La Turchia commemora a palazzo della Cancelleria l’ambasciatore ucciso dagli Armeni (La Stampa.it 15.06.16)

A dieci giorni dal viaggio di Papa Francesco in Armenia (24-26 giugno), l’ambasciata turca presso la Santa Sede ha commemorato al palazzo della Cancelleria, zona extraterritoriale della Santa Sede in Italia, il «martirio» dell’ambasciatore Taha Carim, ucciso a Roma nel 1977 da terroristi armeni.

Il diplomatico fu ucciso il 9 giugno del 1977 e l’attentato fu rivendicato dal Commando giustizia per il genocidio armeno. E’ la prima volta che l’ambasciata promuove una simile commemorazione ufficiale.

L’attuale ambasciatore turco Mehmet Pacaci ha introdotto la cerimonia, nel salone d’onore, con un breve discorso in inglese, nel quale, dopo aver ricordato il «martirio» del suo predecessore per mano di un gruppo di «terroristi armeni», ha ricordato le parole pronunciate all’Angelus del 12 giugno dello stesso anno da Paolo VI, quando Papa Montini ricordò «un fatto non meno deplorevole che vile e cruento, compiuto contro un Diplomatico accreditato presso la Santa Sede: l’uccisione per nulla motivata dell’Ambasciatore di Turchia, il signor Taha Carim. La gravità e la singolarità del misfatto provocano ancora la nostra deplorazione, e ancora ispirano la nostra fiducia che l’onesta coscienza dei popoli sappia preservare la società moderna della degenerazione metodica e violenta delle controversie che possono travagliarla». Nel corso della cerimonia, che si è svolta ieri sera, il rappresentante di Ankara presso la Santa Sede non ha peraltro fatto alcun riferimento al prossimo viaggio del Papa in Armenia.

L’incontro è proseguito con un saluto in italiano del decano del corpo diplomatico presso la Santa Sede, l’ambasciatore dell’Angola Armindo Fernandes do Espirito Santo Vieira. Un imam ha poi recitato la preghiera musulmana che ha preceduto il pasto offerto in occasione della interruzione serale del digiuno durante il mese di ramadan (iftar). Alla commemorazione era presente un rappresentante della Segreteria di Stato vaticana.

L’ambasciatore Taha Carim veniva citato in un comunicato diramato dalla Santa Sede lo scorso tre febbraio. «La memoria della sofferenza e del dolore, sia del lontano passato che di quello più recente, come nel caso dell’assassinio di Taha Carim, Ambasciatore della Turchia presso la Santa Sede, nel giugno del 1977, per mano di un gruppo terroristico», si leggeva in quella nota, «ci esorta a riconoscere anche la sofferenza del presente e a condannare ogni atto di violenza e di terrorismo, che continua a causare vittime ancor oggi». La nota era stata diffusa dal Vaticano dopo che a Papa Francesco era stato presentato, a margine dell’udienza generale, una copia del libro «La Squadra Pontificia ai Dardanelli 1657 / Ilk Canakkale Zaferi 1657», di Rinaldo Marmara, traslitterazione italiana e turca di un manoscritto dal fondo Chigi della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il comunicato vaticano esprimeva apprezzamento per «il rinnovato impegno della Turchia a rendere i propri archivi disponibili agli storici e ai ricercatori» relativamente al «dolore» e alle «sofferenze» sostenute, «indipendentemente dalla propria identità religiosa o etnica», «da tutte le parti coinvolte in guerre e conflitti, inclusi i tragici eventi del 1915», ossia quello che gli armeni definiscono Medz Yeghern, grande crimine, e che alcuni paesi, da ultimo la Germania, riconoscono come «genocidio», termine contestato dalla Turchia. Proprio in seguito alla pubblicazione di quella nota, Ankara decise, il giorno stesso, il rientro in servizio del proprio ambasciatore presso la Santa Sede, Mehmet Pacaci, che era stato congelato dopo che, nell’aprile precedente, il Papa aveva parlato apertamente del «genocidio» armeno, in una commemorazione del centenario a San Pietro. Nel corso del suo prossimo viaggio in Armenia, Francesco visiterà tra l’altro il memoriale di quegli eventi, il Tzitzernakaberd Memorial Complex a Yerevan.

