Il ritorno del Papa nel Caucaso, incontri con ebrei e musulmani (La Stampa 11.08.16)

Da oggi mancano 50 giorni per il ritorno di papa Francesco nel Caucaso: in concreto per la visita in Georgia il 30 settembre e 1° ottobre (41 ore) e poi in Azerbaigian il 2 ottobre (9 ore 45m). Dunque un pellegrinaggio lampo: 50 ore e 45m. Per raggiungere la capitale della Georgia il Papa dovrà coprire con l’aereo dell’Alitalia 2.668 km. Poi tra questa capitale e quella dell’Azerbaigian, Baku, ne coprirà altri 445 e, infine, per rientrare a Roma dalla capitale azera i chilometri da percorrere sono altri 3.105. In totale, andata e ritorno: 6.218 km. Questi due Paesi fanno parte della seconda tappa del pellegrinaggio pontificio nel Caucaso cominciato con il viaggio in Armenia dal 24 al 26 giugno 2016.

 

Lo stesso papa Francesco, nell’udienza giubilare del 30 giugno scorso, dopo il suo pellegrinaggio in Armenia, così ricordò i suoi impegni pastorali nelle Nazioni del Caucaso: «Nei giorni scorsi il Signore mi ha concesso di visitare l’Armenia, la prima nazione ad avere abbracciato il cristianesimo, all’inizio del quarto secolo. Un popolo che, nel corso della sua lunga storia, ha testimoniato la fede cristiana col martirio. Rendo grazie a Dio per questo viaggio, e sono vivamente grato al Presidente della Repubblica Armena, al Catholicos Karekin II, al Patriarca e ai Vescovi cattolici, e all’intero popolo armeno per avermi accolto come pellegrino di fraternità e di pace. Fra tre mesi compirò, a Dio piacendo, un altro viaggio in Georgia e Azerbaigian, altri due Paesi della regione caucasica. Ho accolto l’invito a visitare questi Paesi per un duplice motivo: da una parte valorizzare le antiche radici cristiane presenti in quelle terre – sempre in spirito di dialogo con le altre religioni e culture – e dall’altra incoraggiare speranze e sentieri di pace. La storia ci insegna che il cammino della pace richiede una grande tenacia e dei continui passi, cominciando da quelli piccoli e man mano facendoli crescere, andando l’uno incontro all’altro. Proprio per questo il mio auspicio è che tutti e ciascuno diano il proprio contributo per la pace e la riconciliazione. Come cristiani siamo chiamati a rafforzare tra noi la comunione fraterna, per rendere testimonianza al Vangelo di Cristo e per essere lievito di una società più giusta e solidale. Per questo tutta la visita è stata condivisa con il Supremo Patriarca della Chiesa Apostolica Armena, il quale mi ha fraternamente ospitato per tre giorni nella sua casa. Rinnovo il mio abbraccio ai Vescovi, ai sacerdoti, alle religiose e ai religiosi e a tutti i fedeli in Armenia. La Vergine Maria, nostra Madre, li aiuti a rimanere saldi nella fede, aperti all’incontro e generosi nelle opere di misericordia».

 

Una visita del Papa con un programma particolare

In queste due antiche Nazioni caucasiche, i cattolici sono pochissimi, ma mentre la Georgia è a maggioranza cristiana (gli ortodossi sono il 54%) l’Azerbaigian è a maggioranza musulmana (63% sciiti e 33% sunniti – Totale: 96%).

 

Occorre tenere conto di questi dati statistici e delle parole del Papa riportate sopra (udienza del 30 giugno scorso) per capire perché i programmi delle visite di papa Francesco sono un po’ particolari.

 

Georgia  

Venerdì 30 settembre, papa Francesco, dopo il benvenuto nell’aeroporto internazionale di Tbilisi-Novoalexeyvka, nell’arco della giornata avrà quattro incontri. Prima con il presidente, Giorgi Margvelashvili, in carica dal 17 novembre 2013, leader del Partito Sogno georgiano, eletto con il 62% dei voti. Seguirà l’incontro di Francesco con le autorità, con la società civile e con il corpo diplomatico nel cortile del palazzo presidenziale. Poi ci saranno due momenti religiosi molto importanti: l’incontro con Ilia II, Catholicos e patriarca di tutta la Georgia nel palazzo del patriarcato e l’incontro con la comunità assiro-caldea nella chiesa cattolica caldea di S. Simone Il Tintore (il calzolaio).

 

Elia II (Vladikavkaz, 4 gennaio 1933) è l’attuale primate della Chiesa apostolica autocefala ortodossa georgiana ed è in carica dal 1977. Possiede i titoli di Catholicos Patriarca di tutta la Georgia, Arcivescovo di Mtskheta e Tbilisi e Vescovo metropolita di Abcasia e Bichvinta.

 

La storica comunità assiro-caldea in Georgia negli ultimi tempi ha accolto nuovi profughi fuggiti dalle zone controllate dall’Isis soprattutto in Iraq.

 

Il 1° ottobre, papa Francesco, nello stadio Mikheil Meskhi, Tbilisi, presiederà la prima Celebrazione eucaristica delle due previste in questo viaggio e poi ci saranno l’incontro con sacerdoti, religiose e religiosi nella chiesa dell’Assunta e l’incontro con gli assistiti e con gli operatori delle opere di carità della Chiesa davanti al «Centro di assistenza» dei Camilliani. I primi missionari camilliani giungono a Tbilisi nel 1998 su invito di papa san Giovanni Paolo II, il quale affida loro la conduzione di un poliambulatorio situato alla periferia Temka della capitale Tbilisi.

