BUILDING presenta, dal 10 settembre al 12 ottobre 2024, Naturalis Historia, una mostra bipersonale degli artisti Linda Carrara e Mikayel Ohanjanyan. Il progetto espositivo, ospitando una selezione di opere sia scultoree che pittoriche, propone un confronto inedito tra le loro diverse ricerche artistiche che indagano il tema comune della natura.
Il titolo della mostra, Naturalis Historia, che può essere tradotto come “osservazione della natura”, fa riferimento al celebre trattato di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), un’opera enciclopedica contenente una moltitudine di studi sul mondo naturale.
L’analisi del mondo, sia questo inteso come naturale o umano, nel macrocosmo e nel microcosmo, continua ad ispirare ed informare l’arte contemporanea permettendo agli artisti di rielaborare temi più profondi come identità, connessione, legame e dualità. Linda Carrara e Mikayel Ohanjanyan, nelle due mostre personali ospitate da BUILDING – ciascuno con un approccio diverso – osservano ciò che li circonda e lo traducono con una prospettiva unica attraverso la loro pratica artistica.
Linda Carrara indaga il paesaggio e la nostra percezione della natura, rivelando nella sua poetica il doppio nel mondo e nella natura umana. Mikayel Ohanjanyan rappresenta concretamente nelle sue sculture i legami, invisibili ma reali, tra gli esseri umani in un’unione tangibile di memorie antiche e moderne.
Linda Carrara (Bergamo, 1984), mediante diverse opere pittoriche, propone un progetto sull’unicità del doppio che in natura si presenta con volti diversi e suscita differenti visioni. Dal paesaggio che si sdoppia e si riflette sulla superficie dell’acqua, al giorno e alla notte che, dall’alba dei secoli, dividono il mondo in due parti, contigue ma opposte. Le opere e l’analisi del paesaggio illuminano gli aspetti molteplici dello specchiamento e sdoppiamento, fino ad arrivare ad indagare il doppio della nostra stessa natura umana. Inoltre, in uno studio sull’autoritratto, l’artista si raffigura in un disegno a matita dalla linea semplice. Linea che separa realtà e il suo doppio nello specchiamento sulla superficie.
Mikayel Ohanjanyan (Yerevan, Armenia, 1976), espone un’opera in basalto realizzata appositamente per la mostra e sculture inedite appartenenti alla serie Legami. La ricerca dell’artista è incentrata sull’essere umano e sull’osservazione del suo mondo interiore ed esteriore. In particolare, le opere di Ohanjanyan riflettono i legami e le tensioni che esistono nelle relazioni umane.
Secondo l’artista “siamo collegati da legami invisibili”, citando Nikola Tesla, che ci permettono di essere sismografi delle vibrazioni che vengono emanate da tutto ciò che ci circonda. Un “Tutto”, che è definito dallo spazio stesso, dal tempo, dalla natura, dalla materia con i suoi ritmi e le sue forme e dall’essere umano.
Nei legami riscopriamo l’Unità, ovvero il nostro equilibrio con il “Tutto”, la coesione tra gli opposti, insiti anche nella natura umana. Quest’ultima, apparentemente informe e disarmonica come la superficie di una pietra segnata dal tempo, rivela al suo interno un reticolo solido di ricordi e memorie che strutturano e formano la nostra esistenza ed i nostri percorsi. Un intreccio stabile dal quale sembra impossibile liberarsi. (22/07/2024-ITL/ITNET)
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-22 16:57:562024-07-24 16:58:50CULTURA ITALIANA NEL MONDO - WEEKEND ITALIA 2024 - BUILDING PRESENTA A MILANO "NATURALIS HISTORIA" AL CENTRO DELL'INEDITO CONFRONTO TRA L'ITALIANA LINDA CARRARA E L'ARMENO MIKAYEL OHANJANYAN (ItalianNetwork 22.07.24)
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 21.07.2024 – Vik van Brantegem] – «Nel territorio dell’Artsakh (o Nagorno-Karabakh) si stanno cancellando le tracce Cristiane: monumenti, chiese, croci di pietra, strade. E ora c’è la possibilità che si avveri per lo Stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino: la de-armenizzazione completa», scrive Antonia Arslan nel saggio dal titolo Armenia, la paura di un genocidio infinito, che riportiamo di seguito, pubblicato sul nuovo numero 3 di Vita e Pensiero di luglio 2024 [QUI] e che può essere scaricato gratuitamente in formato PDF [QUI].
Antonia Arslan (in copertina nella foto di Luigi Tiriticco) è autrice di saggi fondamentali sulla narrativa popolare e la letteratura femminile tra Ottocento e Novecento [QUI].
Nel 2004 in La masseria delle allodole (Rizzoli 2015, 233 pagine, premiato con moltissimi riconoscimenti e tradotto in 15 lingue, da cui i fratelli Taviani hanno tratto l’omonimo film [QUI]) ha dato voce alle memorie familiari in un racconto della tragedia di un popolo “mite e fantasticante”, gli Armeni, e la struggente nostalgia per una terra e una felicità perdute. La masseria delle allodole è la casa, sulle colline dell’Anatolia, dove nel maggio 1915, all’inizio dello sterminio degli Armeni da parte dei turchi, vengono trucidati i maschi della famiglia, adulti e bambini, e da dove comincia l’odissea delle donne, trascinate fino in Siria attraverso atroci marce forzate e campi di prigionia. In mezzo alla morte e alla disperazione, queste donne coraggiose, spinte da un inesauribile amore per la vita, riescono a tenere accesa la fiamma della speranza; e da Aleppo, tre bambine e un “maschietto-vestito-da-donna” salperanno per l’Italia…
Fra le sue pubblicazioni più recenti, Il destino di Aghavnì (Edizioni Ares 2022, 120 pagine [QUI]), racconta che nel maggio del 1915, subito prima dell’inizio del genocidio degli Armeni, in una Piccola Città del centro dell’Anatolia, una ragazza di 23 anni che si chiama Aghavnì, esce di casa con i suoi cari, il giovane marito e i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di due. Nessuno li vedrà mai più. Scompaiono, semplicemente, senza lasciar traccia. Sono stati uccisi? O rapiti? Ma da chi? Nonostante le intense ricerche delle due famiglie, nessuno sembra saperne qualcosa. Poi, anche il loro ricordo sbiadisce fino a scomparire, nell’imperversare dei terribili eventi che iniziano proprio in quei giorni, alla fine di maggio 1915. Da una fotografia di questa sorellina di suo nonno, ritrovata a casa di un cugino in America, Antonia Arslan trae un racconto avventuroso di dolore e di riscatto, di morte e di rinascita, che culmina in uno strano Natale, in un misterioso presepio che diventa un riscatto dei cuori.
Nel territorio dell’Artsakh (o Nagorno-Karabakh) si stanno cancellando le tracce cristiane: monumenti, chiese, croci di pietra, strade. E ora c’è la possibilità che si avveri per lo stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino: la de-armenizzazione completa.
Fa parte dell’animo profondo di ogni nazione, specialmente di quelle antiche e inermi, quello che gli Armeni chiamano garod. Che è più di nostalgia, più di privazione: è in qualche modo analogo a una costante – più o meno forte, ma sempre presente – percezione di “mancanza”, di vuoto definitivo, un po’ come la sensazione che prova un mutilato quando “sente” l’arto mancante: gli pare caldo o freddo, gli sembra di muovere le dita, di avvertire un prurito.
Fra le nostre regioni, forse è soprattutto il Veneto che la conosce, quella parte almeno che si affaccia sull’Adriatico, e ha perso traumaticamente, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le sue città dirimpettaie, come Fiume o Pola, parlanti la stessa lingua, con la stessa fede e gli stessi modi di vita, facenti parte per secoli dello stesso Stato, la Repubblica di Venezia. E che erano collegate regolarmente, con traffici e mercati di ogni genere, attraverso le vie del Mare Adriatico, sicure sotto il Leone di San Marco. Come mi disse una volta una cara amica, insigne collega all’Università di Padova e profuga istriana: «Certo che ne sento la mancanza. Ma non ho mai voluto rivedere Pola: non la sentirei mia. Le città sono baldracche, si concedono al nuovo padrone…».
Per gli Armeni, in questi ultimi mesi, alla storica richiesta di giustizia per il riconoscimento di un genocidio che viene ancora ostinatamente negato – e non da persone singole, ma da uno Stato potente e determinato com’è la Turchia, con tutti i mezzi possibili, leciti o illeciti che siano – si affianca purtroppo una minaccia incombente. E il senso di garod, di privazione irrimediabile che li traumatizza da 109 anni sta intensificandosi giorno dopo giorno. La sopravvivenza stessa della nazione armena è infatti oggi in pericolo, e ciò sta avvenendo nella sostanziale, ipocrita disattenzione dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, e nella tacita complicità delle autocrazie del mondo islamico e dei governi dell’Estremo Oriente.
