Il filo rosso che lega le donne armene e azerbaijane (Osservatorio Blacani e Caucaso 06.05.20)

È innegabile che le misure adottate per l’emergenza Covid-19 dai governi di tutto il mondo stiano producendo degli effetti psicologici non indifferenti su molte persone. Sono molteplici le origini di sentimenti che aumentano il senso di ansia e claustrofobia. Queste, insieme alla ridotta mobilità, hanno generato un aumento  di casi di violenza domestica in tutto il mondo.

L’entità della violenza domestica e della discriminazione di genere varia molto nel mondo. Ci sono alcuni paesi dove le donne sono discriminate più di una volta: in quanto vittime di violenza ed in quanto nate in un paese dove la violenza domestica è e rimane un affare privato.

Donne coraggiose

È il caso delle donne nate in Armenia o Azerbaijan, due paesi con una popolazione altrettanto alle prese con le misure di isolamento. In entrambi i paesi, secondo i dati  del Georgian Institute for Women Peace and Security per il 2019, i tassi di discriminazione e violenza di genere sono piuttosto elevati (l’Armenia si trova all’82esimo posto e l’Azerbaijan al 123esimo su 167 stati).

In questo contesto importante riportare di un avvenimento  risalente ad alcuni mesi fa. Lo scorso 4 marzo, tra le donne che hanno ricevuto l’annuale Premio Internazionale Donne Coraggiose (più noto con il titolo inglese International Women of Courage Award- IWCA -) sono figurate sia un’azerbaijana che un’armena. Si tratta di Shahla Qumbatova, noto avvocato difensore dei diritti umani in Azerbaijan, e di Lucy Kocharyan, la giornalista che ha lanciato l’hashtag “Voices for Violence”  , e che ha permesso a centinaia di donne – ed anche molti uomini – di affrontare il problema della violenza di genere pubblicamente od anche in forma anonima, rendendo quindi condivisibile un dibattito che è per lo più soggetto a forti tabù in Armenia.

Nessuna attenzione è stata data alla vicenda in Azerbaijan. Alcuni media del paese si sono piuttosto concentrati sulla vicenda del processo contro Shahla Qumbatova. Secondo alcuni di questi ultimi  , la stessa si sarebbe “rifiutata di testimoniare presso la Direzione Generale anti–corruzione” per il fatto di “essere convinta di essere perseguitata per motivi politici”. Shahla Qumbatova ha diretto i suoi sforzi in difesa dei perseguitati politici del suo paese, come il leader dell’opposizione Intigam Aliyev  ed il blogger Mehman Huseynov. È stata la difesa del primo a costarle l’accusa di “falsificazione di documenti”, dopo che Shahla Qumbatova era riuscita a recuperare dei documenti che approvavano l’assegnazione di una donazione a Intigam Aliyev e che erano stati eliminati dal sito del ministero della Giustizia, ma che mettevano in discussione le accuse di “imprenditoria illegale e traffico illecito di denaro” contro di lui. Da novembre 2019, le è stato sospeso il potere di esercitare la professione a seguito di una decisione  dell’Associazione degli Avvocati dell’Azerbaijan.

Una questione transnazionale

L’assegnazione dell’IWCA a due donne di nazionalità azerbaijana e armena nello stesso anno avrebbe potuto far sorgere l’occasione per parlare di un problema transnazionale – quello della violenza di genere – che, al di là della barriera di silenzio lungo le divisioni etniche e nazionali, affligge molte donne dei due paesi alla stessa maniera. Invece l’avvenimento è passato in sordina. E dove è stato maggiormente affrontato, vale a dire tra la stampa armena, ci si è soffermati poco o nulla sul fatto che anche una cittadina azera fosse stata premiata.

La violenza di genere, fisica o psicologica, è una piaga sociale molto diffusa in Armenia e Azerbaijan. Non a caso, in entrambi gli stati, in maniera disgiunta ma parallela, alcuni gruppi di donne attiviste hanno dato vita a dei movimenti per l’uguaglianza di genere. Le loro richieste si concentrano in particolare sulla ratifica della Convenzione di Istanbul  contro la Violenza sulle Donne. In Armenia, sebbene lo stato abbia aderito con una firma (e non ancora con la ratifica), si è acceso un forte dibattito tra le forze più conservatrici e i gruppi che invece chiedono un cambiamento sociale. Tra chi si oppone alla ratifica c’è il parlamentare Gevorg Petrosyan  , del partito Armenia Prospera, il quale sostiene che tale convenzione “distruggerebbe” i valori nazionali e che c’è già una legislazione interna che protegge le donne vittime di violenza.

