Draghi, appello bipartisan da 26 parlamentari per il rilascio dei prigionieri di guerra armeni ancora detenuti (Il Messaggero 12.12.21)

Un altro Natale che arriva senza che la sorte dei prigionieri di guerra armeni detenuti nelle carceri azere si sia risolta. Sono ventisei i parlamentari italiani ( di ogni schieramento) che hanno firmato un appello al governo Draghi affinché si impegni a livello europeo per chiedere all’Azerbaigian di rilasciare i prigionieri di guerra e i civili armeni ancora detenuti nel Paese.

«A un anno dalla firma della dichiarazione trilaterale del 9 novembre, la situazione nel Nagorno-Karabakh e ai confini tra Armenia e Azerbaigian rimane tesa a causa del mancato rispetto del cessate il fuoco e delle incursioni di truppe azere nel territorio sovrano della Repubblica di Armenia – sottolineano i firmatari -. Ancora oggi, ci sono numerosi prigionieri di guerra armeni detenuti illegalmente nelle prigioni dell’Azerbaigian, ed emerge da molteplici fonti autorevoli il fatto che il patrimonio storico-culturale cristiano armeno nei territori passati sotto il controllo dell’Azerbaigian sia in pericolo. Inoltre, l’Azerbaigian, con il palese sostegno della Turchia, minaccia di creare, con l’uso della forza, un ‘corridoio’ extraterritoriale che unisca i due paesi attraverso il territorio sovrano ed internazionalmente riconosciuto della Repubblica di Armenia».

Una vicenda che aveva impegnato anche il Vaticano a chiedere la liberazione di questi militari. Il documento sottoscritto dai parlamentari italiani prosegue: «Ciò accade nonostante la dichiarazione trilaterale del 9 novembre 2020, che mise fine alla guerra, prevedesse lo sblocco di tutte le reti di comunicazione e trasporti della regione. È peraltro di queste ore la notizia che il Tribunale Internazionale dell’Aja ha emesso una sentenza in cui chiede all’Azerbaigian di garantire i diritti dei prigionieri di guerra, di prevenire l’incitamento all’odio razziale nei confronti della popolazione armena e di condannare il vandalismo nei confronti del patrimonio storico e culturale armeno».

La speranza dei parlamentari italiani è che il governo ponga come presupposto del rapporto Unione Europea-Azerbaigian – nell’ambito del Partenariato Orientale – il rilascio dei prigionieri di guerra e civili detenuti con «l’abbandono di retorica provocatoria e militarista a favore di percorsi costruttivi verso un sincero coinvolgimento in negoziati di pace ». Tra i firmatari Enrico Aimi, Paola Binetti, Stefano Borghesi, Andrea Cangini, Massimiliano Capitanio, Emilio Carelli, Laura Cavandoli, Giulio Centemero, Jari Colla, Vito Comencini, Tullio Patassini, Flavia Piccoli Nardelli.

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Appello di 26 parlamentari: Azerbaigian rilasci prigionieri armeni (Politicamentecorretto 12.11.21)


Nagorno Karabakh: appello di 26 parlamentari italiani a governo Draghi per rilascio prigionieri guerra e civili armeni (Agenzia Nova)

Armenia-Azerbaigian: ministero Difesa, otto militari feriti in sparatoria al confine, sei in gravi condizioni (Agenzia Nuova 10.12.21)

Erevan, 10 dic 16:28 – (Agenzia Nova) – Sono otto i militari armeni rimasti feriti, sei dei quali in gravi condizioni, oltre ad un soldato morto, a seguito della sparatoria odierna al confine con l’Azerbaigian. Lo dichiara il ministero della Difesa armeno, che precedentemente aveva comunicato l’uccisione di un militare di Erevan ed un numero imprecisato di feriti in seguito al conflitto a fuoco scoppiato “dopo le azioni aggressive delle forze armate azerbaigiane”. (Rum)

Caucaso: fine anno di incontri internazionali (Osservatorio Balcani e Cuacaso 10.12.21)

Il 2021 si sta chiudendo con un’agenda fitta di appuntamenti internazionali, molti dei quali tornati in presenza. Nel 28esimo incontro ministeriale dell’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE, 2-3 dicembre) si sarebbero dovuti incontrare i ministri degli Esteri armeno e azerbaijano, incontro che poi è saltato. C’è stato invece quello a Sochi fra il presidente russo Vladimir Putin, il presidente azero Ilham Aliev e il primo ministro Nikol Pashinyan, incontro per eviatare nuove impasse nel decorso post-conflitto dopo gli scontri del 16 novembre scorso e ha portato avanti l’impegno tra le parti a demarcare i confini e aprire i collegamenti.

L’anno prossimo nello spazio post sovietico potrebbero essere numerosi gli incontri in formati bilaterali e multilaterali: nel dicembre del 1991, si scioglieva l’Unione Sovietica, il 2022 segnerà quindi l’anno del trentennale non di una fine, ma dell’inizio dei rapporti diplomatici fra repubbliche ex sovietiche. Sempre a dicembre si è tenuto il 92esimo incontro della Comunità degli Stati Indipendenti, ed è chiaro che Mosca vuole approfittare del trentennale per tirare le fila, e anche le redini, dei propri rapporti diplomatici.

