Armenia. Lettera aperta alla senatrice Papatheu (genteeterritorio.it 18.01.22)

L’autore della seguente lettera aperta, già manager del Gruppo Ferruzzi e della Philip Morris, ha scritto, tra gli altri, “I tre circoli del potere” (in edibus), libro inchiesta sugli anni di tangentopoli.

 

Lettera aperta alla Senatrice Urania Giulia Papatheu (Forza Italia) la quale ha rilasciato la seguente dichiarazione:

Roma, 14 gennaio 2022 – 10:33 – (Agenzia Nova) – “Lancio un appello a tutti i parlamentari, nazionali ed europei, affinché le provocazioni da parte dell’Armenia al confine di Stato con l’Azerbaigian non scatenino una escalation di violenze. Un silenzio, quello da parte del mondo politico ed anche della stampa, semplicemente assordante“. Lo afferma in una nota la senatrice di Forza Italia e vicepresidente della commissione Cultura all’interno della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare dell’Iniziativa centro europea, Urania Papatheu. “Provocazioni che hanno portato alla morte di un giovane soldato dell’Azerbaigian, impegnato a fare solo il suo dovere. Ecco perché non possiamo permetterci un altro sanguinoso conflitto – continua la parlamentare di FI -. Naturalmente, sono molto onorata di fare parte del gruppo interparlamentare di amicizia con l’Azerbaigian, grazie al quale ho apprezzato gli sforzi delle autorità di Baku per arrivare ad un processo di pacificazione con l’Armenia“. (Com) ©️ Agenzia Nova.

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Senatrice Papatheu,

Con enorme dispiacere e immenso dolore leggo del Suo appello alla comunità internazionale, nonché a media e organizzazioni politiche, al riguardo delle cosiddette “provocazioni armene”: gli armeni non sono – né mai lo furono nel corso di ventotto secoli – istigatori, provocatori né carnefici… ma bensì le vittime di una storia che coinvolge tutta l’umanità. “L’assordante silenzio” (parole Sue), cui Lei fa accenno, non è quello nei confronti degli azeri ma è, invece, il silenzio assordante che da oltre cento anni avvolge e ignora la tragedia Armena.

Il Suo intento a incitare il “mondo” verso un cammino di pace è sicuramente dettato da nobili intenzioni – nonostante il noto proverbio sulle buone intenzioni e le strade che con esse si lastricano – ma, nel contempo, temo che il Suo appello difetti anche di una prospettiva storica fondamentale per capire i problemi dell’Armenia e del suo popolo.

Qui occorre fare accenno rapidamente a due diverse catene di eventi: (A) Anatolia Armena; e (B) il caso Nagorno-Karabakh.

La prego di avere la pazienza di leggere i fatti qui sotto esposti in ordine cronologico, altrimenti alcuni eventi attuali – se tolti dal grande fiume della Storia – non si comprendono, restando invece avulsi dalla realtà attuale.

A) Armeni e Anatolia

  • 1) Il popolo armeno si insediò in Anatolia nel VII secolo A.C. (attenzione, sì, ho detto proprio… Avanti Cristo);
  • 2) I turchi invasero l’Anatolia armena nel XI secolo D.C. (cioè ben 18 secoli da quando gli armeni vi abitavano senza mai aver fatto guerra ad alcun popolo);
  • 3) A partire dall’inizio del XX secolo gli armeni sono stati oggetto (da parte dei Turco-Ottomani) del genocidio più crudele e raccapricciante della storia dell’intera umanità. Ciò è sotto gli occhi di tutti e sono tutti fatti assolutamente innegabili e comprovati (incluso il libro con fotografie e testimonianze di Armin T. Wegner edito dalla Guerini e Associati);
  • 4) Le comunità internazionali, inclusa ahimè l’Italia, hanno prima illuso e poi abbandonato gli armeni, tradendo la parola data. Anche qui si tratta di eventi storici e inconfutabili, ossia:
      • a. Il 10 agosto 1920 il trattato di Sèvres (firmato dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale e dagli Ottomani) stabiliva la costituzione di un grande stato Armeno (più del doppio di quello attuale), nonché quello del Kurdistan, mentre l’impero Ottomano (Turchia) avrebbe avuto solo la metà occidentale dell’Anatolia.
      • b. Il suddetto trattato, per debolezza e inerzia delle potenze Europee e degli USA non fu mai applicato, lasciando invece strada alla rivolta turca guidata da Mustafà Kemal Atatürk. Tutta la comunità internazionale, in quei tre anni di eccidi, chiuse gli occhi!
      • c. Il 24 luglio del 1923 la Turchia (non più chiamata Impero Ottomano) firmò il trattato di Losanna che – di fatto – accoltellava alla schiena le promesse europee e americane fatte ad armeni e kurdi: fu costituita una piccola Armenia (quella attuale), niente terre ai kurdi, lasciando invece ai turchi territori che avevano sottratto agli armeni dopo averli derubati e sterminati.
      • d. Tra l’altro, visto che il Suo nome è greco… sappia che nell’intervallo di tempo fra i due trattati, centinaia di migliaia di greci furono trucidati dai turchi mentre, quelli che poterono, fuggirono dai loro insediamenti secolari dell’Anatolia occidentale (sul Mar Egeo, per intenderci).
  • B) Armenia e il Nagorno-Karabakh
    • 1) La storia di questa regione Caucasica è molto antica e complessa, per cui non se ne può fare un sunto in questa sede. Tuttavia, La invito a leggere anche la semplice pagina di Wikipedia (la più riassuntiva e lineare che si trovi in Internet) che le allego qui sotto;
    • 2) Nel 1923 Stalin, odiatissimo sia da azeri che da armeni, decise che il Nagorno-Karabakh sarebbe stato parte dell’Azerbaijan nel suo personale disegno dei confini delle repubbliche Sovietiche, un po’ come fecero Inghilterra e Francia nel tracciare arbitrari confini in Medio Oriente dopo la disgregazione dell’impero Ottomano. Tuttavia, da sempre il Nagorno-Karabakh era armeno e abitato da etnie armene;
    • 3) Il 20 febbraio 1988, il Consiglio Nazionale del Nagorno-Karabakh votò per rimanere con l’Armenia, staccandosi dall’Azerbaijan;
    • 4) Il 27 febbraio 1988 si scatenò la caccia agli armeni da parte degli azeri che terminò con un massacro di un centinaio di persone (armene);
    • 5) Il 30 agosto 1991, a seguito della disgregazione dell’URSS, l’Azerbaijan costituì la propria repubblica, decidendo unilateralmente, di abolire lo statuto autonomo del Karabakh;
    • 6) Il 10 dicembre 1991 nacque la Repubblica del Nagorno-Karabakh (Artsakh), poi il 6 gennaio 1992 (dopo le elezioni locali) venne proclamata la Repubblica Artsaks e, infine, il 31 gennaio 1992 cominciarono i bombardamenti da parte degli azeri.
    • 7) È quindi a partire dal gennaio 1992 che occorre risalire per inquadrare le recenti vicende: le prime ed estese provocazioni – anzi, veri e propri atti di guerra con i bombardamenti – sono stati intrapresi dall’Azerbaijan. Dunque, ancora una volta, come nel caso dell’Anatolia e dei turchi, gli armeni sono le vittime e non gli aggressori. Il perché è presto spiegato:
      • i. Per la stragrande maggioranza, il Nagorno-Karabakh è popolato – come detto più sopra – da armeni, i quali sono cristiani;
      • ii. L’Azerbaijan è musulmano, come il suo alleato Turchia: per entrambi tali stati la distruzione del popolo armeno (cristiano) è tuttora la sacra missione finale per il controllo della regione Caucasica;
      • iii. L’Azerbaijan è tutto fuorché una democrazia: l’attuale presidente Ilham Aliyev, figlio del primo presidente Heydar Aliyev, il quale ha mantenuto il potere con la frode elettorale del 2003, è azionista maggioritario di tutte le banche, delle società di costruzioni e telecomunicazioni del paese, nonché delle compagnie energetiche (gas e petrolio) dell’Azerbaijan. Le sue fortune sono nascoste in paradisi fiscali, come ogni buon dittatore che si rispetti, in modo da poter sbeffeggiare e doppiamente danneggiare i propri cittadini (in questo caso dovrei dire sudditi… sic!);
      • iv. Le vorrei anche segnalare che a Baku vi è il cosiddetto “parco dei trofei” ove si coltiva e si fa proliferare l’odio etnico contro gli Armeni;
      • v. La Turchia è una dittatura pura e semplice (mi pare che anche il Presidente Draghi lo abbia pubblicamente detto senza alcuna remora) ed ha il secondo esercito più grande del mondo, mentre i cittadini di Erdoğan soffrono la fame.

Occorre guardare alla realtà, ossia la foto di oggi, nel contesto del film storico che dura da quasi tre millenni per comprendere la dannazione degli armeni! Azerbaijan e Turchia sono due stati oppressivi – mascherati da democrazie con elezioni pilotate e fasulle – il cui scopo ultimo è la cancellazione dell’Armenia e degli armeni dalla faccia del pianeta.