Nel complicato scacchiere mediorientale, infatti, gli stati del Caucaso (le tre repubbliche ex sovietiche, Armenia, Georgia, Azerbaigian: le prime due cristiane, la terza musulmana sciita) rivestono un’importanza molto maggiore di quel che sembrerebbe, se si guarda solo alla loro ridotta estensione geografica. E nella situazione attuale, in contemporanea con i due conflitti “maggiori” riguardanti Ucraina e Israele, si vede chiaramente una terza guerra serpeggiare minacciosamente intorno all’Armenia.
Questo è un rischio concreto e immediato. È quello che viene chiamato “il genocidio infinito”, cioè la possibilità che si avveri per lo Stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino che ha colpito quella piccola parte del popolo armeno stanziata nel territorio chiamato Artsakh dagli abitanti – di solito più conosciuto col nome russo, Nagorno-Karabakh: la de-armenizzazione completa. (A proposito delle cause della tragedia armena e del concetto di “genocidio infinito”, sono fondamentali tre libri recenti, usciti presso Guerini: S. Nash-Marshall, I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno, 2018; S. Ihrig, Giustificare il Genocidio. La Germania, gli Armeni e gli Ebrei da Bismarck a Hitler, 2023; A. Arslan – A. Ferrari, a cura di, Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena, 2023).
Situato fra l’Armenia ex sovietica e l’Azerbaigian, è una piccola enclave fra le alte montagne del Caucaso, abitato da millenni da tribù di etnia armena, come dimostrano i numerosi monumenti là presenti, le chiese e i monasteri antichissimi – con affreschi meravigliosi da poco restaurati – e le pittoresche rovine archeologiche (ricche di straordinari ritrovamenti) risalenti all’epoca del più vasto regno armeno, quello del re Tigrane il Grande (95-55 a.C.).
Fu Stalin, plenipotenziario di Lenin per il Caucaso (come è noto, lui proveniva dalla Georgia), che negli anni tumultuosi del primo dopoguerra stabilì i confini fra le tre repubbliche transcaucasiche, dopo aver soppresso la loro fragile indipendenza. E decise di attribuire alla sovranità azera due territori confinanti con l’Armenia, e popolati in grande maggioranza da Armeni, uno a est (il Nakhichevan) e l’altro a ovest (che è, appunto, l’Artsakh). Vennero classificati come oblast, cioè regioni “a statuto speciale”, con un soviet proprio, dotato di una certa autonomia, in cui si usava la lingua armena.
Alla caduta dell’Unione Sovietica, le tante nazionalità che vi convivevano riemersero dappertutto nelle varie repubbliche; ne nacquero molti conflitti (come in Georgia), e anche gli Armeni dell’Artsakh chiesero – secondo la legge sovietica – di potersi riunire alla vicina madrepatria. Seguirono tumulti, pogrom e massacri, e una prima guerra contro l’Azerbaigian (1992-1994), vinta dagli Armeni, che conquistarono anche alcuni territori di confine e crearono una piccola repubblica indipendente, con statuti democratici funzionanti, ma non riconosciuta dalla comunità internazionale. Ci fu un consistente scambio di popolazioni; ma una vera trattativa di pace, nonostante l’attività ventennale (tuttavia assai poco convinta…) del cosiddetto “gruppo di Minsk”, o almeno un armistizio, non furono però purtroppo mai raggiunti.
Negli anni successivi – oggi possiamo vederlo con chiarezza – l’Armenia si è cullata nell’illusoria sensazione che qualcuno (la Francia, sua storica protettrice, o l’Unione Europea, con la quale furono stabiliti ottimi ma vacui rapporti? Gli Usa, dove vive la più numerosa comunità della diaspora, o perfino l’Iran, in funzione antiisraeliana?) sarebbe intervenuto in caso di ripresa del conflitto. Nel frattempo l’Azerbaigian si arricchiva col gas e col petrolio e si riarmava nella forma più moderna e letale possibile: fino a quando nel settembre 2020 lanciò – con l’aiuto della Turchia, alleata e “cugina” di sangue – la cosiddetta “guerra dei quaranta giorni”, finita con un cessate il fuoco garantito per cinque anni da una forza di pace dell’esercito russo.
Sono andata molte volte in Artsakh: ed era un luogo fiabesco, fra alte montagne coperte di foreste, vallette fertili e antichi villaggi, con il suo apparato statale, una piccola, linda capitale – Stepanakert – due università funzionanti a pieno regime (Mesrop Mashtots University e Artsakh State University), con varie facoltà e molti studenti anche stranieri, dove mi capitò di fare lezione a gruppi interessati ed entusiasti e perfino di ricevere un dottorato honoris causa…
Non dimenticherò mai l’intensa e misteriosa spiritualità che emanava il luogo di Dadivank (Dadi è il nome di un discepolo di San Taddeo, uno dei primi evangelizzatori del Paese, e vank vuol dire “monastero”), con il gruppo di chiese restaurate, gli affreschi del Duecento riscoperti dall’italo-armeno Paolo Arà Zarian e dalla sua collega Christine Lamoureux, le sorgenti sulfuree (una Abano medievale, con la povera gente a bagno nelle acque) e il quieto villaggio nelle vicinanze, dove il parroco der Hovhannes ci offrì una calda merenda e i discorsi forti e sereni di un Cristianesimo vissuto e sofferto.
L’unica strada che congiungeva l’Artsakh con l’Armenia, la prima volta che ci sono andata, era lunga e tortuosa ma affascinante. A metà del cammino, dopo circa tre ore, facemmo sosta in una specie di locanda, dove fummo ricevuti con la larga ospitalità che si riserva allo straniero. C’erano tante scodelle di riso pilaf con erbette varie a condirlo, e pinoli e piccoli semi; c’erano fette di carne abbrustolita e marinata, c’erano insalatine novelle appena colte – e un bel vino rosso, e due imponenti teste di cervo appese alla parete. E poi vennero fuori dalla cucina col vassoio dei caffè e del pakhlavà le due cuoche, robuste e ridenti, a dirmi che avevano visto, nei giorni della Pasqua appena trascorsa, il film dei fratelli Taviani ispirato alla mia Masseria delle allodole…
Un paio di anni dopo ci tornai con un gruppo americano, la Fondazione Tufenkian. A Yerevan decisero di farci viaggiare su un elicottero militare. Eravamo una ventina, molto eccitati dall’avventura: io avevo portato con me una cara amica e due giornalisti italiani. Volammo basso, sfiorando le cime dei monti e sventolando le nostre sciarpe colorate dai finestrini aperti, e atterrammo in un piccolo spiazzo vicino a un villaggio molto povero, dove la fondazione aveva costruito una scuola nuova: e anche là venimmo accolti con festose accoglienze, discorsi del sindaco e vassoi di dolcetti. Visitammo il Paese, trovando dappertutto interesse e buona volontà, voglia di lavorare e piccole imprese in crescita, dalla viticoltura (con risultati sorprendenti) all’apicoltura (straordinario, quel miele di montagna!), al raffinato artigianato (i celebri tappeti Karabakh), alla delicata oreficeria.
Ma fu la terza volta a essere per me particolarmente significativa. Eravamo un bel gruppo, Americani e Italiani, membri di una piccola fondazione, nata negli Stati Uniti per aiutare i giovani Cristiani di Siria durante la guerra. Purtroppo là avevamo trovato ostacoli di tutti i generi; sicché si era pensato di poter essere più utili in Artsakh, Paese poco conosciuto e pronto ad accoglierci.
E fu davvero così: negli anni successivi riuscimmo a mettere in piedi una grande scuola, finanziata da noi e dal governo locale, nella quale andarono a insegnare persone capaci, generose ed esperte: professori come Siobhan Nash-Marshall, giornalisti come Trey Blanton e un gruppo di studenti (Avery Kazcka, Stephanie Havens e altri) Americani e Italiani come Lucia Bortolotti, Ambrogina e Gianantonio Sanvito, Giliola Isotton. Ci furono anche corsi online, di lingua italiana e di fitoterapia (particolarmente promettente, questo, per le tante piante medicinali poco conosciute presenti nel Caucaso).