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Perugia non dimentica il genocidio degli Armeni: il saluto di Castori all’ambasciatore (Perugiatoday.it 14.06.16)

Perugia non dimentica il genocidio degli Armeni: il saluto di Castori all’ambasciatore
A cento anni dal genocidio armeno il Comune di Perugia ha mosso, partendo dall’Ordine del Giorno del consigliere comunale di Forza italia, Carlo Castori, i primi passi per il riconoscimento di quegli avvenimenti che hanno portato alla scomparsa di oltre un milione di persone.

 “Con l’occasione – ha scritto Castori – voglio salutare e ringraziare l’ Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Repubblica Armena Sargis Ghazaryan che in questi giorni vede terminare il suo mandato.  La collaborazione, anche a livello personale, che ne è nata ci ha portato a raggiungere bellissimi risultati e ha contribuito a rinsaldare i legami tra i nostri paesi. Spero che la nostra esperienza sia per il futuro esempio di partecipazione comune e cooperazione, augurando ogni bene all’Ambasciatore e alla popolazione armena”.  “

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ICRANet Pescara, a Yerevan per un incontro con il Ministero Degli Esteri della Repubblica Armena (Pescaranews.net 14.06.16)

Giovedì 9 giugno l’ICRANet, con quartier generale a Pescara, è stata al centro di un incontro ufficiale avvenuto a Yerevan in Armenia. Il Direttore dell’ICRANet Professor Remo Ruffini, insieme all’Ambasciatore d’Italia in Armenia Giovanni Ricciulli, all’Ambasciatore del Brasile Edson Marinho Duarte Monteiro, quali rappresentanti di Stati membri dell’ICRANet, ed altre personalità, ha incontrato il Ministro degli Esteri armeno Edward Nalbandian.

Per l’occasione è stato presentato al Ministro degli Esteri della Repubblica Armena il nuovo Direttore della sede ICRANet a Yerevan il Prof. Narek Sahakyan. Anche la sede armena gode dell’extraterritorialità, di privilegi e dell’immunità diplomatica, sanciti per legge dal Presidente della Repubblica Armena Serž Azati Sargsyan.  In questa occasione è stata ufficializzata, inoltre, l’entrata della Accademia Nazionale delle Scienze Armena tra gli istituti che accedono al dottorato internazionale di astrofisica relativistica IRAP PhD. Particolare attenzione è stata rivolta alle attività  di coordinamento da parte dell’ ICRANet Armenia alle collaborazioni scientifiche  in atto con la Bielorussia, il Kazakistan e l’Iran miranti alla possibilità di far diventare anche questi tre Paesi Stati Membri dell’ICRANet.

L’ambasciatore brasiliano ha sottolineato al ministro Nalbandian che il Brasile, come membro fondatore di ICRANet, ha coordinato, dalla sua sede di Rio De Janeiro, percorsi di ricerca di scienziati dell’America latina:  Argentina, Cile, Colombia e Messico. Per questa ragione importanti conferenze internazionali  si sono avute nel 2015 in Brasile  (http://www.icranet.org/2cl/), Colombia (http://www.icranet.org/1jg/), Messico (http://www.icranet.org/1sv/) e sono state organizzate conferenze pubbliche con Istituzioni che hanno accordi di cooperazione con ICRANet: Estação Ciências Auditorium – João Pessoa, Espaço Ciência – Recife, Instituto Federal de Educação, Ciência e Tecnologia (IFCE) – Fortaleza e Universidade de Brasilia.  L’Ambasciatore brasiliano nel suo intervento ha fatto anche riferimento alla creazione di un centro di elaborazione dati dell’ICRANet in Brasile il “Brazilian Science Data Center (BSDC)”  a cui i ricercatori possono accedere da tutte le sedi ICRANet e da tutto il continente latino americano.

Particolare attenzione é stata rivolta da parte del Ministro Nalbandian e dal Direttore dell’ICRANet alla prossima visita del Sommo Pontefice in Armenia, che avverrà domenica 26 giugno. L’ICRANet intende promuovere nei paesi  del Medio Oriente, con il supporto dell’Armenia e della Specola Vaticana rappresentante dello Stato del Vaticano in ICRANet, attività scientifiche miranti alla comprensione dell’universo sulla base delle equazioni di Albert Einstein. A partire da questo mese di giugno  sono in programma nuove attività che, proprio dall’headquarter di Pescara, in cooperazione con la sede di Yerevan,  verranno coordinate verso il Medio Oriente e l’Asia Centrale.