Viene il dubbio che Lei, forse, non sia al corrente del fatto che circa 40 km quadrati del territorio Armeno sono, a tutt’oggi, occupati dai militari dell’Azerbaijan. Quindi, parlare di “provocazioni armene” per scontri avvenuti tra armeni e soldati azeri posizionati all’interno (occupazione) del confine sovrano dell’Armenia è tanto falso quanto meschino. Non oso immaginare da quali fonti Lei abbia ricevuto le Sue informazioni. Tuttavia, le Sue affermazioni suonano più come un megafono propagandistico a favore di Baku, o dettato dalla politica espansionistica del duo Azerbaijan-Turchia, che quelle di un Membro del Gruppo Interparlamentare per l’amicizia dell’Azerbaijan di cui Lei fa parte. In effetti… stupisce, rattrista, preoccupa.

Signora Papatheu…

  1. Lei che è nata in un Paese democratico come l’Italia, Lei Senatrice che rappresenta un partito di centro e moderato come Forza Italia, davvero pensa che dando, o contribuendo a dare, credibilità alle mire dittatoriali e filo-genocide dell’Azerbaijan e della famiglia Aliyev… sarebbe in linea con i princìpi e valori dell’umana convivenza democratica quali rispetto, verità e giustizia?
  2. Davvero Lei non considera il rischio elevatissimo che questi Suoi appelli altro non faranno che legittimare la dittatura di Ilham Aliyev e le sue mire di eradicazione del popolo Armeno in buona compagnia con Racep Tayyip Erdoğan, fornendo inoltre informazioni errate e distorte ai Suoi elettori?
  3. Le Sue insinuazioni sulle “provocazioni armene” stupiscono ancor di più, visto e considerato il Suo delicato ruolo di vicepresidente della Commissione Cultura all’interno della delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare dell’Iniziativa Centro Europea. Ai miei tempi storia e cultura andavano a braccetto: conoscere la Storia faceva parte integrante della cultura. Forse oggi non più? Faccio fatica a crederlo…

Le allego qui, sotto la mia firma, una serie di links dove potrà trovare molte altre informazioni sulle questioni Armena e del Nagorno-Karabakh.

Temo, purtroppo, che Lei non avrà il tempo e la pazienza di leggere questa, e nemmeno i contenuti degli articoli allegati.

Se invece lo farà, avrà certamente modo di cogliere meglio “l’assordante silenzio” con cui noi europei, unitamente agli americani, da oltre un secolo ignoriamo la tragedia del primo popolo cristiano del pianeta.

Grazie dell’attenzione e cordiali saluti

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Nagorno_Karabakh

https://www.bbc.com/news/world-europe-54324772

https://www.tempi.it/i-turchi-uccidono-gli-armeni-e-leuropa-si-volta-di-nuovo-dallaltra-parte/

https://www.tempi.it/a-baku-ce-perfino-un-parco-dei-trofei-dove-si-coltiva-lodio-verso-gli-armeni/

https://lanuovabq.it/it/perche-turchi-e-azeri-attaccano-il-nagorno-karabakh-armeno

https://www.firstonline.info/armenia-su-nagorno-karabakh-azeri-e-turchi-caccino-i-terroristi/

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Patriarca armeno: superare gli ‘egoismi’ per una vera unità dei cristiani (Asianews 18.01.22)

Inaugurata a Beirut la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Nel suo intervento il primate ha attaccato le divisioni che ancora permangono nella Chiesa. Si viene a perdere il vero significato del sacrificio della croce. Lavorare per l’unità, non “trascinare gli altri verso i propri principi”.

Beirut (AsiaNews/LOJ) – L’ecumenismo è l’atto di redenzione di una precedente rottura. Esso non esiste altro che per rispondere alla preghiera sacerdotale di Cristo: “Che tutti siano uno”, e svanire. Il tema delicato dell’unità della Chiesa si presta spesso a discorsi educati alla cortesia formale. Ma non è questo il caso e il tono scelto dal patriarca armeno-cattolico Raphaël Bedros XXI Minassian per affrontare, ieri sera, la questione in occasione dell’apertura della Settimana di preghiera nella cattedrale dei santi Elia e Gregorio a piazza Debbas, a Beirut.

Rivolgendosi con parole pacate, ma ferme, ai patriarchi e ai capi delle Chiese riunite per l’occasione, presente anche il nunzio apostolico in Libano e il patriarca maronita, il patriarca Minassian non ha esitato a mettere il dito sulla piaga, affermando che le divisioni sono proprie dell’uomo, e che la via maestra per risolvere una volta per tutte la questione è quella di mettere fine a tutti “gli egoismi individuali e collettivi”.

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani si tiene ogni anno dal 18 al 24 gennaio. In tutte le chiese del Libano e del mondo, questi otto giorni sono caratterizzati da meditazioni quotidiane che i fedeli presenti alla messa possono seguire in un libretto messo a loro disposizione dal Consiglio delle Chiese del Medio oriente (Cemo).

Quest’anno le meditazioni sono state affidate dal Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani al Cemo, che ha sede a Beirut. Il loro tema è tratto dalle parole pronunciate dai re magi al loro arrivo a Gerusalemme e riportate dal Vangelo secondo Matteo: “Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo”. Al centro di queste riflessioni, la situazione assai difficile dei cristiani oggi in Oriente e l’urgenza di lavorare per l’unità. È stato il capo della Chiesa armena cattolica, ospite della cerimonia, a pronunciare l’esortazione centrale.

Dei “gesti che non corrispondono alle buone intenzioni”

Lontano dalle formule edulcorate delle meditazioni tradizionali, il patriarca Minassian ha ricordato ai suoi pari che “le Chiese continuano a subire divisioni che le hanno fatte a pezzi in passato” a causa degli “egoismi individuali e collettivi” mostrati dagli uomini di Chiesa e dalle gerarchie religiose. Egli ha poi affermato che “le loro azioni non corrispondono alle buone intenzioni” e “non colgono il vero significato” del sacrificio della Croce.

Denunciando una delle “architravi” dell’ecumenismo, che consiste nel “lavorare per l’unità, ma con lo scopo di trascinare gli altri verso i propri principi”, il capo della Chiesa armeno-cattolica non ha esitato a paragonare le Chiese ai soldati romani che, ai piedi della Croce, si sono divisi le vesti di Gesù.

Affrontando il delicato argomento della presenza reale di Cristo nell’eucaristia, sotto la forma del pane e del vino, egli si è mostrato meravigliato del fatto che “il cattolico rifiuti la comunione con gli ortodossi e gli ortodossi rifiutino la comunione con i cattolici”. “Ma il Cristo cattolico è diverso dal Cristo ortodosso – si interroga il patriarca Minassian – o il sacramento del battesimo è diverso nell’uno rispetto all’altro?”. Siamo ben consapevoli, prosegue, che tutti i sacramenti della Chiesa sono stati stabiliti direttamente da Cristo, quindi “dove sta la controversia? La questione non è forse tutta umana, inghiottita dall’egoismo settario, lontana da qualsiasi principio spirituale e cristiano?”.

Per alcuni ambienti ecclesiastici, non vi è dubbio che il messaggio formulato in modo così diretto dal patriarca degli armeni cattolici si riferisce alle “opacità” e agli “errori” a cui il papa ha fatto riferimento nel suo discorso ai patriarchi e ai capi delle Chiese orientali riuniti la scorsa estate in Vaticano (primo luglio). Il pontefice ha detto: “In questo frangente buio abbiamo cercato insieme di orientarci alla luce di Dio. E alla sua luce abbiamo visto anzitutto le nostre opacità: gli sbagli commessi quando non abbiamo testimoniato il Vangelo con coerenza e fino in fondo, le occasioni perse sulla via della fraternità, della riconciliazione e della piena unità. Di questo chiediamo perdono”. In quel caso il papa aveva parlato a nome di tutti. Forse è giunto il tempo che le Chiese orientali parlino ciascuna per conto proprio?

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Post Patto di Varsavia: i doppi standard dell’OTSC (Osservatorio Balcani E Caucaso 18.01.22)

L’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), che dal 1992 sostituisce di fatto il Patto di Varsavia e alla quale aderiscono sei stati membri, ha avuto comportamenti del tutto differenti riguardo la recente situazione in Kazakhstan e nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan. Un’analisi

18/01/2022 –  Marilisa Lorusso

Le drammatiche proteste in Kazakhstan  hanno preso avvio il 2 gennaio a Zhanaozen, città che era già stata teatro di rivendicazioni di aumento salariale per i lavoratori del ricco settore nazionale degli idrocarburi. Sono state scatenate dal quasi raddoppio del prezzo del carburante e sono presto diventate di portata nazionale. Le rivendicazioni economiche sono rapidamente evolute in politiche. Nel paese vige una totale mancanza di meccanismi di alternanza al potere, con un establishment che si è protratto dai tempi sovietici. E oltre che politiche le proteste sono diventate anche violente, con la messa a ferro e fuoco di edifici governativi.

