In Armenia gli scacchi sono secondi soltanto al calcio (Italiaoggi.it 13.03.16)

Il fervore per il gioco degli scacchi non si è mai placato in Armenia, dove la disciplina è seconda soltanto al calcio. E questo da quando Tigran Petrossian fu incoronato campione del mondo nel 1963 con una partita che si giocava a Mosca. Ebbene, quella partita di lunedì 20 marzo 1963 ha tenuto col fiato sospeso un intero paese a 2 mila chilometri di distanza.

Le notizie arrivavano per telefono da un emissario incaricato di riferire ogni singola mossa dello scacchista di origine armena. Le ore di gioia di Tigran Petrossian sono state le stesse per la città di Erevan. È da allora, da quella primavera storica, che la febbre degli scacchi non ha mai più lasciato l’Armenia, la piccola repubblica sovietica ai confini del Caucaso.

Sull’onda del successo di Tigran Petrossian è nato il club di scacchi che porta il suo nome dove il campione ha disputato numerose partite. E che anima una città grigia, Erevan, che evoca nello stesso tempo tutta la grandezza e l’altrettanta decadenza del sistema sovietico. Dopo la vittoria di Tigran Petrossian tutti a Erevan si sono messi a giocare a scacchi. È stato un vero boom. E ancora oggi, da mattina a sera, i tavoli del club intitolato al campione mondiale armeno sono pieni di giocatori, di tutte le età, giovani e pensionati. Tanto che l’Armenia è diventata una potenzia mondiale in questa disciplina. Dal 1972 ogni settimana nasce una nuova rivista dedicata agli scacchi. Questo gioco sviluppa la logica e per i bambini, quando il loro carattere si sta formando, è molto importante ha spiegato un insegnante di scacchi della scuola Srednja. All’ultimo piano del club Tigran Petrossian si giocano i tornei cui partecipano centinaia di bambini che si impegnano per un’ora, due o tre. Alcuni dimenticano le regole e si mettono a piangere e gli arbitri devono intervenire per consolarli.

A 9 anni i bambini possono già giocare bene e ci sono esercizi da fare a casa per imparare le regole del gioco che poi vengono messe in pratica nella scuola dove i bambini vanno a fare le esercitazioni pratiche e dove trovano compagni per giocare con l’insegnante che circola fra i tavoli correggendo mosse sbagliate. Prima di fare qualsiasi mossa dovete riflettere, è la raccomandazione dell’insegnante ai suoi piccoli allievi, perchè dice, «dovete sapere che ogni singola mossa influenzerà l’esito della partita. Un ragionamento che ha la sua validità anche nella vita e che insegna che bisogna riflettere prima di agire».

Internet ha completamente rivoluzionato il mondo degli scacchi. Permettendo di giocare contro se stessi ha ucciso tutto: la sorpresa, la creatività, i trucchi. Comunque, in Armenia, i giocatori di scacchi sono ancora delle star nazionali.

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La Russia rafforza le proprie relazioni con l’Armenia in ottica strategica (Notizie Geopolitiche 11.03.16)

Si è svolto a Mosca l’incontro tra il presidente armeno Serzh Sargsyan e quello russo Vladimir Putin, ulteriore prova dei forti legami e relazioni tra i due paesi in chiave strategica ed economica.
Le due parti hanno preso in esame la cooperazione in diversi settori e analizzato le prospettive di sviluppo del processo di integrazione della regione euroasiatica scambiando opinioni e considerazioni sui problemi e le sfide a livello regionale ed internazionale. In merito all’Armenia i due presidenti hanno valutato anche l’attuale situazione del conflitto del Nagorno-Karabakh e del suo processo di negoziazione presentando opportunità per migliorarlo ed effettuare un passo in avanti.
Putin ha evidenziato come non ci sia bisogno di caratterizzare le relazioni interstatali e bilaterali tra Russia ed Armenia perché la partnership esistente è di tipo strategica. Il leader del Cremlino ha messo in risalto il fatto che le relazioni tra le due parti si siano sviluppate con successo, ma ha anche sottolineato come esistono dei problemi ancora non risolti: in primis, secondo Putin, l’attenzione deve essere direzionata alla cooperazione economica che deve registrare un miglioramento ed ulteriori passi in avanti anche se i risultati raggiunti fino ad ora possono essere considerati soddisfacenti e potranno portare ad un ulteriore sviluppo.
Il leader russo ha poi auspicato un ulteriore confronto e dialogo con l’Armenia, paese che attualmente svolge il ruolo di presidenza dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettivo (CSTO), per quel che riguarda la sicurezza, la lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata ed il controllo delle frontiere.
Sargsyan, ringraziando la controparte russa e approvando lo sviluppo delle relazioni, ha dichiarato che Yerevan e Mosca hanno una comprensione mutua nei settori politico, economico, tecnico-militare ed umanitario.
Parlando del ruolo di presidenza della CSTO, il leader armeno ha affermato che una grande attenzione verrà posta sull’implementazione delle decisioni che sono state prese nelle precedenti sessioni di settembre e dicembre. Sargsyan ha dichiarato che esiste una preoccupazione per quello che sta succedendo nelle zone limitrofe l’area di interesse della CSTO e che l’Armenia, come già fatto in precedenza a dicembre, conferma il suo fermo supporto alla posizione della Russia per quanto riguarda la Siria ed accoglie con favore gli accordi siglati tra il Cremlino e la Casa Bianca per la cessazione delle ostilità.
“Vladimir Putin, – ha aggiunto Sargsyan – io voglio personalmente ringraziarti per gli sforzi fatti dalla Russia sul conflitto del Nagorno-Karabakh. Noi rimaniamo impegnati nella soluzione pacifica del conflitto”.
Dmitry Peskov, addetto stampa del presidente russo, ha commentato oggi l’attuale situazione del conflitto del Nagorno-Karabakh affermando che il processo di pace dipende da entrambe le parti in causa e non dai mediatori internazionali. Considerata l’importanza della volontà delle parti per raggiungere la pace, ha aggiunto Peskov, la Russia essendo un partecipante responsabile ai formati internazionali già esistenti continua a lavorare per la risoluzione del conflitto perseguendo una direzione consistente.
Nella stessa giornata il ministro degli Esteri armeno Edward Nalbandian, membro della delegazione in visita ufficiale a Mosca con il presidente Sargsyan, ha incontrato la controparte russa Sergey Lavrov ed ha firmato il programma per il periodo 2016 – 2017 tra i due ministeri che prevede 30 consultazioni su tematiche internazionali e regionali.