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Il direttore di ICRANet in Armenia per incontrare il Ministro degli Esteri (Abruzzolive.it 14.06.16)

La comunità armena: “vergogna e dolore” per le critiche del Vicario patriarcale alla risoluzione tedesca sul Genocidio (Agenzia Fides 14.06.16)

Istanbul (Agenzia Fides) – Esponenti della comunità armena apostolica della Turchia hanno espresso una netta presa di distanze nei confronti della lettera inviata dal Patriarcato al Presidente turco Recep Tayyip Erdogan in merito al voto espresso dal Parlamento tedesco, che lo scorso 2 giugno ha riconosciuto come “Genocidio” le stragi sistematiche di armeni perpetrate in Anatolia nel 1915.
Dopo la violenta reazione di Erdogan (con velate minacce di espulsione degli armeni residenti in Turchia) alla risoluzione approvata dal Bundestag, l’Arcivescovo armeno apostolico Aram Atesyan – Vicario patriarcale che esercita le funzioni del Patriarca, colpito da una grave patologia invalidante – aveva inviato una lettera al Presidente turco in cui esprimeva il “rammarico suo e degli armeni” per la risoluzione votata dal Parlamento tedesco, definendola come un tentativo di strumentalizzare le tragedie del popolo armeno per interessi di “politica internazionale”.
A distanza di alcuni giorni, sul settimanale bilingue armeno-turco Agos, publicato e diffuso in Turchia, è stata pubblicata una lunga lettera, firmata a nome della “Comunità armena della Turchia”, dove si esprime “vergogna, rabbia e dolore” per gli argomenti e i toni usati nella lettera dell’Arcivescovo Atesyan a Erdogan. Lei – si legge nella lettera, il cui testo è pervenuto all’Agenzia Fides – definisce l’annientamento sistematico e quasi totalmente realizzato di un popolo per volere dello Stato stesso, come ‘eventi che si sono verificati durante le tragiche ore della prima guerra mondiale’. Questo rappresenta un affronto per gli antenati, per le vittime e per i sopravvissuti, agli occhi della società a cui appartenete voi stessi”.
Nel 2008 il Patriarca armeno di Istanbul, Mesrob II, è stato colpito dal Morbo di Alzheimer in una forma che lo ha rapidamente ridotto allo stato vegetativo. Secondo le leggi turche, la carica di Patriarca è a vita, e un nuovo Patriarca armeno non può essere eletto finchè il suo predecessore è ancora vivo. Dal 2008, per l’amministrazione ordinaria del Patriarcato, l’Arcivescovo Aram Atesyan esercita le funzioni patriarcali in qualità di Vicario patriarcale (GV) (Agenzia Fides 14/6/2016).

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Turchia, il patriarcato costretto a scusarsi con Erdogan per il genocidio: gli armeni protestano (Il Messaggero 14.06.16)

Armin Wegner, il giusto tedesco che documentò il genocidio degli armeni (Corriere della Sera 13.06.16)