 

Seguirà il trasferimento di papa Francesco a Mskheta per una visita alla cattedrale patriarcale Svietyskhoveli, reintegrata recentemente al «Patrimonio Unesco». Mskheta è una delle più antiche città della Georgia nella regione di Mtskheta-Mtianeti e si trova nella provincia storica di Kartli, vicino a Tbilisi. La Città fu la capitale del regno di Georgia fra il III secolo a.C. e il V secolo d.C. Qui i georgiani si convertirono al cristianesimo nel 317 e Mtskheta rimane la città in cui ha sede la Chiesa ortodossa e apostolica georgiana. A Mskheta si trovano numerosissimi edifici molto antichi, entrati a far parte nel 1994 dell’elenco dei «Patrimoni dell’umanità dell’Unesco». Fra questi edifici vale la pena ricordare: la cattedrale di Svetitskhoveli (dell’XI secolo), il monastero di Jvari (VI secolo), la fortezza di Armaztsikhe (III secolo a.C.), l’acropoli (con costruzioni del I millennio a.C.), oltre ad altri edifici di culto di quasi 2mila anni fa.

 

Domenica 2 ottobre nell’aeroporto Internazionale Tbilisi-Novoalexeyvka, papa Francesco, si congederà dalle autorità e raggiungerà Baku, la capitale dell’Azerbaigian.

 

Azerbaigian  

Il 2 ottobre la cerimonia di benvenuto si svolgerà presso l’aeroporto internazionale Baku-Heydar Aliyev. Subito dopo, il Santo Padre presiederà la seconda Eucaristia di questo pellegrinaggio e sarà presso la chiesa dell’Immacolata nel Centro salesiano a Baku, dove dal 18 ottobre 2015 ci sono anche le Figlie di Maria Ausiliatrice. Dopo il pranzo nella Casa dei Salesiani ci sarà la visita di cortesia al presidente della Repubblica, Ilham Aliyev, nel palazzo presidenziale di Genclik. Seguirà l’incontro con le autorità nel Centro Heydar Aliyev. Il Presidente, nato il 24 dicembre 1961, è in carica dal 2003. È figlio del terzo presidente dell’Azerbaigian Heydar Aliyev. I risultati ufficiali delle elezioni del 15 ottobre 2003 hanno assegnato la vittoria a Ilham Aliyev, che ha ottenuto il 76,84% dei voti. Tuttavia l’opposizione si è rifiutata di accettare i risultati dello scrutinio organizzando manifestazioni di protesta. Le proteste sono state scatenate dalle accuse di corruzione e di brogli elettorali.

 

Prima del congedo, previsto per le 19,15 (ora locale), il Santo Padre avrà tre incontri privati importanti: con lo sceicco dei musulmani del Caucaso nella moschea Heydar Aliyev, Hadji Allahchukur Pachazadeh, con il vescovo ortodosso di Baku, Alessandro, e con il presidente della Comunità ebraica, Shneor Segal.

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YOUTUBE Rio 2016, sollevamento pesi: atleta armeno si spezza gomito (Blitz Quotidiano 11.08.16)

RIO DE JANEIRO – Durante la gara di sollevamento pesi valida per le Olimpiadi di Rio 2016, l’atleta armeno Andranik Karapetyan, mentre cercava di sollevare 195 kg, il braccio sinistro non ha retto lo sforzo e si è spezzato. Il grido di dolore dell’armeno ha riempito il palazzetto dov’era in corso la gara; anche i suoi allenatori si sono accorti del dramma che stava vivendo il loro atleta. Stessa cosa ha fatto la regia che, dopo qualche secondo ha staccato dall’inquadratura stretta passando ad una a campo largo.

Le immagini della frattura sono impressionanti. Un video su YouTube documenta a pieno quello che è accaduto.

Non è la prima volta che il sollevamento pesi regala infortuni o situazioni difficili. A gennaio, in una palestra in un luogo non precisato, un bodybuilder ha fatto crollare tutto. La sua performance è stata disastrosa: l’uomo sistema sulla barra per il sollevamento pesi almeno otto dischi in ognuna delle due estremità. Il peso è però un po’ troppo e l’omone del filmato, si appoggia il carico sulle spalle senza farcela a tenersi in equilibrio. E così poco dopo gli crolla tutto a terra. Non si sa dove sia stato girato questo filmato pubblicato dal Daily Mail che intanto è diventato virale.

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Junior Eurovision 2016, Anahit Adamyan e Mary Vardanyan per l’Armenia (Eurofestivalnews.com 11.08.16)

Saranno  le tredicenni Anahit Adamyan e Mary Vardanyan a rappresentare la tv armena al prossimo Junior Eurovision Song Contest, in programma il 20 novembre al Mediterranean Center di La Valletta, sull’Isola di Malta. La loro canzone sarà selezionata in autunno.

Anahit Adamyan e Mary Vardanyan

Si tratta di due ragazzine che hanno dalla loro già una notevole esperienza, nonostante l’età: Anahit Adamyan, nata in Russia a Sochi da una famiglia armena, ha preso parte nel 2013 alla versione russa di The Voice Kids e poi a The Battle of Talents. Mary Vardanian è stata invece lanciata lo scorso anno dal concorso Renaissance International Music Festival, dal quale è uscita vincitrice.

L’Armenia si è imposta nel 2010 con Vladimir Arzumanyan, giovane cantante della regione contesa con gli azeri del Nagorno Karabakh ed ha poi ospitato la rassegna l’anno dopo a Erevan. Ma è uno dei paesi col palmares più alto: vanta anche tre secondi posti dei quali uno proprio l’anno scorso e due terzi posti in nove partecipazioni dal 2007 ad oggi.