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Turchia: contro i curdi il governo rispolvera il sentimento anti-armeno (Globalist 10.03.16)

Ahmet Davutoglu, primo ministro turco ha accusato di “collaborazionismo” i sostenitori del filo-curdo Partito Democratico del Popolo, paragonandoli con le “bande di armeni che furono collaborazionisti dei russi”. Il riferimento è esplicito alle vicende storiche in cui maturarono gli stermini pianificati di armeni perpetrati nell’Anatolia del 1915. Lo ha detto nella città di Bingol lo scorso 27 febbraio durante una comparizione pubblica affermando che i curdi del PKK sono dei collaborazionisti, “come le bande di armeni che collaborarono con i russi”.

Qualche giorno dopo, il sindaco della cittadina di Askale, Enver Basharan, ha rincarato la dose, rilanciando le affermazioni del premier e rendendo pubblicamente grazie “ai nostri avi che hanno ripulito questa terra e buttato fuori gli armeni”.

Accusando il popolo armeno di collaborazionismo filorusso la Turchia si sforza di ridimensionare lo sterminio del gruppo etnico pianificato dai Giovani Turchi nel contesto della Prima Guerra mondiale.

Il sito turco www.demokrathaber.net ha scritto che alcuni gruppi di attivisti dei diritti umani hanno intentato una causa contro il Ministro Davutoglu, per le sue affermazioni anti-armene. Gli stessi gruppi di attivisti hanno rilasciato ai media locali una dichiarazione in cui riferiscono che le operazioni militari turche scatenate negli ultimi mesi nelle regioni curde del Paese vengono accompagnate da misure punitive anche nei confronti degli armeni, con veicoli dell’esercito che percorrono le strade delle città e dei villaggi sparando dagli altoparlanti slogan intimidatori contro quella che viene definita “la feccia armena”.

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Imbersago: breve consiglio per riconoscere il genocidio armeno (Merateonline 10.03.16)

È durato meno di mezzora il consiglio comunale di Imbersago che si è tenuto, in seduta straordinaria, lunedì 7 marzo alle ore 21.
A seguito della lettura e all’approvazione dei verbali della seduta precedente, sono stati 3 i punti discussi dall’assemblea. I primi due hanno riguardato la surroga del consigliere dimissionario Matteo Vismara dalla commissione consultiva per l’elaborazione dei regolamenti previsti dallo Statuto e per l’aggiornamento dello stesso, oltre che dalla consulta Servizi alla Persona, Cultura e Pubblica Istruzione.
In commissione statuto e regolamenti è così entrata il capogruppo di “Imbersago 14” Giovanna Riva, mentre il neo consigliere Rosana Mauro, sempre di Imbersago 14, ha preso il posto di Matteo Vismara nella consulta. Dato che Rosana Mauro faceva già parte della consulta quest’organo ha visto l’ingresso anche di Daniela Sala su proposta dell’associazione “Guarda c’è un libro nell’albero”.

L’ultimo punto all’ordine del giorno ha riguardato l’approvazione della delibera di riconoscimento del genocidio perpetrato contro il popolo armeno e l’espressione di solidarietà della comunità di Imbersago in occasione del centenario di quei tragici eventi avvenuti nel biennio 1915 – 1916.

Dopo un’approfondita introduzione storica da parte del consigliere delegato alla cultura Ambrogio Valtolina, che ha sottolineato come in Turchia ancora oggi parlare del genocidio sia considerato un reato, l’assessore all’istruzione Elena Codara ha illustrato brevemente il progetto: “Nei quattro comuni che sono stati coinvolti dalla proposta didattica dell’Istituto Comprensivo di Robbiate si stanno svolgendo incontri con i cittadini per informare sul genocidio armeno e su ciò che è successo dopo il 1915. Il 16 marzo, alla presenza dei sindaci, degli amministratori, dei rappresentanti dell’Istituto Comprensivo e del presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia, saranno consegnate al console armeno le delibere votate dai consigli comunali di Imbersago, Verderio, Robbiate e Paderno. Il riconoscimento del genocidio ha un valore, oltre che simbolico, fondamentale dal punto di vista politico perché è un crimine che non si prescrive mai”.
L’assemblea ha votato all’unanimità l’approvazione di questo ordine del giorno che sarà trasmesso dall’Unione degli Armeni d’Italia alla Direzione Nazionale del memoriale del genocidio in patria, il nominativo del Comune di Imbersago sarà quindi inserito nella lista dei “giusti della memoria”.

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Dalla Turchia all’Egitto,”non lasciateci sole” (Articolo21.org 10.03.16)

Fate rumore, ponete al centro dell’attenzione internazionale la situazione in cui viviamo, veniamo arrestate, represse uccise, subiamo violenze e molestie di ogni tipo. A chiederlo sono due giornaliste ospiti della Commissione Pari opportunità della Fnsi nell’incontro #IoNonStoZitta alla vigilia della giornata internazionale della donna, l’egiziana, Hanan Solayman, intervenuta via skype, e la cronista turca Ceyda Karan (nella foto), del quotidiano di opposizione Cumhuriyet. Due storie diverse ma simili che raccontano di due paesi alleati importanti dell’Italia e dell’Europa, tra i nostri più forti partner economici, ma anche due paesi in fondo a tutte le liste sulla libertà di stampa e sul rispetto dei diritti politici, civili, umani.