Non solo Mosca è stata protagonista di questo fine anno fitto di incontri diplomatici. È prossimo il vertice del Partenariato Orientale dell’Unione Europea che metterà allo stesso tavolo, multilateralmente, Armenia, Azerbaijan, e Georgia. Ma prima di questo importante incontro, che è stato preceduto dai viaggi nella regione da parte di rappresentanti europei, c’è stato un altro incontro multilaterale che ha portato allo stesso tavolo, in presenza, i pesi massimi di un’altra crisi caucasica: le Discussioni di Ginevra.

Una guerra non finita, per tutti

Le Discussioni di Ginevra sono state create nel 2008. Con i cannoni ancora fumanti l’Unione Europea insieme ai due co-presidenti dell’OSCE e delle Nazioni Unite portava a un unico tavolo Russia, Georgia, Stati Uniti e – cosa non scontata e non presente nei formati finora elencati – i secessionisti di Abkhazia e Ossezia del Sud. Questo costituisce da allora una grande sfida per questo formato. Anche qualora concordassero sui contenuti, di fatto è infatti quasi impossibile adottare un documento firmato dalle parti perché porterebbe le firme di regimi che Tbilisi non può accettare, se non il riconoscimento di una corrosione della propria integrità territoriale, cioè con un atto di legittimazione dell’esistenza di due governi non subordinati a Tbilisi a Sukhumi e a Tskhinvali.

Si tratta di una sfida che questo formato si trascina dall’inizio, ma alla quale se ne sono aggiunte altre. Al momento in cui le Discussioni sono nate i tre co-presidenti avevano ognuno 3 missioni sul terreno. L’ONU era presente in Abkhazia, l’OSCE in Ossezia, anche se la guerra ne aveva minato le funzioni. L’UE aveva appena schierato la missione civile EUMM. Di queste 3 esiste solo ancora l’EUMM.

Ma il cambiamento riguarda anche i partecipanti e i loro rapporti reciproci.

I partecipanti sono rappresentati da due gruppi, uno dedicato ai lavori sulle questioni umanitarie, uno alla sicurezza. Questo gruppo è capitanato da vice-ministri degli Esteri, quindi un livello politico piuttosto alto, non sono solo discussioni tecniche. La cinquantacinquesima sessione arriva in una crisi congiunturale complessa. Per Russia e Stati Uniti si tiene in particolare sullo sfondo delle tensioni per l’Ucraina.

Per la Georgia, è la sessione in cui si trova in rapporti eccezionalmente tesi con Unione Europea e Stati Uniti. L’ultimo episodio in ordine cronologico, nel solco ormai profondo dei cattivi rapporti fra l’attuale governo georgiano – monocolore Sogno Georgiano – e Bruxelles e Washington riguarda uno scambio pubblico non propriamente diplomatico fra il segretario del partito di maggiroanza e di governo Sogno Georgiano, Irakli Kobakhidze, e l’ambasciatrice americana a Tblisi Kelly Degnan. Il primo ha accusato la seconda di non avere le competenze giuridiche per emettere giudizi sulle riforme georgiane, la seconda ha declinato in modo non proprio elegante.

Non buoni nemmeno i rapporti con Mosca e non solo perché le Discussioni riguardano proprio la guerra russo-georgiana e l’assenza di una soluzione politica che ricomponga la spaccatura che è seguita alla guerra e al riconoscimento russo di Abkhazia e Ossezia del Sud. Infatti fra i vari formati di tavoli, organizzazioni, fora internazionali che Mosca sollecita per il 2022 c’è il 3+3, tutto caucasico. I 3 di Georgia, Armenia, Azerbaijan e i 3 paesi eredi degli imperi che per secoli si sono contesi il Caucaso, cioè Russia, Iran e Turchia.

Il formato non arriverà alla plenaria proprio perché la Georgia con grande travaglio si è sfilata. 2+3, quindi, a decidere il futuro delle infrastrutture e delle comunicazioni (anche politiche) nella regione. La Russia – irritata dal rifiuto di Tbilisi, che in questo formato non sarebbe tutelata e sarebbe costretta a situazioni compromettenti rispetto alla sua volontà del ritorno dei secessionisti sotto la propria giurisdizione – non riconosce il no georgiano, e sostiene che la sedia per la Georgia resterà. Per il momento vuota.

La 55esima sessione

Nessuna sedia vuota, almeno a inizio sessione, per la 55esima sessione delle Discussioni Internazionali di Ginevra che si è tenuta al Palais des Nations il 7 e l’8 dicembre. Come è tradizione al termine della sessione, i co-presidenti hanno emesso un comunicato stampa che non rispecchia solo la loro valutazione, ma il cui contenuto è concordato con tutte le parti. Il fatto che compaia solo a nome dei co-presidenti solleva le parti da situazioni imbarazzanti di riconoscimento politico reciproco. E per questo, è necessariamente scarno.