Al momento i paesi paesi iscritti sono 13:Albania (con Klesta Qehaja),  Armenia, Bielorussia, Bulgaria (con Lydia Ganeva), Cipro, Irlanda, Italia (che sceglierà internamente),  Macedonia (con Martija Stanojkovic),  Malta (con  Christina Magrin), Paesi Bassi (con le Kisses), Polonia (che torna dopo 12 anni di assenza),  Russia e Ucraina. Non ci sarà invece  quest’anno San Marino.

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Russia-Armenia, Putin incontra oggi il presidente Sargsyan (Sputnik 10.08.16)

Colloquio oggi a Mosca fra il presidente russo e il proprio omologo armeno. Focus su cooperazione bilaterale in materia di politica, commercio, impegno umanitario e integrazione eurasiaticaIl Cremlino ha annunciato che il presidente armeno Serzh Sargsyan sarà oggi a Mosca per incontrare il presidente russo Vladimir Putin. Nel corso dell’incontro, i due leader discuteranno delle più urgenti questioni regionali e internazionali e delle attività di cooperazione bilaterale in materia di politica, commercio, impegno umanitario e ulteriore integrazione eurasiatica. La visita del presidente armeno, che è stato invitato da Putin, arriva due giorni dopo quella del presidente russo a Baku, la capitale dell’Azerbaijan, dove ha incontrato il proprio omologo azero Ilham Aliyev.

Leggi tutto: http://it.sputniknews.com/politica/20160810/3251248/russia-armenia-putin.html

Il nuovo Risiko di Erdogan e Putin (Lastampa.it 09.08.16)

ASPETTATIVE DI MOSCA

Una “Grande Eurasia” sotto la guida del Cremlino

Gas, Siria, e il sogno molto ambizioso di una «Grande Eurasia» guidata da Mosca, uno spazio regionale integrato dall’Iran alla Turchia che rompa l’asse, presente o futura, dei Paesi della regione con Nato e Ue.

 

Basta guardare l’agenda di Putin di questi giorni, per capire che l’incontro di oggi a San Pietroburgo con Erdogan non serve solo a ristabilire i rapporti diplomatici ed economici Russia-Turchia dopo mesi di gelo. Ma è un segnale all’Occidente, che vuol mostrare dove tira il vento: cioè che la politica di isolare la Russia non sta funzionando. Entrambe economie in difficoltà, Ankara ai ferri corti con Usa e Ue dopo il golpe, Putin emarginato dopo la Crimea punta ad attrarre Erdogan nell’orbita russa. Da una posizione di forza, è stato il turco a chiedergli scusa, anche se Putin non l’ha ancora perdonato per il caccia abbattuto.

 

Ieri il capo del Cremlino è volato a Baku per il primo vertice trilaterale col presidente dell’Azerbaijan Aliyev e Hassan Rouhani dall’Iran. Obiettivo: creare un nuovo «triangolo del Caspio», che non può prescindere dalla Turchia.

 

Erdogan da Putin, sfida all’Occidente

Ci sono i rapporti economici tra Turchia e Russia in cima all’agenda dei colloqui di oggi tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan – che lascia per la prima volta Ankara dal fallito golpe del 15 luglio – e il suo omologo russo Vladimir Putin a San Pietroburgo. Primo incontro dalla crisi diplomatica esplosa nel novembre dello scorso anno, quando un F-16 turco ha abbattuto un jet militare russo che dalla Siria era entrato nel territorio della Turchia, quello di oggi tra Erdogan e Putin rappresenta il coronamento di sforzi diplomatici di mesi per ricucire i rapporti tra i due Paesi.

 

I gasdotti

Al centro Siria ed energia: il corridoio di trasporto internazionale Nord-Sud, (7200 Km, via Baku collegherebbe merci da India, Iran, Golfo, Russia e poi Europa settentrionale e occidentale). Putin vorrebbe «doppiarlo» con quello energetico, un gasdotto Mosca-Baku-Teheran che si oppone al corridoio Sud (Est-Ovest) da Baku alla Turchia voluto dalla Ue per ridurre la dipendenza dall’energia russa. Finora Ankara lo ha preferito al Turkish Stream con Mosca, ma ieri il Sultano con un cambio di passo, si è detto «pronto subito a compiere passi verso la realizzazione del progetto». Scopo russo è far pressione sui leader Ue perché diano il via libera a un altro gasdotto molto più importante per Mosca, il Nord Stream-2.

 

In cambio, il Cremlino offre a Erdogan un inedito, quanto peregrino, patto sunnita-sciita. «Con Putin vogliamo aiutare Erdogan a creare buone condizioni e risolvere i problemi in modo che possa prendere la decisione giusta. Vale per Iraq e Siria», ha annunciato il vice degli Esteri iraniano Rahimpur. Con Mosca intanto, fa sapere Teheran, «la nostra partnership è sempre più strategica»: collaborano in Siria nel sostenere Assad, e Putin ha proposto un prestito di 2.2 miliardi di euro all’Iran e nuove centrali nucleari e termoelettriche. La Russia spera di creare una zona di libero scambio tra l’Unione economica Eurasiatica (Russia, Kazakhstan, Bielorussia, Armenia e Kirghizistan) e Teheran. E spera di coinvolgervi la Turchia.

 

Il fronte siriano

Ancora più difficile trovare convergenze sulla Siria. Erdogan insiste sulla cacciata di Assad, ma ora che Mosca è in vantaggio sul campo nella guerra, potrebbe convincere il Sultano a ottenere in cambio una attenuazione dell’appoggio russo ai curdi di Siria. Infine domani 10 agosto, ultima tappa della maratona diplomatica, a Mosca Putin ha invitato il presidente dell’alleata Armenia Serzh Sargsyan. Pare voglia fare da paciere per il conflitto sul Nagorno Karabakh: «Ci adopereremo per aiutare Armenia e Azerbaigian a trovare una soluzione». Soluzione impossibile senza Ankara, alleato di Baku.