Ceyda Karan è una collega che conosciamo da tempo: è stata ospite dell’ultimo congresso Usigrai a dicembre. Alla sua testimonianza è legato il sit-in sotto l’ambasciata di Ankara a Roma organizzato il 21 gennaio, nel giorno della prima udienza al processo che la vede imputata per aver pubblicato sul suo giornale la vignetta di Charlie Hebdo. Un giornale, il suo, che rischia molto, pochi giorni fa sono usciti dal carcere Can Dundar ed Erdem Gul, direttore e vice direttore accusati di spionaggio e collusione con i terroristi per aver pubblicato un’inchiesta che dimostrava un traffico di armi dalla Turchia alle milizie dell’Isis. Liberi per ora, ma rischiano l’ergastolo.

La situazione in Turchia è allarmante”, denuncia Ceyda Karan davanti a una platea composta di tante croniste italiane vittime di minacce e querele che sfiorano il vero e proprio stalking.
Voi state meglio di noi, nonostante i tanti casi di minacce – continua la reporter turca – ma in Italia voi donne non siete minoranza nei media e totalmente assenti dai ruoli di vertice, come accade da noi. Dipende dalla cultura diffusa che ci considera inferiori, ma in gran parte è dovuto all’attuale establishment islamico al potere”.
Per i continui attacchi alla libertà di stampa ognuno è in pericolo, non solo le donne, spiega la giornalista, non c’e una vera dittatura come in Egitto ma molta violenza, specie su donne anche con molestie sessuali; ad esempio durante le manifestazioni, è stato calcolato che le croniste subiscono tre volte più aggressioni dei loro colleghi maschi. “Di recente – racconta ancora Ceyda –mentre seguiva per lavoro le proteste contro l’attuale sistema di istruzione, una giornalista è stata arrestata e picchiata e gli agenti le dicevano ’t’insegniamo noi il tuo lavoro’.” E ancora racconta  di una giovane cronista che scrive sempre su Cumhuriyet che rischia 23 anni di prigione per aver svelato, in un’inchiesta su appalti pubblici poco chiari, il coinvolgimento di alcuni magistrati. Una notizia vera, i giudici in questione sono sotto processo, ma l’accusa di diffamazione resta in piedi, come resta sotto processo un’altra reporter che aveva raccontato di come miliziani dell’Isis si addestrassero sul suolo turco. Il reato è proprio di aver fatto il loro dovere, riportare ai cittadini notizie rilevanti che il potere vuole oscurare.
Al momento sono ben 33 i giornalisti detenuti, tra loro 4 donne.  E proprio ieri è arrivata la notizia del commissariamento anche dell’agenzia di stampa Cihan, che fa capo allo stesso gruppo editoriale del quotidiano Zaman, oggi nelle mani di una direzione pro-Erdogan. La Cihan  è considerata l’unica agenzia – oltre a quella statale Anadolu – a essere in grado di fornire una copertura a livello nazionale delle operazioni di scrutinio durante le elezioni.

 “La Turchia sta trasformandosi in uno stato fascista, non usa mezzi termini Ceyda Karan, che a noi, in Italia e in Europa ricorda: “solo se tenete i riflettori accesi, se continuate a seguire e denunciare gli attacchi ormai sistematici contro la libertà di informare in Turchia, se obbligate i vostri governi a chiedere conto al governo turco, possiamo sperare di fermare la deriva, altrimenti il buio ci inghiottirà e spariremo, come già accade in Egitto.”

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ASIA/TURCHIA – Nel linguaggio dei politici turchi riaffiora il sentimento anti-armeno (Agenzia Fides – 09.03.16)

Istanbul (Agenzia Fides) – Il Primo Ministro turco Ahmet Davutoglu ha accusato di “collaborazionismo” i sostenitori del filo-curdo Partito Democratico del Popolo (HDP), paragonandoli con le “bande di armeni che furono collaborazionisti dei russi”, con un esplicito riferimento alle vicende storiche in cui maturarono gli stermini pianificati di armeni perpetrati nell’Anatolia del 1915. La comparazione è stata utilizzata dal premier turco in un discorso pubblico, pronunciato nella città di Bingol lo scorso 27 febbraio. In quel contesto, Davutoglu ha affermato che i curdi del PKK sono dei collaborazionisti, “come le bande di armeni che collaborarono con i russi”. Qualche giorno dopo, il sindaco della cittadina di Askale, Enver Basharan, ha rincarato la dose, rilanciando le affermazioni del premier e rendendo pubblicamente grazie “ai nostri avi che hanno ripulito questa terra e buttato fuori gli armeni”.
L’accusa di collaborazinismo filorusso rivolta alle comunità armene dell’Impero ottomano fa parte dell’armamentario con cui la storiografia ufficiale turca si sforza di ridimensionare gli stermini di armeni e altri gruppi etnici minoritari pianificati dai Giovani Turchi nel contesto della Prima Guerra mondiale. Il sito turco demokrathaber.net riferisce che gruppi di attivisti dei diritti umani hanno intentato una causa presso il palazzo di giustizia di Istanbul contro il Ministro Davutoglu, a motivo delle sue affermazioni anti-armene. Gli stessi gruppi di attivisti hanno rilasciato ai media locali una dichiarazione in cui riferiscono che le operazioni militari turche scatenate negli ultimi mesi nelle regioni curde del Paese vengono accompagnate da misure punitive anche nei confronti degli armeni, con veicoli dell’esercito che percorrono le strade delle città e dei villaggi sparando dagli altoparlanti slogan intimidatori contro quella che viene definita “la feccia armena”. (GV) (Agenzia Fides 9/3/2016).