Il governo non ha riconosciuto i moti come di matrice interna, classificandoli come il prodotto di terrorismo internazionale, e per questo il 5 gennaio ha chiamato in causa l’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC). Il Trattato è del 1992 e sostituisce di fatto il Patto di Varsavia, l’organizzazione militare dell’ex blocco sovietico. Si è strutturato in organizzazione nel 2002 e rispetto al Patto di Varsavia è in versione molto ridotta, con solo 6 stati membri cioè Russia, Bielorussia, Armenia e i tre paesi asiatici di Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan. In 30 anni l’Organizzazione non era mai stata operativa nonostante i precedenti disordini del 2010 in Kirghizistan, gli scontri al confine fra Afghanistan e Tagikistan nel 2015, ma soprattutto la guerra armeno-azera nel 2020 e gli scontri transfrontalieri armeno-azeri nel 2021.

Come la NATO la OTSC ha funzione difensiva in caso di attacchi da parte di stati non membri e quindi non per redimere questioni di ordine pubblico o sicurezza interni agli stati membri. Ma – come il Patto di Varsavia a suo tempo – per il momento la OTSC è stata dispiegata solo una volta (il Patto a Praga nel 1968), adesso in Kazakhstan, e con funzione non di difesa militare per un attacco di un paese terzo ma di polizia all’interno di un paese membro.

L’Armenia e la OTSC

L’Armenia è l’unico dei paesi caucasici a fare parte dell’organizzazione, dopo il ritiro nel 1999 di Georgia e Azerbaijan. Con la salita al governo di Pashinyan i rapporti fra l’OTSC e l’Armenia hanno conosciuto un minimo storico. Nel 2018 il Segretario Generale dell’OTSC, l’armeno Yuri Khachaturov, è finito sotto processo quando a Yerevan il nuovo governo investigava sulle repressioni post elettorali  del 2008, decapitando di fatto la OTSC. Ne sono emerse frizioni con Mosca e con l’Organizzazione.

La OTSC è rimasta inattiva durante gli scontri del 2016 e anzi, proprio il Kazakhstan aveva rifiutato di tenere un incontro dell’organizzazione a Yerevan quell’anno perché il paese era ritenuto “poco sicuro”. Di nuovo, nel pieno dei combattimenti, a ottobre 2020, Pashinyan aveva messo nero su bianco a Putin che i combattimenti riguardavano l’Armenia de jure, non solo il Karabakh, e che era quindi competenza della OTSC di intervenire. La risposta è invece arrivata dal ministero degli Esteri russo che aveva ricordato l’accordo russo-armeno del ’97 di mutua collaborazione e protezione, in caso di necessità. Insomma, per l’Armenia la OTSC non c’è stata, né nel pieno della guerra, né dopo, quando sono cominciate le rivendicazioni territoriali transfrontaliere per la mancata delimitazione e demarcazione del confine con l’Azerbaijan.

A luglio 2021 lo scontro verbale fra l’Armenia e il segretario della OTSC, il bielorusso generale Stanislav Zas, è stato evidente: mentre gli scambi di fuoco lasciavano (come lasciano tuttora) nuovi morti sul terreno, questo ultimo ha negato che ci fossero conflitti transfrontalieri. Gli ha risposto pubblicamente  il Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale armeno Armen Grigoryan invitandolo in sostanza a non dire sciocchezze e venire in Armenia a rendersi conto della situazione. A settembre finalmente Zas si è recato in Armenia, ma alla seguente riunione dei ministri degli Esteri e della Difesa quel mese a Dušanbe mancavano i due rappresentanti armeni perché, questa la motivazione ufficiale, si era rotto l’aereo…

Il dispiegamento

In un momento quindi non splendido nei rapporti OTSC-Armenia, la sorte ha voluto che sia toccato proprio a Nikol Pashinyan annunciare le consultazioni per il primo, storico, dispiegamento di forze dell’Organizzazione in base all’articolo 4 del trattato che recita: “In caso di aggressione (attacco armato che minacci la sicurezza, la stabilità, l’integrità territoriale e la sovranità) contro qualsiasi stato membro, tutti gli altri stati membri, su richiesta di tale stato membro, forniscono immediatamente a quest’ultimo l’aiuto necessario, anche militare”.

Da gennaio la presidenza a rotazione dell’Organizzazione è armena, per cui è stata incaricata Yerevan di coordinare gli incontri politici. Il dispiegamento pratico invece è stato organizzato e amministrato da Mosca. La sera del 7 gennaio Pashinyan ha firmato per mandare in Kazakhstan un centinaio di peacekeepers armeni, parte del contingente di oltre 3000 uomini.

Tutti i paesi che hanno partecipato a questa prima missione dell’Organizzazione hanno sottolineato che il ruolo dei propri uomini sarebbe stato quello di presidiare le infrastrutture. La questione è delicata: in Kazakhstan vivono numerose minoranze, e fare parte del contingente che contribuisce a una repressione – invocata dal presidente kazako Tokajev come feroce – rischia di esporre le minoranze locali a rischi, di innescare scontri interetnici. Sono circa 25.000 i cittadini kazakhi di origini armene, per cui Yerevan ha ricusato – come le altre capitali dell’OTSC – un ruolo di repressore delle proteste.

La missione è durata circa una settimana, e mentre le forze dell’OTSC si ritiravano via Mosca (a parte i kirghisi per prossimità fisica), e divampava il dibattito fra gli analisti sull’importanza di questa prima operazione dell’Organizzazione, a Yerevan si cercava di mandare giù il retrogusto amaro di aver dovuto fare per altri quello che non è stato fatto per il paese. ll Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale Grigoryan ha commentato  : “Non dobbiamo comportarci come un ragazzino offeso… confidiamo che in futuro, si dovesse trovare in una situazione da aver bisogno di aiuto l’Armenia, lo riceverà”.

Il quadro è stato molto chiaro, e la differenza di priorità, supporto politico e militare, del coinvolgimento dei vertici dell’Organizzazione – con Zas che si è recato immediatamente in Kazakhstan – è spiccata agli occhi di tutti. L’ironia della sorte ha spinto in prima fila nelle operazioni proprio la negletta Armenia. Decisamente un rospo difficile da digerire.

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Emmanuel Tjeknavorian, a 26 anni il concerto d’addio al violino: «D’ora in poi voglio solo dirigere»

Austriaco con origini armene, è figlio d’arte. Il padre Loris, compositore e direttore d’orchestra, da otto anni gli insegna la direzione

Se il passaporto dice che è austriaco, i tratti del volto, forti e bruni, svelano un’identità armena. Radici diverse che s’intrecciano felicemente in Emmanuel Tjeknavorian, giovane talento del violino, nato a Vienna 26 anni fa da una famiglia di musicisti. Suo padre Loris Haykasi Tjeknavorian, compositore e direttore d’orchestra iraniano-armeno ha guidato per molti anni l’Armenian Philharmonic Orchestra, la madre pianista professionista.

«E così, a due anni già mi agitavo su un palco cercando di imitare i gesti di mio padre, a cinque, dopo che si era rotto il mio violino giocattolo, chiesi ai miei di regalarmene uno vero, a sette debutto in pubblico accompagnato al piano da mia madre. E a 20 il premio Sibelius», riassume Emmanuel, martedì 18 al Conservatorio per la Società del Quartetto con pagine di Mozart, Poulenc, Čajkovskij e Schumann da interpretare in duo con il pianista Maximilian Kromer, suo connazionale e coetaneo.

Siete anche amici?
«Ci conosciamo da quando eravamo adolescenti. Siamo diventati subito amici dentro e fuori scena. Suoniamo insieme dal 2014 e ogni volta ritrovarsi è una festa. Fare musica è fantastico, con un amico anche di più».

Inseparabile anche il legame con il suo violino, uno Stradivari «Cremona» 1698. Che rapporto si è stabilito con questo vecchissimo amico?
«Emozionante. Uno strumento versatile, sorprendente, suonarlo per me è una grande gioia e una grande responsabilità. A volte mi scopro a pensare che lui è venuto al mondo così tanto tempo fa, prima ancora di Mozart e di Beethoven. Eppure, quando entro in una sala di oggi e lo abbraccio, lui inizia a suonare con l’energia e la freschezza di un giovanotto!».

Raggiungere il successo così presto le ha comportato delle rinunce?
«Se si ama la musica profondamente come la amo io, nessuna rinuncia. Solo felicità».

Ama altri tipi di musica?
«Rispetto tutti i generi, ma per essere del tutto onesto, è solo la classica che amo».

Altre passioni oltre la musica?
«Il calcio. Ho giocato tutti i giorni fino a 19 anni. Adesso non più ma continuo a tifare per la mia squadra del cuore, il Real Madrid».

Lei è nato in occidente ma la storia della sua famiglia è nell’Armenia. Quanto contano per lei quelle radici?
«Moltissimo. Non conosco l’armeno ma i miei sentimenti verso quella terra e il suo popolo sono molto forti, difficili da esprimere. I miei nonni vengono da lì, il nonno dall’Armeni orientale, la nonna da quella occidentale, fuggiti al genocidio del 1915. Loro non erano musicisti ma spinsero tutti i loro figli a imparare uno strumento. Mio padre Loris scelse il violino. Aveva otto anni».

Lo stesso suo strumento.
«Mio padre è stato determinante nella mia formazione. Sotto la sua guida da otto anni studio direzione d’orchestra. Una doppia attività, podio e violino, molto stimolante. Ti consente di approfondire le partiture con il tuo strumento, e di stabilire maggiore sintonia con gli archi, che sono di gran lunga la sezione più ampia in un’orchestra».

