Caucaso, Repubblica dell’Artsakh sotto assedio. L’appello degli armeni: “È pulizia etnica, il mondo fermi l’Azerbaijan” (La Stampa 02.01.23)

Non c’è pace per gli armeni nel Caucaso. L’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh è isolata, sull’orlo di una grave crisi umanitaria: dal 12 dicembre l’Azerbaijan ha chiuso il corridoio di Lachin, l’unica via di accesso, la strada su cui transitavano tutte le forniture di beni essenziali, 400 tonnellate di merci al giorno. Baku, la capitale azera, ha inoltre tagliato l’erogazione del gas e dell’acqua potabile. Per i 120.000 abitanti dell’Artsakh – così è stato ribattezzato il Nagorno Karabakh nel 2017 – superare l’inverno sarà difficile, forse servirà un miracolo. Perché il cibo inizia a scarseggiare; gli ospedali sono a corto di medicine; le scuole e gli uffici pubblici chiusi, privi di riscaldamento. Impossibile anche fuggire perché i civili – quasi la metà sono anziani e bambini – sono letteralmente bloccati, in trappola. Quello che si sta consumando è solamente l’ultimo atto del conflitto che si trascina da oltre trent’anni tra Azerbaijan e Armenia per il dominio di una terra le cui radici armene e cristiane sono autentiche, profonde, inestirpabili. Nel 2020 uno degli scontri più duri di sempre, la Guerra dei 44 giorni: gli azeri fiancheggiati della Turchia – Ankara fornì droni e mercenari jihadisti arruolati in Siria – non lasciarono scampo alle deboli e impreparate difese dell’Artsakh. Furono oltre settemila i morti e centomila gli sfollati, vittime che allungarono la drammatica contabilità del conflitto portandola a quasi quarantamila caduti e più di un milione di profughi. L’accordo di cessate il fuoco firmato il 9 novembre 2020 da Russia, Armenia e Azerbaijan prevedeva, oltre a nuove e dolorose concessioni territoriali a Baku, anche il dispiegamento di un contingente russo a protezione di ciò che restava dell’Artsakh, ridotto in meno di un terzo dei suoi precedenti confini. Da oltre venti giorni l’Azerbaijan, disattendendo quel patto, tiene in ostaggio la pacifica enclave armena per completarne, secondo molti osservatori, l’occupazione.

 

 

RISCHIO PULIZIA ETNICA. «Gli azeri stanno violando tutte le leggi internazionali che dovrebbero proteggere i civili nelle zone di guerra» denunciano i Difensori dei Diritti umani di Armenia e Artsakh. Secondo le informazioni raccolte nel loro dossier, le proteste ambientaliste che da settimane stanno bloccando il corridoio di Lachin e l’Artsakh sarebbero «inscenate da attivisti appartenenti ad organizzazioni finanziate dal governo dell’Azerbaijan o direttamente riconducibili a fondazioni della famiglia del premier Aliyev». Provocatori, insomma, tra cui «numerosi appartenenti ai servizi speciali di sicurezza azeri e simpatizzanti dei Lupi grigi, formazione terroristica dell’estrema destra turca» spiegano. E non si tratterebbe di un fatto isolato, ma «di una vera e propria strategia per provocare la fuga della popolazione armena e lo spopolamento del Paese». Il rapporto elenca «gli attacchi alle infrastrutture civili; l’interruzione sistematica di gasdotti e acquedotti; le incursioni nei villaggi pacifici per mettere in ginocchio l’agricoltura e l’economia; le campagne di propaganda e disinformazione per terrorizzare la popolazione». Infine il drammatico allarme: «È in corso un’autentica pulizia etnica, il mondo deve intervenire».

 

 

LE AMBIGUITÀ DELLA RUSSIA. Neanche la forza di interposizione russa è riuscita fino ad ora a rompere l’isolamento dell’enclave armena. «Non ci ha neppure provato, ha lasciato fare, è stata complice degli azeri e dei turchi» accusa con fermezza Karen Ohanjanyan, attivista e fondatore del locale Comitato Helsinky 92, organizzazione non governativa per i diritti umani. «Putin si è voltato dall’altra parte ignorando anche il patto militare con alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica (il CSTO, ndr): perché non è intervenuto quando l’Azerbaijan ha ripetutamente attaccato l’Armenia negli ultimi due anni?» spiega Ohanjanyan dal suo ufficio a Stepanakert, la capitale della Repubblica de facto. Spera di ottenere maggiori attenzioni da Mosca il nuovo premier dell’Artsakh Ruben Vardanyan, noto filantropo e oligarca russo (con cittadinanza armena) di cui sono altrettanto note le entrature nell’entourage del Cremlino. «L’Azerbaijan non è interessato ad offrire alcuna protezione al nostro popolo» ha dichiarato recentemente senza troppi giri di parole. Laconica la risposta incassata dal portavoce russo Dmitry Peskov: «Sono preoccupato per il blocco dell’unica strada che collega l’Artsakh separatista all’Armenia. E spero i colloqui tra le due parti proseguano». Un legame certamente opaco quello tra Mosca e Yerevan perché la Russia – da anni in Armenia con un forte presidio militare – è da sempre anche uno dei principali fornitori di armi dell’Azerbaijan, il nemico fino a prova contraria. E fino a marzo 2023 fornirà a Baku anche un miliardo di metri cubi di gas, risorsa di cui l’Azerbaijan abbonda essendo la sua principale fonte di ricchezza. Ma di cui ora ha grande bisogno per fronteggiare le maggiori forniture promesse all’Europa; con buona pace delle sanzioni a Mosca per aver invaso l’Ucraina.

 

 

L’APPELLO AL MONDO. L’Armenia ha le mani legate dopo la sconfitta del 2020. E il suo premier Nikol Pashinyan sa perfettamente di essere in un vicolo cieco. È immobilizzato in primis dall’ingombrante alleato russo che – in grave difficoltà sul suolo ucraino – certo non può permettersi di aprire un nuovo fronte nel Caucaso; intimorito dalla Turchia che minaccia di portare a termine il genocidio iniziato un secolo fa dall’Impero Ottomano, ecatombe per un milione e mezzo di armeni; attaccato sul campo dall’Azerbaijan, apparentemente intoccabile per i suoi grassi affari con l’Europa affamata di gas; indebolito dalle frequenti proteste popolari contro la grave situazione di isolamento e di crisi in cui langue il Paese. I ministri degli Esteri di Armenia e Artsakh una settimana fa avevano ammonito con chiarezza la comunità internazionale: «L’assenza di una reazione adeguata all’aggressione azera potrebbe causare nuovi tragici sviluppi». Ne ha discusso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 20 dicembre. E l’indomani, dopo la morte di uomo rimasto senza cure per il blocco in corso a Lachin, la Corte europea dei Diritti umani ha intimato all’Azerbaijan di consentire l’evacuazione dei pazienti più gravi. Appello che nei giorni scorsi ha permesso alla Croce Rossa Internazionale di mettere in salvo un neonato e consegnare un convoglio di aiuti umanitari. Ma il giorno di Natale è stato l’intero Artsakh ad appellarsi al mondo: quasi ottantamila persone hanno marciato pacificamente a Stepanakert chiedendo la rimozione dell’assedio che giorno dopo giorno sta inesorabilmente soffocando il Paese. «Siamo le nostre montagne!» hanno gridato scandendo il nome del monumento simbolo dell’intera comunità che sorveglia, possente, l’ingresso della capitale. Montagne aspre, intrise di storia, memoria e dolore: il Caucaso degli armeni che ancora una volta implorano aiuto.

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