 

 

LE RICHIESTE DI ANKARA

Gas, accordi economici e patto anti curdi in Siria

Il presidente della Repubblica turca, Recep Tayyip Erdogan, lascia per la prima volta il Paese dal golpe fallito dello scorso 15 luglio e, dato significativo, come destinazione non ha scelto né l’Unione europea, né gli Stati Uniti, ma la Russia di Vladimir Putin. Proprio ieri, all’agenzia russa Tass, il capo di Stato di Ankara ha parlato di «nuovo inizio». «Nei colloqui con il mio amico Vladimir – ha dichiarato Erdogan – credo che si aprirà una nuova pagina nelle relazioni bilaterali». Sembrano lontani anni luce le tensioni di qualche mese fa, quando il presidente turco aveva reagito con rabbia alle parole del Capo del Cremlino, che aveva accusato lui e la sua famiglia di commerciare petrolio proveniente dai territori controllati dallo Stato islamico. La visita di oggi potrebbe vedere la nascita di un nuovo asse destinato a pesare sulla geopolitica di tutta la regione.

 

La via della seta

Quello che oggi planerà a San Pietroburgo è un Recep Tayyip Erdogan pieno delle migliori intenzioni, ma anche molto determinato: si presenterà al cospetto di Putin con il sorriso, ma non certo con il cappello in mano. Il Capo di Stato di Ankara sa perfettamente che il ripristino delle relazioni economiche ai livelli precedenti l’abbattimento del caccia russo dello scorso 24 novembre conviene a entrambi. Se la Mezzaluna infatti rischia un danno da quasi 10 miliardi di dollari, anche per Mosca, secondo partner commerciale della Turchia, significherebbe una boccata di ossigeno. C’è poi una proiezione comune sui mercati dell’Asia Centrale e dell’Estremo Oriente. Ankara sembra sempre più ansiosa di entrare di forza, anche per diminuire la dipendenza dall’Europa e dagli Stati Uniti, che con i loro investimenti rappresentano i maggiori finanziatori del boom economico del Paese.

 

Un nuovo Mediterraneo

Ma i punti più caldi dell’incontro fra i due capi di Stato riguarda l’agenda internazionale. Il vero motivo degli ultimi dissapori fra Ankara e Mosca ha un nome solo: Siria. Più volta Vladimir Putin aveva messo in guardia Erdogan in persona dall’immischiarsi negli affari di Damasco. Il presidente turco non gli ha dato retta e oltre a non aver ottenuto la caduta di Bashar al-Assad, la destabilizzazione della Siria si è tradotta in un flusso di rifugiati sul territorio nazionale che ormai sfiora i tre milioni e che nonostante l’accordo con l’Unione europea sta creando non pochi problemi di ordine interno ed economico. Erdogan porta in dote a Putin un Paese sotto il suo stretto controllo, forze armate incluse, ma soprattutto la buona volontà di ricucire con l’ingombrante vicino. Ma, anche in questo caso, è pronto a chiedere in cambio un adeguato compenso. Sono almeno due le richieste che Erdogan metterà sul piatto in cambio di vedere Assad rimanere al suo posto. La prima è garantire l’indivisibilità del suolo siriano. Questo significherebbe impedire la formazione di una regione autonoma controllata dai curdi sul modello di quella irachena, che potrebbe dare vita a nuove rivendicazioni nella minoranza che vive sul suolo turco e che ha già molte tensioni all’attivo con il governo di Ankara. La seconda è indulgenza nei confronti del Fronte Al-Nusra, una delle realtà dell’opposizione siriana contro Assad, recentemente uscito da Al Qaeda.

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Armenia, una terra “vivente” (Osservatorio Balcani e Caucaso 08.08.16)

Una guida appassionata e competente che offre strumenti per comprendere meglio l’Armenia e il piacere di conoscere qualcosa in più di questa terra antica che ha saputo conservare nei secoli la sua unicità

08/08/2016 –  Roberta Bertoldi

Dal 2014 Simone Zoppellaro racconta ai lettori di OBC Transeuropa quel che accade in Armenia. Scorrendo l’archivio dei suoi articoli si ritrova il filo di un passato importante e difficile, ma anche l’attualità di un paese che oltre a tramandare la memoria affronta nuovi problemi e sfide, come le difficoltà economiche, la crisi interna politica, la mancanza di opportunità lavorative per i giovani e il conflitto in Nagorno Karabakh.

Una parte di questi articoli, insieme al lavoro svolto da Zoppellaro per Il Manifesto, si trova raccolto nella sua nuova pubblicazione “Armenia oggi – Drammi e sfide di una nazione vivente” uscita nel giugno 2016 per la casa editrice Guerini e Associati. Un libro agile da leggere, che si fregia della prefazione della scrittrice Antonia Arslan.

Il racconto di Simone Zoppellaro prende avvio fuori dall’Armenia e precisamente in Iran snodandosi poi attraverso molti luoghi, perché l’Armenia è molto più di un paese: è la Repubblica d’Armenia di oggi, ma è anche la Grande Armenia del passato che si estendeva tra mar Nero, Caspio e Mediterraneo, è la diaspora del suo popolo sparso in tutti i continenti, e il feroce fronte di una guerra dimenticata in Nagorno Karabakh.