Di questi due giorni carichi di tensione i co-presidenti sottolineano  un apprezzamento perché “i partecipanti si sono impegnati in uno scambio franco su questioni in sospeso come la libertà di movimento, le questioni di documentazione e dei viaggi all’estero, le detenzioni, i casi irrisolti di persone scomparse e problemi di sicurezza specifici in aree localizzate”.

Nulla da fare per gli sfollati, il cui rientro nelle aree contese è discusso a Ginevra, ma è ormai tradizione che quando la questione emerge Sukhumi e Tskhinvali abbandonino la sala. Anche qui sedie vuote, ma piene di significato: il ritorno degli sfollati non implicherebbe solo ritorno di proprietà ed eventuali indennizzi, ma anche un quadro politico in cui le tensioni secessioniste verrebbero mitigate notevolmente dal ritorno di una maggioranza georgiana che non si è mai espressa a favore della scissione da Tbilisi.

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Nagorno Karabakh: trent’anni fa il popolo disse Sì all’indipendenza ma aspetta ancora la libertà (Ilfattoquotidiano 10.12.21)

Di Ani Vardanyan*

Esattamente trent’anni fa il popolo di Artsakh (Nagorno Karabakh), un territorio dove la stragrande maggioranza della popolazione era armena, fece un referendum storico. Il 99,89 per cento degli elettori armeni votò a favore della totale indipendenza dall’Azerbaijan esercitando il proprio diritto di autodeterminazione.

Proviamo a tornare indietro nel tempo e capire cosa accadeva realmente in quel fazzoletto di terra in quegli anni. Come è risaputo il territorio di Artsakh (storicamente armeno) fu incorporato forzatamente nell’Azerbaijan nel 1921 con la diretta interferenza di Stalin. In seguito, nel 1923 venne incorporato nella Repubblica Socialista Sovietica d’Azerbaijan come un oblast autonomo. Da sottolineare il fatto che, nel 1923, il 94,4 per cento della popolazione di Artsakh era armena e che, in conseguenza della politica discriminatoria, aggressiva e violenta dell’Azerbaijan, scese drasticamente.

Il punto di svolta fu nel 1988, quando il parlamento locale dell’Oblast autonomo di Nagorno Karabakh approvò una risoluzione che invitava Mosca, Yerevan e Baku a ritirare la regione dall’Azerbaijan sovietico e ad annetterla all’Armenia sovietica. Sia Mosca che Baku la considerarono inaccettabile.

In risposta alla volontà dell’autodeterminazione della popolazione del Nagorno Karabakh, le autorità azere organizzarono i massacri degli armeni trasformandoli in azioni militari. Come soluzione al conflitto l’Azerbaijan scelse la guerra e non la pace. Nel 1991 Artsakh dichiarò la sua indipendenza in pieno rispetto con il diritto internazionale. Bisogna evidenziare che il referendum si svolse in conformità alle norme giuridiche esistenti. Il giorno del referendum erano presenti due dozzine di osservatori internazionali che in seguito presentarono il loro rapporto.

La popolazione armena sognava di poter realizzare i propri diritti e di poter scegliere di essere indipendente. La loro volontà fu risposta invece con attacchi e aggressioni. Il giorno del referendum, Stepanakert e altri insediamenti armeni erano sotto incessanti bombardamenti, ma la determinazione della popolazione era talmente grande che nulla poté fermare gli elettori. Secondo i dati forniti dalle autorità, dieci persone furono uccise e undici civili rimasero feriti. Difatti il rapporto di due dozzine di osservatori internazionali a seguito del referendum affermò che il referendum si fu svolto “in condizioni di aggressione armata” dall’Azerbaijan contro Artsakh.

Da notare che la popolazione azera del Nagorno Karabakh rifiutò di partecipare al referendum, anche se la commissione elettorale ebbe creato le condizioni necessarie per lo svolgimento del referendum in tutto il territorio della repubblica, compresi i loro insediamenti. In quegli anni gli azeri che vivevano in Artsakh costituivano circa il venti per cento della popolazione e non parteciparono al referendum su ordine di Baku.

Nel lontano 1991, in mezzo all’orrore e all’odio promosso dalle autorità azere, la popolazione del Nagorno Karabakh non esitò di dire sì all’indipendenza. Per trent’anni lunghi e pieni di incertezza il popolo di questa repubblica mai riconosciuta ha aspettato il suo turno di poter essere libero e indipendente. A trent’anni da questo referendum la comunità internazionale continua a rimanere impassibile e muta. Indifferenza che viene percepita come un insulto all’umanità, sentita particolarmente forte esattamente un anno fa, quando l’Azerbaijan ha scatenato la guerra attaccando l’intero territorio del Nagorno Karabakh. Le autorità azere non hanno risparmiato nulla: scene di violenza, crimini di guerra, impiego di armi vietate, atti di vandalismo. Il trattato di pace siglato il 9 novembre ha posto fine alla guerra di 44 giorni vinta dall’Azerbaijan in primis grazie al sostegno militare della Turchia e al coinvolgimento dei terroristi stranieri.