Il progetto prevedeva di essere ampliato con diversi altri professori e artigiani provenienti da diverse regioni italiane, che sarebbero andati a portare là le loro specifiche competenze e specializzazioni, in una prospettiva di equilibrato e condiviso sviluppo. E benché l’orizzonte dell’Artsakh si fosse ormai gravemente oscurato, ancora la minuscola repubblica sperava di resistere, contava sulla presenza della forza di pace e sulla tradizionale amicizia con la Russia.
Ma la guerra contro l’Ucraina ha cambiato le carte in tavola: i Russi hanno altre faccende in corso e il mondo occidentale tace. Circa 120 mila in tutto erano gli abitanti dell’Artsakh. Oggi non c’è più nessuno, il Paese intero è stato abbandonato: più di 106 mila persone sono scappate in tre giorni, dopo la resa quasi immediata – in ventiquattr’ore – per la guerra lampo scatenata il 19 settembre 2023, con forze belliche preponderanti e modernissime, dal Presidente azero Aliev. E oggi, nel silenzio collettivo, di un’altra parte di Armenia si stanno cancellando le tracce: monumenti, chiese, nomi di luoghi, croci di pietra, strade. Come ha promesso il Presidente Erdołğan in un celebre discorso, «dobbiamo finire il lavoro…».
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-21 20:04:122024-07-23 20:05:52Sugli Armeni incombe la promessa di Erdoğan: «Dobbiamo finire il lavoro…». Il saggio di Antonia Arslan “La paura di un genocidio infinito” (Korazym 21.07.24)
Per gli armeni, in questi ultimi mesi, alla storica richiesta di giustizia per il riconoscimento di un genocidio che viene ancora ostinatamente negato e non da persone singole, ma da uno stato potente e determinato com’è la Turchia, con tutti i mezzi possibili, leciti o illeciti che siano si affianca purtroppo una minaccia incombente. E il senso di garod, di privazione irrimediabile che li traumatizza da 109 anni sta intensificandosi giorno dopo giorno.
La sopravvivenza stessa della nazione armena è infatti oggi in pericolo, e ciò sta avvenendo nella sostanziale, ipocrita disattenzione dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, e nella tacita complicità delle autocrazie del mondo islamico e dei governi dell’estremo oriente. Nel complicato scacchiere mediorientale, infatti, gli stati del Caucaso (le tre repubbliche ex sovietiche, Armenia, Georgia, Azerbaigian: le prime due cristiane, la terza musulmana sciita) rivestono un’importanza molto maggiore di quel che sembrerebbe, se si guarda solo alla loro ridotta estensione geografica. E nella situazione attuale, in contemporanea con i due conflitti maggiori riguardanti Ucraina e Israele, si vede chiaramente una terza guerra serpeggiare minacciosamente intorno all’Armenia. Questo è un rischio concreto e immediato. E’ quello che viene chiamato il genocidio infinito, cioè la possibilità che si avveri per lo stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino che ha colpito quella piccola parte del popolo armeno stanziata nel territorio chiamato Artsakh dagli abitanti di solito più conosciuto col nome russo, Nagorno-Karabakh: la dearmenizzazione completa.
() Alla caduta dell’Unione sovietica, le tante nazionalità che vi convivevano riemersero dappertutto nelle varie repubbliche; ne nacquero molti conflitti (come in Georgia), e anche gli armeni dell’Artsakh chiesero secondo la legge sovietica di potersi riunire alla vicina madrepatria. Seguirono tumulti, pogrom e massacri, e una prima guerra contro l’Azerbaigian (1992-1994), vinta dagli armeni, che conquistarono anche alcuni territori di confine e crearono una piccola repubblica indipendente, con statuti democratici funzionanti, ma non riconosciuta dalla comunità internazionale. Ci fu un consistente scambio di popolazioni; ma una vera trattativa di pace, nonostante l’attività ventennale (tuttavia assai poco convinta) del cosiddetto gruppo di Minsk, o almeno un armistizio, non furono però purtroppo mai raggiunti.
Negli anni successivi oggi possiamo vederlo con chiarezza l’Armenia si è cullata nell’illusoria sensazione che qualcuno (la Francia, sua storica protettrice, o l’Unione europea, con la quale furono stabiliti ottimi ma vacui rapporti? Gli Usa, dove vive la più numerosa comunità della diaspora, o perfino l’Iran, in funzione anti israeliana? ) sarebbe intervenuto in caso di ripresa del conflitto. Nel frattempo l’Azerbaigian si arricchiva col gas e col petrolio e si riarmava nella forma più moderna e letale possibile: fino a quando nel settembre 2020 lanciò con l’aiuto della Turchia, alleata e cugina di sangue la cosiddetta guerra dei quaranta giorni, finita con un cessate il fuoco garantito per cinque anni da una forza di pace dell’esercito russo.
Sono andata molte volte in Artsakh: ed era un luogo fiabesco fra alte montagne coperte di foreste, vallette fertili e antichi villaggi, con il suo apparato statale, una piccola, linda capitale Stepanakert due università funzionanti a pieno regime (Mesrop Mashtots University e Artsakh State University), con varie facoltà e molti studenti anche stranieri, dove mi capitò di fare lezione a gruppi interessati ed entusiasti e perfino di ricevere un dottorato honoris causa Non dimenticherò mai l’intensa e misteriosa spiritualità che emanava il luogo di Dadivank (Dadi è il nome di un discepolo di san Taddeo, uno dei primi evangelizzatori del Paese, e vank vuol dire monastero), con il gruppo di chiese restaurate, gli affreschi del Duecento riscoperti dall’italo-armeno Paolo Arà Zarian e dalla sua collega Christine Lamoureux, le sorgenti sulfuree (una Abano medievale, con la povera gente a bagno nelle acque) e il quieto villaggio nelle vicinanze, dove il parroco der Hovhannes ci offrì una calda merenda e i discorsi forti e sereni di un cristianesimo vissuto e sofferto. L’unica strada che congiungeva l’Artsakh con l’Armenia, la prima volta che ci sono andata, era lunga e tortuosa ma affascinante.
A metà del cammino, dopo circa tre ore, facemmo sosta in una specie di locanda, dove fummo ricevuti con la larga ospitalità che si riserva allo straniero. C’erano tante scodelle di riso pilaf con erbette varie a condirlo, e pinoli e piccoli semi; c’erano fette di carne abbrustolita e marinata, c’erano insalatine novelle appena colte e un bel vino rosso, e due imponenti teste di cervo appese alla parete. E poi vennero fuori dalla cucina col vassoio dei caffè e del pakhlavà le due cuoche, robuste e ridenti, a dirmi che avevano visto, nei giorni della Pasqua appena trascorsa, il film dei fratelli Taviani ispirato alla mia Masseria delle allodole Un paio di anni dopo ci tornai con un gruppo americano, la Fondazione Tufenkian.
A Yerevan decisero di farci viaggiare su un elicottero militare. Eravamo una ventina, molto eccitati dall’avventura: io avevo portato con me una cara amica e due giornalisti italiani. Volammo basso, sfiorando le cime dei monti e sventolando le nostre sciarpe colorate dai finestrini aperti, e atterrammo in un piccolo spiazzo vicino a un villaggio molto povero, dove la fondazione aveva costruito una scuola nuova: e anche là venimmo accolti con festose accoglienze, discorsi del sindaco e vassoi di dolcetti. Visitammo il paese, trovando dappertutto interesse e buona volontà, voglia di lavorare e piccole imprese in crescita, dalla viticoltura (con risultati sorprendenti) all’apicoltura (straordinario, quel miele di montagna!), al raffinato artigianato (i celebri tappeti Karabakh), alla delicata oreficeria. Ma fu la terza volta a essere per me particolarmente significativa.
Eravamo un bel gruppo, americani e italiani, membri di una piccola fondazione, nata negli Stati Uniti per aiutare i giovani cristiani di Siria durante la guerra. Purtroppo là avevamo trovato ostacoli di tutti i generi; sicché si era pensato di poter essere più utili in Artsakh, paese poco conosciuto e pronto ad accoglierci. Efu davvero così: negli anni successivi riuscimmo a mettere in piedi una grande scuola, finanziata da noi e dal governo locale, nella quale andarono a insegnare persone capaci, generose ed esperte. () Il progetto prevedeva di essere ampliato con diversi altri professori e artigiani provenienti da diverse regioni italiane, che sarebbero andati a portare là le loro specifiche competenze e specializzazioni, in una prospettiva di equilibrato e condiviso sviluppo. E benché l’orizzonte dell’Artsakh si fosse ormai gravemente oscurato, ancora la minuscola repubblica sperava di resistere, contava sulla presenza della forza di pace e sulla tradizionale amicizia con la Russia. Ma la guerra contro l’Ucraina ha cambiato le carte in tavola: i russi hanno altre faccende in corso e il mondo occidentale tace. Circa 120 mila in tutto erano gli abitanti dell’Artsakh.