Si è già cimentato come direttore?
«Ho debuttato con i Münchner Symphoniker e con la Camerata Salzburg. E tra poco inizierò a dirigere delle opere liriche».

E il violino? Continuerà a suonarlo?
«La mia doppia carriera terminerà a settembre. Intendo dedicarmi totalmente al podio, mentre come violinista terrò solo qualche apparizione speciale. La mia seconda vita inizia quest’anno».

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Armenia – Tempio di Garni fra le meraviglie dell’antichità (Assadakah 17.01.22)

Assadakah Yerevan – La rivista online belga “Le Vif Weekend” ha pubblicato l’elenco dei migliori monumenti architettonici relativi al patrimonio del periodo romano antico (754/753 a.C. – 476 d.C.).

Il Tempio Armeno di Garni è incluso nella lista dei primi 51 monumenti più belli. È il 37° della lista. Il Tempio di Garni è l’unico edificio colonnato greco-romano in piedi in Armenia e nell’ex Unione Sovietica. Costruita in ordine ionico nel villaggio di Garni, nell’Armenia centrale, è la struttura più nota e simbolo dell’Armenia precristiana. La struttura fu costruita dal re Tiridate I nel I secolo d.C. come tempio del dio del sole Mihr.

Il Colosseo di Roma è in cima alla lista dei monumenti più belli del mondo. Il Colosseo è un anfiteatro ovale nel centro della città di Roma, in Italia, appena ad est del Foro Romano. È il più grande anfiteatro antico mai costruito ed è ancora oggi il più grande anfiteatro permanente del mondo, nonostante la sua età.

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La Turchia prepara improvvisamente panini dolci con tutti i suoi vicini, anche con l’Armenia (Qwertymag.it 17.01.22)

Definito l’ordine del giorno del prossimo incontro: non c’erano altri risultati in vista per il primo incontro tra i rappresentanti ufficiali di Turchia e Armenia, svoltosi venerdì a Mosca. Tuttavia, è stato un incontro storico dopo tre decenni di animosità. I due Paesi affermano di puntare a “normalizzare le relazioni”.

Il riavvicinamento è anche la millesima trasformazione consecutiva nella politica estera del governo turco. Un anno e mezzo fa, la Turchia ha avuto conflitti con quasi tutti i paesi della regione, dall’Egitto all’Arabia Saudita e da Israele all’Iraq. All’inizio dello scorso anno, Ankara si è resa conto che non era più così. Da allora, la Turchia ha calmato i disaccordi uno per uno.

L’Armenia ora può essere sospesa. I due paesi hanno nominato inviati per porre fine alla freddezza nelle relazioni. L’alto diplomatico turco Serdar Kılıç e il vicepresidente del parlamento armeno Rubin Rubinyan hanno iniziato venerdì. Le due parti hanno affermato che i colloqui si sono svolti in un “atmosfera positiva e costruttiva”.

Genocidio armeno

I paesi vicini sono in disaccordo da quasi trent’anni. La Turchia si è affrettata a riconoscere il nuovo stato dell’Armenia dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, ma le relazioni diplomatiche non sono mai state raggiunte. Nel 1993 scoppiò una guerra tra Armenia e Azerbaigian sulla regione del Nagorno-Karabakh e la Turchia si schierò con l’Azerbaigian. Gli azeri appartengono ai popoli turchi. Il confine tra Armenia e Turchia è stato chiuso, il commercio interrotto.

La Turchia si è dimostrata ancora una volta un alleato dell’Azerbaigian quando si è scontrata di nuovo con l’Armenia sul Nagorno-Karabakh nel 2020. Grazie all’aiuto dell’esercito turco, che ha schierato molti droni, gli azeri hanno vinto. Hanno riconquistato gran parte dell’area contesa.

Un uomo trasporta oggetti dalla sua casa in Azerbaigian che è stata distrutta dai bombardamenti armeni. La Turchia è stata al fianco dell’Azerbaigian negli scontri armeno-azerbaigiani del 2020 intorno alla regione assediata del Nagorno-Karabakh.immagine AP

Sebbene turchi e armeni abbiano deciso di lasciarsi alle spalle questo incidente, le relazioni tra i due paesi sono sospese su uno shock molto più grande: il trauma del genocidio armeno del 1915. Le due parti non saranno mai d’accordo sulla sua datazione. Anche il termine “genocidio” è tabù per i turchi.

Tuttavia, ciò non impedisce ai due governi di compiere passi concreti. Alla fine dell’anno scorso è stato annunciato che il traffico aereo tra Yerevan e Istanbul sarebbe ripreso a febbraio dopo una pausa di tre decenni. L’Armenia afferma di aspettarsi di aprire le frontiere terrestri e di stabilire relazioni diplomatiche.

Litigio sui profughi

Le parole “scioglimento” e “normalizzazione” sono diventate di recente parole chiave nella politica estera di Ankara. Il governo del presidente Recep Tayyip Erdogan ha fatto molta strada in questo senso. Una volta, fino a una decina di anni fa, la strategia ufficiale era “zero problemi” con i vicini, ma si è rivelato il contrario.

Il livello più basso è stato raggiunto nel 2020. Con una serie di paesi arabi (Arabia Saudita, Egitto, Siria, Emirati Arabi Uniti), la Turchia è in disaccordo. Nel Mediterraneo, la marina turca è in massima allerta a causa del conflitto con Grecia e Cipro per le scoperte di gas. Le relazioni con l’Unione Europea sono state peggiori che mai dopo che Erdogan ha minacciato di aprire le “porte dell’Europa” a 4 milioni di profughi siriani. La Turchia ha discusso con gli Stati Uniti per l’acquisto di un sistema di difesa antiaerea russo.

Ma ora Erdogan ha dato un ruolo importante al volante. I panini dolci vengono sfornati di nuovo con tutti. C’è un dialogo costruttivo con Egitto, Grecia e Israele, e tutto questo è positivo con gli Emirati, che in precedenza erano stati danneggiati. L’analista politico Talha Kos ha dichiarato nella sua colonna sul quotidiano filogovernativo: Mattinata quotidiana Una svolta in politica estera.

Il mese prossimo, Erdogan farà il prossimo grande passo. Si reca poi in visita ufficiale in Arabia Saudita, casa del giornalista Jamal Khashoggi, smembrato nell’ottobre 2018 presso il consolato saudita a Istanbul – con rabbia dei turchi – da una squadra speciale. Domanda più scottante: Erdogan stringerà la mano al principe ereditario Mohammed bin Salman a Riyadh, l’uomo che probabilmente ha ordinato l’assassinio?

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Raphael Bedros XXI apre la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani a Beirut (Vaticanews 16.01.22)

Il patriarca di Cilicia dei cattolici armeni Raphael Bedros XXI Minassian richiama la preghiera che ogni cristiano recita nel Sacramento della Penitenza nell’aprire a Beirut in Libano la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. “Quando ricorriamo alla confessione, diciamo: ‘Perdonami, Padre, perché ho peccato nei pensieri, nelle parole, nelle opere e nelle omissioni”, ricorda il patriarca nella cattedrale armeno-cattolica di Sant’Elia e San Gregorio Illuminatore, sottolineando che spesso, proprio a proposito di unità, le intenzioni e le parole non corrispondono alle azioni e pur desiderando l’unità, non se ne comprende pienamente il vero significato. “Siamo dispersi sulla terra, e siamo caduti nel tumulto dell’egoismo individuale e collettivo e – aggiunge – abbiamo dimenticato il nostro Redentore. Abbiamo analizzato e spiegato il mistero della Redenzione secondo la nostra volontà e il nostro concetto personale, ma abbiamo dimenticato il suo scopo, che è la salvezza”.

La luce di Betlemme

In molti ci si è impegnati duramente e insistentemente per l’unità, osserva Raphael Bedros XXI, talvolta però con l’obiettivo di avvicinare gli altri ai propri principi. “Come fecero i soldati romani sotto la croce per la veste di Gesù, così anche noi litighiamo per l’abito di Cristo”, afferma il patriarca Minassian. Cristo, prosegue, “non è nato e non è stato crocifisso per un certo gruppo, per una élite, ma per tutte le nazioni, per la salvezza di tutta l’umanità”. Per Raphael Bedros XXI è alla luce di Betlemme che occorre guardare, alle origini dell’annuncio della salvezza ai pastori, ai Magi e giunto “fino a noi, battezzati e confermati nell’appartenenza a Cristo Salvatore, il Cristo che nasce ogni giorno e in ogni chiesa nel mistero dell’Eucaristia”, che è “lo stesso in tutti i riti e in tutte le Chiese”.