Nella risoluzione del parlamento di Berlino, che il due giugno ha riconosciuto e condannato il genocidio degli armeni, suscitando la irritata reazione turca con il ritiro dell’ambasciatore, ci sono alcuni passaggi che non sono stati messi in luce. Il clamore della crisi diplomatica con la Turchia ha infatti posto in secondo piano i brani della risoluzione in cui il Bundestag condanna fermamente la collaborazione tedesca con il governo dei “giovani turchi” di Ali Pascià, che tra il 1915 e il 1916, accusando la minoranza armena di collaborare con i nemici russi nelle zone di frontiera, attuarono quelle marce della morte che portarono allo sterminio di un milione e mezzo di armeni, vecchi uomini donne bambini innocenti condotti sino ai confini del deserto siriano e poi abbandonati al loro destino, a marciare verso il nulla con l’unica prospettiva di una morte certa. In questa situazione disperata, che ricorda l’Olocausto degli ebrei, non furono poche le madri che abbandonarono i propri figli ai bordi di una strada o in una letamaia, nella speranza che qualcuno li trovasse e li salvasse, o addirittura scelsero il suicidio assieme all’intera famiglia.
Questa storia sempre attuale e la risoluzione del parlamento tedesco richiamano alla mente la figura di Armin Wegner, un prussiano di nobile famiglia al quale Gabriele Nissim ha dedicato la biografia uscita da Mondadori “La lettera a Hitler” (pagine 304, euro 20). Come dice il titolo del libro, Armin Wegner, nel 1886 a Elberfeld e morto ultranovantenne nel 1978 a Roma, nel 1933 aveva avuto il coraggio di scrivere una lettera a Hitler in difesa degli ebrei. Un testo straordinario, che si può leggere in apertura del volume di Nissim, in cui lo scrittore tedesco spiegava al leader nazista per quale motivo fosse sbagliata la persecuzione degli ebrei. Un popolo che tanto aveva dato alla costruzione della civiltà germanica, non solo con le opere di filosofi, musicisti, poeti, ma con le imprese di grandi industriali e con la passione sinceramente patriottica di tanta gente comune.
Pochi mesi dopo aver scritto la lettera, ufficialmente per le sue posizioni pacifiste e “antipatriottiche”, Wegner ricevette la visita della polizia politica che lo torturò e poi lo rinchiuse in prigione.
Questo atto di coraggio non comune è valso ad Armin Wegner un posto tra i giusti dello Yad Vashem di Tel Aviv.
Ma c’è un altro episodio, altrettanto importante nella vita di questo giornalista scrittore filantropo, che risale agli anni della prima guerra mondiale e riguarda proprio lo sterminio degli armeni, documentato dal giovane Wegner attraverso una serie di reportage fotografici.
Sin da giovane di tendenze pacifiste, Armin Wegner aveva scelto di partecipare alla Grande Guerra come ufficiale di sanità. Venne destinato alla sesta armata del feldmaresciallo von der Goltz che avrebbe visto morire di tifo petecchiale: “Da dieci giorni il Feldmaresciallo è ammalato di febbre petecchiale. L’ho assistito per una settimana, sentivo le sue braccia tremanti sulle mie”. Anche Armin contrasse la febbre tifoidea ma ne uscì miracolosamente e questa esperienza gli diede la forza di non voltarsi dall’altra parte quando nella pianura della Cilicia si trovò davanti alla “fiumana di profughi armeni che dal passo del Tauro e dell’Amano si dirigevano verso il deserto in un percorso assurdo che non aveva nessuna meta”.
Il cuore gli si strinse ancora di più quando vide “ragazzini e ragazzine di ogni età, abbandonati, ridotti come animali, affamati, senza cibo o pane, privi del minimo aiuto umano, stretti l’uno all’altro e tremanti per il freddo della notte trattenevano nelle loro mani congelate un pezzo di legno nel vano tentativo di riscaldarsi. Piangevano a dirotto. I loro capelli gialli di urina scendevano sulla fronte, sui loro visi c’era uno strano fango di lacrime e sporcizia. I loro occhi di fanciulli erano come impenetrabili, scavati dal dolore e benché guardassero muti davanti a sé, sembravano portare sul volto il più amaro rimprovero verso il mondo. Era come se il destino avesse collocato all’ingresso di questo deserto tutti gli orrori della terra”. Armin Wegner non si limitò a descrivere in lettere come questa a un’amica suora l’orrore che vedeva, ma cominciò a scattare foto e a documentare per i posteri il genocidio armeno.
L’ordine per tutti i militari, turchi e tedeschi, ma anche per i civili, era di far finta di nulla, di ignorare quella fiumana dolente. L’interesse di Armin invece cresceva, al punto che cercò senza successo di adottare uno di quei bambini destinati a sicura morte. Le autorità si insospettirono e il giovane ufficiale tedesco venne degradato, chiamato a occuparsi delle mansioni più umili e pericolose, come l’assistenza ai profughi malati di colera.
Una volta rientrato in patria, Wegner non denunciò subito in pubblico l’orrore. Attese la fine della guerra e l’avvento della repubblica di Weimar per organizzare una serie di conferenza in cui utilizzava le sue foto e le immagini che aveva chiesto ad altri conoscenti per denunciare il massacro del popolo armeno. Il ritardo nella denuncia e l’uso anche di foto non sue, costarono ad Armin la doppia accusa di opportunismo e di plagio. In realtà lo scrittore prussiano stava svolgendo una straordinaria opera di informazione che nel 1968 gli avrebbe fruttato l’invito in Armenia e il titolo dell’Ordine di San Gregorio l’Illuminatore.
Armin Wegner nel 1921 aveva avuto il coraggio di testimoniare a difesa di Soghomon Tehlirian, l’armeno che aveva ucciso in un attentato a Berlino Mehmet Alì Pascià e, soprattutto, nel 1919 aveva scritto una lettera al presidente americano Woodrow Wilson in cui lo invitata a interessarsi del problema nazionale armeno.
Nella “Lettera a Hitler” Gabriele Nissim racconta anche la vita privata di Wegner: diventato scrittore di notevole successo, sposò la scrittrice e giornalista ebrea Lola Landau, da cui ebbe una figlia, Sibylle. Non volle rinunciare, nella Germania nazista, al suo essere tedesco di un altro tipo, figlio dell’Illuminismo. Un atto di orgoglio che gli costò l’allontanamento dalla moglie Lola che scelse dopo vari tentativi di resistenza alla barbarie avanzante di rifugiarsi con la figlia in Palestina. Wegner, anche per il fatto di aver sposato un’ebrea, da cui divorziò nel 1939, non rimase in Germania. Si rifugiò a Positano, dove incontrò una ceramista di origine polacca, cattolica ma di padre ebreo, Irene Kowaliska, da cui avrebbe avuto un figlio, Misha.
Le ascendenze ebraiche di Irene non passarono inosservate alla polizia politica fascista diventata sempre più occhiuta dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938. La politica della razza stava mettendo di nuovo in pericolo la felicità famigliare di Armin, che si decise ancora una volta a mandare una delle sue lettere. Il 7 dicembre 1938 scrisse una lettera a Benito Mussolini, perorando la causa di Irene, sottolineandone le origini polacche, la religione cristiana e la bravura artistica. Era una lettera del tutto diversa da quella scritta a Hitler cinque anni prima. Si rivolgeva a Mussolini chiamandolo “onorevole, maestro e Fuhrer”. “Non solo per questa artista – scriveva Armin a Mussolini – ma anche per la mia ammirazione verso l’artigianato italiano, rivolgo a Lei queste mie righe”. Righe che evidentemente piacquero al capo del fascismo: Mussolini diede l’ordine di lasciare in pace la famiglia di quello scrittore tedesco.
Armin non abbandonò mai l’Italia, sino alla morte a Roma, nel 1978.
Dino Messina