Oggi non c’è più nessuno, il paese intero è stato abbandonato: più di 106 mila persone sono scappate in tre giorni, dopo la resa quasi immediata in ventiquattr’ore per la guerra lampo scatenata il 19 settembre 2023, con forze belliche preponderanti e modernissime, dal presidente azero Aliev. E oggi, nel silenzio collettivo, di un’altra parte di Armenia si stanno cancellando le tracce: monumenti, chiese, nomi di luoghi, croci di pietra, strade. Come ha promesso il presidente Erdogan in un celebre discorso, dobbiamo finire il lavoro.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-20 11:11:422024-07-20 11:11:42Il genocidio infinito dell'Armenia, dove a essere rimosse ora sono le croci (Il Folgio 20.07.24)
Il Nagorno-Karabakh, situato in quella che oggi è l’Azerbaijan sud-occidentale, ospita un tesoro di eredità cristiana armena: chiese, monasteri, khachkar e altri manufatti culturali che raccontano la fede e la cultura del popolo armeno. Questi preziosi pezzi di storia armena, tuttavia, stanno venendo sistematicamente cancellati dalla regione.
A dirlo il Centro europeo per il diritto e la giustizia (ECLJ) che ha recentemente pubblicato un rapporto completo intitolato ” La cancellazione sistematica del patrimonio cristiano armeno nel Nagorno-Karabakh “. Un rapporto che cerca di attirare l’attenzione sulla distruzione dolosa e sul revisionismo del patrimonio cristiano armeno che si sta verificando nel Nagorno-Karabakh.
LEGGI ANCHE:SEAE: “L’Ue non riconosce le elezioni presidenziali nell’ex Oblast del Nagorno Karabakh”:
Il 26 giugno 2024, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato la risoluzione 2558 (2024), “Contrastare la cancellazione dell’identità culturale in guerra e in pace”. Questa risoluzione ha condannato la distruzione metodica dei monumenti storici ucraini e la decontestualizzazione dei manufatti culturali ucraini tramite il revisionismo culturale.
Prima dell’adozione di questa risoluzione, per richiamare l’attenzione sulla cancellazione culturale nel Nagorno-Karabakh, l’ECLJ ha presentato il suo ultimo rapporto ai deputati del PACE e li ha esortati ad agire contro la distruzione dell’Azerbaijan nel Nagorno-Karabakh.
Azerbaigian, va ricordato, divenuto negli ultimi anni un “partner irrinunciabile” per l’Unione europea. Una partnership, ovviamente, a prova di coerenza e di rispetto dello Stato di diritto e dei valori umani.
Si è conclusa, in Armenia, una spedizione composta da ricercatori e ricercatrici, studenti e studentesse del Cnr-Igag, delle Università di Milano Bicocca e Bologna, e della National Academy of Sciences della Repubblica Armena (Nas), finalizzata a compiere rilevamenti topografici, geopedologici, botanici, zoologici da 84 “plots” distribuiti lungo un gradiente altitudinale di 2700 metri (tra 1100 e 3850 m slm) sul versante meridionale del vulcano Aragats (regione Aragatson, Armenia).
Il team era composto, per l’Italia, da personale del Cnr-Igag – il responsabile italiano del progetto Cesare Ravazzi assieme a Giulia Furlanetto, Davide Margaritora, Renata Perego, Roberta Pini – e da personale dei due atenei associato al Cnr-Igag – Roberto Cazzolla Gatti (Unibo), Samadhi Cervellin (Unibo), Alessandro Chiarucci (Unibo), Roberto Comolli (Unimib), Chiara Ferré (Unimib), Martina Neri (Unibo), Bianca Vandelli (Unibo). Per la National Academy of Sciences della Repubblica Armena erano presenti Alla Alexsayan -referente del progetto – Georgi Fayvush, Taron Alexsayan, Lilit Sahakyan, Lilit Khachatryan.
La spedizione è stata organizzata nell’ambito del progetto “Geodiversity-Biodiversity interactions in forest to steppe habitats across an ecoclimatic gradient in Armenia. A theoretical concept applied to the effects of global warming”, uno dei progetti organizzati all’interno dell’accordo bilaterale biennale tra il Cnr e il Ministero dell’educazione e della scienza della Repubblica Armena (Mesra), il cui obiettivo principale è la ricerca di relazioni tra le variazioni della biodiversità e dell’ambiente, con speciale riguardo al ruolo dei fattori geologici e climatici, ma anche all’uso del suolo. Si vuole, inoltre, caratterizzare la varianza spiegata dal lapse rate altitudinale di temperatura e di altri fattori climatici e pedoclimatici sul turnover altitudinale delle specie, nella prospettiva di porre le basi per un’analisi temporale degli effetti del trend di riscaldamento globale iniziato negli anni 80 del secolo scorso
Il team ha condotto i rilevamenti su “plot” scelti randomly in siti vincolati da linee altimetriche: ciascun plot sarà qualificato da serie climatiche.
I risultati saranno discussidurante un advanced workshop che si terrà nel prossimo autunno, presso la sede di Milano del Cnr-Igag.
Per informazioni:
Cesare Ravazzi
Principal Investigator, Cnr-Igag sede di Milano cesare.ravazzi@cnr.it
Alla Alexsayan (MESRA Principal Investigator), NAS, email: alla.alexanyan@gmail.com
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-18 11:17:192024-07-20 11:19:48Una spedizione sulle montagne dell'Armenia per indagare le interazioni tra geodiversità e biodiversità (CNR 18.07.24)
Storia, avventure moderne, Tradizioni e delizie culinarie; un mix unico di cultura e patrimonio di primo livello per gli appassionati del vino.
l’Armenia offre una vasta scelta di attività outdoor da praticare tra cielo, acqua, montagne e boschi.Un paese ricco di storia e paesaggi emozionanti, per chi è in cerca di avventura e adrenalina.
Dai voli in parapendio sopra le acque del lago Sevan alle zipline nelle foreste di Yenokavan, il cielo armeno offre avventure spettacolari.
I fiumi e i laghi del paese offrono numerose opportunità per praticare rafting, kayak e paddleboarding, mentre i percorsi escursionistici e le arrampicate montane permettono di immergersi ne paesaggio incontaminato.
L’inverno trasforma l’Armenia in un luogo perfetto per sci, snowkiting e pattinaggio sul ghiaccio.
Ma restiamo in estate e godiamoci gli sport acquatici: Il rafting nel canyon di Debed promette emozioni forti tra gole e acque impetuose, il bacino di Azat è perfetto per il SUP o il kayak, mentre il lago Sevan, il più grande del paese, è ideale per uscite in barca o per andare a vela circondati da montagne che superano i 2000 m.
Gli appassionati di escursionismo e trekking possono esplorare i sentieri che attraversano il Paese, compresi quelli nelle aree protette come il Parco Nazionale Dilijan, o percorrere il tratto armeno del famoso Transcaucasian Trail, il percorso escursionistico a lunga distanza che attraversa campi di fiori selvatici e il corso dei fiumi.
Chi ama l’alpinismo può praticarlo sul monte Khustup, sulla cima nord dell’Aragats, la vetta più alta del paese (4040 m) o sul monte Aramazd.
Per gli amanti della mountain bike, il Boo Mountain Bike Park a Vanadzor offre percorsi avventurosi. La gola di Hrazdan, le scogliere rocciose di Gnishik e il “Canyon “dell’inferno”, offrono sfide entusiasmanti e paesaggi unici per l’arrampicata.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-18 11:16:072024-07-20 11:17:10ARMENIA: IL FASCINO DELLA NATURA E IL CALORE DELL'OSPITALITÀ. (Masterviaggi 18.07.24)
Lo scambio di prigionieri segue una prassi che non è regolamentata a livello internazionale. Domina la convenienza del momento, il tornaconto dei paesi che realizzano lo scambio e per lo più i governi che tengono conto del grado di coinvolgimento dei soggetti detenuti nelle istituzioni degli Stati di provenienza. L’Azerbaigian, paese vincitore nel conflitto secolare con l’Armenia per l’area dell’Artsakh (Nagorno Karabakh), detiene in carcere dal 27 settembre 2023, assieme ad altri militari ed esponenti politici, Ruben Vardanyan, ministro dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh, sconfitta, assoggettata, svuotata della presenza armena. Il presidente Aliyev, in merito all’arresto avvenuto alla distanza di una settimana dall’accordo di capitolazione, ebbe a dichiarare che si trattava di “membri del regime criminale che vanno portati davanti alla giustizia”. Vardanyan è stato accusato dalle autorità azere di “finanziamento del terrorismo, creazione di formazioni armate illegali e attraversamento illegale di un confine di Stato”.