L’arma della preghiera contro le divisioni

Di fronte alle divisioni, per il patriarca di Cilicia dei armeni, è necessario tornare “all’arma della preghiera”. “Quella preghiera che si recita insieme e si completa con le azioni. Quella preghiera – prosegue Raphael Bedros XXI – che porta a dirci l’un l’altro che non c’è disaccordo nel sacramento del Battesimo, non c’è disaccordo nel sacramento dell’Eucaristia, non c’è disaccordo nel pregare insieme in tutte le Chiese, cattoliche e ortodosse, e anche in tutte le altre Chiese”. Il patriarca Minassian rimarca poi che, se è vero che ogni Chiesa ha la sua tradizione ed eredità, “tutti insieme siamo parte di una bella sinfonia armoniosa che deve glorificare il Creatore” e che è doveroso “iniziare una nuova vita rafforzata dall’amore e dalla solidarietà, tenendo lontani i turbamenti e le ragioni che ci separano gli uni dagli altri, e dal nostro Salvatore, che ha dato la vita per noi, ma è rimasto e rimane nel mistero dell’Eucaristia”. E se ci sono cattolici che rifiutano la comunione con gli ortodossi e ortodossi che rifiutano la comunione con i cattolici, il Cristo cattolico non è diverso dal Cristo ortodosso, così come non è diverso il sacramento del Battesimo, poiché tutti i sacramenti nella Chiesa sono stati stabiliti direttamente da Cristo. Le dispute sono dunque umane, causate da egoismo e settarismo e lontane da ogni principio spirituale e cristiano, conclude il Patriarca di cilicia degli armeni, che auspica una via verso l’unità fra cristiani senza condizioni né restrizioni.

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TURCHIA. Iniziati a Mosca i colloqui Ankara-Yerevan (Agcnews 15.01.22)

I colloqui tra Turchia e Armenia sono iniziati il 14 gennaio a Mosca e sono considerati molto importanti non solo per i legami commerciali regionali, ma anche per la prospettiva di pace nel Caucaso.

Non ci sono state relazioni diplomatiche tra i due paesi dal 1993 dopo la vittoria dell’Armenia sull’Azerbaijan nella prima guerra del Nagorno-Karabakh.

La Turchia si considera una “nazione sorella” dell’Azerbaigian e sostiene fermamente la politica di Baku di riprendere i territori sotto occupazione etnica armena. Durante la seconda guerra del Nagorno-Karabakh del 2020, Ankara ha sostenuto l’Azerbaigian, e i droni armati turchi si sono rivelati decisivi per la vittoria azera.

Armenia e Turchia divise sull’uccisione nel 1915 di 1,5 milioni di armeni da parte dell’Impero Ottomano.

L’incontro di Mosca arriva come parte di una rinnovata iniziativa internazionale per normalizzare i legami nella regione, mentre la Russia e altri attori stranieri spingono per l’apertura di collegamenti di transito. A dicembre, Mosca ha ospitato la riunione inaugurale di una piattaforma di pace a sei vie per il Caucaso meridionale, proposta da Turchia e Azerbaigian dopo il conflitto del Nagorno-Karabakh. La piattaforma comprende Iran, Armenia, Turchia, Azerbaijan, Georgia e Russia, anche se la Georgia ha rifiutato di partecipare.

Ankara, che non ha legami diplomatici con l’Armenia, ha detto che la piattaforma 3+3 può aiutare a normalizzare i suoi legami con Yerevan.

Ci sono già stati alcuni segnali promettenti. Il primo gennaio, l’Armenia ha revocato il divieto di importazione di prodotti turchi. FlyOne Armenia e la turca Pegasus Airlines hanno anche recentemente ricevuto il permesso da entrambi i paesi di operare voli charter Yerevan-Istanbul.

Per l’Armenia, avere una frontiera aperta con la Turchia sarebbe certamente un grande vantaggio per il paese. Spezzerebbe la sua dipendenza dai due brevi confini aperti che ha con la Georgia a nord e l’Iran a sud e fornirebbe un ulteriore accesso affidabile al Mar Nero. L’isolamento geopolitico del paese sarebbe in qualche modo attenuato, così come forse la sua dipendenza dalla Russia.

Tuttavia, l’ostacolo principale ai colloqui Turchia-Armenia rimane il ruolo dell’Azerbaigian.

In un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais a dicembre, il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha detto: «L’unico modo per lo sviluppo dell’Armenia è normalizzare le relazioni con l’Azerbaigian, normalizzare le relazioni con la Turchia, fare passi importanti per convincere le persone ad essere vicini, ad essere vicini normali, a non essere nemici, e ad evitare rivendicazioni territoriali».

La Turchia ha segnalato negli ultimi mesi che coordinerà strettamente la sua posizione durante i colloqui di normalizzazione con quella dell’Azerbaigian, riporta BneIntellinews.

«Ci consultiamo con l’Azerbaigian su ogni questione e prendiamo tali misure come concordato (…) Nessuno dovrebbe chiedersi se possiamo agire indipendentemente o separatamente dall’Azerbaigian. Siamo una nazione, due stati. Queste sono cose positive che andranno a beneficio di tutti noi», ha detto il mese scorso il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu.

La linea dell’Armenia negli ultimi tre decenni è stata quella di essere aperta alla “normalizzazione senza precondizioni” con la Turchia, una posizione ribadita ripetutamente dall’attuale primo Ministro Nikol Pashinyan.

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TURCHIA-ARMENIA/ “Genocidio e corridoio, i ricatti che rendono la pace impossibile” (Ilsussidiario 15.01.22)

Una delegazione turca e una armena si sono date appuntamento a Mosca, con il patrocinio della Russia, per porre le basi della riconciliazione tra i due paesi e la conseguente riapertura delle frontiere. Un incontro già definito storico, vista la secolare inimicizia tra i due popoli, dovuta al genocidio armeno attuato dall’allora Impero ottomano nel 1915. La Turchia non lo ha mai riconosciuto, sebbene esistano innumerevoli documenti storici, testimonianze e fotografie che inchiodano Ankara alle sue responsabilità. Ma non è solo quella tragedia a rendere difficilissima la stesura di una road map che porti alla normalizzazione dei rapporti.

Pietro Kuciukianconsole onorario armeno in Italia, ci ha detto che “un punto importante su cui esistono precondizioni difficili da superare è la richiesta turca di aprire un corridoio senza controllo armeno sul territorio di Erevan, così da collegare la Turchia al suo alleato nel Caucaso, l’Azerbaijan. Una richiesta che viola ogni principio internazionale di rispetto dei confini”.

L’incontro a Mosca fra turchi e armeni viene definito storico. Che previsioni si sente di fare? Quanto pesa il Cremlino in tutto questo?

Mosca ci tiene che finalmente si metta fine alla chiusura delle frontiere tra i due paesi, ma le cose non sono così semplici come si potrebbe pensare. Un tentativo era già stato fatto circa dieci anni fa con l’intervento di Hillary Clinton, un tentativo che dichiarava come nelle clausole dell’accordo non dovessero esserci precondizioni.

Cosa successe allora?

Ci fu una nottata terribile con la Clinton che correva da una parte all’altra per riuscire a convincerli. Alla fine i turchi, sollecitati dall’Azerbaijan, posero una precondizione per l’apertura delle frontiere: il riconoscimento del Nagorno-Karabakh come parte integrante dell’Azerbaijan. L’Armenia ovviamente si oppose e saltò tutto.

Cosa può far sì che questa volta l’accordo non salti?

Adesso con la sconfitta dell’Armenia nella guerra di due anni fa e la vittoria degli azeri le cose sono ovviamente cambiate. Il Nagorno è passato quasi tutto in mano azera, resta solo una piccola isola ancora armena, controllata dai peacekeeper russi. Visto che questa precondizione non c’era più, ecco che si è arrivati a questo incontro.

Quindi lei pensa sia possibile arrivare quanto meno a iniziare un percorso di dialogo?

Purtroppo ci sono voci insistenti su altre precondizioni avanzate dalla Turchia.

Quali?

Vogliono che venga aperto un corridoio che attraversa l’Armenia e congiunga la Turchia con l’Azerbaijan. Sarà un ostacolo ritengo insormontabile. I turchi usano sempre il sistema del bastone e della carota. Neanche i russi sono favorevoli a una cosa del genere, è contro ogni principio internazionale. Se attraversi un paese, è ovvio che il controllo deve essere del paese che viene attraversato. I turchi e gli azeri vorrebbero passare senza controlli. È un nodo difficilmente risolvibile.

C’è poi la questione del genocidio armeno: i turchi potranno mai riconoscerlo?

È un altro ricatto turco, vorrebbero che si definisse “il non avvenuto genocidio”. Gli armeni non potranno mai accettarlo.

Eppure nel 2005 Erdogan promise all’allora presidente armeno di istituire una commissione, aprendo gli archivi ottomani, per fare luce definitiva sul fatto. Come mai l’Armenia rifiutò?

Gli archivi ottomani sono sempre stati chiusi, è una bufala, aprono quello che vogliono loro. La documentazione è stata nascosta, molte cose anche distrutte. Dire così è un modo per far pressione, anche perché parte di questi archivi è conservata a Gerusalemme. Recentemente è stato pubblicato un libro che raccoglie tutte le fonti segrete attraverso le quali si impartivano gli ordini per il genocidio. Dire “aprire gli archivi ottomani” non significa nulla e la dimostrazione è sotto gli occhi di tutto il mondo. 

Il patriarca armeno di Costantinopoli, Sahak Mashalian, tempo fa si era detto “rattristato” del fatto che l’amministrazione Biden volesse riconoscere ufficialmente il genocidio. Come mai?