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Sandri: “Il Papa in Armenia? Un gesto di affetto e gratitudine” (Lastampa.it 13.06.16)

Nell’imminenza del viaggio di papa Francesco in Armenia, dal 24 al 26 giugno, abbiamo incontrato il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, che accompagnerà il pontefice e che ben conosce questo paese.

Eminenza, qual è il tratto principale del viaggio del papa in Armenia?

«Penso che questa visita abbia anzitutto il carattere di pellegrinaggio: quello del Papa è un gesto di affetto e ammirazione per questa antichissima Chiesa che ha una secolare storia di fedeltà a Cristo, è un atto di devozione per questo paese, il primo a diventare cristiano, nel 301, quando san Gregorio l’Illuminatore guidò alla conversione e al battesimo l’intera nazione. Il Papa porterà la sua riconoscenza e la sua stima a un popolo che è stato plasmato dallo spirito cristiano e ha saputo custodire il tesoro prezioso della fede e della propria identità per secoli. È su questa forza spirituale che l’Armenia potrà costruire un futuro di pace e di speranza.

Ritengo inoltre che questo viaggio sarà molto importante anche per tutti gli armeni della diaspora, uomini e donne che vivono in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America e in molti altri paesi, e che ovunque fanno risplendere i valori e le ricchezze umane e cristiane di questo popolo. La parola e la benedizione di Francesco saranno loro di grande consolazione e di sprone».

Lei si è recato più volte in questo Paese, l’ultima nel 2015 quando ha celebrato la dedicazione della cattedrale Chiesa dei martiri a Gyumri: cosa la colpisce maggiormente del popolo armeno?

«Ciò che mi colpisce di questo popolo suscitando in me profonda ammirazione è lo spirito di sacrificio, la capacità di vivere ogni vicenda della sua storia – il tempo della libertà, così come quello della persecuzione e della sofferenza – con autentico spirito cristiano, restando ancorato alla croce di Cristo. Questo legame alla croce è ben rappresentato nei khatchkar (cippi di pietra che recano scolpite le croci ornate) che sono disseminati ovunque nel Paese quasi a costituirne visibilmente l’ossatura. La perseveranza nella fede, l’umiltà e lo spirito di servizio sono la forza dell’Armenia, ciò che ha consentito a questa grande comunità cristiana di attraversare e superare le terribili tribolazioni del Novecento, che hanno colpito complessivamente oltre un milione e mezzo di cristiani armeni».

Queste grandi tribolazioni come hanno segnato l’anima del popolo e la sua spiritualità?

