Il 2021 si sta chiudendo con un’agenda fitta di appuntamenti internazionali, molti dei quali tornati in presenza. Nel 28esimo incontro ministeriale dell’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE, 2-3 dicembre) si sarebbero dovuti incontrare i ministri degli Esteri armeno e azerbaijano, incontro che poi è saltato. C’è stato invece quello a Sochi fra il presidente russo Vladimir Putin, il presidente azero Ilham Aliev e il primo ministro Nikol Pashinyan, incontro per eviatare nuove impasse nel decorso post-conflitto dopo gli scontri del 16 novembre scorso e ha portato avanti l’impegno tra le parti a demarcare i confini e aprire i collegamenti.
L’anno prossimo nello spazio post sovietico potrebbero essere numerosi gli incontri in formati bilaterali e multilaterali: nel dicembre del 1991, si scioglieva l’Unione Sovietica, il 2022 segnerà quindi l’anno del trentennale non di una fine, ma dell’inizio dei rapporti diplomatici fra repubbliche ex sovietiche. Sempre a dicembre si è tenuto il 92esimo incontro della Comunità degli Stati Indipendenti, ed è chiaro che Mosca vuole approfittare del trentennale per tirare le fila, e anche le redini, dei propri rapporti diplomatici.
Non solo Mosca è stata protagonista di questo fine anno fitto di incontri diplomatici. È prossimo il vertice del Partenariato Orientale dell’Unione Europea che metterà allo stesso tavolo, multilateralmente, Armenia, Azerbaijan, e Georgia. Ma prima di questo importante incontro, che è stato preceduto dai viaggi nella regione da parte di rappresentanti europei, c’è stato un altro incontro multilaterale che ha portato allo stesso tavolo, in presenza, i pesi massimi di un’altra crisi caucasica: le Discussioni di Ginevra.
Una guerra non finita, per tutti
Le Discussioni di Ginevra sono state create nel 2008. Con i cannoni ancora fumanti l’Unione Europea insieme ai due co-presidenti dell’OSCE e delle Nazioni Unite portava a un unico tavolo Russia, Georgia, Stati Uniti e – cosa non scontata e non presente nei formati finora elencati – i secessionisti di Abkhazia e Ossezia del Sud. Questo costituisce da allora una grande sfida per questo formato. Anche qualora concordassero sui contenuti, di fatto è infatti quasi impossibile adottare un documento firmato dalle parti perché porterebbe le firme di regimi che Tbilisi non può accettare, se non il riconoscimento di una corrosione della propria integrità territoriale, cioè con un atto di legittimazione dell’esistenza di due governi non subordinati a Tbilisi a Sukhumi e a Tskhinvali.
Si tratta di una sfida che questo formato si trascina dall’inizio, ma alla quale se ne sono aggiunte altre. Al momento in cui le Discussioni sono nate i tre co-presidenti avevano ognuno 3 missioni sul terreno. L’ONU era presente in Abkhazia, l’OSCE in Ossezia, anche se la guerra ne aveva minato le funzioni. L’UE aveva appena schierato la missione civile EUMM. Di queste 3 esiste solo ancora l’EUMM.
Ma il cambiamento riguarda anche i partecipanti e i loro rapporti reciproci.
I partecipanti sono rappresentati da due gruppi, uno dedicato ai lavori sulle questioni umanitarie, uno alla sicurezza. Questo gruppo è capitanato da vice-ministri degli Esteri, quindi un livello politico piuttosto alto, non sono solo discussioni tecniche. La cinquantacinquesima sessione arriva in una crisi congiunturale complessa. Per Russia e Stati Uniti si tiene in particolare sullo sfondo delle tensioni per l’Ucraina.