La Turchia e il terrorismo internazionale (Piccole note 08.03.16)

«Repubblica di Turchia Ministero degli Interni Prefettura di Hatay Protocollo numero: 21714546.47201 (81340) 224-5826/42438 15/03/2013 Oggetto: Nel territorio della nostra provincia per motivi di nostra sicurezza e contro i terroristi del PKK e il suo braccio PYD, appoggiamo i mujahideen di al-Nusra in Siria a queste condizioni di appoggio logistico e alloggio a queste persone nel nostro territorio e negli enti pubblici per i servizi sociali. Circolare n° 2013/12 Sotto il controllo dei Servizi Segreti Nazionali e contro il PKK e il suo braccio politico PYD appoggiare specialmente i ceceni e i tunisini collegato ad al-Nusra e ai mujahideen nella nostra provincia per favorire il loro passaggio in Siria, da parte dei nostri servizi segreti, in ogni modo e in ogni forma riservata»

«A questo proposito: Il nostro territorio di Hatay è strategico per il passaggio logistico di gruppi islamici, così come per l’addestramento, per l’alloggio, per le cure sanitarie visto che la maggior parte di loro passa di qui. Le strutture dei Servizi Segreti Nazionali sono state incaricate di ciò sotto il coordinamento del nostro Prefetto. Le istituzioni civili, riservatamente, devono favorire il passaggio sia via terra che via aria, di coloro che sono presenti sul territorio della nostra provincia. Quanto sopra va eseguito scrupolosamente e applicato nelle modalità indicate». Si tratta di un documento del Ministero dell’Interno turco firmato da Muammer Guler nel 2013. Lo ha pubblicato il giornale turco Kuzay Anadolu Gazetesi, a sua volta ripreso dal sito russo Kavkazpress il 26 febbraio 2016 e dal Giornale il 7 marzo.

Nota a margine. Documento di interesse notevole perché evidenzierebbe il rapporto tra le autorità turche e al Nusra, organizzazione terroristica legata ad al Qaeda, e altri movimenti jihadisti anti-Assad e anti-curdi. Può essere un falso? Certamente la circostanza sarebbe da approfondire, stante che, tra l’altro, l’Unione europea sta trattando con i turchi per contenere il flusso di migranti.

Trattativa nella quale è previsto un finanziamento di 3 miliardi (altri 3 sono stati stanziati in precedenza) per Ankara. Soldi che, a stare a questo documento, andrebbero anche per finanziare il terrorismo internazionale, quello che ha seminato stragi in Europa e minaccia di metterla a ferro e fuoco.

Sicuramente quando nel documento si accenna al fatto che la «maggior parte» degli jihadisti anti-Assad, miliziani di al Nusra compresi, «passa da qui» non meraviglia, anzi. Si sa che il territorio turco è da tempo zona di transito per tali organizzazioni (basti pensare, ad esempio ai tanti foreign fighter occidentali che per combattere in Siria sono passati da Ankara). Una circostanza che a volte è stata anche oggetto di lamentele da parte dell’Occidente. 

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Le comunità armene per la Giornata dei Giusti (Gariwo 04.03.2016)

Le iniziative per la Giornata Europea dei Giusti 2016 organizzate da Gariwo dal 6 all’8 marzo a Milano, hanno trovato anche l’appoggio dell’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia, dell’Associazione Italiarmenia e dell’Unione degli Armeni d’Italia.

Di seguito il messaggio dell’Ambasciata: 

“La Giornata Europea dei Giusti non commemora soltanto la storia, non ricorda soltanto le opere di donne e uomini del passato che hanno agito per la verità, la giustizia, la salvaguardia della dignità umana mettendo a repentaglio la loro libertà e vita; è un tema purtroppo di estrema attualità tanto quanto sono di estrema attualità gli omicidi di massa ed i crimini contro l’umanità. In Medio Oriente e in Europa allargata assistiamo oggi all’arrivo di migliaia di profughi che scappano dalla guerra e che nei paesi di transito o di arrivo sono oggetto di xenofobia se non vengono addirittura relegati nell’indifferenza più totale.

L’auspicio è che anno dopo anno siano sempre più numerosi i “Giusti riconosciuti” da celebrare e siano sempre più numerosi i paesi dove si istituisca formalmente il 6 marzo come Giornata dei Giusti. L’esempio della loro vita e delle loro azioni soprattutto per le nuove generazioni è ciò di cui abbiamo bisogno per agire e poter contrastare il male con il bene.”

Di seguito il messaggio dell’Associazione:

“L’associazione Italiarmenia intende ricordare che il 6 marzo ricorre la Giornata Europea dei Giusti nel Mondo.

In questa giornata vengono onorati i Giusti per il Genocidio Armeno, per la Shoah, per i diversi genocidi e le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate nel mondo.
In tale circostanza Italiarmenia segnala le diverse iniziative che l’associazione Gariwo – fondata da un armeno, Pietro Kuciukian, e da un ebreo, Gabriele Nissim – attuerà in concomitanza con tale data.”

Di seguito il messaggio del Presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia Baykar Sivazliyan:

Esprimo a Gariwo e all’Associazione del Giardino dei Giusti il sostegno sempre più convinto alle celebrazioni della Giornata europea in memoria dei Giusti. Le iniziative che avendo come centro Milano si irradiano in altri luoghi, in Italia, in Europa e nel mondo, segnano una tappa importante nel cammino di valorizzazione della memoria del bene. Nella nostra contemporaneità che vede il male, le atrocità di massa e la violenza risorgere in tutto il mondo e anche dentro le nostre città, l’Europa può ritrovarsi soltanto nella condivisione dei valori per i quali i giusti e i resistenti morali hanno sacrificato e sacrificano la vita e la libertà.

Il tema della resistenza morale e civile delle donne a difesa della propria dignità, posto al centro delle celebrazioni di quest’anno, riveste un valore particolare nella dimensione di un mondo globalizzato che ci mostra quanto estesa sia la violenza contro le donne e i loro diritti fondamentali. La testimonianza di chi a questa violenza ha saputo, sa resistere e la combatte, anche sacrificando la propria vita, costituisce l’unica speranza che possiamo offrire alle generazioni future.

Alla resistenza di poche donne sopravvissute, noi armeni dobbiamo la rinascita, dopo il Genocidio del nostro popolo, il primo del Novecento.