«Il segno lasciato da queste dolorosissime vicende è indelebile. Penso alla liturgia armena: ciò che maggiormente mi impressiona sono i canti: struggenti, sembra che sgorghino dalle viscere delle persone. Essi esprimono uno spirito di adesione a Dio, una fede mai negata, mai venduta, conservata a caro prezzo, nella sofferenza. Questo è un popolo che ben conosce il patire. La preghiera che sento sorgere spontaneamente nel cuore pensando a papa Francesco che va a toccare con l’olio della consolazione e della compassione la nazione armena è che tutto questo dolore generi una speranza e un amore più grandi».

Qual è il suo giudizio circa gli attuali rapporti tra la Chiesa cattolica e la Chiesa apostolica armena?

«Li considero molto fraterni e particolarmente cordiali. I cattolici costituiscono una presenza minuscola numericamente e dobbiamo ringraziare il Signore perché la Chiesa apostolica armena – grazie alla magnanimità di Karekin II e del suo predecessore Karekin I – ha permesso alla Chiesa cattolica di esistere e di vivere pienamente la fede e la carità a servizio del popolo. Penso, per esempio, alle opere delle suore Missionarie della Carità a Spitak e Yerevan e all’ospedale di Ashotks, gestito fino a oggi dai Camilliani e dalla Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, che fu donato dalla Caritas italiana, su invito di san Giovanni Paolo II, dopo il devastante terremoto del 1988. Sono convinto che la visita di papa Francesco sarà foriera di vincoli ancora più stretti tra le due Chiese, di legami di fraternità, amicizia e mutuo sostegno ancora più saldi e fecondi, che porteranno a una operosa collaborazione in molti campi».

Prevede che papa Francesco e Karekin II, supremo patriarca e Catholicos di tutti gli armeni, redigeranno una «Dichiarazione Comune» come fecero nel 2001 san Giovanni Paolo II e Karekin II?

«Presumo che anche in occasione di questa visita sarà redatta una Dichiarazione Comune nella quale verrà sottolineata e ribadita la comune fede in Cristo nostro Salvatore, e si espliciteranno il desiderio e la volontà di costruire, con la grazia del Signore, legami sempre più fraterni tra noi».

Ritiene che la visita di papa Francesco avrà una qualche influenza sul «Gruppo di Minsk» dell’Osce, i mediatori che finora hanno provato, senza risultati, a trovare una soluzione al conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaigian, per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh?

«Penso che certamente questa visita offrirà l’occasione per richiamare e incoraggiare i valori che costituiscono la spina dorsale di ogni comunità umana: il ripudio della violenza, dell’uso delle armi che provocano immensi dolori, e il tenace perseguimento della pace attraverso la via diplomatica, il dialogo, l’incontro, i negoziati. Credo che durante la visita in Armenia, prima tappa del viaggio nella regione del Caucaso (in settembre il Papa si recherà in Georgia e in Azerbaigian) non mancheranno un forte appello alla pace e un sentito invito a operare affinché il Caucaso diventi ciò che geograficamente è: un ponte tra Oriente e Occidente».

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Voto genocidio armeno, 11 parlamentari tedeschi sotto protezione (Rainews 12.06.16)

Undici parlamentari tedeschi, tutti di origine turca, sono stati messi sotto protezione dalla polizia tedesca dopo aver ricevuto minacce legate al voto sul genocidio armeno. Il ministero degli Esteri ha anche sconsigliato a questi parlamentari di viaggiare in Turchia, poiché la loro sicurezza non potrebbe essere garantita. I deputati, dopo aver votato a favore della risoluzione che riconosce il genocidio da parte dell’Impero ottomano nel 1915, hanno ricevuto pesanti accuse dal governo turco ma anche minacce di morte da parte di estremisti all’interno della numerosa comunità turca residente in Germania. Il sindaco di Ankara ha postato un tweet con nomi e fotografie dei parlamentari dicendo che “hanno pugnalato i turchi alla schiena”, un tweet che poi è stato ritwittato da migliaia di nazionalisti turchi. Il leader dei Verdi tedeschi, Cem Ozdemir, ha detto a un giornale di aver ricevuto delle mail con il messaggio: “Ti scoveremo ovunque”. La Turchia ha anche richiamato il suo ambasciatore da Berlino.