Per la Georgia, è la sessione in cui si trova in rapporti eccezionalmente tesi con Unione Europea e Stati Uniti. L’ultimo episodio in ordine cronologico, nel solco ormai profondo dei cattivi rapporti fra l’attuale governo georgiano – monocolore Sogno Georgiano – e Bruxelles e Washington riguarda uno scambio pubblico non propriamente diplomatico fra il segretario del partito di maggiroanza e di governo Sogno Georgiano, Irakli Kobakhidze, e l’ambasciatrice americana a Tblisi Kelly Degnan. Il primo ha accusato la seconda di non avere le competenze giuridiche per emettere giudizi sulle riforme georgiane, la seconda ha declinato in modo non proprio elegante.
Non buoni nemmeno i rapporti con Mosca e non solo perché le Discussioni riguardano proprio la guerra russo-georgiana e l’assenza di una soluzione politica che ricomponga la spaccatura che è seguita alla guerra e al riconoscimento russo di Abkhazia e Ossezia del Sud. Infatti fra i vari formati di tavoli, organizzazioni, fora internazionali che Mosca sollecita per il 2022 c’è il 3+3, tutto caucasico. I 3 di Georgia, Armenia, Azerbaijan e i 3 paesi eredi degli imperi che per secoli si sono contesi il Caucaso, cioè Russia, Iran e Turchia.
Il formato non arriverà alla plenaria proprio perché la Georgia con grande travaglio si è sfilata. 2+3, quindi, a decidere il futuro delle infrastrutture e delle comunicazioni (anche politiche) nella regione. La Russia – irritata dal rifiuto di Tbilisi, che in questo formato non sarebbe tutelata e sarebbe costretta a situazioni compromettenti rispetto alla sua volontà del ritorno dei secessionisti sotto la propria giurisdizione – non riconosce il no georgiano, e sostiene che la sedia per la Georgia resterà. Per il momento vuota.
La 55esima sessione
Nessuna sedia vuota, almeno a inizio sessione, per la 55esima sessione delle Discussioni Internazionali di Ginevra che si è tenuta al Palais des Nations il 7 e l’8 dicembre. Come è tradizione al termine della sessione, i co-presidenti hanno emesso un comunicato stampa che non rispecchia solo la loro valutazione, ma il cui contenuto è concordato con tutte le parti. Il fatto che compaia solo a nome dei co-presidenti solleva le parti da situazioni imbarazzanti di riconoscimento politico reciproco. E per questo, è necessariamente scarno.
Di questi due giorni carichi di tensione i co-presidenti sottolineano un apprezzamento perché “i partecipanti si sono impegnati in uno scambio franco su questioni in sospeso come la libertà di movimento, le questioni di documentazione e dei viaggi all’estero, le detenzioni, i casi irrisolti di persone scomparse e problemi di sicurezza specifici in aree localizzate”.
Nulla da fare per gli sfollati, il cui rientro nelle aree contese è discusso a Ginevra, ma è ormai tradizione che quando la questione emerge Sukhumi e Tskhinvali abbandonino la sala. Anche qui sedie vuote, ma piene di significato: il ritorno degli sfollati non implicherebbe solo ritorno di proprietà ed eventuali indennizzi, ma anche un quadro politico in cui le tensioni secessioniste verrebbero mitigate notevolmente dal ritorno di una maggioranza georgiana che non si è mai espressa a favore della scissione da Tbilisi.
Vai al sito
Esattamente trent’anni fa il popolo di Artsakh (Nagorno Karabakh), un territorio dove la stragrande maggioranza della popolazione era armena, fece un referendum storico. Il 99,89 per cento degli elettori armeni votò a favore della totale indipendenza dall’Azerbaijan esercitando il proprio diritto di autodeterminazione.
Proviamo a tornare indietro nel tempo e capire cosa accadeva realmente in quel fazzoletto di terra in quegli anni. Come è risaputo il territorio di Artsakh (storicamente armeno) fu incorporato forzatamente nell’Azerbaijan nel 1921 con la diretta interferenza di Stalin. In seguito, nel 1923 venne incorporato nella Repubblica Socialista Sovietica d’Azerbaijan come un oblast autonomo. Da sottolineare il fatto che, nel 1923, il 94,4 per cento della popolazione di Artsakh era armena e che, in conseguenza della politica discriminatoria, aggressiva e violenta dell’Azerbaijan, scese drasticamente.