Si riferisce alla legge del 2017 sulla “Prevenzione della Violenza Domestica e Ristorazione dell’Armonia e della Famiglia”. La legge si presenta tuttavia debole in diversi punti. Ad esempio, non contempla casi di violenza di genere che accadano al di fuori del rapporto coniugale.

Diversamente, l’Azerbaijan non ha firmato né ratificato la Convenzione. Le manifestazione delle attiviste azere sono sistematicamente proibite nel centro della città e permesse solo in zone periferiche, difficilmente raggiungibili da molte donne. Le tre più grandi manifestazioni contro la violenza di genere (avvenute rispettivamente l’8 marzo e il 20 ottobre 2019 e l’8 marzo 2020), avvenute nel centro di Baku, sono state sistematicamente disperse dalla polizia. Nell’ultima  di queste proteste, alcune donne sono state caricate nelle auto della polizia e rilasciate in zone rurali e desolate lontano dalla capitale.

Una narrativa sconveniente

Al di là di considerazioni culturali, c’è forse un altro motivo per cui le questioni di genere non spiccano in cima all’agenda politica di entrambi i governi. Esse rappresentano un denominatore comune ed un potenziale punto di contatto tra le società civili azere ed armene.

Entrambi gli stati stanno perpetuando un modello autoritario di gestione del conflitto, alimentato da discorsi divisivi lungo linee etniche costruite ed immaginate su processi artificiosi di rivisitazione storica a ritroso nei secoli. Questi processi tendono ad oscurare qualsiasi elemento di contatto e l’esistenza di memorie passate condivise dai due popoli. Contribuiscono a perpetrare lo status quo e a congelare i rapporti diplomatici.

A questa narrativa esclusivista se ne oppone una maggiormente inclusiva, pacifista e costruita dal basso, patrocinata spesso da gruppi di donne. Sono spesso donne le promotrici di iniziative di pace, quali l’organizzazione di gruppi di lavoro per il monitoraggio sull’applicazione dell’agenda Donne, Pace e Sicurezza  in base alla Risoluzione 1325 delle Nazioni Unite. Grazie al supporto del Global Fund for Women  , è stato aperto un ufficio in Nagorno Karabakh, con il proposito di intervenire nelle aree direttamente colpite dal conflitto ed è stata inaugurata l’iniziativa “Donne del Caucaso Meridionale per la Pace”, che riunisce 13 gruppi di attiviste dall’Armenia, Azerbaijan e Georgia. È recente la fondazione da parte di alcune donne armene del gruppo “Donne in Nero per l’Armenia”, quale appendice regionale del più grande movimento transnazionale “Donne in Nero”: sorto in Israele durante la prima intifada, per la sua vocazione anti–militarista e femminista, il movimento ha generato proseliti in varie zone del mondo caratterizzate da conflitti.

Tuttavia, simili iniziative non trovano il supporto dei rispettivi governi ed anzi spesso i tentativi di riconciliazione sono ostacolati e biasimati. È la storia della giornalista ed attivista di pace azera, Arzu Abdullayeva, che ha intrapreso una serie di iniziative di dialogo con alcuni attivisti armeni e per questo è stata vittima di minacce ed insulti. Chi intraprende queste iniziative deve fare i conti con i conseguenti meccanismi di stigmatizzazione da parte della società, galvanizzati da una narrativa dominante che tende a demonizzare il nemico ed a condannare ogni iniziativa di avvicinamento.

Non è un caso che sono proprio gruppi di donne, sia in Azerbaijan che in Armenia, le organizzatrici di manifestazioni pacifiste. C’è quindi questo filo rosso che lega le esperienze di donne armene ed azere e le pone in contatto, almeno su un piano ideologico. Entrambe non rifiutano la guerra in quanto donne e quindi – come supposto da alcuni filoni della letteratura femminista – pacifiche (o pacifiste) per natura. Le donne rifiutano la guerra nella misura in cui rifiutano la cultura militarista e spesso patriarcale, che alimenta il radicamento di stereotipi di genere nella società e le costringe spesso ad ruolo passivo di mogli fedeli e di madri premurose, estraneo alla partecipazione politica.