Lui vive in Turchia e deve stare attentissimo a ogni parola che dice. C’è poi un precedente molto importante. Un giornalista turco di origine armena che cercava sempre la riconciliazione e che poi è stato assassinato sulla porta del giornale che dirigeva, diceva sempre: “Io qui in Turchia dico che c’è stato il genocidio, ma se vado in Francia dico che non c’è stato”.

Cosa intendeva con quelle parole?

Che nessuno deve tirare questa tragedia immane da una parte politica o dall’altra. Non bisogna approfittarne dal punto di vista politico, non bisogna strumentalizzarla. Quello che noi armeni chiediamo è rispetto per il nostro popolo massacrato.

(Paolo Vites)

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Il Festival delle memorie a Ferrara estende gli orizzonti della riflessione a genocidi che hanno segnato la storia recente dell’umanità: di Armeni, Tutsi, Curdi, Sinti, Rom e Ebrei (Korazym 15.01.22)

In occasione del Giorno della Memoria 2022 [1] a Ferrara si svolgerà una settimana di incontri, approfondimenti, spettacoli, concerti, promossi dalla Fondazione del Teatro Comunale di Ferrara. Il Festival delle memorie è dedicato al ricordo dell’immane tragedia della Shoah, con uno sguardo nuovo e inedito, che estende gli orizzonti della riflessione ad altri genocidi, che hanno segnato la storia recente dell’umanità: degli Armeni, dei Tutsi e dei Curdi, dello sterminio nazista di Sinti, Rom e Ebrei.

Il programma del Festival delle memorie di Ferrara si articola in sei giornate che si svolgono nel Teatro Comunale C. Abbado in corso Martiri della Libertà 5. Per ogni Memoria è previsto un incontro pomeridiano al Ridotto del Teatro alle ore 17.30 e uno spettacolo o concerto serale nella Sala Teatrale alle ore 20.30. Tutte le conferenze al Ridotto saranno introdotte e coordinate dal Prof. Franco Cardini.

«Il primo anno del nuovo millennio ha conosciuto l’istituzione di una giornata della memoria con l’intento di ricordare i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti sulla base di un preciso progetto pianificato tecnicamente con l’intento di cancellare l’esistenza fisica di tutta la popolazione ebraica dalla terra d’Europa. Il progredire della cultura della memoria ha determinato un allargarsi dell’orizzonte di indagine. Persone e altre genti di popoli che avevano subito stermini delle proporzioni di un genocidio, o di stragi di massa si sono affacciati al tribunale delle nazioni per chiedere giustizia e memoria riconosciuta per potere ritrovare il cammino della pace che si può aprire solo con il riconoscimento da parte di chi ospitò nel proprio corpo il morbo del crimine. Una parte dell’opinione pubblica ha scoperto che solo limitandosi al secolo breve l’umanità ha conosciuto il genocidio della Namibia, quello Armeno, lo sterminio nazista, le stragi di massa perpetrate dall’esercito imperiale giapponese in Manciuria e in altre aree asiatiche, i crimini staliniani, le stragi e le persecuzioni sistematiche del popolo curdo, il genocidio interno del popolo cambogiano, le stragi della ex Iugoslavia, il genocidio dei Tutsi, le persecuzioni degli Uiguri, dei Rohingia, del popolo Sarawi… Il Festival delle memorie non si fonda su alcuna ideologia, non vuole essere un tribunale, non si erge a giudice; il suo scopo è quello di dare un contributo artistico e culturale ad edificare una memoria universale per promuovere la pace e l’incontro fra le genti» (Moni Ovadia).

Il programma del Festival delle memorie che si terrà dal 25 al 30 gennaio 2022 presso il Teatro Comunale a Ferrara

Martedì 25 gennaio 2022 – Armeni

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza sul genocidio armeno [2] a cura di Franco Cardini con Antonia Arslan e Aldo Ferrari

Ore 20.30 Teatro: concerto di Gevorg Dabaghyan, accompagnato da Grigor Takushian e Kamo Khachatryan

Gevorg Dabaghyan, nato nel 1965 in Armenia, insegna al Conservatorio Statale di Erevan. Dal 1991 ha intrapreso una carriera che lo ha portato a farsi apprezzare a livello internazionale e a collaborare con musicisti come Gidon Kremer, Jan Garbarek e Yo-Yo Ma che lo ha coinvolto nel suo progetto Silk Road (la Via della Seta). Su iniziativa del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena, il Trio Dabaghyan è stato più volte in Italia, ospite ai festival di Musicarmena, al Ravenna Festival, all’Aterforum Festival di Ferrara, alla V Rassegna di Musica Contemporanea Est Ovest 2006 di Torino, al festival promosso dall’Associazione Suoni e Pause di Cagliari, alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia e in molti altri contesti festivalieri.

Nel 2005, il duduk (o dziranapogh in armeno) viene proclamato capolavoro rappresentativo della tradizione musicale armena all’interno del “Programma dei Capolavori del Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità” dell’Unesco, e quindi iscritto nel 2008 all’interno della nuova “Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità”. Il duduk (considerato convenzionalmente come l’oboe armeno) è uno strumento popolare dal timbro caldo, leggermente nasale e dalla sonorità fortemente evocativa, che accompagna i canti e le danze di tutte le regioni dell’Armenia oltre che essere lo strumento privilegiato per i raduni matrimoniali o funerei. Il solista viene di solito accompagnato da un secondo suonatore di duduk che tiene continuamente il bordone grazie ad una tecnica di respirazione circolare e da un suonatore percussionista di dhol.

Gevorg Dabaghyan è il massimo specialista vivente di questo antichissimo strumento e fondatore di varie formazioni tra cui l’Ensemble Shoghaken, votato alla salvaguardia del ricchissimo patrimonio folkloristico armeno. Nel vastissimo repertorio di Dabaghyan ha grande rilievo anche la musica liturgica, parte fondamentale di una tradizione plurimillenaria caratterizzata dalle sue forti radici culturali cristiane, essendo l’Armenia la prima nazione che proclama il cristianesimo come religione di stato nel 301 d.C.

Mercoledì 26 gennaio 2022 – Curdi

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza sul genocidio curdo a cura di Franco Cardini con Luigi Lucchi e Ylmaz Orkan

Ore 20.30 Teatro: concerto della cantante curda Aynour Dogan accompagnata da Caner Malkoc, Jeroen Vierdag, Ediz Enver Nehat e Xavier Torres

Il 16 marzo 2017, la cantante e compositrice Aynur Dogan, nota artista folk e icona culturale del popolo curdo, ha ricevuto il premio nella categoria Mediterranean Women in Action come riconoscimento della sua fedeltà alla tradizione curda. Il contributo di Aynur nel preservare le tradizioni orali popolari curde, interpretando il repertorio tradizionale e fondendolo con altri stili occidentali moderni, ha aperto una nuova strada verso questo stile Mediterraneo.

Nel corso degli anni Aynur Dogan è diventata una dei musicisti turchi più conosciuti e un’icona del popolo curdo. Il suo stile vocale e la sua produzione musicale vengono elogiati non solo dai media del suo paese ma anche dai media internazionali. I suoi album sono tra quelli più venduti del panorama folk curdo.

La musica di Aynur parte dai canti popolari tradizionali curdi, molti dei quali antichi di almeno 300 anni. Tutti i suoi testi parlano della vita e della sofferenza del popolo curdo e in particolare delle donne curde. Musicalmente mira a fondere la musica curda con la musica occidentale, venendo a creare così un proprio stile, interpretando repertorio tradizionale in modo moderno e fresco. Ha collaborato con un grande numero di artisti acclamati tra cui il violoncellista di fama mondiale YO-YO MA e con il Silk Road Ensemble, Kayhan Kalhor, Javier Limon, Kinan Azmeh, Mercan Dede, Salman Gambarov, Nerderland Blazers Ensemble e molti altri. Nel frattempo è apparsa come cantante nel film documentario di Fatih Akın “İstanbul Hatırası / Köprüyü Geçmek-Crossing the bridges” ed è apparsa anche in un film documentario su Yo-Yo Ma e il Silk Road Ensemble intitolato “The music of Strangers” diretto da Morgan Neville nel 2015.

Giovedì 27 gennaio 2022 – Sinti, Rom, Ebrei

Ore 10.00 Teatro: saluti del Prefetto Rinaldo Argentieri, del Sindaco Alan Fabbri e del Rappresentante della Consulta Provinciale degli Studenti – intervento del Prof. Andrea Baravelli

Ore 11.00 Teatro: spettacolo per le scuole Senza confini. Ebrei e Zingari con Moni Ovadia, clarinetto Paolo Rocca, fisarmonica Albert Florian Mihai, cymbalon Marian Serban, contrabbasso Petre Naimol e suono Mauro Pagiaro

Gli Ebrei e il popolo degli “uomini” per secoli hanno condiviso lo stesso destino. Il tratto comune che ha segnato la loro storia spesso tragica per colpa delle nazioni che li tolleravano o li perseguitavano, ma sublime per loro esclusivo merito, è stata la condizione di “altro”. Ebrei e Zingari è un piccolo ma appassionato contributo alla battaglia contro ogni razzismo. Ebrei e Zingari è un recital di canti, musiche, storie Rom, Sinti ed Ebraiche che mettono in risonanza la comune vocazione delle genti in esilio, una vocazione che proviene da tempi remoti e che in tempi più vicino a noi si fa solitaria, si carica di un’assenza che sollecita un ritorno, un’adesione, una passione, una responsabilità urgenti, improcrastinabili. Ebrei e Zingari è un’assunzione di responsabilità, la sua forma si iscrive nella musica e nel teatro civile, arti rappresentative e comunicative che possono e devono scardinare conformismi, meschine ragionevolezze e convenienze nate dalla logica del privilegio per proclamare la non negoziabilità della libertà e della dignità di ogni singolo essere umano e di ogni gente.

