiese e di pace” (Agensir 07.09.16)

“Pax vobis”, la pace sia con voi: è il motto scelto per il viaggio che papa Francesco farà in Georgia ed in Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre  come seconda tappa del suo pellegrinaggio in Caucaso che a giugno lo ha già portato in Armenia. Parla monsignor Giuseppe Pasotto, vescovo di Tblisi e amministratore apostolico per il Caucaso dei cattolici di rito latino. “I cattolici di Georgia – dice – vedono nella visita del Papa un abbraccio della Chiesa universale a questa terra dove talvolta si ha l’impressione di sentirsi soli”

Papa Francesco in Georgia, “pellegrino di comunione” tra le Chiese e di “pace” nella regione del Caucaso. Così monsignor Giuseppe Pasotto, vescovo di Tblisi e amministratore apostolico dei cattolici di rito latino, riassume il viaggio che papa Francesco farà in Georgia ed in Azerbaigian dal 30 settembre al 2 ottobre  come seconda tappa di un pellegrinaggio che a giugno lo ha già portato in Armenia. “Pax vobis”, la pace sia con voi: le due parole tratte dal capitolo 20 del Vangelo di Giovanni, è il motto scelto per questa visita apostolica.

“Due – spiega il vescovo Pasotto – sono gli obiettivi della visita: il primo è legato alla vita delle Chiese e alla comunione tra loro. Il secondo obiettivo è l’aspirazione alla pace. Queste tre regioni del Caucaso, Armenia, Georgia e Azerbaigian, sono terre continuamente minacciate nella pace”. Desta preoccupazione la situazione di conflitto tra Armenia e Azerbaigian per la regione del Nagorno Karabakh. Ma ci sono anche le questioni rimaste aperte per i territori di Abcasia e Ossezia del Sud dove, dopo gli scontri etno-territoriali negli anni ’90, non si è ancora giunti ad un vero negoziato di pace. “Il Papa – osserva Pasotto – darà molta attenzione nei suoi discorsi alla pace e in questa prospettiva, le tre visite in Caucaso vanno viste insieme.

La pace parte dall’unità delle chiese, dalla accettazione delle diversità delle realtà politiche che vivono le une accanto alle altre, dalla giustizia, dal rispetto dei diritti di ciascuno”.

I cattolici presenti in Georgia sono appena l’1%  della popolazione per una presenza complessiva di 30/40 mila persone. Appartengono a tre riti diversi: latino, armeno e assiro-caldeo. Gli ortodossi sono l’85% della popolazione. La Chiesa apostolica autocefala georgiana è guidata con paterna saggezza dal 1977  da Sua Santità e Beatitudine Elia II, che è considerato dalla popolazione come la più alta autorità morale del popolo georgiano. I musulmani sono circa l’11%. “La realtà ecclesiale cattolica è stata, anche nella storia, piccola ma significativa – commenta Pasotto -, sempre presente nella realtà sociale del paese, parte della vita di questo popolo. E’ una Chiesa che si è sempre impegnata”.

Vicinanza ai poveri, sostegno ai giovani, aiuto nelle zone più emarginate del Paese. E’ quanto racconta la storia della Chiesa in questo piccolo angolo di Europa. A sfogliare il libro del tempo è, in un incontro organizzato dall’Università Santa Croce a Roma, Valentina Vartui Karakhanian ricercatrice di origini armene-georgiane e postulatrice presso l’archivio Segreto Vaticano. La prima missione “quasi ufficiale” della Chiesa cattolica fu quella delle Suore Missionarie della Carità con una comunità di assistenza ai poveri e i senzatetto della capitale. Quasi contemporaneamente, nel 1991, giunsero nel Caucaso i Padri Camilliani che grazie all’aiuto della Caritas Italiana, hanno aperto l’ospedale “Redemptoris Mater” di Ashotsk in Armenia e un poliambulatorio “Redemptor Hominis” a Tbilisi assistendo migliaia di cittadini poveri anche con un servizio domiciliare per i più bisognosi.