Filo rosso che lega i capitoli del volume è il 2015, l’anno del centenario del Genocidio armeno che ha portato il 24 aprile nella capitale Yerevan le diplomazie estere e centinaia di migliaia di armeni per ricordare quell’evento terribile noto come Metz Yeghern, il “Grande Crimine”. Si parla di questo anniversario e del peso del negazionismo, ma non manca nel libro l’eccitante “urlo rock contro il Genocidio“ lanciato dai System of a Down, famosa band rock armeno-americana che ha concluso il suo tour “Wake up the souls” proprio a Yerevan nella notte tra il 23 e 24 aprile.

Armenia oggi

ARMENIA OGGI
DRAMMI E SFIDE DI UNA NAZIONE VIVENTE

di Simone Zoppellaro
Ed: Guerini e Associati

Il 2015 è stato per l’Armenia anche l’anno di un’ondata di proteste senza precedenti, battezzata con il nome “Electric Yerevan” perché scoppiata a seguito dell’aumento, del 16%, delle bollette elettriche da parte dell’azienda russa che gestisce la fornitura d’elettricità nel paese. Zoppellaro inquadra questo momento difficile, l’insorgere del malcontento e delle proteste, fino alla repressione da parte della polizia. Questa vivace esperienza è conseguenza dell’Armenia di oggi, vitale e colta, ma estremamente povera, dove pochi oligarchi detengono un patrimonio stimato in circa la metà del PIL nazionale mentre oltre il 40% della popolazione è costretta a vivere con meno di due dollari al giorno.

L’Armenia di oggi è anche il paese di approdo di migliaia di profughi che giungono dalla Siria. Attualmente la piccola repubblica transcaucasica ne ospita circa 20mila. Nel libro l’autore racconta questo nuovo terribile esodo e la sorprendente disponibilità degli armeni ad accogliere le vittime di questo conflitto.

Non manca nel libro un costante sguardo a quel fazzoletto di terra conteso da oltre 20 anni tra Armenia e Azerbaijan, il Nagorno Karabakh. Un conflitto definito spesso “congelato” o “a bassa intensità” che però nell’aprile di quest’anno ha registrato una feroce recrudescenza. Zoppellaro è stato in quelle trincee al fronte dove i giovani consumano i migliori anni della loro vita e scrive la sua preoccupazione ora che più che mai la pace tra Armenia e Azerbaijan pare lontana.

Un dolce profumo tra l’Armenia e il Salento (Cosmopolismedia 04.08.16)

Furono i Romani, però, a portarla nel Mediterraneo verso la prima metà del I secolo a.C.; ne fa menzione Dioscoride con il nome di armeniakòn mìlon e afferma che i latini lo chiamassero praikòkion come confermato anche da Plinio che lo chiama praecocium a causa della precocità della sua fioritura. La sua diffusione, però, venne consolidata, in particolar modo, dagli arabi attorno al X secolo d.C. e dal loro epiteto di al-barquq deriva praticamente tutta le denominazione negli stati europei, mentre l’epiteto “armeniaco” si è conservato solo in alcune rare denominazioni italiane come “pesco armeniaco”

di Antonio Caso

L’albicocco è originario della parte nordorientale della Cina, al confine con la Russia e la sua presenza storica è attestata a più di 4000 anni fa. Da questa zona del paese del dragone si estese lentamente verso Occidente attraverso tutta l’Asia centrale fino a gungere in Armenia dove, si dice, fu scoperta da Alessandro Magno nel corso della sua campagna militare. Furono i Romani, però, a portarla nel Mediterraneo verso la prima metà del I secolo a.C.; ne fa menzione Dioscoride con il nome di armeniakòn mìlon e afferma che i latini lo chiamassero praikòkion come confermato anche da Plinio che lo chiama praecocium a causa della precocità della sua fioritura. La sua diffusione, però, venne consolidata, in particolar modo, dagli arabi attorno al X secolo d.C. e dal loro epiteto di al-barquq deriva praticamente tutta le denominazione negli stati europei, mentre l’epiteto “armeniaco” si è conservato solo in alcune rare denominazioni italiane come “pesco armeniaco”. Pare, inoltre, che gli Arabi lo usassero anche per curare il mal d’orecchi. A partire dal XV secolo, la produzione di questa pianta è cresciuta sino ai giorni nostri dove viene coltivata in numerosi paesi dell’area euroasiatica, ma anche negli Stati Uniti e in Australia. La tradizione è rimasta, per, solidissima, soprattutto in Armenia dove se ne coltivano, attualmente, circa 50 varietà. Pare, inoltre, che il terreno di origine vulcanica ed il clima mite del paese euroasiatico conferiscano alle albicocche una straordinaria dolcezza. Un’antica tradizione armena, peraltro, è quella della lavorazione del legno di albicocco, utilizzato per realizzare oggetti intagliati come il duduk, un flauto tradizionale. Racconta una leggenda che quando l’Armenia vene invasa l’albicocco non era altro che una pianta ornamentale con splendidi fiori bianchi, ma che non producesse alcun frutto. Quando fu ordinato di abbattere tutti gli alberi improduttivi per ottenerne legname, una fanciulla, particolarmente legata ad un albero, pianse tutta la notte ed al suo risveglio vide sulla chioma dei frutti dorati: le albicocche. Nella tradizione popolare inglese, invece, sognare l’albicocca pare porti fortuna, mentre altrove è simbolo della timidezza in amore.