Ho incontrato personalmente Ruben Vardanyan in due occasioni: la prima l’11 ottobre del 2014 a Dilijian, in Armenia, quando è stato inaugurato l’UWC Dilijan College da lui fondato assieme alla moglie Veronika Zonabend, un collegio internazionale per l’educazione di giovani di talento, chiamati ad assumersi delle responsabilità per contribuire a migliorare lo status del mondo. È il quattordicesimo della catena dei Collegi del Mondo Unito, United World Colleges, che si caratterizzano, in particolare, per la proposta di migliorare la condizione educativa della regione in cui sorgono attraverso contatti con la dimensione sociale del luogo e costituiscono un esempio di dialogo interculturale che predispone alla risoluzione dei conflitti e alla costruzione della pace, assumendo uno sguardo che dalla realtà locale si allarga al mondo. Una scuola internazionale che, a partire dal primo lancio della proposta nel 2006, ha avuto centinaia di sostenitori. Oggi sono circa 200 gli studenti che la frequentano; arrivano da ogni ogni parte del mondo e hanno un’età compresa tra i 16 e i 18 anni. Va ricordato il fatto che nel febbraio di quest’anno il parlamentare norvegese Alfred Bjørno ha proposto di inserire l’United World Colleges nell’elenco dei destinatari del premio Nobel per la Pace. Studenti provenienti anche da paesi in guerra tra di loro, vivono insieme e condividono il cammino di formazione. Accade così anche ad Arezzo dove Rondine Cittadella della Pace, forma giovani capaci di “vedere la persona nel volto del nemico” , e in Israele a Neve Shalom-Wahat al Salam.
L’incontro con Ruben Vardanyan è stato per me l’occasione di conoscere una persona comunicativa, aperta, carica di entusiasmo e di determinazione, e vogliosa di migliorare il futuro dell’Armenia attraverso l’educazione dei giovani. La sua idea di fondo è di unire popoli, nazioni, culture per la pace. Aveva accolto con favore la mia proposta di far conoscere agli studenti del College di Dilijan l’esperienza della Fondazione Gariwo, presente a Gyumri, la seconda città dell’Armenia dove, il 6 giugno del 2012, avevamo inaugurato con il supporto del console italiano in Armenia, Antonio Montalto, il Giardino dei Giusti dell’Umanità, dedicando un cippo e un albero a Hrant Dink.
La seconda volta che ci siamo incontrati è stata il 9 ottobre 2021 quando mi ha invitato a Venezia, nell’Isola di San Lazzaro degli Armeni, dove si svolgeva l’annuale meeting dell’Aurora Prize Avekening Humanity, iniziativa voluta da Ruben Vardanyan, Vartan Gregorian e Noubar Afeyan. Dal 2016 ogni anno viene assegnato, a nome dei sopravvissuti del genocidio degli armeni e in segno di gratitudine verso i loro salvatori (progetto “100 lives”), un milione di dollari a persone che si impegnano quotidianamente per salvare vite umane, dare un futuro ai sopravvissuti di conflitti, guerre, violenze, povertà e soprattutto diffondere nel mondo, con una sorta di staffetta tra operatori e testimoni, il valore dell’impegno umanitario che si traduce nella “globalizzazione del bene”. È stata l’occasione per cercare di consolidare i rapporti con Gariwo, sottolineando l’idealità che ci unisce e progettando l’avvio di una collaborazione dopo l’interruzione forzata dovuta alla pandemia del Covid. Quest’anno la cerimonia dell’Aurora Prize si è svolta a Los Angeles, assente purtroppo il fondatore Ruben Vardanyan che si trova in carcere a Baku. Noubar Afeyan, co-fondatore e presidente del Consiglio Direttivo del Premio, lo ha ricordato commosso parlando di lui come “cuore e anima” dell’iniziativa. Tra i premiati troviamo il dottor Denis Mukwege del Congo, premio Nobel per la Pace nel 2018, onorato su proposta di Gariwo nel 2019 al Giardino dei Giusti del Monte Stella di Milano.
Ruben Vardanyan, armeno, si è formato a Mosca e all’estero. Già capo del Consiglio di sicurezza russo e consigliere di Vladimir Putin, ha scelto dal novembre del 2022 l’impegno politico nel governo dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh. Ha avuto l’incarico di Primo Ministro, rinunciando al passaporto russo. Vardanyan aveva acquisito la cittadinanza armena nel giugno 2021, dichiarando di avere deciso di tornare in Armenia dopo la seconda guerra del Nagorno Karabakh. In passato non aveva mai preso in considerazione l’azione politica. Il suo incarico di governo è durato pochi mesi, visto che è stato poi costretto a dimettersi per trattative complesse e non ben decifrabili con il governo azero. Con una operazione ricattatoria il presidente azero prometteva, in cambio delle sue dimissioni, di sospendere il blocco dei rifornimenti nel corridoio di Lachin. Dal 12 dicembre 2022, infatti, un presidio azero aveva bloccato, sull’unica via che dal territorio armeno conduce in Karabakh, il passaggio di generi alimentari, materiale sanitario e medicine, rifornimenti energetici e transito di persone addette ai servizi. Come abbandonare il campo in questa situazione in cui la morsa di Baku sulla popolazione armena del Nagorno Karabakh si faceva sempre più stringente? Quando iniziava un “genocidio bianco” da carestia provocata?
Vardanyan ha continuato a lavorare in Artsakh, scegliendo di condividere con i connazionali armeni la crisi umanitaria creata dal blocco dei rifornimenti da parte azera, ma il 19 settembre 2023 l’Azerbaigian ha deciso di lanciare un attacco violento sul territorio del Karabakh, dando il via ad una operazione definita di “antiterrorismo”. La popolazione non ha via d’uscita: l’unica salvezza è la fuga in Armenia. Inizia così l’esodo biblico di donne, anziani, bambini, e lunghe carovane di profughi con le loro povere masserizie si snodano sulla strada che conduce in Armenia attraverso il corridoio di Lachin, ora riaperto, ma in un’unica direzione. Pulizia etnica, crimine di guerra, crimine contro l’umanità? In pochi giorni più di centomila cittadini del Karabakh di etnia armena raggiungono l’Armenia. Non più di dieci accettano di rimanere, e sono costretti a diventare cittadini azeri. Il 27 settembre anche Ruben Vardanyan cerca di attraversare il corridoio di Lachin, ma viene arrestato. Il 28 settembre del 2023 l’Autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh cessa di esistere.
Ruben Vardanyan è nato nel 1968 a Yerevan, in Armenia. Il nonno era un orfano sopravvissuto al genocidio del 1915 nell’area di Van, allora Impero Ottomano, salvato da una organizzazione americana. Nel 1985 si è diplomato a Yerevan e si è poi iscritto alla Facoltà di Economia dell’Università Statale di Mosca, laureandosi con lode nel 1992. Si è formato facendo esperienza alla Cassa di Risparmio di Torino, alla Merrill Lynch a New York, all’INSEAD (Fontainebleau, Francia), all’Harvard Business School, alla Yale University e alla Stanford GSB. Si è dedicato all’attività commerciale e finanziaria che si è dispiegata tra Mosca, Londra e New York, raggiungendo grandi risultati, senza mai dimenticare, tuttavia, le sue origini armene. Alle molteplici attività di investimenti finanziari, Vardanyan ha affiancato atti di mecenatismo e filantropia garantendo il sostegno a musei, orchestre, scuole, istituti di formazione universitaria e di ricerca scientifica in Russia, in Armenia, in Georgia e in varie aree del mondo, dal Brasile alla Cina, al Giappone. È stato incluso nella lista dei cento leader mondiali del futuro. La sua fondazione, “IDeA”, ha lanciato e realizzato il progetto per il restauro del monastero di Tatev in Armenia e per la funivia ad unica campata, per i restauri di chiese in Georgia e a Mosca, di moschee nel Nagorno Karabakh. Grazie al suo supporto e con la collaborazione di altre personalità armene, è nata nel 2016 la “Fondazione per la scienza e la tecnologia armena”.