In certi casi le donne sono di fronte al doloroso dilemma di dover scegliere tra sentirsi madre di un soldato madre della nazione. Vale a dire la condizione di dover accettare che i propri figli vadano in guerra per un dovere politico e morale superiore. In casi peggiori, la retorica di guerra, che implicitamente predilige la nascita di figli maschi, legittima alcune pratiche silenziose ed aberranti, quali gli aborti selettivi, diffusi in alcune zone rurali del Caucaso meridionale.

Soprattutto nelle zone di confine poi il fardello economico della guerra pesa molto di più sulle spalle di giovani donne, che nel giro di poco tempo, a causa della partenza in guerra degli uomini, si sono ritrovate a gestire da sole la propria famiglia, senza gli adeguati mezzi per farlo. Le opportunità di trovare lavoro sono molto inferiori per una donna che per un uomo, a causa del mancato accesso ad un’istruzione adeguata. Ciò le costringe spesso a trovare lavoro nel mercato nero e, nel peggiore dei casi, in quello sessuale.

Quello di difendere la patria è un principio morale che si va sempre più sgretolando dinnanzi ai trent’anni di tentativi diplomatici di risoluzione falliti per il Nagorno Karabakh. Diventa sempre più assurdo e faticoso credere che i sacrifici fatti a causa del conflitto valgano la pena.

Il potere trasformativo delle strategie di coping

Sono molte le donne, soprattutto nelle regioni di confine e nei campi profughi, che elaborano una serie di pratiche comuni per resistere al senso di angoscia quotidiano dato dalle precarie condizioni economiche e di salute nelle quali sono costrette a vivere. Queste pratiche, considerate strategie di coping [capacità di far fronte ad una determinata situazione] per combattere lo stress psicologico, possono consistere in creare degli spazi sicuri anche solo per condividere una tazza di tè ed alleviare il peso delle sofferenze comuni od anche semplicemente danzare insieme. Tali pratiche contribuiscono alla creazione di significati condivisi, incentivano l’agire collettivo ed hanno un potenziale trasformativo spesso sottovalutato.

In uno studio  promosso dalla fondazione svedese Kvinna til Kvinna, donne sia armene che azere, residenti in zone direttamente afflitte dal conflitto, hanno dichiarato, in una serie di interviste, di essere favorevoli ad un dialogo con la controparte femminile, confidando che anche loro provassero la stessa sofferenza e fossero favorevoli a ristabilire una pace attraverso il dialogo. Ciò fa presupporre che, se declinati su un livello più ampio, vale a dire transnazionale, gli sforzi delle comunità di donne potrebbero far nascere delle iniziative comuni non solo per combattere lo stress provocato dal conflitto, ma anche per ristabilire delle interazioni amichevoli, o addirittura rotte commerciali per alleviare il fardello della disoccupazione. Tali iniziative potrebbero dar vita a degli spazi sicuri per le vittime di violenza domestica, come per esempio dei centri di rifugio e dei numeri verdi a cui rivolgersi, che per il momento sono scarsi ed inadeguati.

Qualcosa di simile è già successo nel territorio dell’ex Jugoslavia durante gli anni della guerra e del dopoguerra, in cui le donne sono state protagoniste di iniziative transnazionali per la protezione di donne vittime di abusi e violenza, in uno sforzo contrario alle spinte centrifughe, alimentate dai nazionalismi. Se l’esperienza della Jugoslavia ci insegna qualcosa, è che questo tipo di iniziative, che sorgano dal basso, raggiungono dei risultati considerevoli se e quando supportate da attori internazionali. Il che ci spinge a riconsiderare l’approccio nella gestione del conflitto anche per quanto riguarda il Nagorno Karabakh.

Affrontare il discorso sul conflitto del Nagorno Karabakh secondo una prospettiva di genere può far luce anzitutto sulla responsabilità degli stati verso la protezione delle donne ma anche in merito agli ostacoli posti alle iniziative di pace. Un simile approccio permetterebbe di indagare a fondo sull’operato delle organizzazioni internazionali e regionali, ad esempio l’OSCE ed altre ONG coinvolte nella gestione del conflitto. Permetterebbe di rivalutarne le azioni al fine di garantire maggiore protezione alle donne del Caucaso Meridionale ed incentivare le iniziative di pace locali.

La costruzione di una nuova narrativa per la gestione del conflitto, in cui le comunità transnazionali di donne, e non gli stati nazione, costituiscono una nuova unità di ricerca, potrebbe essere la base per la valutazione di nuove strategie di peacebuilding, elaborazione di sistemi adeguati alla protezione dei diritti umani e politiche di sicurezza efficaci nella regione.

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