Una delle opere più importanti della Chiesa Cattolica in Georgia è la Caritas Georgia, ufficialmente riconosciuta quale Organizzazione non governativa locale nel 1994, e che tutt’ora svolge un ruolo preziosissimo nel paese con mense, piccoli ambulatori nelle zone più povere del Paese, scuole professionali, assistenza ai “ragazzi di strada”.  Nel 1994 arrivarono i padri Stimmatini che nelle città di Batumi e Kutaisi all’attività parrocchiale uniscono interventi in favore degli anziani, dei bambini, dei giovani in difficoltà e senzatetto. Determinante e fondamentale nell’educazione dei giovani è il silenzioso lavoro delle suore Salesiane e sempre in ambito culturale è da segnalare la presenza ormai da 15 anni a Tbilisi dell’Università Cattolica degli studi “Sulkhan Saba Orbeliani”. Nel mese di giugno del 2007, arrivò anche la associazione Comunità Papa Giovanni XXIII aprendo una casa di accoglienza e cura per giovani alcolisti e in difficoltà nei pressi della città di Batumi.

A Tblisi fervono i preparativi. Il Papa arriva ad una settimana dalle elezioni politiche nel Paese e sebbene l’attenzione dei media sia fortemente concentrata sulla vita politica, c’è grande richiesta da parte della gente, anche non cattolica, dei biglietti di ingresso per vedere il Papa. Mons. Pasotto spera nel bel tempo perché la pioggia complicherebbe il lavoro dell’organizzazione. E poi aggiunge: “Al Papa cercheremo di dirgli chi siamo”. Ci sarà occasione di farlo nell’incontro previsto in cattedrale dove prenderanno “brevemente” la parola alcuni rappresentanti della Chiesa georgiana. “A me piacerebbe – conclude Pasotto – che lui sentisse che siamo una chiesa di minoranza e come tali, non avendo nulla da difendere, siamo in un certo senso più liberi di andare all’essenziale della nostra fede e di annunciare il Vangelo con gioia, pur con le fatiche di essere piccoli e di non poter fare tutto quello che vorremmo. I cattolici di Georgia vedono nella visita del Papa un abbraccio della Chiesa universale a questa terra dove talvolta si ha l’impressione di sentirsi soli ed una conferma del cammino di fede intrapreso: andate avanti, ci dirà il Papa, questa è la strada che Dio vi ha indicato. Non abbiate dubbi”.

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L’ultimo baluardo cristiano contro l’avanzata dell’islam (Il Giornale 06.09.16)

M ettere per la prima volta piede in Armenia, lo Stato cristiano per antonomasia, la terra che rivendica di essere la culla della chiesa che incarna l’apostolato di Gesù, la popolazione che ha subìto il più cospicuo genocidio di cristiani nella Storia, il governo che concepisce orgogliosamente il cristianesimo come la radice e il fulcro dell’identità nazionale, è un’emozione unica, che stringe il cuore, che allarga istintivamente l’abbraccio alla moltitudine di «fratelli» nella condivisione della civiltà cristiana, che sprona a offrire la propria solidarietà di fronte alle minacce che attentano al primordiale diritto alla vita e al legittimo diritto alla sicurezza. Minacce che si sostanziano in un nome: islam.