Le sei donne di tutto il mondo che verranno onorate l’8 marzo al Giardino di Monte Stella di Milano, tengono accesa una fiamma di umanità nel buio che ci circonda e l’auspicio è che dal loro esempio si possa ricavare la forza necessaria per abbattere i muri e i fili spinati delle frontiere e per accogliere un’umanità ferita e sofferente che cerca la salvezza. La resistenza morale e civile delle donne può diventare così un patrimonio universale.”

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Nagorno Karabakh: conflitto congelato o vaso di Pandora? (Analisidifesa.it 02.03.16)

Dall’estate del 2014 a questa parte, un’escalation senza precedenti ha investito il piccolo stato conteso del Nagorno Karabakh, repubblica del Caucaso meridionale che si è proclamata indipendente dall’Azerbaijan all’inizio degli anni Novanta.
Il riaccendersi della conflittualità nell’ultimo anno e mezzo ha rischiato di far precipitare Armenia e Azerbaijan in una nuova guerra, mettendo in serio pericolo il già precario equilibrio del cessate il fuoco siglato nel maggio 1994.

Ricordiamo che tra il 1992 e il 1994 Armenia e Azerbaijan combatterono una guerra in cui rimasero uccise circa 30mila persone e che fece inoltre milioni di profughi. La guerra terminò con una tregua piuttosto precaria, che lasciò ampio spazio di influenza alla Russia, allora formalmente (oggi informalmente) alleata dell’Armenia.

Un conflitto congelato

Tuttavia, il conflitto, che aveva visto di fatto prevalere le forze armene, non può essere ritenuto concluso con il Protocollo di Bishek.

Il riesplodere delle ostilità negli ultimi due anni rende  difficile la definizione di questo conflitto come «congelato». Come nota Anna Hess Sargysan in un recente articolo accademico su Politorbis, appare più corretto affermare che non è tanto il conflitto ad essere congelato, quanto piuttosto il processo di negoziato diplomatico cosiddetto “track 1”. Se il conflitto è stato parzialmente congelato nel 1994, esso si è progressivamente “scongelato” in concomitanza della recente guerra dell’Ucraina orientale.

Durante gli ultimi vent’anni, gli sforzi per mediare il conflitto del Nagorno Karabakh sono stati guidati dal Gruppo di Minsk dell’OSCE, tuttavia con scarsissimi risultati. Le due parti hanno continuato e continuano a implementare le loro capacità militari.

Le tabelle di militarizzazione dell’Azerbaijan mostrano, dal 2012 a questa parte, un aumento del 493% le spese militari, a fronte del 115% dell’Armenia, il che equivale ad una corsa agli armamenti asimmetrica che mette a repentaglio l’intera sicurezza regionale.

Più che come un conflitto congelato, post-sovietico o irredentista, quello del Nagorno Karabakh appare oggi come una “enduring rivalry”, ossia come una rivalità intrattabile le cui origini sono da tracciare in un complesso intricato di rivalità intrastatali e fattori esterni.

La definizione appare credibile alla luce degli avvenimenti che si sono succeduti nel corso dell’ultimo anno e mezzo e in particolare alla luce delle recenti avvisaglie di mutamento negli equilibri regionali.  Gli scontri nel Nagorno Karabakh sono ripresi in un’escalation senza precedenti nell’agosto 2014 sulla linea del cessate il fuoco, con attività belliche che vanno oltre le consuete azioni di cecchinaggio e che lasciano presagire a molti osservatori l’inizio di un’ attività bellica su più larga scala.

Verso la ripresa delle otilità?

Un’ulteriore crisi si è aggiunta a novembre dello stesso anno, quando un elicottero armeno è stato abbattuto sul confine. Dopo una breve pausa, l’uccisione di tre donne nella provincia del Tavush, ha generato un’ulteriore escalation tra l’estate e l’autunno 2015.

Non a torto, l’anno scorso è stato considerato l’anno peggiore in assoluto dalla firma del cessate il fuoco.
Il perdurare e l’intensità delle ostilità non sembrano d’altronde dar segnali positivi in quanto ad una soluzione della questione nel breve periodo. Gli ultimi scontri riguardano ormai sempre più spesso la frontiera fra Azerbaijan e Armenia, e non più solo quella con il Karabakh, come nel passato, raggiungendo il confine con l’exclave azerbaijana del Nakhichevan, incuneata fra Armenia, Turchia e Iran. Segno del fatto che il conflitto sta entrando in una nuova fase e si appresta ad uscire dal suo perimetro originario.

Gli ultimi scontri con vittime civili si sono avuti a dicembre 2015 ed ancora alla metà di febbraio scorso, complici anche ai fucili di precisione di produzione azera Istiglal IST 14.5, che ha una portata letale fra 2500 e 3000 metri e ai razzi TR-107 di fabbricazione turca.

Alla ripresa degli scontri nel 2014, diversi analisti avevano criticato molto le mancate reazioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rispetto al presunto intervento russo in Nagorno-Karabakh e la paralisi dell’Occidente di fronte a questo ennesimo conflitto dello spazio post sovietico: lo “staterello” con capitale Stepanakert, non riconosciuto peraltro da alcuno stato della comunità internazionale, rischierebbe di diventare il nuovo fronte del tentativo russo di ricostruire il suo impero dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Se la NATO avvertiva nel 2014 che la Moldova potrebbe essere il prossimo obiettivo di Mosca ed esperti occidentali temevano che la prossima “Crimea” avrebbe potuto essere la regione separatista della Transnistria, le vicende del Nagorno Karabakh – per quanto circoscritte e legate dal file rouge della “longa manus russa” in maniera molto più indiretta – sono passate quasi inosservate.

Sebbene alcuni analisti abbiano paragonato le intromissioni costanti del governo russo all’azione russa in Crimea e nei territori orientali dell’Ucraina, poco spazio è stato dato a questo conflitto nella stampa internazionale. In realtà esso appare oggi un nodo indistricabile a cause dei molteplici interessi delle parti coinvolte in maniera più o meno diretta.