Il punto di svolta fu nel 1988, quando il parlamento locale dell’Oblast autonomo di Nagorno Karabakh approvò una risoluzione che invitava Mosca, Yerevan e Baku a ritirare la regione dall’Azerbaijan sovietico e ad annetterla all’Armenia sovietica. Sia Mosca che Baku la considerarono inaccettabile.
In risposta alla volontà dell’autodeterminazione della popolazione del Nagorno Karabakh, le autorità azere organizzarono i massacri degli armeni trasformandoli in azioni militari. Come soluzione al conflitto l’Azerbaijan scelse la guerra e non la pace. Nel 1991 Artsakh dichiarò la sua indipendenza in pieno rispetto con il diritto internazionale. Bisogna evidenziare che il referendum si svolse in conformità alle norme giuridiche esistenti. Il giorno del referendum erano presenti due dozzine di osservatori internazionali che in seguito presentarono il loro rapporto.
La popolazione armena sognava di poter realizzare i propri diritti e di poter scegliere di essere indipendente. La loro volontà fu risposta invece con attacchi e aggressioni. Il giorno del referendum, Stepanakert e altri insediamenti armeni erano sotto incessanti bombardamenti, ma la determinazione della popolazione era talmente grande che nulla poté fermare gli elettori. Secondo i dati forniti dalle autorità, dieci persone furono uccise e undici civili rimasero feriti. Difatti il rapporto di due dozzine di osservatori internazionali a seguito del referendum affermò che il referendum si fu svolto “in condizioni di aggressione armata” dall’Azerbaijan contro Artsakh.
Da notare che la popolazione azera del Nagorno Karabakh rifiutò di partecipare al referendum, anche se la commissione elettorale ebbe creato le condizioni necessarie per lo svolgimento del referendum in tutto il territorio della repubblica, compresi i loro insediamenti. In quegli anni gli azeri che vivevano in Artsakh costituivano circa il venti per cento della popolazione e non parteciparono al referendum su ordine di Baku.
Nel lontano 1991, in mezzo all’orrore e all’odio promosso dalle autorità azere, la popolazione del Nagorno Karabakh non esitò di dire sì all’indipendenza. Per trent’anni lunghi e pieni di incertezza il popolo di questa repubblica mai riconosciuta ha aspettato il suo turno di poter essere libero e indipendente. A trent’anni da questo referendum la comunità internazionale continua a rimanere impassibile e muta. Indifferenza che viene percepita come un insulto all’umanità, sentita particolarmente forte esattamente un anno fa, quando l’Azerbaijan ha scatenato la guerra attaccando l’intero territorio del Nagorno Karabakh. Le autorità azere non hanno risparmiato nulla: scene di violenza, crimini di guerra, impiego di armi vietate, atti di vandalismo. Il trattato di pace siglato il 9 novembre ha posto fine alla guerra di 44 giorni vinta dall’Azerbaijan in primis grazie al sostegno militare della Turchia e al coinvolgimento dei terroristi stranieri.
La guerra è finita ma non nei ricordi della popolazione armena. Ha avuto un impatto drammatico sul benessere fisico, sociale ed emotivo degli abitanti ma non gli ha tolto la speranza di un futuro più luminoso, quando finalmente sarà riconosciuto il loro innegabile diritto all’autodeterminazione. Quando si soffia via la polvere dell’indifferenza rimane sempre la speranza ed è possibile capirne la vera essenza soltanto quando si decide di agire.
*Docente di lingua italiana all’Università Brusov di Yerevan e all’Università Americana in Armenia, collabora per alcune testate armene e italiane