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza a cura di Franco Cardini con Moni Ovadia, Marina Montesano e Djana Pavlovich

Ore 20.30 Teatro: spettacolo Senza confini. Ebrei e zingari

Venerdì 28 gennaio 2022 – Tutsi

Ore 17.30 Ridotto del Teatro: conferenza a cura di Franco Cardini con Yolande Mukagasana (rwandese, autrice del libro La morte non mi ha voluta) e Patrizia Paoletti Tangheroni

Ore 20.30 Ridotto del Teatro: proiezione del film Accadde in aprile (Raoul Peck, 2005)

Sabato 29 gennaio 2022 – Ebrei

Ore 12.00 Ridotto del Teatro: incontro a cura di Fabio Levi (Presidente del Centro Studi Internazionale “Primo Levi”) con la compagnia dello spettacolo Se questo è un uomo. Il regista Valter Malosti in dialogo con Carlo Boccadoro (compositore dei Tre madrigali dall’opera poetica di Primo Levi) e Domenico Scarpa (coautore della condensazione scenica dello spettacolo Se questo è un uomo)

Ore 18.00 Ridotto del Teatro: conferenza a cura di Franco Cardini con Moni Ovadia, Vittorio Bendaud, Stefano Levi della Torre

Ore 20.30 Teatro: Se questo è un uomo, spettacolo con Valter Malosti, dall’opera di Primo Levi (pubblicata da Giulio Einaudi editore) in occasione del 100° anniversario dalla nascita di Primo Levi (1919 – 1987). Condensazione scenica a cura di Domenico Scarpa e Valter Malosti, scene Margherita Palli, luci Cesare Accetta, costumi Gianluca Sbicca, progetto sonoro Gup Alcaro.

Tre Madrigali (dall’opera poetica di Primo Levi) Carlo Boccadoro, video Luca Brinchi e Daniele Spanò, in scena Valter Malosti, Lucrezia Forni e Giacomo Zandonà, cura del movimento Alessio Maria Romano, assistente alla regia e suggeritrice Noemi Grasso, assistente alle scene Eleonora Peronetti, assistente al suono Alessio Foglia, scelte musicali Valter Malosti, musiche di Oren Ambarchi, Johann Sebastian Bach, Ludwig Van Beethoven, Cracow Kletzmer Band, Morton Feldman, Alexander Knaifel, Witold Lutoslawski, Oy Division, Arvo Pärt, Franz Schubert e John Zorn. Madrigali eseguiti e registrati dai solisti dell’Erato Choir, soprani Karin Selva e Caterina Iora, contralto Giulia Beatini, tenori Massimo Lombardi e Stefano Gambarino, bassi Cristian Chiggiato e Renato Cadel, direzione musicale Massimo Lombardi e Dario Ribechi, direttore di scena Lorenzo Martinelli, capo macchinista Riccardo Betti, capo elettricista Umberto Camporeschi, fonico Fabio Cinicola/Luca Nasciuti/Sarta Eleonora Terzi, costruzioni sceniche Santinelli, scenografie foto di scena Tommaso Le Pera, illustrazione Pietro Scarnera.

Progetto realizzato in collaborazione con Centro Internazionale di Studi Primo Levi, Comitato Nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di Primo Levi, Polo del ‘900 e Giulio Einaudi Editore. L’attività è realizzata grazie al contributo concesso alla Biblioteca della Fondazione Teatro Comunale dalla Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero della Cultura.

La voce di Primo Levi è la voce che più di ogni altra ha saputo far parlare Auschwitz: la voce che da oltre settant’anni, con Se questo è un uomo, racconta ai lettori di tutto il mondo la verità sullo sterminio nazista. È una voce dal timbro inconfondibile, mite e salda: «Considerate che questo è stato». Nel centenario della nascita di Levi, il Direttore di Teatro Piemonte Europa Valter Malosti firma la regia e l’interpretazione di Se questo è un uomo, portando per la prima volta in scena direttamente la voce di questa irripetibile opera prima, che è il libro di avventure più atroce e più bello del ventesimo secolo: quella voce senza alcuna altra mediazione. Una voce che nella sua nudità sa restituire la babele del campo – i suoni, le minacce, gli ordini, il rumore della fabbrica di morte.

Domenica 30 gennaio – Ebrei

Ore 10.15 Ridotto del Teatro: La memoria rende liberi, a cura di Jazz Studio Dance

Ore 11.00 Ridotto del Teatro: presentazione del libro di Piero Stefani La parola a loro. Dialoghi e testi teatrali su razzismo, deportazioni e Shoah (Giuntina-2021) con Moni Ovadia, Amedeo Spagnoletto, letture di Magda Iazzetta, Fabio Mangolini e la partecipazione dell’Accademia Corale V. Veneziani

Ore 16.00 Teatro: Se questo è un uomo spettacolo con Valter Malosti

[1] Il Giorno della memoria cade ogni anno il 27 gennaio. In quel giorno del 1945, la 60ª armata dell’esercito sovietico abbatte i cancelli di Auschwitz, non molto distante da Cracovia e si trovava nei pressi di quelli che erano all’epoca i confini tra la Germania e la Polonia.

Alfred Hitchcock nel 1945 girò un documentario sulla Shoah all’interno di 10 campi di concentramento. Il documentario rimase però segreto fino al 1985, perché troppo crudo e drammatico. L’obiettivo era mettere la Germania davanti alle sue responsabilità, documentare l’orrore compiuto ma per mantenere gli equilibri nati dopo la fine del conflitto, si decise di non dargli visibilità. Il materiale fu trovato nel 1985 all’interno degli archivi di Stato inglesi ma sono stati necessari altri 20 anni affinché l’antropologo André Singer riuscisse a farne finalmente un documentario, Night will fall.

La giornata commemorativa, che è stata istituita in Italia nel 2000 (con la Legge 211) e in tutto il mondo nel 2005 (con la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunitasi il 1° novembre 2005, che ha proclamato, in occasione dei 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento di Auschwitz, il 27 gennaio Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime della Shoah). Nella Germania fu instituita nel 1996 e nel Regno Unito nel 2001.

In Italia si tratta di una commemorazione pubblica non soltanto della Shoah, ma anche delle leggi razziali approvate sotto il fascismo, di tutti gli Italiani, ebrei e non, che sono stati uccisi, deportati ed imprigionati, e di tutti coloro che si sono opposti alla “soluzione finale” voluta dai nazisti, spesso rischiando la vita. Soprattutto, non va considerata soltanto un omaggio alle vittime della Shoah, ma un’occasione di riflessione su una vicenda che ci riguarda tutti da vicino. Lo scopo è quello di non dimenticare mai questo momento drammatico del nostro passato di Italiani e di Europei, affinché, come dice la stessa Legge 211 “simili eventi non possano mai più accadere”. Come queste parole indicano chiaramente, non si tratta affatto di una “celebrazione”, ma del dover ribadire quanto sia importante studiare ciò che è successo in passato.

Nel corso della storia ci sono stati diversi tentativi di genocidio. Tra i più recenti c’è quello degli Armeni in Turchia durante la Prima guerra mondiale, quello compiuto dalla dittatura comunista in Cambogia a metà degli anni settanta, le terribili deportazioni di contadini volute da Stalin negli anni trenta, lo sterminio dei nativi americani, ecc. La parola genocidio indica la metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori e dei documenti culturali. Lo stesso termine genocidio, tuttavia, è stato coniato per descrivere la Shoah, resa unica dal fatto che si trattò di un genocidio razionale, ben organizzato, che si avvaleva della tecnologia e di impianti efficienti per sterminare un popolo intero nel cuore dell’Europa, gli Ebrei.

Il termine genocidio è una parola coniata da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, introdotta per la prima volta nel 1944, nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe, opera dedicata all’Europa sotto la dominazione delle forze dell’Asse. L’autore vide la necessità di un neologismo per poter descrivere la Shoah e i fenomeni di persecuzione e distruzione di gruppi nazionali, razziali, religiosi e culturali, in particolare alla ricerca di idonei strumenti, nel diritto internazionale, a garantire la tutela di tali gruppi. La parola, derivante dal greco “γένος” (razza, stirpe”) e dal latino “caedo” (uccidere), è entrata nell’uso comune e ha iniziato a essere considerata come indicatrice di un crimine specifico, recepito nel diritto internazionale a partire dal secondo dopoguerra e quindi nel diritto interno di molti Paesi. Il primo utilizzo del termine in ambito giudiziario avviene un anno dopo il lavoro di Lemkin durante il Processo di Norimberga celebrato a partire dall’autunno del 1945. Anche se non espressamente menzionata nella Carta di Londra, l’accordo stipulato dalle nazioni alleate per dar vita al Tribunale Militare Internazionale chiamato a giudicare i crimini commessi dalle forze dell’Asse durante la Seconda Guerra Mondiale, la parola genocidio è presente nell’atto di accusa degli imputati del 18 ottobre 1045, non come crimine specifico, ma come termine descrittivo seppur con riferimento ai crimini di guerra e non ai crimini contro l’umanità.