Gli scontri armati a bassa intensità intorno al piccolo territorio sollevano questioni geopolitiche di portata globale di estrema attualità, come il ruolo e le intenzioni della Russia nel Caucaso, e più in generale sulla scena internazionale, la rilevanza delle risorse energetiche nell’area, l’inefficacia o il disinteresse delle potenze mondiali, in primis Stati Uniti e UE, nonché gli interessi della Turchia.

Nonostante tutti gli attori coinvolti siano ufficialmente interessati ad una risoluzione pacifica del conflitto, finora non si è riusciti, né a livello bilaterale né multilaterale, a raggiungere l’impegno politico necessario a mitigare il conflitto.
Secondo il Prof. Celikpala, Professore in Relazioni Internazionali all’Università Kadir Has di Istanbul, intervenuto in un recente convegno sul conflitto del Nagorno Karabakh presso l’Università di Berna, ciò è in parte dovuto alle sfide in cui si trova inserita la regione: ambiente ostile, progetti regionali divergenti, attori regionali con aspettative e obiettivi politici opposti.

Gli interessi in gioco

Vediamo quindi quali siano questi interessi e in che modo la conflittualità nella regione sia suscettibile di minacciare la sicurezza dell’intera area del Caucaso del sud.    Il conflitto – congelato o meno – del Nagorno Karabakh costituisce una situazione particolarmente pericolosa che potrebbe evolvere in una guerra vera e propria, attirando allora (forse) sì l’interesse della comunità internazionale.

L’Azerbaigian da parte sua considera l’indipendenza de facto della repubblica separatista alla stregua di una vera e propria occupazione e non nasconde, con preoccupante ed esponenziale retorica bellicista, la volontà di porre apertamente fine al conflitto, ovviamente con metodi tutt’altro che negoziali.

L’Azerbaijan definisce il conflitto come irredentista. Dalla prospettiva armena, l’indipendenza del Nagorno Karabakh per volontà popolare ha semplicemente rettificato l’ingiustizia delle decisioni prese dal totalitarismo sovietico degli anni ’20.

La sicurezza nella regione del Caucaso meridionale ha evidentemente una portata particolare in primis per la Russia, la quale, dopo aver perso la sua influenza in Georgia, e dopo l’azione in Crimea, è fortemente interessata a mantenere la presenza sia in Armenia che in Azerbaijan. Ricordiamo che la Russia, insieme alla Francia e agli Stati Uniti, è uno dei tre mediatori del Gruppo di Minsk, del quale Mosca è uno dei vicepresidenti.

Se la politica estera russa verso la regione caucasica è divenuta sempre più marcatamente revisionista dopo il 2003, nel momento in cui l’Occidente inviò chiari segnali del fatto che lo spazio di influenza russa ufficiosamente riconosciuto era diventato ormai spazio di interesse competitivo, e soprattutto dopo la guerra con la Georgia per il controllo dell’Ossezia del sud nel 2008, riguardo alla questione del Nagorno Karabakh essa si qualifica in maniera nettamente distinta, per quanto  legata dal comune interesse sottostante di preservare una zona di influenza nei territori caucasici.

Nel Nagorno Karabakh, la Russia non si oppone all’Occidente come nel caso di Ossezia e Abkhazia del sud. Nei documenti ufficiali essa riconosce che il Nagorno Karabakh è parte dell’Azerbaijan. Esso non costituisce quindi un’arena di competizione tra Occidente e Russia, dal punto di vista russo. Ciò significa che la soluzione prediletta dalla Russia per la regione è quella dello status quo, in parte anche per non generare problemi nei suoi progetti di integrazione macroregionale, in particolare con Kazakhistan e Tagikistan.

La Russia non è interessata ad avere problemi con gli “alleati” e per questo motivo – per il momento – preferisce tenere una posizione di relativo distacco nella questione.

Nella consapevolezza dell’impossibilità di calmare gli spiriti azeri e armeni, e nell’interesse primario di favorire la balance of power, la Russia riconosce l’integrità territoriale dell’Azerbaijan.

Il non riconoscimento del Nagorno Karabakh da parte della Russia deriva dal timore, o semplicemente dal non interesse, a trasformare l’Azerbaijan in una seconda Georgia. Uno dei motivi è che l’Azerbaijan è secondo paese dopo la Georgia che nello spazio post-sovietico si trova a far fronte a molteplici sfide islamiche, specialmente nel sud del paese con gruppi islamici legati sia all’Iran che al Daghestan.

Se per gli Stati Uniti lo status quo non è generalmente un’opzione di politica estera tollerabile, essi non hanno dimostrato di avere alternative credibili in merito alla risoluzione del conflitto. Il silenzio udibile dell’Unione europea in merito alla vicenda appare ancora più rumoroso: nel suo insieme, essa non ha dimostrato alcun reale interesse a essere coinvolta nella risoluzione della questione del Nagorno Karabakh.

Il ruolo dei Ankara

Per la Turchia il conflitto del Nagorno Karabakh costituisce la seconda minaccia della regione dopo quella curda. Per questo motivo, il Nagorno Karabakh è sempre stato sull’agenda politica delle autorità di Ankara.

Nonostante ciò, la Turchia non ha mai mostrato la volontà di conquistare un ruolo chiave in quest’area di vulnerabilità strategica.

Tuttavia, diversi elementi fanno propendere per l’ipotesi di un ruolo sempre più attivo che essa si starebbe ritagliando unilateralmente. Nel corso degli ultimi due anni, la Turchia ha cercato di assumere un ruolo da mediatrice nel suo “vicinato” attraverso l’adozione di diversi approcci, anche di soft diplomacy, tra cui l’impegno in crisi emergenti prima della loro evoluzione in conflitti e una diplomazia proattiva preventiva basata sul principio della “sicurezza per tutti”.

Attraverso la cooperazione politica e la cooperazione economica allo sviluppo, essa ha inteso promuovere la creazione di una vasta area di sicurezza ai suoi confini basata sullo slogan “zero problems in the region”.