Vardanyan è sposato con Veronika Zonabend, co-fondatrice del UWC Dilijan College. Ricopre anche un incarico all’Università Americana di Yerevan ed è a capo del comitato esecutivo della “Teach For Armenia Educational Foundation”. La sorella maggiore di Vardanyan, Marine Ales, è una compositrice e cantautrice, membro dell’”Aurora Prize Creative Council” e co-fondatrice del fondo di beneficenza “Grant Life Armenia”.
Numerosissimi i premi e i riconoscimenti ricevuti in patria e all’estero. Si ricorda in particolare il “Search for Common Ground”, ricevuto assieme al co-fondatore dell’iniziativa umanitaria Aurora Prize, Noubar Afeyan, un premio per onorare i risultati ottenuti nella risoluzione dei conflitti, nella diplomazia, nella costruzione di comunità di pace. Ad un certo punto del suo cammino l’impegno politico è nato dal desiderio di stare con il suo paese nel momento in cui si profilava il disastro. “Oggi la gente dell’Artsakh si trova in uno stato molto difficile, non ha fiducia nel futuro. Gli abitanti della repubblica, sopravvissuti a due guerre si sentono abbandonati”, ha dichiarato.
Il 27 settembre 2023, la moglie di Vardanyan, Veronika Zonabend, ha detto di avere “perso i contatti”. Vardanyan, prelevato dal Servizio di frontiera azera del corridoio di Lachin, viene portato in carcere a Baku, in manette, assieme ad altri politici con le accuse che abbiamo visto. Se condannato rischia fino a 14 anni di carcere.
Vardanyan ha iniziato in marzo lo sciopero della fame per chiedere un processo rapido, ma la sua famiglia ha riferito che il 25 aprile 2024 aveva sospeso lo sciopero avendo ottenuto in cambio di poter telefonare alla moglie, dato che non gli era più permesso di comunicare all’esterno. Ultimamente la sua detenzione è stata prolungata di molti mesi, mentre suo figlio cerca di sensibilizzare Stati e governi per riuscire a liberarlo. Molte istituzioni internazionali si sono mosse, e hanno chiesto anche la liberazione di altre personalità politiche armene detenute, fra queste tre ex presidenti dell’Artzakh, un consigliere presidenziale, il presidente del parlamento, l’ex comandante dell’esercito e il suo vice. Il Raphael Lemkin Institute, il figlio e la moglie di Vardanyan, molte personalità note fra le quali anche il celebre calciatore dell’Inter Henrik Mkhitaryan hanno inviato al governo azero richieste e petizioni per la sua liberazione.
Un team di avvocati internazionali che lo sostengono ha inviato un appello urgente al Comitato delle Nazioni Unite chiedendo di condannare le torture e i maltrattamenti che il governo azero infligge a Vardanyan e agli altri detenuti. Gli avvocati della difesa sono venuti a conoscenza del fatto che durante lo sciopero della fame, Vardanyan è stato messo in una cella di punizione, privato del sonno, dell’acqua potabile, dei libri e della carta per scrivere; nessuna comunicazione con il mondo esterno era possibile. Un trattamento che viola gli obblighi internazionali riguardo ai prigionieri. L’avvocato Jared Genser ha sottolineato che il governo azero responsabile di una detenzione arbitraria, considera Vardanyan una minaccia. E ha aggiunto: “Se l’Azerbaigian vuole essere preso sul serio sulla scena internazionale – e se vuole che la COP29 sia la ‘COP per la pace’ – allora deve smettere di maltrattare Ruben e rilasciare immediatamente lui e gli altri prigionieri politici del Nagorno-Karabakh”.
“Siamo rimasti scioccati nell’apprendere degli orrori che mio padre ha dovuto sopportare. È terrificante pensare a ciò che viene fatto ad altri prigionieri meno importanti che non hanno ricevuto il sostegno internazionale di cui gode mio padre. Per il bene di tutti gli attuali prigionieri politici in Azerbaigian – siano essi armeni, azeri o di qualsiasi altra nazionalità – questo trattamento disumano dei prigionieri deve essere fermato. Esortiamo le Nazioni Unite a ritenere il governo dell’Azerbaigian responsabile e ad aiutare a proteggere la vita di mio padre”, ha dichiarato il figlio di Vardanyan, David. Numerose organizzazioni per i diritti umani, governi nazionali e organizzazioni internazionali continuano a fare pressione sul governo azero per il rilascio dei prigionieri. Più di recente, il senatore degli Stati Uniti Ed Markey ha chiesto in Senato il rilascio dei prigionieri, condannando i maltrattamenti inflitti a Ruben Vardanyan. Paul Polman, già amministratore delegato di Unilever, noto per la sua organizzazione “Imagine World” nata per combattere la povertà e il cambiamento climatico, insieme al co-fondatore dell’azienda farmaceutica Moderna, Noubar Afeyan, sono tra coloro che si battono attivamente per il rilascio di Vardanyan.
Mettersi al servizio del proprio paese e stare a fianco dei propri connazionali nel momento più tragico della sconfitta del “principio di auodeterminazione dei popoli”, è considerato un crimine solo all’interno della logica amico-nemico, dominante nella nostra contemporaneità, una logica esasperata che ha trascinato il mondo nella “terza guerra mondiale a pezzi”. Ruben Vardanyan ha condiviso la sofferenza di un popolo cacciato da un fazzoletto di terra al quale era aggrappato da millenni. Ha dovuto assistere e ha voluto condividere la resa senza condizioni di un piccolo popolo altro “per etnia, cultura, religione, consegnato a una realtà politica altra”, che lo ha identificato, costruito, indicato come nemico. Con Carl Schmitt possiamo dire che nel conflitto secolare tra azeri e armeni dell’enclave del Karabakh, il binomio amico-nemico è stato utilizzato da parte azera per compattare e solidificare l’identità della nazione potenziando il nazionalismo e per costruire un programma di conquista.
L’armenofobia è stata ed è risorsa per la coesione sociale e forza per realizzare il piano d’azione portato a termine grazie all’intensificazione del riarmo e al sostegno dei fratelli turchi. Sovranismi e nazionalismi possono scatenare e scatenano violenza e distruzione. La politica dell’odio compatta i sudditi indifferenti. Il compito, affidato a ognuno di noi, è trovare gli antidoti alla costruzione del nemico e alla diffusione dell’odio. È necessario recuperare figure di giusti come quella di Akram Aylisli, scrittore azero onorato l’anno scorso al Giardino del Monte Stella di Milano (qui il discorso pronunciato da Pietro Kuciukian in quell’occasione, ndr), autore di un breve racconto, “Sogni di pietra”, in cui esprime il sogno di vedere i due popoli, armeni e azeri, ancora insieme. Quando nel 2016 l’anziano scrittore è stato bloccato dalla polizia azera all’aeroporto di Baku e non ha potuto raggiungere Venezia per la presentazione del libro, ha inviato una lettera che ancora oggi è una pagina da meditare. Scrive Aylisli: “Un’enorme quantità di uomini che nell’anima non hanno nulla, o hanno solo un vuoto malvagio, si nascondono dietro la cosiddetta idea nazionale e diffondono i semi dell’odio tra popoli e nazioni che sino a ieri vivevano pacificamente fianco a fianco. Il nazionalista è tanto più temibile in quanto per sua natura è un ottimista duro di cuore, che rifiuta la comprensione tragica della vita e si oppone pertanto radicalmente alla verità. La sua è una rivolta contro la ragione e l’umanità”.
Gli armeni del Karabakh avevano perso ogni speranza nella possibilità di avere un futuro e Vardanyan, consapevole di rischiare la libertà e la vita, ha ritenuto necessario stare al loro fianco, sostenuto da quello spirito ottimista che lo portava ad indicare all’Armenia la strada da percorrere:
“L’Armenia è un paese indipendente da 25 anni, ma come popolo e nazione la civiltà armena ha 5.000 anni. Dobbiamo costruire su questo. Dobbiamo liberarci del nostro senso di vittimismo e guardare al futuro” … “È difficile. È un cambiamento nella mente. Stiamo incoraggiando l’Armenia ad andare oltre la sopravvivenza e verso la prosperità. È rivoluzionario, ma è una rivoluzione da una prospettiva diversa”.
Il progetto di Ruben Vardanyan è stato interrotto. Non solo in Armenia. I pascoli, le montagne, le pianure, i torrenti, i monasteri antichi e i cimiteri secolari dell’Artsakh, devastati e conquistati. L’impotenza è stata la cifra della scelta di condividere la sconfitta. Per l’Armenia è difficile guardare al futuro, ma con “la resa” e l’esodo, tante vite umane sono salve e i fratelli hanno accolto altri fratelli. Se insieme riusciranno a realizzare il progetto di costituire il “crocevia della pace”, gli armeni riprenderanno il cammino nella dimensione dell’accoglienza, la sola che può garantire ai popoli di crescere e prosperare. L’appello per la liberazione di Ruben Vardanyan e degli altri prigionieri è impegno da assumere riflettendo sulla motivazione della sua scelta: “… mi sono detto: questo è il momento di fare una scelta, o continui a fare filantropia e ad essere una persona generosa ma solo emotivamente legata alla causa, oppure diventi responsabile e inizi ad agire in prima persona”.