Armenia-Repubblica Ceca: presidente ceco Zeman conclude visita a Erevan (Agenzia Nova 09.06.16)

Praga, 09 giu 10:10 – (Agenzia Nova) – Il presidente Milos Zeman nelle giornate di martedì e mercoledì ha visitato l’Armenia dove ha discusso con il primo ministro armeno Hoviken Abrahamjan e con l’omologo Serj Sargsjan. Durante l’incontro Zeman ha ribadito l’opinione secondo cui le autorità turche durante la prima guerra mondiale hanno commesso un genocidio contro gli armeni. Zeman a questo proposito ha anche chiesto al Parlamento di Praga di adottare una risoluzione sul genocidio armeno. Inoltre ha invitato a visitare la Repubblica Ceca i rappresentanti di Armenia e Azerbaigian per discutere sul contenzioso relativo alla regione Nagorno-Karabakh. Zeman ha preso inoltre parte al business forum ceco-armeno, dove ha notato che il volume di interscambio è basso e può essere facilmente migliorato. Oltre a questo, il presidente ha notato che la Praga può offrire molto a Erevan in diverse sfere economiche. (Rep)

Giusto deportare gli Armeni (Lastampa.it 09.06.16)

Marco Tosatti

Deportare gli Armeni nel 1915 fu giusto, e dovrebbe essere rifatto se le circostanze lo richiedessero. Queste dichiarazioni choccanti (pensate a qualcuno che dicesse oggi che deportare gli ebrei fu una decisione corretta…) sono state pronunciate nel Parlamento turco da Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista, in appoggio a Erdogan

Deportare gli Armeni nel 1915 fu giusto, e dovrebbe essere rifatto se le circostanze lo richiedessero. Nel 1915 il governo turco diede il via ai massacri e alle deportazioni che ebbero come risultato finale l’uccisione di oltre un milione di armeni, in quello che è generalemnte conosciuto come il Genocidio ameno, “Metz Yeghèrn” il Grande Male, in lingua armena. Un genocidio che fu accompagnato dallo sterminio di altre minoranze cristiane, come i greci e gli assiri.

E’ di pochi giorni fa il riconoscimento, da parte del Bundestag, dei massacri come genocidio. Un voto quasi unanime che ha fatto infuriare i turchi, e tanto più significativo perché la Germania ospita una forte minoranza turca. Queste dichiarazioni choccanti (pensate a qualcuno che dicesse oggi che deportare gli ebrei fu una decisione corretta…) sono state pronunciate nel Parlamento turco da Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista. “La decisione di deportazione nel 1915 fu assolutamente corretta – ha detto -. Dovrebbe essere eseguita di nuove se le circostanze fossero le stesse”.

Devlet Bahçeli parlava dopo il voto del Bundestag. E ha aggiunto: “Cambiare di posto agli Armeni non aveva lo scopo di annichilirli, ma di proteggere lo Stato, che è assolutamente corretto e halal”. Il leader politico ripeteva uno degli argomenti difensivi presentati da sempre dalla politica ufficiale negazionista del governo turco. Una tesi che la maggioranza degli storici non accetta come credibile, ritenendo che ci fu volontà e piani per distruggere una minoranza cristiana di ostacolo all’idea “un Paese, una religione”.

Devlet Bahçeli ha detto anche di appoggiare le dichiarazioni di Erdogan sul co-presidente dei verdi tedeschi Cem Özdemir, di origine turca, che ha appoggiato il voto del Bundestag sul Genocidio Armeno. “Dovrebbe essere turco – ha detto Erdogan –. Che turco! Bisognerebbe fare un test di laboratorio sul suo sangue”. “Se dicessimo quello che il presidente Erdogan ha detto, saremmo considerati razzisti. Signor Presidente, non parli di sangue di nuovo perché il sangue di quelli che hanno il sangue marcio non scorre. Non hanno sangue”.

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Turchia: nuovo attentato e deriva autoritaria (Osservatorio Balcano e Caucaso 09.06.16)

Il 7 giugno scorso un nuovo attentato nel centro di Istanbul. Nel frattempo il governo reagisce con media silenziati, l’approvazione di uno scudo legale a favore dell’esercito e toglie invece l’immunità ai parlamentari

Il 7 giugno un’esplosione nel centro di Istanbul ha colpito un autobus della polizia di passaggio. 12 i morti e 42 i feriti. Un altro attentato che colpisce il cuore pulsante della città, in una delle sue zone più frequentate da persone del luogo e turisti, non distante dall’Università di Istanbul e dal famoso Gran Bazar.