La guerra è finita ma non nei ricordi della popolazione armena. Ha avuto un impatto drammatico sul benessere fisico, sociale ed emotivo degli abitanti ma non gli ha tolto la speranza di un futuro più luminoso, quando finalmente sarà riconosciuto il loro innegabile diritto all’autodeterminazione. Quando si soffia via la polvere dell’indifferenza rimane sempre la speranza ed è possibile capirne la vera essenza soltanto quando si decide di agire.

*Docente di lingua italiana all’Università Brusov di Yerevan e all’Università Americana in Armenia, collabora per alcune testate armene e italiane

Venezia, Sonig Tchakerian all’Auditorium Lo Squero (Agoravox 10.12.21)

Ancora musica di livello all’Auditorium Lo Squero dell’Isola di S. Giorgio a Venezia, sala dotata di eccellente acustica e del naturale, affascinante scenario della riva del sestriere di Castello.

La talentuosa Sonig Tchakerian ha eseguito di Johann Sebastian Bach la Partita n.1 per violino solo BWV 1002 in Si minore e la sonata n.2 per violino solo BWV 1003 in La minore.

Arriva scalza, col suo magnifico Gennaro Gagliano (Napoli 1760) e con la sua naturale gentilezza spiega al pubblico le particolarità dei brani che si andranno ad ascoltare.

La prima partita è costituita da movimenti di danza ad ognuno dei quali fa seguito un double, una variazione che si presenta come una sorta di esploso, una versione più astratta di ciascuna danza.

Se il modello delle partite è il genere profano della suite di danze, quello delle sonate risulta essere quello austero della Sonata da chiesa in quattro movimenti, con una fuga al secondo posto.

Sonig Tchakerian nell’introduzione dettata dalla sua vocazione al far intendere i messaggi e la bellezza della musica, ha eseguito anche esempi allo strumento per far riconoscere al pubblico la particolarità della scrittura strumentale che, grazie ad un virtuosistico espediente tecnico permette a Bach di realizzare sul violino l’artificio di una polifonia di due e perfino tre voci, come è possibile constatare nella fuga, sebbene la struttura del violino non permetta di suonare più di due note contemporaneamente poichè l’archetto poggia al massimo su due corde. Ecco dunque che Bach riesce a suggerire all’ascoltatore un messaggio musicale multiforme grazie ad arpeggi di tre o quattro note successive e all’espediente di un ostinato sulla medesima corda.

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Un’esecuzione che ha toccato le corde più profonde dell’anima grazie al fraseggio personale, eseguito con viva e nobile cavata, nella rigorosa e rispettosa precisione della scrittura bachiana dalla travolgente violinista.

In omaggio alle sue origini, Tchakerian ha eseguito come bis un canto di padre Komitas, al secolo Soghomon Gevorki Soghomonian, considerato il padre della moderna musica armena, vittima di quello che sarà poi definito il genocidio armeno ed apprezzato da nomi illustri quali Debussy e Stravinskij. Un brano che ha commosso la platea.

Lunghi applausi sinceri e sentiti.

Info: Asolo Musica +39 3924519244 – www.boxol.it/auditoriumlosquero

Marina Bontempelli

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Gariwo rilancia la Convenzione Onu contro i genocidi (Korazym 09.12.21)

A settembre 2015, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito il 9 Dicembre come Giornata Internazionale per la Commemorazione e la dignità delle vittime di genocidio, e della prevenzione di questo crimine. Il 9 Dicembre è anche l’anniversario dell’adozione della Convenzione sulla Prevenzione e Condanna del Crimine di Genocidio (La Convenzione sul Genocidio) del 1948.

Lo scopo della giornata è quello di aumentare la consapevolezza sulla Convenzione sul genocidio e sul suo compito di combattere e prevenire il crimine di genocidio, come definito nella Convenzione, e di commemorare e onorare le sue vittime. Con l’adozione della risoluzione, senza una votazione, l’Assemblea dei 193 membri, ha ribadito la responsabilità di ogni singolo Stato di proteggere la sua popolazione dal genocidio che implica la prevenzione del reato e l’istigazione ad esso.

Mentre i conflitti hanno diverse cause, i conflitti volti allo sterminio etnico sono basati sull’identità. Il genocidio e le atrocità ad esso connesse tendono a verificarsi in società con diversi gruppi nazionali, razziali , etnici o religiosi che sono bloccati nei conflitti identitari.

E non sono semplicemente le differenza di identità, reali o percepite, che generano il conflitto, ma quello che queste differenze implicano, in termini di accesso al potere e alla ricchezza, ai servizi e alle risorse, all’occupazione, all’opportunità di sviluppo, alla cittadinanza e al godimento dei diritti e delle libertà fondamentali. Questi conflitti sono fomentati dalla discriminazione, dai discorsi che incitano all’odio e alla violenza e ad altre violazioni dei diritti umani.