Ne esiste anche una variante nera (che sostituisce il classico colore tra il dorato e l’arancione), l’albicoccanera cinese, un ibrido naturale per metà albicocca, un quarto susina ed un quarto ciliegia Oltre alle albicocche fresche, una grande tradizione dell’area mediorientale e centroasiatica è quella dell’essicazione, in particolare in Armenia, Iran, Egitto, Algeria e Siria dove si produce anche una pasta che si riduce poi, distesa su tele, in fogli. Oltre al frutto, vengono utilizzati anche i semi, noti come mandorle amare (o armelline) come ingredienti in sciroppi ed amaretti in quantità molto limitate dato che contengono un derivato dell’acido cianidrico e in dosi maggiori risulterebbero tossiche. Celebre è anche l’impiego della marmellata di albicocche per la farcitura della torta Sacher, regina della tradizione dolciaria viennese. Le albicocche fresche sono una grande fonte di betacarotene e di vitamina C, mentre quelle secche eccellono anche per fibre e ferro.   In Puglia esiste una varietà autoctona di albicocca coltivata nel Salento: l’albicocca di Galatone. A pochi passi dalla costa jonica si trova, infatti, Galatone, fino al primo dopoguerra importante centro agricolo e commerciale del territorio salentino, ma che, a seguito dell’industrializzazione dell’agricoltura e dell’allargamento del mercato ortofrutticolo ha visto progressivamente declinare la coltivazione delle sue varietà autoctone per far spazio ai più redditizi vigneti e uliveti. Malgrado questo, però, l’albicocca di Galatone (in dialetto “arnacocchia”) non è affatto scomparse.  Si tratta di una variante precoce di dimensioni pari ad una noce con screziature scure vicino al peduncolo che, secondo una bella consuetudine locale, sarebbero state dipinte da San Luca. Il profumo è particolarmente intenso e la polpa dolce e piuttosto morbida, il che la rende svantaggiata rispetto all’albicocca industriale per la difficoltà del trasporto. Mentre le varietà più utilizzate attualmente hanno una vita produttiva di circa 8 anni, però, la varietà di Galatone fruttifica anche ben oltre i 50, di solito nella prima metà di giugno.

Esiste ancora, ad esempio, nella campagna della zona un albero di circa 80 anni che continua, ogni anno, a presentarsi a giugno con i rami piegati dal carico di frutti. Secondo i contadini questa longevità è dovuta, inoltre, alla pratica di innestare le albicocche su un mandorlo amaro anziché su un franco o un susino. Si tratta di un frutto, peraltro, dalla storia molto affascinante: secondo una leggenda, infatti, fu introdotto tra Lecce ed Otranto dai Templari insediatisi in epoca medievale di ritorno dall’Oriente. L’albicocca è ora presidio Slow Food grazie al lavoro svolto dall’imprenditore agricolo Luciano Erroi. Slow Food ha riunito, quindi, diversi coltivatori che gestiscono le ultime cinquanta piante per cercare di ricreare almeno in parte quella piccola economica caratteristica che fino agli anni ’50 aveva contraddistinto Galatone.  Grazie alla sua dolcezza e morbidezza, ad esempio, l’albicocca di Galatone è perfetta per la produzione di confetture e marmellate. Una storia, quella dell’albicocca che ci riporta a quel contesto euroasiatico che dalle coste adriatiche si dipana verso l’Egeo di cui la nostra terra è sempre stata punto di approdo e di partenza. Uno scambio di venti e mareggiate che porta con sé le lingue albanesi ed elleniche, le influenze ortodosse e profumi intensi armeni e persiani come quello dell’albicocca di Galatone.

Le tensioni in Armenia preoccupano la Russia (Ibtimes 03.08.16)

Qualche giorno fa a Mosca, Dmitry Peskov, il portavoce del presidente russo Putin, aveva dichiarato che “le turbolenze ai confini della Russia suscitano preoccupazioni e che Mosca vorrebbe vedere i suoi vicini stabili, prosperi e prevedibili”. Peskov questa volta non si riferiva all’Ucraina, dove al contrario l’alta instabilità è l’obiettivo principe delle strategie a breve termine del Cremlino e il desiderio inconfessato a lungo termine. Questa volta il riferimento era all’Armenia.

Il 17 luglio ad Yerevan, capitale dell’Armenia, un gruppo armato ha fatto irruzione nella sede della polizia locale ingaggiando uno scontro a fuoco con la milizia e provocando la morte di un poliziotto. Gli assalitori, asserragliati all’interno del palazzo, hanno da subito indicato le condizioni per il rilascio degli ostaggi: le dimissioni del presidente Serzh Sarkisian e la liberazione di Zhirair Sefilyan, leader del New Armenia Public Salvation Front. Sefilyan, arrestato a giugno con l’accusa di voler organizzare azioni eversive, è sempre duro nei confronti di Sarkisian, soprattutto in merito alla gestione, considerata poco energica ed arrendevole, della crisi del Nagorno Karabakh.

Il primo agosto il gruppo si è arreso e consegnato alla polizia, ma nel corso delle due settimane sono stati duri e numerosi gli scontri tra i sostenitori di Sefilyan, scesi per strada e le forze di polizia ed un secondo poliziotto è stato ucciso nel corso dei tumulti.

Torna alla ribalta il Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena all’interno dell’Azerbaijan. Assegnata da Stalin negli anni ’20 a Baku, è stata da sempre reclamata dall’Armenia, che si è mossa, talvolta palesemente, altre volte meno evidentemente, per riappropriarsi della regione.

Subito dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la immediata dichiarazione di indipendenza del Nagorno Karabakh, la violenta reazione degli azeri diede avvio alla guerra che provocò la morte di più di 30.000 persone, centinaia di migliaia di sfollati ed operazioni con un forte tanfo di pulizia etnica da entrambe le parti. Il conflitto si concluse con un accordo nel 1994, firmato a Bishkek, con l’Armenia che aveva conquistato circa il 10% di territorio azero e con la Repubblica del Nagorno Karabakh indipendente, ma non riconosciuta da alcuno Stato.