Abbiamo parlato con Emily Mkrtichian, il cui straziante ma commovente documentario There Was, There Was Not[+], che ritrae quattro donne dell’Artsakh, il territorio armeno recentemente annesso dall’Azerbaigian, ha appena ricevuto il premio FIPRESCI e una menzione speciale nel concorso regionale del 21mo Golden Apricot International Film Festival (leggi la news). L’autrice ci parla dell’accoglienza del pubblico in Armenia e delle complicate emozioni che ha provato durante le riprese e dopo aver completato il film.
Cineuropa: Ha realizzato un film emozionante e commovente: molte persone alla proiezione a cui ho assistito stavano piangendo. Che tipo di feedback ha ricevuto dopo aver proiettato il film a livello locale?
Emily Mkrtichian: La cosa che mi è stata detta più spesso dopo la prima proiezione, che mi ha sorpreso e che forse è stato anche il miglior complimento che potessi ricevere, è che ha fatto sì che molte persone si confrontassero e provassero emozioni profonde su qualcosa a cui avevano cercato di sfuggire. Farlo in una sala con un gruppo di persone e in presenza delle storie di queste incredibili quattro donne è stato catartico. Questa era la mia più grande speranza nel realizzare il film, poiché ho vissuto un processo simile durante il montaggio: guardare profondamente a qualcosa che volevo dimenticare o negare, e condividere l’esperienza con altre persone che l’hanno vissuta. Siamo stati in grado di elaborare il lutto insieme e di trovare la guarigione e la forza attraverso queste storie.
Immagino che l’effetto del suo film sia amplificato anche dalla consapevolezza che recuperare l’Artsakh in questa fase sarebbe difficile. Come si sente in questa situazione? Provo troppe emozioni per poter dare una sola risposta. Una parte di me piange la perdita di un luogo, mentre un’altra parte prova vergogna per questo lutto e vuole credere che vivremo di nuovo in queste terre. Catturare la bellezza dell’Artsakh e della sua vita per tanti anni con la mia telecamera, e ora condividerne la memoria, mi ricorda che il cinema e la narrazione sono magici. Documentano un certo tempo e un certo luogo, mantenendolo vivo per sempre. Spero che queste immagini dell’Artsakh non siano solo un archivio del passato, ma anche un sogno per il futuro.
Qual è stata la motivazione iniziale che l’ha spinta ad avvicinarsi a questi quattro personaggi femminili e come li ha trovati? Ho incontrato tutte queste donne mentre trascorrevo del tempo in Artsakh. Nel 2017 ho girato un cortometraggio lì e ho conosciuto Sveta. Ho anche insegnato un mese in un workshop di regia in un centro di tecnologia creativa, dove ho incontrato Sose – le giovani donne della mia classe avevano scelto di realizzare un documentario su di lei. Ho conosciuto Siranush e Gayane grazie ad amici comuni. Mi interessava capire come le donne, di età e professioni diverse, lottassero per ottenere maggiori diritti, vivessero una vita piena e rendessero il loro paese migliore per coloro che le circondano e per le generazioni future. Ho filmato con tutte e quattro per quasi sei anni e siamo ancora molto unite.
Il film mostra filmati di Artsakh sotto assedio, fornendo una visione unica della situazione. Non avevo intenzione di imbattermi nella guerra durante la realizzazione di questo film; doveva essere una storia sulle conseguenze del conflitto e sul ruolo delle donne nel lavoro per la pace. Quando è scoppiata la guerra, mi trovavo in Artsakh per girare quelle che pensavo fossero le scene finali. Poi tutto è cambiato. Sono rimasta e ho filmato durante la guerra, non mi è mai sembrato che non farlo fosse un’opzione. Tutte e quattro queste donne hanno scelto di rimanere e di lavorare per la sicurezza di coloro che le circondavano, quindi era impossibile pensare che non avrei fatto lo stesso. Ho anche visto che i giornalisti stranieri erano interessati solo a immagini sensazionali della guerra e a raccontare le stesse storie. Mi è sembrato importante documentare un lato del conflitto che raramente vediamo: le donne che lo subiscono e che ricostruiscono quando è finito.
Com’è stato il processo di montaggio? Dopo aver girato per quasi sei anni, disponevo di un ampio materiale. La sfida più grande nel montaggio è stata quella di aver filmato essenzialmente due storie: una prima della guerra e una dopo. Ci sono voluti anni per capire come farlo in modo onesto ed etico, senza affidarsi al sensazionalismo. Alla fine ho dovuto lavorare io stessa con il girato per capire cosa volevo dire, come volevo che apparisse e il linguaggio necessario per esprimere tutto questo. Una volta chiarito questo aspetto, ho trovato una partner per il montaggio, Alexandria Bombach, che ha ascoltato, compreso la mia visione ed elevato il film con le sue abilità sensibili e magistrali.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-17 11:20:112024-07-20 11:22:10Golden Apricot 2024 - Emily Mkrtichian • Regista di There Was, There Was Not (Cineuropa 17.07.24)
Le manovre militari congiunte tra Usa e Armenia hanno luogo in un momento di difficoltà tra il Paese caucasico e il suo protettore russo. Secondo un percorso inverso a quello della vicina Georgia
16/07/2024
La distanza tra l’Armenia e il suo oramai ex storico alleato, ovvero la Federazione Russa, si fa sempre più ampia. Lo scorso lunedì 15 luglio le forze armate di Yerevan hanno avviato esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti, una mossa che fino a pochi anni fa sarebbe stata considerata come impensabile dagli osservatori mondiali. Secondo quanto detto dal ministro della Difesa armeno Suren Papikyan queste esercitazioni, nome in codice “Eagle Partner”, mirano ad aumentare l’interoperabilità delle unità che partecipano alle missioni internazionali di mantenimento della pace, a condividere le best practices in termini di command and control e comunicazione tattica e migliorare la readiness delle forze armene. Di queste manovre si conosce la durata prevista, ovvero fino al 24 luglio, e a quali unità afferiscono i soldati ivi impegnati (forze di pace armene, militari dell’esercito americano di stanza in Europa e in Africa, e Guardia Nazionale del Kansas), ma non è stato chiarito il numero esatto di truppe coinvolte.
Seppure questa non sia la prima edizione di questa specifica esercitazione, che si era tenuta già l’anno scorso (venendo già allora definita come una mossa “ostile” da parte dei funzionari russi), essa avviene in un contesto particolare per via della brusca virata nelle relazioni diplomatiche tra Yerevan e Mosca, avviatasi quando l’anno scorso, l’Azerbaigian ha intrapreso una fulminea campagna militare per completare la conquista della regione del Karabakh. Le autorità armene hanno accusato le forze di pace russe, dispiegate nell’area in seguito al conflitto scoppiato nel 2020, di non aver fatto nulla per rintuzzare l’assalto dell’Azerbaigian. Mosca ha respinto le accuse, sostenendo che le sue truppe non avevano il mandato per intervenire.
Su queste basi si è sviluppato nei mesi successivi un botta e risposta tra i due Paesi. A Febbraio, il primo ministro armeno Nikol Pashynianha annunciato una sospensione nella partecipazione dell’Armenia all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (quella che in maniera semplicistica si potrebbe definire la controparte post-sovietica della Nato), denunciando l’incapacità di esso di garantire la sicurezza dei suoi membri. Poche settimane prima, in un’altra mossa non gradita dal Cremlino, Tbilisi era diventata membro ufficiale di quella Corte Penale Internazionale che l’anno prima aveva emanato un mandato d’arresto per Vladimir Putin con l’accusa di aver commesso crimini di guerra (e che nel giugno 2024 avrebbe emesso lo stesso mandato anche l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu e il Capo di Stato Maggiore Valery Gerasimov). Non stupisce quindi che in primavera Mosca abbia deciso di ritirare l’intero contingente di peacekeeping dispiegato nel Nagorno Karabakh, in violazione degli accordi di cessate il fuoco risalenti al 2020. Spingendo l’esecutivo di Pashynian a valutare addirittura di chiudere la base militare permanente che le forze armate russe hanno in territorio armeno. Parallelamente a questo processo di sganciamento da Mosca, il Paese caucasico si è avvicinato sempre di più al blocco euroatlantico. Motivo per cui la presente edizione di “Eagle Partner” ha un significato diverso dalle altre.