In occasione di questa giornata Pietro Kuciukian, console onorario d’Armenia in Italia e co-fondatore di Gariwo, ha sottolineato il genocidio armeno ed i ‘giusti’ Jakob ed Elizabeth Künzler: “Durante la prima guerra mondiale, dal 1915 al 1918 i coniugi Künzler furono testimoni oculari dei massacri degli armeni, il primo genocidio del Novecento.

Le sue memorie costituiscono una testimonianza di verità di quanto accaduto nei deserti dell’Anatolia, testimonianza che si aggiunge alla documentazione fotografica di Armin T. Wegner, un Giusto per gli Armeni onorato al Giardino della Collina dei Templi nel 2018”.

Il console Kuciukian ha ricordato l’accanimento contro i bambini: “Nel primo genocidio del secolo è proprio contro i bambini che si è esercitata la violenza più efferata dei persecutori, tanto più devastante in quanto esercitata su esseri in crescita. Dopo il 1918 gli orfani, armeni, assiri, caldei, siriaci e greci, curdi, dispersi in tutta l’Anatolia erano 140.000”.

Proprio i coniugi Künzler furono la salvezza dei bambini: “Finita la guerra, il governo turco decretò la chiusura della missione tedesca e i Künzler nel 1922 organizzarono il trasferimento di 8000 orfani armeni raccolti da vari paesi, villaggi e città: Kharput, Malatia, Mardin, Dyarbekir.

Fu un esodo biblico, una vera e propria migrazione con carri, muli, cavalli che durò giorni e giorni. Carovane lunghissime arrivarono ad Aleppo in Siria, allora sotto mandato francese. Da Aleppo i coniugi Künzler riuscirono a trasferire i loro protetti in Libano, prima a Beirut, poi a Ghazir.

Jakob ed Elizabeth Künzler organizzarono e diressero in Libano l’orfanotrofio di Ghazir finanziato dalla ‘Associazione Svizzera di aiuto agli armeni’ e dagli americani della ‘Near East Relief Society’, fondata dall’Ambasciatore degli Stati Uniti a Costantinopoli Henry Morgenthau. Agli orfani armeni si insegnava anche la lingua araba e la pratica di mestieri utili alla sopravvivenza. Un grande tappeto tessuto dalle orfane armene di Ghazir fu donato al presidente degli Usa che lo appese nella Casa Bianca”.

Mentre il fondatore di Gariwo, Gabriele Nissim, ha rilanciato la convenzione ONU contro i genocidi: “Viviamo in un mondo pericoloso che ci spinge a ripensare la sfida di Gariwo e il ruolo dei giardini dei giusti nella società. Siamo chiamati a una grande responsabilità. Fare dei giardini il supporto morale e culturale della Convenzione delle Nazioni contro i genocidi. Ci sono brutti segnali nel mondo”.

Ed ha ricordato l’impegno dei ‘Giardini dei giusti’: “A Gariwo con i Giardini dei giusti vogliamo rendere vivo lo spirito di questa Convenzione in modo che possano diventare un fondamentale supporto culturale nella società.

Lo possiamo fare in vari modi a partire dalla grande esperienza che abbiamo fatto in questi anni. Possiamo insegnare che qualsiasi persona nel suo piccolo può diventare nel suo spazio di responsabilità un argine nei confronti dell’odio e dei genocidi.

Per questo il giardino non è la vetrina di santi ed eroi, ma il luogo del bene possibile alla portata di tutti… Il Giardino non fa prediche, non impone un paradigma, non offre una soluzione, ma invita le persone a pensare in autonomia”.

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Sochi: il summit dell’incertezza (Osservatorio Balcani e Cuacaso 09.12.21)

All’inizio doveva tenersi online lo scorso 9 novembre. Poi, in realtà, l’incontro tra i leader di Armenia, Azerbaijan e Russia ha avuto luogo di persona lo scorso 26 novembre, a Sochi. La ragione del ritardo, secondo la parte armena, è stata la delicatezza della data scelta inizialmente, anniversario della firma dell’accordo di cessate il fuoco del 2020. Alla vigilia del summit erano trapelate informazioni sulla possibile firma di due documenti sulla demarcazione dei confini e lo sblocco delle rotte economiche e di trasporto regionali tra i due paesi in conflitto. Nulla di questo però è accaduto.

A Sochi i tre leader si sono limitati ad una dichiarazione congiunta riaffermando il loro impegno per l’accordo di cessate il fuoco in 9 punti del novembre 2020. Alcuni osservatori hanno sottolineato come l’incontro di tre ore si sia rivelato in realtà un non-evento. Altri, più familiari con i tentativi di risolvere il decennale conflitto tra Armenia e Azerbaijan, tuttavia, la pensano diversamente.

Richard Giragosian, direttore del Centro di studi regionali (RSC) con sede a Yerevan, lo considera un importante passo avanti: “L’incontro tra i leader armeni e azeri ha evidenziato un essenziale ritorno alla diplomazia rispetto alla forza delle armi”, ha affermato, aggiungendo che questo è solo parte di un processo molto più lungo e complesso.