Dal 1994 sono state moltissime le violazioni del cessate il fuoco, fino ai violenti scontri dell’aprile scorso che hanno provocato la morte ed il ferimento di decine di soldati in entrambi gli schieramenti. Diverse anche le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tutte rimaste inascoltate, che indicavano come necessario “il ritiro dei soldati armeni dalle aree occupate appartenenti all’Azerbaijan”.

Nonostante la resa del gruppo armato, la situazione a Yerevan rimane complicata. L’Armenia ha avuto fino ad ora dalla sua parte la Russia, mentre la Turchia è sempre stata molto vicina all’Azerbaijan. Le tensioni tra Armenia e Turchia, a causa del genocidio perpetrato dagli ottomani nel 1915 e mai riconosciuto dai turchi, hanno reso la matassa ancora più ingarbugliata

Per Mosca l’Armenia è un tema caldo e lo ancora di più dopo le proteste a metà aprile all’Ambasciata russa di Yerevan, quando centinaia di persone manifestarono contro la visita del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov e la decisione di Mosca di vendere armi all’Azerbaijan. Un anno prima, altre proteste, a causa di un omicidio di una famiglia armena a Gyumri, dove ha sede la base militare russa, probabilmente per mano di un soldato russo, resero la situazione incandescente.

L’Armenia è un Paese decisamente nella sfera di influenza di Mosca e la decisione di Sarkisian di raggiungere nel 2015 Bielorussia, Kazakistan e Russia nell’Unione economica eurasiatica (UEE), conferma la volontà del governo di consolidare le relazioni con Mosca.

L’appoggio russo all’Armenia è sempre stato importante per Yerevan, il mezzo passo del Cremlino verso l’Azerbaijan ed il nuovo corso delle relazioni tra la Russia e la Turchia impensieriscono adesso gli armeni. Yerevan comunque non è Kiev e la vicinanza al Cremlino, sia da parte del governo che della maggioranza degli armeni non è in dubbio, del resto 10.000 soldati russi, distaccati presso la base militare 102 di Gyumri e nella base aerea 3624 di Erebuni, sono un ottimo deterrente.

Armenia: appello della Chiesa Apostolica per la pace nel Paese (Radio Vaticana 03.08.16)

Sembra avviarsi alla calma la situazione in Armenia, dopo giorni di tensione: dopo due settimane, infatti, si è arreso il gruppo di oppositori all’attuale governo che si era asserragliato nel quartier generale della polizia a Yerevan. Alle origini della protesta, la richiesta di scarcerazione di un leader dell’opposizione, Jirair Sefilian, fortemente critico nei confronti del modo in cui il presidente, Serge Sarkisian, ha gestito il conflitto del Nagorno-Karabakh. Nel corso degli scontri, due poliziotti sono rimasti uccisi; decine le vittime tra i civili.

I problemi si risolvono con il dialogo, no alla violenza
Di fronte a tale drammatica situazione la Chiesa Apostolica armena, presieduta dal Patriarca e Catholicos Karekin II, ha diffuso una nota in cui invita alla pace ed alla riconciliazione nazionale ed esprime “profondo dolore” per le vittime ed i feriti. “Consideriamo inaccettabile qualsiasi tipo di azione illegale e di violenza che può causare lo spargimento di sangue e mettere a repentaglio il futuro” del Paese, si legge nel documento. Di qui, il richiamo “alla temperanza della popolazione” e l’esortazione a rifiutare il conflitto, impegnandosi invece a “continuare il dialogo”, perché “i problemi e le sfide” della società armena potranno essere risolti “solo attraverso un processo di pace e in uno spirito di reciproca comprensione”.

Lavorare per il bene del Paese
“Siamo tutti figli di una stessa nazione”, scrive ancora la Chiesa Apostolica armena, invitando a lasciarsi guidare “dagli interessi nazionali” ed a pregare per l’esito positivo della situazione attuale. Per questo, domenica scorsa, in tutte le chiese armene si è celebrata una speciale liturgia per la pace nel Paese. Intanto, in queste ore il capo dello Stato ha promesso di creare, entro pochi mesi, un governo di “accordo nazionale”. (I.P.)

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L’Armenia in un vicolo cieco (Osservatorio Balcani e Caucaso 02.08.16)

Si è conclusa domenica l’occupazione di una stazione di polizia a Yerevan, rimasta in mano a un gruppo di insorti per più di due settimane. Gli uomini, fra cui vi erano diversi veterani della guerra del Karabakh, si sono arresi al termine di una crisi che si conclude senza vincitori e che – da qualunque parte la si guardi – ha il sapore amaro della sconfitta. Due morti, centinaia di fermi di polizia e di arresti, violenze contro gente comune e giornalisti, ostaggi presi sia fra le forze dell’ordine che fra i civili, sono alcuni dei segni più visibili di una crisi che ha avuto risvolti inediti e inquietanti per l’Armenia. Le divisioni interne al paese, ma anche quelle fra cittadini armeni e membri della diaspora, continuano a pesare, e impediscono che si esca da una situazione preoccupante, che assomiglia sempre più a un vicolo cieco.