L’Armenia è lo Stato cristiano che più di altri al mondo è minacciato dall’islam per il solo fatto di essere integerrimamente e integralmente cristiano. È l’unico Stato al mondo dove l’islam è come se fosse di fatto fuorilegge, dove non ci sono cittadini musulmani, dove non ci sono moschee ad eccezione della Moschea Blu riservata all’islam minoritario sciita, costruita nel diciottesimo secolo, trasformata dal governo sovietico in un museo nel 1931, restaurata per volontà dello Scià di Persia ed attiva dal 1999 per i turisti iraniani. Sorprende, appena atterrati all’aeroporto di Erevan, la semplicità e genuinità di una popolazione legata alla tradizione, alla famiglia, agli affetti, che accoglie con mazzi di fiori e abbracci profondi i propri cari. In un contesto di estrema modestia, dove per le strade circolano ancora le vecchie automobili «Lada» sovietiche dalle sagome goffe, che vengono tenute in vita per la difficoltà di emanciparsi economicamente, per la pochezza delle risorse nazionali su cui pesa come un macigno la totale dipendenza energetica dalla Russia e dall’Iran. La corruzione dilaga incentivata dal bisogno di gran parte della popolazione. Tuttavia resta il paese più sicuro al mondo, senza criminalità organizzata, al suo interno prevale comunque un radicato e diffuso senso di responsabilità e di solidarietà nei confronti dei propri connazionali. L’Armenia è lo Stato al mondo che, al pari di Israele, identifica come un tutt’uno, come una realtà intrinsecamente indissolubile, l’identità religiosa e l’identità nazionale. Così come Israele, da sempre storicamente terra degli ebrei, fu riesumato dopo duemila anni come «patria degli ebrei», fondato nel 1948 sulla base della risoluzione 181 delle Nazioni Unite come «Stato ebraico», l’Armenia concepisce come indissolubile la sua identità nazionale armena con la sua identità religiosa cristiana. E, al pari d’Israele, l’Armenia tende ad abbracciare l’insieme delle comunità armene nel mondo, pari a circa 10 milioni di persone, di cui solo poco più di 3 milioni vivono nella madrepatria. Così come, al pari di Israele che è preposto a salvaguardare il popolo ebraico e la civiltà che affonda le sue radici nei Dieci Comandamenti, sussiste una apparente inadeguatezza tra la missione che la Storia ha affidato all’Armenia quale Stato depositario della nostra identità cristiana, e la sua esiguità in termini di territorio, di popolazione e di risorse, compensate però dalla straordinaria inventiva e intraprendenza della sua gente. Ma soprattutto, al pari di Israele che ha subìto il più cospicuo Olocausto nella Storia, circa 6 milioni di ebrei sterminati dalla Germania nazista tra il 1933 e il 1945, l’Armenia ha subìto il più cospicuo genocidio di cristiani nella Storia, circa 1 milione e mezzo di connazionali massacrati, tra il 1915 e il 1923 da parte dell’ultimo Califfato islamico turco-ottomano e del movimento nazionalista dei Giovani Turchi.

La visita al Museo del Genocidio Armeno è una lezione di Storia che ci fa toccare con mano la verità su uno dei più sanguinosi ed efferati crimini perpetrati nei confronti dei cristiani nel nome dell’islam. Nonostante sia vero il fatto, come attestano le immagini toccanti in bianco e nero, che gli armeni in Turchia furono presi di mira perché erano l’elite più emancipata sul piano delle attività produttive, della creatività culturale e dell’insegnamento scolastico, e nonostante l’insistenza con cui si vuole anche da parte armena enfatizzare l’identità nazionalista dei criminali «Giovani Turchi» che condivisero il genocidio degli armeni, è però indubbio che gli armeni furono massacrati perché cristiani. È il loro essere «diversi» in quanto cristiani in seno al Califfato islamico turco-ottomano, così come fu per il loro essere diversi in quanto ebrei nella Germania nazista, ed è per il fatto che l’islam concepisce cristiani e ebrei come «dhimmi», «protetti», «sottomessi», che gli armeni furono deliberatamente fisicamente annientati.

Visitando il Museo del Genocidio Armeno mi è tornato alla mente lo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme, da cui se ne esce traumatizzati per l’inequivocabilità della più atroce strage perpetrata nei confronti di un singolo popolo per annientarlo definitamente. Ho preso atto che gli israeliani, a differenza degli armeni, hanno saputo produrre una mole di documenti e hanno saputo rappresentare la realtà storica in modo più convincente ed efficace. Non è un caso se oggi solo una quarantina di stati al mondo hanno riconosciuto la verità storica del genocidio degli armeni. La gran parte degli stati, a partire da quelli europei, si sono di fatto piegati all’arbitrio e sottomessi alle minacce della Turchia, che nega spudoratamente la propria responsabilità storica. Dobbiamo sostenere l’Armenia, vera roccaforte cristiana nell’Asia meridionale a ridosso dell’Europa, circondata da tre Stati islamici, con cui uno, l’Azerbaijan, è in stato di guerra, e il secondo, la Turchia, è in stato di allerta permanente. Se l’Armenia dovesse capitolare e perdesse la propria identità cristiana, sottomettendosi alle mire egemoniche dell’aspirante califfo neo-ottomano Erdogan, tutta l’Europa finirebbe per essere travolta dall’irrompere di una violenza nel nome dell’islam scatenata da est, da sud e dal suo stesso interno ormai pesantemente infiltrato dal radicalismo e dal terrorismo islamico autoctono.

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