Recentemente, il ministro degli Esteri ha annunciato che la Turchia sarebbe pronta a svolgere un ruolo di primo piano nel processo di risoluzione del conflitto, aggiungendo che Ankara non intende normalizzare i rapporti con Yerevan finché l’esercito armeno non avrà abbandonato i territori occupati dell’Azerbaigian.

Secondo la posizione ufficiale, la Turchia riconosce il Nagorno Karabakh come una regione della Repubblica dell’Azerbaijan che è stata sotto occupazione dell’Armenia per più di due decenni. Nei recenti documenti ufficiali si sottolineano inoltre – forse anche come monito verso la mai risolta minaccia curda  – i principi cardine del diritto internazionale pubblico, quali l’integrità territoriale, il principio della sovranità dello stato e quello del divieto di uso della forza.

Fin qui nessuna sorpresa. Tuttavia, la Turchia propone ufficialmente un proprio ruolo specifico nella gestione della crisi, quale promotrice di “creative initiatives”. Ora, il recente messaggio del ministro degli esteri turco si pone in questa linea. Come osserva giustamente Emanuele Cassano, il monito è diretto anche in parte alla Russia, paese che è ovviamente il più coinvolto nelle dinamiche conflittuali del Caucaso del sud.

Ricordiamo che le relazioni russo-turche hanno recentemente conosciuto uno dei suoi minimi storici degli ultimi anni a seguito dell’abbattimento del Sukhoi -24 russo accusato di aver violato lo spazio aereo turco durante un raid nei cieli della Siria nord-occidentale. E’ quindi la luce dei toni da guerra fredda intercorsi tra Mosca e Ankara che il conflitto del Nagorno Karabakh assume una veste  particolare.

Se la Russia ha sempre, per ovvie ragioni, considerato il Caucaso come propria sfera di influenza esclusiva, per quanto riguarda la questione specifica del Nagorno Karabakh non sembrano esserci apparenti motivi d’attrito tra Russia e Turchia.

Nessuna delle due riconosce il Nagorno Karabakh come stato indipendente, e sia i documenti ufficiali russi che turchi parlano del Nagorno Karabakh come di una regione della Repubblica dell’Azerbaijan. Inoltre, è ipotizzabile che entrambe le parti non ambiscano ad essere né attori né spettatori di ulteriori scontri armati nella regione.

Status quo o nuova guerra?

Ma nonostante questo interesse di fondo non da poco, una lettura più mirata suggerisce di tenere in considerazione ulteriori elementi. A causa dell’importanza strategica che viene attribuita alla regione da parte di Mosca, un’intromissione della Turchia, soprattutto dopo il gelo nei rapporti alla fine dell’anno scorso, verrebbe percepita come un’indebita manovra atta a scardinare gli equilibri impliciti creatisi nella regione.

Inoltre, da entrambe le parti la normalizzazione completa del conflitto viene probabilmente ritenuta un obiettivo troppo ambizioso e forse non politicamente degno di un impegno politico troppo gravoso. E se l’interesse comune è in qualche modo il mantenimento dello status quo per entrambe le parti, questo acquista un significato diverso per ciascuna.

Se per la Russia, come abbiamo visto, status quo ha il significato di tenere chiuso il vaso di Pandora dello spazio post sovietico per non generare problemi con gli alleati, per la Turchia esso vuol dire stabilizzare i problemi confinari con l’Armenia, e più in generale mettere in sicurezza le proprie frontiere.

Un altro elemento da tenere in considerazione è il diverso grado di flessibilità di Russia e Turchia nei confronti delle due parti in causa, ossia Armenia e Azerbaijan. Il limite principale del ruolo della Turchia nella risoluzione – o meglio nella gestione – del conflitto risiede nei suoi rapporti diplomatici con l’Armenia, mai risolti.

Ufficialmente, si afferma che non verrà firmato alcun trattato di pace con l’Armenia finchè quest’ultima non firmerà un accordo con l’Azerbaijan riguardo al Nagorno Karabakh.

Il Nagorno Karabakh sembra quindi essere una sorta di ostaggio della politica turca. Per questo motivo non è semplice interpretare il ruolo di Ankara come potenzialmente decisivo nella questione del Caucaso del sud.

La posizione russa è invece più composita. Nonostante essa riconosca il Nagorno Karabakh come parte dell’Azerbaijan, essa ha sostenuto le istanze armene, le quali proprio grazie al pesante apporto di Mosca hanno conosciuto il loro parziale successo nel 1994. Mosca è sempre stata il burattinaio dietro le quinte del conflitto, tanto che anche l’attacco armeno dell’estate del 2014, il quale ha riacceso le ostilità, è stato compiuto molto probabilmente in accordo con la Russia, come una specie di avvertimento ai leader dell’Azerbaijan, come osservano alcuni analisti.

E’ importante anche sottolineare che Mosca ha pur sempre fatto il bello ed il cattivo gioco, armando e finanziando- durante gli anni ’90 – prima l’una e poi l’altra parte.

Il suo margine di flessibilità nei confronti delle due parti sarebbe quindi diverso, e cioè maggiore rispetto a quello della Turchia.

Se il motto “one nation, two states” è stato utilizzato dalle autorità turche per riferirsi all’Azerbaijan, ricordando le parole di Atatürk “la felicità dell’Azerbaijan è la nostra felicità”, gli stessi toni enfatici sono vengono utilizzati dalla Russia per supportare l’”alleato” cristiano (l’Armenia). Ma anche la Turchia resta divisa tra la sua fedeltà incondizionata verso l’Azerbaijan e i timidi tentativi di riavvicinamento con l’Armenia.
In sostanza, non siamo (ancora) di fronte alla presenza di un asse russo – armeno e di uno turco –azero. Ciò di per sé costituisce un fatto positivo per la questione del Nagorno Karabakh, nel senso che contribuisce al congelamento del conflitto, ma sicuramente non alla sua risoluzione.

Sta di fatto la situazione potrebbe ben presto polarizzarsi. L’Armenia è pesantemente condizionata dalla Russia: l’esercito russo controlla in pratica le difese aeree armene, oltre che alcune delle infrastrutture chiave del paese.