Ricordare e commemorare le vittime della Shoah non significa affatto trascurare altri genocidi, né tantomeno stabilire inutili “priorità” tra stermini e dolori di un popolo piuttosto che di altri popoli. Il giorno della memoria non è un omaggio alle vittime, ma semplicemente un riconoscimento pubblico e collettivo di un fatto particolarmente grave di cui l’Europa è stata capace, e a cui l’Italia ha attivamente collaborato. Nel 2001, il teorico e saggista Tzvetan Todorov ha scritto nel libro Memoria del bene, tentazione del male che “la singolarità del fatto non impedisce l’universalità della lezione che se ne trae”. Significa, che la memoria storica della Shoah non riguarda soltanto il popolo ebraico, ma l’intera umanità, perché da questi avvenimenti si possono trarre insegnamenti.

Affinché il ricordo della Shoah sia utile, la memoria non deve limitarsi soltanto all’indignazione e alla denuncia morale contro i crimini nazisti, sentimenti sicuramente giusti e naturali nei confronti di avvenimenti gravi e disumani. Perché la memoria abbia un senso, è soprattutto importante, prima di denunciare, capire ciò che accadde in Germania da un punto di vista storico.

[2] Il genocidio armeno è stato il primo caso moderno di persecuzione sistematica e di sterminio pianificato di un popolo per il quale è stata avviata da parte della comunità internazionale una analisi processuale sulle responsabilità individuali e politiche. Il genocidio armeno, inoltre, era stato preso ad esempio dallo stesso Lemkin per la definizione del crimine di genocidio.

La persecuzione nei confronti degli Armeni e delle popolazioni cristiane fu una costante nella storia dell’Impero ottomano inasprendosi soprattutto nel XIX secolo, e sfociò, al momento della sua dissoluzione, nel genocidio armeno propriamente detto, espressione alla quale ci si riferisce in particolare per i fatti accaduti tra il 1915 e il 1916.

Il genocidio che gli Armeni, da loro chiamato Medz Yeghern (Il Grande Crimine), viene commemorato il 24 aprile, data in cui nel 1915 vennero eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli e a cui seguirono massicce deportazioni verso l’interno dell’Anatolia fino al massacro sistematico di una larga fetta della popolazione armena nei mesi successivi.

Il popolo armeno ha un’origine millenaria e fu tra i primi ad adottare il cristianesimo come religione di Stato. Proprio la loro affiliazione religiosa, in quella che poi diventerà una regione prevalentemente islamica, sarà un punto di contrasto con le popolazioni vicine, in particolare con gli Ottomani. A seguito della guerra russo-turca del 1878, il decadente impero turco cedette parte del Caucaso all’Impero russo, il quale, per destabilizzare maggiormente il nemico, si proclamò difensore dei diritti dei cristiani armeni. Così, con rinnovate pretese di autodeterminazione, i due milioni di cristiani-ortodossi presenti in Anatolia divennero una presenza molto scomoda per il Sultano Hamid. Il sogno di una nuova patria, indipendente dai Turchi e sotto il patrocinio dello Zar, presto mosse alcune rappresaglie, a cui Hamid rispose con grande ferocia, culminando nei Massacri hamidiani.

Massacri hamidiani (1895-1897) – Dopo la guerra russo-turca del 1877-1878, gli abitanti armeni di alcune zone dell’Impero, in particolare in Anatolia, si erano sollevati contro l’Impero ormai in declino con la richiesta che venissero applicate le clausole del Trattato di Berlino del 1878. L’art. 61 del Trattato, stipulato tra le potenze europee alla fine di un lungo periodo di ostilità terminato con la pace di Santo Stefano, impegnava l’Impero ottomano «a realizzare, senza ulteriori ritardi, i miglioramenti e le riforme richieste dai bisogni locali nelle province abitate dagli Armeni e a garantire la loro sicurezza contro i Circassi e i Curdi. Essa darà conto periodicamente delle misure prese a questo scopo alle Potenze, che ne sorveglieranno l’applicazione.» Inoltre il Trattato impegnava la Sublime Porta a garantire la libertà religiosa nel suo territorio. Si trattò di uno dei primi casi di coinvolgimento internazionale al fine di garantire i diritti e la salvaguardia di una minoranza etnica e religiosa minacciata. La repressione per soffocare la dissidenza armena, realizzata anche con il contributo dei Curdi e di altre minoranze musulmane, fu brutale. Simili eventi erano già avvenuti in passato contro il popolo armeno, ma in questa occasione la notizia dei massacri si diffuse velocemente in tutto il mondo, causando espressioni di condanna da parte di molti governi. Gli eccidi continuarono fino al 1897 quando il sultano Abdul Hamid II dichiarò chiusa e risolta la questione armena. In quel periodo inizio anche la confisca dei beni degli Armeni. La stima delle vittime durante la repressione varia da 80.000 a 300.000 morti a seconda delle fonti. La notizia dei massacri fu ampiamente riportata in Europa e negli Stati Uniti, provocando forti reazioni da parte dei governi stranieri e delle organizzazioni umanitarie. Il Sultano fu quindi costretto ad accettare l’intervento di una commissione mista composta da membri turchi e europei, con rappresentanti della Francia, dell’Impero russo e di quello britannico, il cui lavoro fu però ostacolato da tattiche diplomatiche, rivelandosi inutile ad accertare la verità sulle stragi.

Genocidio armeno (1915-1916) – Le deportazioni e le uccisioni di massa perpetrate dagli Ottomani sotto il governo dei Giovani Turchi ai danni della minoranza armena in maggioranza cristiana tra il 1915 e il 1916, causarono circa 1,5 milioni di morti secondo le stime più condivise. All’inizio degli anni venti del XX secolo vi furono i primi tentativi di organizzare tribunali penali internazionali per perseguire crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel corso del primo conflitto mondiale. In particolare il trattato di pace di Sèvres, firmato tra le nazioni vincitrici e l’Impero ottomano il 10 agosto 1920, obbligava i Turchi a consegnare alle potenze alleate «le persone la cui resa può essere richiesta da queste ultime in quanto responsabili dei massacri commessi durante la continuazione dello stato di guerra sul territorio che faceva parte dell’Impero turco il 1° agosto 1914». I responsabili dei massacri avrebbero dovuto essere processati da appositi tribunali istituiti dagli Alleati, salvo che nel frattempo la Società delle Nazioni non avesse creato un tribunale competente a giudicarli. Il trattato non entrò mai in vigore perché non riconosciuto dal nuovo governo guidato da Mustafa Kemal Atatürk che prese il posto di quello ottomano al termine della Guerra d’indipendenza turca che ridefinì i confini e lo status della moderna Turchia come repubblica. Ciò costrinse le potenze alleate a tornare al tavolo dei negoziati e alla sottoscrizione di un nuovo trattato di pace. Il Trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, annullava il trattato di Sèvres, stipulato peraltro con il non più esistente Impero ottomano, e non impegnava più la nuova Turchia sul tema della consegna dei responsabili dei massacri. La mancata applicazione del trattqto di Sèvres vanificò l’ipotesi di ricorrere al giudizio di un tribunale penale sovranazionale per lo sterminio del popolo armeno e rappresentò un fallimento della Società delle Nazioni. La questione rimase irrisolta e dimenticata per decenni fino agli anni settanta quando, in seguito alla invasione turca di Cipro, la comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti, iniziò a sfruttare la questione armena come mezzo di pressione politica nei confronti del governo di Ankara richiamandolo alle sue eventuali responsabilità per quello che iniziava a essere definito come “genocidio armeno”. Il primo paese a riconoscere come genocidio il massacro degli Armeni fu l’Uruguay nel 1965 a cui seguirono molti altri Stati, soprattutto europei e sudamericani, sino a una prima presa d’atto da parte del Parlamento Europeo con una risoluzione formale del 18 giugno 1987. Nel 2015, in occasione del centesimo anniversario, il Parlamento Europeo confermò con un’altra risoluzione il riconoscimento del genocidio armeno esortando la Turchia «a fare i conti con il proprio passato». Il problema armeno e il suo mancato riconoscimento da parte del governo turco come genocidio è sempre stato uno degli elementi di maggior frizione tra Ankara e gli altri Paesi. In particolare la procedura per un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea è stata frenata fino a rendersi impossibile proprio in virtù della mancata assunzione di responsabilità da parte delle autorità turche. In Italia il genocidio armeno è stato riconosciuto con una risoluzione della Camera dei deputati del 17 novembre 2000. In Francia il negazionismo sul genocidio degli Armeni, insieme a quello degli Ebrei, è considerato reato e punibile col carcere. Le Nazioni Unite non hanno mai riconosciuto esplicitamente il caso armeno come genocidio, ma in un documento della Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze del 2 luglio 1985, lo hanno affiancato ai grandi genocidi del XX secolo, paragonandolo alla Shoah e definendolo come «massacro ottomano degli Armeni nel 1915-1916».

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