Inoltre nella dichiarazione firmata da tutti e tre i leader vi è l’impegno ad affrontare le questioni umanitarie – cosa che Giragosian interpreta come un riferimento ai soldati armeni detenuti dall’Azerbaijan – si menziona lo sblocco dei collegamenti economici e di trasporto regionali e emergono alcuni segnali che sia Yerevan che Baku sono pronti ad avviare il processo di delimitazione e demarcazione dei confini.

Putin ha dichiarato che una commissione per la demarcazione dei confini potrebbe essere formata prima della fine del 2021. Inoltre ha aggiunto, con sorpresa di molti, che la commissione potrebbe essere bilaterale piuttosto che trilaterale. La Russia, in virtù delle sue mappe dell’era sovietica, probabilmente assumerebbe ancora un ruolo di sostegno, ma l’apertura russa potrebbe teoricamente far sì che anche altri, come l’OSCE o persino l’UE, possano affiancare il processo.

“Lo scopo principale della riunione di oggi non è solo quello di parlare della presenza o dell’assenza di questioni specifiche, ma il punto principale è che oggi possiamo arrivare a decisioni concrete – o il più concrete possibile – per raggiungere la stabilità nel Caucaso meridionale”, ha dichiarato il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, nel suo discorso di apertura. “La pace, la stabilità e la sicurezza delle persone è nostra responsabilità”, ha aggiunto.

Nel frattempo, anche il presidente azero Ilham Aliyev è sembrato ottimista, parlando della necessità di iniziare pubblicamente a lavorare su un trattato di pace “con lo scopo di porre fine ufficialmente al confronto [e di] riconoscere l’integrità territoriale e la sovranità dell’altro e […] di vivere in futuro come vicini […]”.

“La cosa più importante è che le decisioni che abbiamo preso […] contribuiranno a una situazione più sicura e prevedibile nel Caucaso meridionale”, ha aggiunto Aliyev durante la conferenza stampa finale: lui su un lato di Putin mentre Pashinyan stava dall’altro.

Anche se non sono stati rilasciati dettagli concreti dell’incontro, Putin ha promesso che lo sarebbero stati una volta tenutosi un incontro del gruppo di lavoro trilaterale guidato dai vice primi ministri armeno, azero e russo, poi tenutosi la settimana successiva al summit di Sochi. Come segno di ottimismo, Putin ha persino omaggiato Aliyev e Pashinyan di due sculture d’oro raffiguranti un ramo d’ulivo.

Questo ottimismo, tuttavia, potrebbe essere stato prematuro. L’incontro trilaterale ha avuto luogo il 1° dicembre, come previsto e le discussioni tra i vice primi ministri armeno, azero e russo sono state descritte come “tese” dai media. Inoltre, non solo i dettagli promessi non sono mai emersi, ma è stato annunciato che saranno necessari altri incontri.

Non è chiaro se questo sia un imbarazzo per Putin, ma c’è chi ha sottolineato come l’incontro di Sochi sia stato innanzitutto una risposta diretta all’annuncio di un incontro facilitato dall’UE tra i leader armeni e azeri a margine del vertice del partenariato orientale che si terrà a Bruxelles il 15 dicembre prossimo.

L’incontro proposto dall’UE era in lavorazione da diverse settimane prima che fosse effettivamente annunciato. Infatti, a metà ottobre, il redattore di RFE/RL Europa Rikard Jozwiak aveva già detto che un tale incontro era stato organizzato a margine del vertice del partenariato orientale a Bruxelles. “Siamo onesti su questo”, aveva aggiunto in un’intervista. “L’UE ha pochissimo spazio di manovra […] ma quello che possono fare è offrire denaro, tempo e diplomazia”.

Intanto il 4 dicembre 10 soldati armeni catturati dall’Azerbaijan negli scontri di confine di metà novembre sono stati scambiati con mappe che descrivono in dettaglio la posizione di mine nel territorio ora tornato sotto il controllo di Baku.

Tutta l’attenzione è ora rivolta alla riunione del 15 dicembre. L’UE si augura vengano concordate misure di rafforzamento della fiducia tra i due paesi, cosa che le ultime settimane hanno dimostrato essere necessaria come sempre, se non di più.

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La Corte Internazionale di Giustizia ordina ad Azerbaigian e Armenia: no all’odio razziale (Euronews 08.12.21)

La Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, con sede a L’Aja, prova ad abbassare le tensioni tra Azerbaigian e Armenia.

Con 14 voti favorevoli e uno solo contrario, i giudici hanno seguito le indicazioni della “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione“, ordinando ai governi di Baku e Erevan di prevenire casi di incitamento all’odio razziale tra azeri e armeni.

La dichiarazione della presidente della Corte Internazionale, Joan Donoghue (statunitense, 64 anni):

“La Repubblica dell’Azerbaigian deve proteggere dalla violenza e dai danni fisici tutte le persone catturate in relazione al conflitto del 2020 che rimangono in detenzione e garantire la loro sicurezza e l’uguaglianza di fronte alla legge, prendere tutte le misure necessarie per prevenire l’incitamento e la promozione dell’odio razziale e della discriminazione, anche da parte dei suoi funzionari e istituzioni pubbliche rivolte a persone di origine nazionale o etnica armena”

Il Tribunale Internazionale ha, altresì, ordinato all’Azerbaigian di punire il vandalismo del patrimonio culturale e artistico armeno, tra cui chiese e altri luoghi di culto.