“Yerevan non è Aleppo o Beirut. Non lasciamo che qualcuno cerchi di importare soluzioni tipiche della guerra fredda dal Medio Oriente all’Armenia”, ha dichiarato il presidente armeno Serj Sargsyan al termine della crisi. Un chiaro riferimento al leader degli insorti, l’armeno libanese Jirair Sefilian, veterano della guerra civile in Libano e di quella del Karabakh. Fra i suoi uomini, anche Alec Yenikomshian, anche lui armeno libanese, ex-membro dell’Esercito segreto armeno per la liberazione dell’Armenia, meglio noto come ASALA. Un’organizzazione clandestina di guerrigliera marxista-leninista – ma anche impregnata di nazionalismo, e nata nel sogno della rinascita dell’Armenia occidentale, nell’attuale Turchia – che operò fra gli anni Settanta e Ottanta, facendo decine di vittime.

L’insurrezione popolare perde l’innocenza

Sefilian, di cui gli insorti avevano chiesto la liberazione, resta ancora in carcere. Era stato arrestato a fine giugno per possesso e traffico d’armi. Un’accusa respinta da lui e dai suoi uomini, che lo considerano un prigioniero politico. La sollevazione popolare a cui avevano fatto appello gli assalitori della stazione di polizia non è avvenuta che in minima parte, e non senza dividere ulteriormente un’opposizione già debole e priva di leader credibili. Molti armeni, anche se stanchi del governo, della sua corruzione capillare e dei suoi continui soprusi, hanno trovato inaccettabile la violenza degli uomini di Sefilian, contestando inoltre la presa di ostaggi civili: tre medici e un’infermiera. Altri l’hanno lodata, invece, in modo incondizionato, parlando di eroismo, di sacrificio e abnegazione a proposito degli insorti.

Ne esce male anche la società civile armena, quindi, che giunta alla quarta estate consecutiva di proteste perde l’innocenza e scopre la fascinazione della violenza, senza ancora una volta ottenere risultati tangibili. La mancanza di un’opposizione strutturata, che sia capace di incidere, è forse il dramma più grande di questo paese, la cui società civile – per molti tratti pluralista e moderna – brancola ancora nel buio. Da qui l’abbaglio, l’illusione che ha colto molti a Yerevan negli ultimi giorni, anche fra i giovani: che il fare ricorso alle armi e alla violenza sia un’alternativa, o addirittura l’unica via da percorrere per uscire dal vicolo cieco.

Non lo è stata, e la crisi è stata e sarà un’occasione, per il governo, per prendere di mira e reprimere quel mondo debole e diviso che è l’opposizione politica armena. Un fallimento, di quelli che lasciano il segno. Simbolo della disperazione in cui versa la società armena è l’episodio di un uomo che ha tentato di darsi fuoco nel mezzo della folla, soccorso dagli altri manifestanti che – nonostante le ustioni riportate – gli hanno salvato la vita.

Karabakh: il tallone di Achille dell’Armenia

 

Ne esce male naturalmente anche il governo, che ormai ha perso larga parte della sua legittimità popolare, e fa appello – paradossalmente – alla stabilità e al rischio che torni a esplodere il conflitto in Karabakh per salvare i suoi privilegi e il potere. Un paradosso, dico, perché è proprio sotto questo governo che si sono invertiti in maniera drammatica i rapporti di forza nel conflitto del Nagorno Karabakh, fino a giungere, a maggio, alla perdita di una porzione dei territori conquistati negli anni Novanta. Un potere arbitrario, meschino, corrotto e – nonostante l’impegno e la dedizione di alcuni (pochi) individui – privo di idee, al punto da dare l’impressione a molti, in Armenia e in Karabakh, di avere perso completamente il polso della situazione.

E per comprendere la crisi appena conclusa è necessario passare proprio da lì, dal Karabakh, e in particolare da quella che i locali chiamano la “guerra dei quattro giorni”, in cui ad aprile hanno perso la vita oltre trecento persone. Come ho potuto constatare di persona a maggio, la situazione nella repubblica de facto, ancora ufficialmente parte dell’Azerbaijan, è politicamente molto tesa. Le critiche verso il governo di Yerevan, ma anche verso la Russia, accusata di essere sempre più lontana dagli interessi degli armeni, si sono fatte sempre più frequenti, anche a livello ufficiale e politico. Gli armeni del Karabakh non si sentono più sicuri, e i nodi della corruzione sono venuti al pettine proprio in quello che è il tallone d’Achille dell’Armenia di oggi: il conflitto del Karabakh, che si trascina da un quarto di secolo, con un dislivello diplomatico e militare crescente rispetto all’Azerbaijan che ha spinto di recente Yerevan all’angolo.

L’aggressione alla stampa

Fra i risvolti più inquietanti della crisi appena conclusa è stata senza dubbio la violenza compiuta dalle forze dell’ordine contro i giornalisti. Aggressioni, intimidazioni, minacce e insulti, pestaggi selvaggi e danni alle attrezzature da parte della polizia, che hanno coinvolto soprattutto – non a caso – i media indipendenti. In un paese piccolo come l’Armenia – dove i numeri sono assai ridotti e nel mondo politico e dei media tutti si conoscono di persona – questi episodi non possono che essere un messaggio ben preciso, da parte delle autorità, rivolto a uno dei segmenti più avanzati della società civile armena.

Internet e i social media, negli ultimi anni, hanno permesso infatti agli armeni, e soprattutto ai giovani, di trovare un canale di espressione che ha contribuito a porre fine al silenzio e al torpore politico tipico degli anni dell’URSS. Qui si sono inseriti giornalisti, blogger, TV su internet e portali di informazione, che hanno fatto dell’Armenia un centro vibrante – del tutto europeo e moderno – da un punto dei vista dei media alternativi. Una felice eccezione (nonostante la scarsa qualità della TV pubblica e dei media governativi) nel panorama desolante di molte repubbliche post-sovietiche. Ma ancora una volta, ecco l’entrata in un vicolo cieco, imboccato da un paese che si trova oggi sull’orlo di un abisso.

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