Ciò, assieme al crescente attivismo turco nel Caucaso del sud – ovviamente a difesa dell’Azerbaijan – che indispettisce Mosca, potrebbe far evolvere gli equilibri verso lo scenario del duplice asse.  Due giorni dopo l’abbattimento del sukhoi russo, il primo ministro turco ha dichiarato che “la Turchia farà tutto il possibile per liberare i territori dell’Azerbaijan”. Allo stesso tempo, in Russia veniva proposta una multa salata ai cittadini che avessero negato il genocidio degli armeni del 1915.

L’Azerbaijan è uno stato autoritario post-sovietico che potrebbe essere molto più vicino a Mosca, ma l’abbattimento dell’aereo russo da parte di Ankara sembra aver allontanato questa possibilità. Anche il fallimento degli sforzi della politica energetica dell’Unione europea per promuovere una cooperazione multilaterale tra i due blocchi rivali Azerbaijan, Georgia, Turchia e Russia, Armenia, Iran fa pensare ad una possibile crescente polarizzazione.

Se la Russia è intenzionata a mantenere lo status quo della regione, anche a seguito dei fallimenti del gruppo di Minsk, e quindi a porsi come tutrice e mediatrice degli equilibri caucasici tout court, la Turchia è interessata primariamente a estendere le proprie relazioni in una triangolatura che racchiude Azerbaijan, Georgia e Iran.

Se, come nota Fazila Mat, la recente revoca delle sanzioni all’Iran da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea segnala l’affermarsi di nuovi equilibri nella regione mediorientale da un punto di vista sia commerciale che politico, la Turchia anche avvantaggiandosi di nuove relazioni economiche con l’Iran potrebbe porsi come chiave di volta di questo equilibrio, dopo che la costruzione della mezzaluna sciita patrocinata dalla Russia di Putin ha fatto perdere terreno al gruppo sunnita.

Quest’influenza turca potrebbe estendersi alla scena caucasica: la triangolatura con Azerbaijan, Georgia e Iran non si esclude possa diventare una quadratura, con l’inclusione dell’Armenia: l’interesse sottostante qui è ancora una volta quello di legare l’intera regione all’economia occidentale.

Come sottolinea Sergey Markedonov, professore presso la Russian State University for the Humanities di Mosca (nella foto a sinistra), in un recente intervento sul ruolo della Russia nei conflitti post-sovietici, paradossalmente la militarizzazione del Caucaso del Sud potrebbe avere garantito una certa stabilizzazione della situazione in cui, in uno scenario da guerra fredda, ciascuna delle parti (e chi dietro di loro) avrebbe avuto paura di attaccare l’altra (in questo caso ovviamente con armi convenzionali e non nucleari).

Ciò avrebbe permesso ovviamente non la normalizzazione del conflitto ma la riduzione di questo a scontri sporadici di bassa intensità. Se quello del Nagorno Karabakh rimane fondamentalmente un conflitto etnopolitico in quella che è ormai la zona più militarizzata d’Europa, molto degli equilibri del Caucaso dipende ora dagli equilibri attorno all’Armenia, oltre che ovviamente da quelli tra Turchia e Russia.

Mentre dentro e fuori la Turchia si intensifica la campagna a favore del confine turco-armeno, le querelle diplomatiche che hanno avuto luogo tra i due paesi nel 2015 non lasciano ben sperare.

La decisione dell’Armenia del 2013 di essere integrata nelle iniziative euroasiatiche a guida russa piuttosto che in quelle europee, che può essere spiegata dall’esistenza di forti influenze e garanzie russe in Armenia per quanto riguarda la sicurezza, ha sicuramente contributo a rimettere l’asse della bilancia del conflitto del Nagorno Karabakh nelle mani della Russia. In queste circostanze l’Occidente è chiaramente ancora meno interessato a e meno capace di spingere l’Armenia verso una risoluzione con l’Azerbaijan, come nota Zaur Shiriyev.

Nonostante ciò le relazioni Armenia- Russia sono tutt’altro che appianate: la Russia ha rifiutato che l’Armenia entrasse nell’Unione commerciale eurasiatica con il territorio non riconosciuto del Nagorno Karabakh.

Dopo l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia, è verosimile che il malcontento dell’Armenia sia cresciuto, oltre al fatto che il vice primo ministro russo Rogozin avrebbe ammesso ufficialmente nel luglio 2014 che la Russia stava intrattenendo negoziati con l’Azerbaijan per la vendita di armi. Forse anche questi sono i motivi che avrebbero spinto l’Armenia a riaccendere il conflitto.

Mentre la credibilità del ruolo della Russia come facilitatrice e mediatrice del conflitto è compromessa, e il ruolo di “creative initiator” della Turchia è quantomeno ambiguo, il conflitto del Nagorno Karabakh rimane una miccia capace di far esplodere l’intera regione in conflitti vecchi e nuovi.

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Eurovision 2016: svelata “LoveWave” la canzone di Iveta Mukuchyan per l’Armenia (Eurofetivalnews.com 02.03.16)

L’Armenia si è da poco aggiunta al novero delle nazioni che hanno svelato la loro canzone per l’Eurovision Song Contest 2016. Il brano si intitola LoveWave, presentato da Iveta Mukuchyan, classe ’86, nativa di Yerevan, la capitale del paese caucasico, ma cresciuta in Germania, ad Amburgo.

Iveta Mukuchyan

Ha vissuto in terra tedesca per più di dieci anni, tornandoci nel 2012 per la versione locale di The Voice, in cui ha curiosamente fatto parte del team di Xavier Naidoo, l’artista “rifiutato” dalla Germania stessa.

Iveta Mukuchyan, oltre che interprete, è anche coautrice delle parole del brano, che è di produzione interamente armena tranne che per il nome di Stephanie Crutchfield alla voce autori.

Potremo ascoltare LoveWave nel corso della prima semifinale, in cui l’Armenia è stata sorteggiata nella prima metà.

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