Continua la presidente della Corte:
“Da parte sua, la Repubblica d’Armenia, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, adotterà tutte le misure necessarie per prevenire l’incitamento e la promozione dell’odio razziale, anche da parte di organizzazioni e persone private nel suo territorio rivolte a persone di origine nazionale o etnica azera”.

Le tensioni tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh sono sfociate in un conflitto armato nel 2020 che ha causato più di 6.600 vittime.
La regione si trova all’interno dell’Azerbaigian, ma era sotto il controllo delle forze di etnia armena sostenute dall’Armenia dalla fine della guerra separatista del 1992-1994.

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Armenia-Azerbaigian: Ambasciatrice Hambardzumyan, Erevan monitorerà rispetto decisioni Corte internazionale di giustizia (Agenzia Nova 08.12.21)

Roma, 08 dic 18:48 – (Agenzia Nova) – La Corte internazionale di giustizia ha emesso ieri due ordinanze sulle richieste di misure provvisorie avanzate dall’Armenia e dall’Azerbaigian nei procedimenti avviati da Erevan contro Baku e sulla domanda riconvenzionale dell’Azerbaigian contro l’Armenia ai sensi della ‘Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di Discriminazione’ (Cerd). Lo ha dichiarato l’ambasciatrice armena in Italia, Tsovinar Hambardzumyan. “Le ordinanze – prosegue l’ambasciatrice – riflettono l’accettazione da parte della Corte di numerosi argomenti critici sollevati dall’Armenia e la convalida delle sue posizioni dinanzi alla Corte. L’ordinanza della Corte internazionale di giustizia conferma la legittimità delle preoccupazioni dell’Armenia per quanto riguarda la detenzione illegale e il trattamento disumano dei prigionieri di guerra e di altri da parte dell’Azerbaigian, per quanto riguarda il pericolo di annientamento del patrimonio storico e culturale armeno nei territori dell’Artsakh sotto il controllo dell’Azerbaigian e la retorica armenofobica dell’Azerbaigian.

Come evidenziato dall’ambasciatrice armena, “la Corte ha rilevato che esiste un rischio imminente di danno irreparabile ai diritti degli armeni ai sensi della ‘Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale’ e ha ordinato all’Azerbaigian di: “Proteggere dalla violenza e dalle lesioni personali tutte le persone catturate e rimaste in detenzione in relazione al conflitto militare del 2020, nonché garantirne la sicurezza e l’uguaglianza davanti alla legge”; “Adottare tutte le misure necessarie per prevenire l’incitamento e la promozione dell’odio razziale e della discriminazione, anche da parte dei suoi funzionari e istituzioni pubbliche, nei confronti di persone di origine etnica o nazionale armena”; “Adottare tutte le misure necessarie per prevenire e punire atti di vandalismo e profanazione nei confronti del patrimonio culturale armeno, comprese chiese e altri luoghi di culto, monumenti, punti di riferimento, cimiteri e manufatti”. “Va notato – ha evidenziato – che durante il procedimento orale sulla richiesta di misure provvisorie da parte dell’Armenia, la Corte ha preso piena conoscenza della dichiarazione fatta dall’agente dell’Azerbaigian secondo cui i manichini raffiguranti soldati armeni e le esposizioni di elmetti indossati dai soldati armeni durante la seconda guerra del Nagorno-Karabakh sono stati rimossi definitivamente dal cosiddetto ‘Parco dei Trofei Militari’ e non verranno mostrati in futuro. È anche degno di nota che l’Azerbaigian sia stato esplicitamente obbligato dalla Corte a prendere tutte le misure necessarie per prevenire la discriminazione e il suo incitamento “anche da parte dei suoi funzionari e istituzioni pubbliche”. “L’Armenia – ha concluso la diplomatica – verificherà costantemente l’osservanza da parte dell’Azerbaigian delle ordinanze della Corte e informerà la Corte di qualsiasi violazione”. (Res)

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In arrivo i nuovi regolamenti sulle Fondazioni legate alle comunità non musulmane (Agenzia Fides 07.12.21)