Si ricomincia quindi a contare morti e feriti, a cercare i responsabili, ad additare i colpevoli. Non è la prima volta, nel solo ultimo anno è l’undicesima o la tredicesima, a seconda di come si voglia considerare alcuni episodi minori solo per quantità di sangue versato, non per inquietudine causata: la terra che trema, il fumo che si alza in funebri volute, vetri infranti e sirene urlanti. Una ritualità a cui ci si assuefa senza neppure accorgersene. A confermarlo c’è la bomba che, ventiquattr’ore dopo, esplode a Mardin, una città del sudest del paese, e che causa 8 morti e decine di feriti.

In questo paese in guerra, è lo scoppio degli ordigni a scandire il tempo, non più solo il canto delle moschee.

A far da contraltare allo scoppio assordante della bomba, scatta il silenzio imposto ai media. Poco dopo l’attentato, un tribunale di Istanbul ha emesso un’ordinanza di divieto di “pubblicazione di ogni sorta di notizia, intervista, critica e simili pubblicazioni di tipo scritto, visivo e digitale fino a che le indagini non saranno ultimate”. Lo scopo, si precisa con testuali parole, è “proteggere l’integrità territoriale, prevenire la perpetrazione, e preservare l’autorità e l’obiettività degli organi giudiziari”.

Eppure, ad ogni drammatico episodio, in molti insistono sul fatto che non ci si può illudere che la violenza scatenata nel sudest del paese, nel conflitto che vede coinvolto esercito turco e Pkk curdo, rimanga circoscritta a quella regione. Se nell’ovest della Turchia si fa ancora la conta di bombe e morti, nell’est i numeri sono stati smarriti da tempo, sepolti sotto le macerie di interi distretti urbani cannoneggiati con carri armati, artiglieria pesante ed elicotteri. Le bombe non esplodono per caso; con troppa fretta, e con molto calcolo politico, si è cestinato il lungo, faticoso, traballante processo di pace tra stato turco e Pkk.

Scudo legale per l’esercito e via l’immunità ai parlamentari

Le opposizioni si sgolano per denunciare l’inaccettabilità di ogni attacco e al tempo stesso denunciano le responsabilità di un governo che sta giocando la propria partita politica sulla destabilizzazione e il conflitto.

Governo che intanto si prepara a varare una nuova norma che fornirà un più efficace scudo legale a soldati e ufficiali dell’esercito impegnati nelle operazioni antiterrorismo. Non solo gli ufficiali risponderanno direttamente ai governatori e, in ultima istanza, al primo ministro, ma ogni indagine a carico di militari dovrà prima essere approvata dal governo stesso. L’ennesimo colpo di scalpello alla democrazia turca e alla separazione dei poteri.

Una legge, questa, che va in direzione opposta rispetto a ciò per cui preme l’Unione europea che, tra i 72 criteri a cui la Turchia dovrebbe adeguarsi per ottenere la liberalizzazione dei visti, ha inserito una revisione della legge antiterrorismo turca in senso restrittivo, così che non possa essere usata per spazzare via l’opposizione politica e mettere a tacere i media e la società civile.

Non succederà. Erdoğan ha recentemente etichettato l’Unione un “club di cristiani” ed ha rigettato tale richiesta. Nel frattempo firmava un’altra legge, quella che toglie l’immunità legale ai parlamentari, i quali potranno ora essere perseguiti penalmente. Il ministero della Giustizia ha inoltre da poco sostituito e rimpiazzato 3.700 tra giudici e procuratori, una mossa non rara in Turchia, ma con pochi precedenti se si considerano i numeri. Poiché la maggior parte delle indagini riguarda parlamentari dei partiti d’opposizione, in particolare l’HDP accusato di avere legami terroristici con il PKK proprio attraverso la contestata legge antiterrorismo, è facile profetizzare come questa nuova legge consentirà di ridisegnare la composizione parlamentare e, perché no, arrivare ai numeri che servono per poter approvare le modifiche costituzionali necessarie a trasformare il paese da repubblica parlamentare a presidenziale.

Tutte queste decisioni del governo sembrano ben lontane dal voler ricercare una pacificazione che non sia quella ottenuta con la forza. Erdoğan cerca lo scontro frontale e gli ordigni che esplodono nei centri cittadini sono parte prevedibile di questo conflitto. Ogni bomba non solo uccide persone: demolisce le fondamenta di un intero paese.

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