Interessante notare come, sempre nel Caucaso, stia succedendo un fatto simile ma opposto. Circa dieci giorni fa gli Stati Uniti hanno deciso di annullare l’esercitazione militare “Noble partner” che si sarebbe dovuta svolgere congiuntamente con le forze armate georgiane dal 25 luglio al 6 agosto, in seguito alla decisione del parlamento georgiano di approvare leggi di carattere illiberale, come la foreign agents law, all’interno di un più generale percorso di riavvicinamento al Cremlino.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-16 11:24:372024-07-20 11:26:24Cosa c’è dietro le esercitazioni militari nel Caucaso (Formiche 16.07.24)
Sei artisti contemporanei da Armenia, Iran, Iraq, Cina, e Italia, in dialogo con documenti e manoscritti antichi, esemplari conservati dalla Biblioteca del Museo Correr ed eccezionalmente esposti al pubblico fino al 15 ottobre 2024; un percorso in cui la Via della Seta diventa la Via della Scrittura, per indagare le diverse declinazioni artistiche, storiche e culturali della calligrafia. È questo il nuovo appuntamento di Fondazione Musei Civici pensato per promuovere la conoscenza e la pratica della scrittura a mano; quest’anno dedicato in modo particolare alle celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Marco Polo e alle culture calligrafiche che il mercante ha incontrato nel suo viaggio, nella rotta verso Oriente.
Gli autori in mostra Gayane Yerkanyan e Sarko Meené, Golnaz Fathi, Hassan Massoudy, Mingjun Luo, Monica Dengo, differenti per provenienza geografica, cultura, età, eredità espressiva e materiale, sono uniti dalla particolare relazione con la calligrafia e la scrittura a manodel proprio paese di origine, dall’indagine di ciò che le forme veicolano in quanto simboli, forme nello spazio, o segni e mantenendo una relazione di identificazione culturale con le proprie origini. Il dialogo con i documenti antichi intende mettere in risalto la relazione classica con la scrittura, in cui la forma è principalmente a servizio del contenuto. Tra gli esempi, due preziosi manoscritti del Corano del XVII e XVIII secolo miniati a foglia d’oro, un volume per il catechismo dei missionari domenicani in cinese, passaporti, “lasciapassare sanitari” e lettere di fede con caratteri islamici in turco e arabo, attestazioni commerciali per il commercio di pietre preziose in armeno, fino a un raro esemplare di brani del Tripitaka con caratteri birmani su foglie di palma. Accanto, fioriscono le interpretazioni, letture e riletture contemporanee, in cui gli artisti sviluppano il potere comunicativo delle forme di scrittura in se stesse. A volte, anche rifiutando o rinunciando del tutto al contenuto semantico.
Il lavoro di Gayane Yerkanyan (Yerevan, Armenia, 1989) consiste nel decontestualizzare delle lettere armene per offrire nuovi significati visivi e simbolici. Nelle sue opere non ci sono parole, il significato sono le lettere stesse. In quanto simboli del patrimonio culturale armeno, esse diventano rappresentazioni visive di una cultura, combinate in giochi astratti di forme e spazio. Le opere dell’artista in mostra, in particolare, hanno un approccio più vicino al disegno geometrico che al segno diretto e spontaneo proprio della scrittura a mano. Il suo è un segno quasi privo di gestualità eppure carico di quelle imprecisioni che sono proprie di un lavoro manuale diretto, che non intende nascondere la propria umanità.
Nelle sue opere Sarko Meené, nome d’arte di Armine Sarkavagyan (Yerevan, Armenia, 1984) riflette sull’esplorazione dei significati legati alla memoria, alla scrittura a mano e alle lettere armene attraverso i manoscritti di suo nonno, lo scrittore e poeta Karpis Surenyan, in particolare attraverso suo libro Il Mistero di essere Armeno. Affascinata dalle pagine pesantemente modificate e barrate, sovrappone al testo scritto del nonno una rete metallica creando profondità e permettendo alla luce di penetrare attraverso gli strati della materia. Simbolicamente, la rete di acciaio inossidabile rappresenta la protezione. L’apparenza ingannevole della rete metallica, inizialmente simile alla seta, sottolinea temi di femminilità e forza, i vari aspetti della vita come il riflesso della continuità tra passato, presente e futuro.
Golnaz Fathi (Teheran, Iran, 1972) combina la calligrafia tradizionale con l’espressione artistica contemporanea estendendo i confini del concetto stesso di calligrafia: pur mantenendo l’essenza visiva della parola scritta, Fathi scrive ciò che lei chiama non-scritture, ossia scritture prive di valore semantico e destinate ad essere interpretate non con gli occhi, ma attraverso il cuore. L’ispirazione per i rotoli presenti in questa mostra deriva dalla poesia di Jalal al-Din Rumi (1207-1273). Ciascun rotolo ricorda una litania, una ripetizione ossessiva di forme che vorremmo leggere, ma non possiamo così come non può leggerle l’artista, diventando così opere che sembrano essere una negazione del linguaggio codificato, l’immagine paradossale del tentativo impossibile di una reale comunicazione dell’essere.
Hassan Massoudy (Najaf, Iraq, 1944) fonde le essenze del contemporaneo e dello storico intrecciando elementi delle tradizioni artistiche orientali e occidentali. Mentre mantiene il retaggio della tradizione, si distacca contemporaneamente dai suoi confini, promuovendo un’evoluzione delle forme di scrittura. Le ispirazioni per le sue composizioni sono tratte da una vasta gamma di fonti, che vanno dai versi dei poeti alla prosa di scrittori provenienti da diverse culture, alla saggezza eterna dei detti popolari. Ogni tratto del suo lavoro riflette il suo impegno incrollabile nell’esplorare le sfumature dell’esperienza umana attraverso l’arte.
Divisa tra la cultura cinese e quella svizzera, Mingjun Luo (Nanchong, Cina, 1963) concepisce il suo lavoro come uno “spazio terzo”, un terreno ibrido e fertile dove sviluppa il proprio linguaggio, in un continuo movimento tra Asia e Occidente. La sua serie in mostra Break the Character contraddice la tradizione cinese presentando ideogrammi frammentati ed esplosi fino all’astrazione. La decostruzione dei caratteri cinesi e la loro perdita di valore semantico li fa diventare astratti, pur mantenendo l’essenza della calligrafia tradizionale a inchiostro. In questo modo, tutti gli osservatori sono su un piano di parità di fronte all’opera d’arte, e le due tradizioni e identità culturali possono trovare un punto di incontro e dialogo. Nell’opera circolare Traces of Writing, che contiene gli ideogrammi del Daodejing, testo fondamentale del taoismo attribuito al filosofo cinese Laozi, l’artista scrive caratteri che sembrano sparire in una nebbia, sciogliendosi nell’oblio. Il testo, dice, è la sua risposta alle tracce della storia che vanno e vengono, false e reali, imprevedibili.
L’opera Meravigliarsi di Monica Dengo (Camposampiero, Padova, Italia, 1966) è un modo per andare oltre i confini, esplorando il concetto di “scrittura sconfinata”, espresso con la perdita di definizione dei bordi delle lettere, che si dissolvono nello spazio della tela. Osservando i tratti si possono intuire i gesti della mano che ha dato vita a quei segni, percepire i cambiamenti di velocità e pressione, nonché il momento in cui il pennello carico d’inchiostro tocca la superficie, generando tratti più densi e profondi. Da lontano l’opera circolare sembra un fiore, come se sconfinando oltre i bordi, le lettere diventassero un’unica forma. Alcune lettere si possono ancora leggere, arrivando a comporre la parola MERAVIGLIARSI. Vista da vicino però i segni neri diventano più foschi e la parola, perdendo definizione, si dissolve. La mostra al Museo Correr fa parte della rassegna di calligrafia La via della scrittura, a cura di Monica Viero, che prevede due workshop di quattro giorni ciascuno in programma per ottobre 2024, nella Scuola del Vetro Abate Zanetti di Murano, in collaborazione con MUVE Academy. I corsi prevedono la presenza di un insegnante di calligrafia occidentale e di docenti delle culture calligrafiche araba, cinese, tibetana.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2024-07-15 11:32:042024-07-20 11:34:46Settecento anni di arte calligrafica tra Oriente e Occidente. La mostra al Museo Correr di Venezia. (Il Giornale 15.07.24)
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