7Ankara (Agenzia Fides) – Il governo turco si prepara ad emanare un nuovo regolamento relativo alla gestione amministrativa delle Fondazioni legate alle comunità di fede non musulmane, da anni paralizzate da un’impasse legislativa che blocca di fatto il rinnovo dei rispettivi organismi direttivi.
In Turchia la gestione delle Fondazioni delle minoranze tocca da vicino la vita delle comunità cristiane locali, a partire da quella armena. A tali organismi è di fatto affidata la gestione di luoghi di culto, beni immobiliari e istituzioni pubbliche collegate alle diverse comunità non musulmane, ebrei compresi.
Nei giorni scorsi Burhan Ersoy, Direttore generale delle Fondazioni, ha confermato che il piano per la stesura di un nuovo regolamento riguardante soprattutto le elezioni per l’assegnazione delle cariche all’interno delle Fondazioni è entrato nel vivo, che la bozza del testo, ora allo studio, è stata stesa tenendo conto di richieste e proposte arrivata dalle diverse comunità minoritaria. Si prevede che le nuove regole, dopo aver ottenuto l’approvazione governativa, potrebbero entrare in vigore entro aprile 2022.
Il precedente regolamento elettorale per i vertici delle Fondazioni era stato sospeso nel 2013, dopo che il governo aveva preso l’impegno di stabilire nuove procedure e aveva giustificato la misura con l’intento dichiarato di voler rendere più funzionale e trasparente la gestione dei beni immobiliari affidati statali organismi. Nelle sue dichiarazioni ai media turchi, Ersoy tenuto a rimarcare che durante le consultazioni i rappresentanti delle diverse comunità minoritarie non hanno espresso pareri unanimi riguardo ai criteri che dovrebbero orientare la stesura delle nuove regole elettorali, e alcuni tra loro hanno chiesto il semplice ripristino delle vecchie procedure sospese nel 2013. Intanto il cristiano siro ortodosso Süleyman Can Ustabaşı, attuale rappresentante delle Fondazioni non musulmane in seno alla Assemblea delle Fondazioni, ha chiesto alle autorità turche di compiere un altro giro di consultazioni con i rappresentanti delle comunità minoritarie prima di completare e approvare la versione definitiva dei nuovi regolamenti.
Lo status giuridico delle Fondazioni si fonda ancora sul Trattato di pace di Losanna, sottoscritto nel 1923 dalla Turchia e dalle potenze dell’Intesa (Impero britannico, Francia e Impero Russo) uscite vittoriose dalla Prima Guerra mondiale. Il Trattato garantiva ale comunità di fede non musulmane presenti in Turchia l’uguaglianza davanti alle leggi e la libertà di promuovere e gestire “istituzioni religiose e sociali”.
Negli ultimi due decenni la Turchia ha affrontato e risolto con una parte crescente delle questioni controverse relative alla gestione e destinazione di proprietà sequestrate dallo Stato su cui le Fondazioni rivendicavano i diritti garantiti dal Trattato di Losanna. Secondo i dati ufficiali forniti dagli apparati turchi, e riportati dal quotidiano filo-governativo Daily Sabah, alle Fondazioni collegate alle comunità non musulmane sono stati restituiti tra il 2013 e il 2018 circa 1.084 immobili, e alle stesse comunità sono stati consegnati dopo i necessari restauri 20 luoghi di culto.
In passato, a partire dal1936, disposizioni legislative avevano aperto alle Fondazioni delle comunità non musulmane la possibilità di acquisire nuove proprietà Poi, nel 1974, tale garanzia era stata annullata e lo Stato aveva iniziato a sequestrare in forma massiccia i beni acquistati dalle Fondazioni delle comunità non musulmane a partire dal 1936. Dopo il 2000, nuove disposizioni emanate in conformità con i pacchetti di armonizzazione della Turchia per l’adesione all’Unione Europea hanno favorito il ritorno alle Fondazioni di beni immobili in precedenza sequestrati dallo Stato.
Di recente, era stato lo stesso Presidente turco Recep Tayyip Erdogan a confermare – dopo una riunione di gabinetto svoltasi lunedì 25 ottobre – che le autorità competenti avevano messo in agenda la questione delle elezioni delle direzioni e dei consigli di amministrazione delle Fondazioni legate alle comunità di fede minoritarie, strumenti fondamentali per la gestione dei beni e delle risorse destinati ai luoghi di culto non musulmani. Come già riferito dll’Agenzia Fides (vedi Fides 6/11/2021), il greco ortodosso Laki Vingas, membro del Consiglio delle Fondazioni, in un lungo intervento pubblicato dalla testata armeno-turca Agos ha documentato gli effetti negativi sulla vita delle diverse comunità ecclesiali provocati dallo stallo legislativo sulla questione dei regolamenti delle Fondazioni. Il blocco nei processi di rinnovamento degli organi direttivi delle fondazioni – ha fatto notare Vingas – contribuisce ai processi di allontanamento dei giovani dalle istituzioni legate alle proprie comunità di appartenenza, e anche tante attività di volontariato “vengono purtroppo interrotte”.
In seno all’Assemblea generale delle Fondazioni turche, il rappresentante delle Fondazioni non musulmane parla a titolo della rete di 167 Fondazioni comunitarie non islamiche presenti in Turchia. 19 sono le Fondazioni “di minoranza” legate alla comunità ebraica, mentre le altre sono connesse a diverse comunità cristiane. Alla comunità greco ortodossa fanno capo 77 Fondazioni, mentre alla comunità armena fanno riferimento 54 Fondazioni. (GV) (Agenzia Fides 7/12/2021)

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Turchia: nuovi regolamenti per le Fondazioni legate alle comunità non musulmane (Sir 07.12.21)