Sant’Ireneo sarà il 37esimo dottore della Chiesa. Perchè è stato scelto lui? (Aleteia 21.01.22)

Il Papa aveva già annunciato la sua intenzione di proclamare Sant’Ireneo dottore della Chiesa dandogli il titolo di “Doctor Unitatis” lo scorso 7 ottobre

Sant’Ireneo di Lione, teologo del II secolo che fu campione della lotta alle eresie gnostiche, è ufficialmente proclamato da Papa Francescodottore della Chiesa. La decisione è stata presa nell’udienza concessa dal Papa al Cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

Il decreto del Papa

“Sant’Ireneo di Lione, venuto dall’Oriente, ha esercitato il suo ministero episcopale in Occidente: egli è stato un ponte spirituale e teologico tra cristiani orientali e occidentali. Il suo nome, Ireneo, esprime quella pace che viene dal Signore e che riconcilia, reintegrando nell’unità. Per questi motivi, dopo aver avuto il parere della Congregazione delle Cause dei Santi, con la mia Autorità Apostolica lo DICHIARO Dottore della Chiesa con il titolo di Doctor unitatis. La dottrina di così grande Maestro possa incoraggiare sempre più il cammino di tutti i discepoli del Signore verso la piena comunione”.

L’annuncio del 7 ottobre

Il Papa aveva già annunciato la sua intenzione di proclamare Sant’Ireneo dottore della Chiesa dandogli il titolo di “Doctor Unitatis” lo scorso 7 ottobre, incontrando il gruppo misto di lavoro cattolico ortodosso che prende proprio il nome del Santo.  (Aci Stampa, 20 gennaio).

saint Irénée
Sant’Iréneo.

Filosofo dell’Asia Minore

Nato in Asia Minore intorno al 130 e morto a Lione verso il 202. Teologo, scrittore cristiano di lingua greca. I dati biografici di Ireneo provengono, per la maggior parte, dalle sue stesse opere. Originario dell’Asia Minore, ricevette in Oriente un’ottima formazione religiosa, filosofica e teologica alla scuola di Policarpo, di Papia e di Melitone.

Vescovo a Lione

Sembra che sia stato per un certo periodo anche a Roma. Lo troviamo comunque verso il 177 a Lione, in Gallia, la cui comunità lo invia a Roma presso il vescovo Eleuterio per portargli la Lettera dei martiri di Lione. Non si sa precisamente quando divenne vescovo di Lione; in ogni caso al suo ritorno da Roma è il successore di Potino. Sembra che sia morto martire durante la cosiddetta persecuzione di Settimo Severo; però la notizia del suo martirio e tardiva.

Le due opere di Sant’Ireneo

Le opere di Ireneo a noi giunte sono due: la prima intitolata Adversus haereses (Contro le eresie), conservataci intera solo in una traduzione latina di carattere letterale e, per quando riguarda alcuni libri, in traduzione armena e siriaca. Vi sono anche numerosi frammenti greci. Essa ha come scopo “lo smascheramento e la confutazione della falsa gnosi” (come indica il titolo greco).

La seconda invece, cioè la Esposizione della predicazione apostolica, di cui solo nel 1904 è stata ritrovata una traduzione armena, è un breve compendio della fede cristiana con carattere catechetico. E’ considerato anche il più antico catechismo della dottrina cristiana (Aleteia, 19 luglio 2019).

37esimo dottore della Chiesa

Sant’Ireneo, scrive ancora Aci Stampa, sarà il 37esimo Santo ad essere riconosciuto dottore della Chiesa, un titolo emerso per la prima volta nel corso dell’Alto Medioevo, che viene conferito per aver mostrato tre qualità: essere una persona di eminente cultura (eminens doctrina). Cioè mostrare un marcato grado di santità nella vita (insignis vitae sanctitas); essere riconosciuta per tali qualità da una dichiarazione della Chiesa (ecclesiae declaratio).

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L’ambasciatore dell’Armenia presso la Santa Sede ha scritto a FarodiRoma per replicare al suo omologo azero (Farodiroma 20.01.22)

“A più di un anno dalla fine della guerra di aggressione di 44 giorni, l’Azerbaijan continua a ignorare apertamente i suoi impegni

internazionali e gli obblighi del diritto umanitario internazionale. Le autorità azerbaijane continuano a detenere illegalmente più di cento prigionieri di guerra e civili armeni. Ignorando l’attuazione delle
misure provvisorie della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte internazionale di giustizia, l’Azerbaigian continua a nascondere il numero reale dei prigionieri di guerra e civili armeni, mettendoli a
rischio di scomparsa forzata”. Lo sostiene l’ambasciatore dell’Armenia presso la S. Sede
Garen A. Nazarian che commenta recenti affermazioni del suo omologo azero, Rahman Mustafaye, riportate da FarodiRoma.

Secondo il rappresentante dell’Armenia, non si può comunque ignorare il dato dell’”invasione da parte delle truppe azerbaijane nel territorio sovrano dell’Armenia”.

Per quel che riguarda l’invito della parte azerbaijana alla Santa Sede a fare da “ponte”, inoltre, “deve essere ricordato all’ambasciatore che il suo governo, e in particolare il suo capo di stato, ha totalmente ignorato i numerosi appelli fatti in precedenza da Sua Santità Papa Francesco a da altri leader mondiali per fermare la guerra scatenata contro la popolazione pacifica dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) nell’autunno del 2020 dall’Azerbaijan con il coinvolgimento diretto della Turchia e dei combattenti terroristi e jihadisti stranieri giunti da vari punti
caldi del Medio Oriente”.

“Curiosamente – osserva il diplomatico armeno nella sua lettera a FarodiRoma – la visita della delegazione azerbaijana in Vaticano ha coinciso con il 32° anniversario dei _pogrom_ di massa contro gliarmeni che ebbero inizio a Baku nel gennaio del 1990. Come è noto questi crimini furono il culmine della politica di annientamento e dello sfollamento forzato della popolazione armena che viveva nella Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan. Tra la popolazione armena centinaia furono gli uccisi, i mutilati e coloro che sparirono alla fine di una interminabile settimana di sanguinose atrocità di massa.

Questi massacri, per cui mezzo milione di armeni divennero rifugiati, completò
quel processo di annientamento degli Armeni dall’Azerbaijan. La costante negazione dei massacri di Baku e degli altri crimini contro gli armeni, la glorificazione dei loro ideatori, l’incessante istigazione all’odio
contro gli armeni sono ancora politica di stato nel cosiddetto Azerbaijan ‘multiculturale e tollerante’. Continua a manifestarsi sotto
forma di espressioni d’odio e politica aggressiva nei confronti e dell’Artsakh, rappresentando una minaccia alla pace e
alla stabilità della nostra regione”.

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L’Ambasciatore armeno presso la Santa Sede replica alle recenti affermazioni del suo omologo azero. La memoria corta dei governanti azeri… (Korazym 21.01.22)


Diplomazia pontificia, il no all’aborto nell’UE e la crisi ucraina (Acistampa)

Pulizia etnica azera in Artsakh. Proposte armene per ridurre l’escalation al confine azero-armeno. Rischio di nuova guerra azera nel Nagorno-Karabakh. Prospettivi di sblocco del confine armeno-turco (Korazym 19.01.22)

In un’intervista con i media azeri, il Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev ha espresso insoddisfazione per il fatto che la forza di pace russa stia creando ostacoli al deflusso degli Armeni dal territorio della Repubblica di Artsakh e stia usando vari mezzi per mantenere gli Armeni nell’Artsakh. Si tratta di una dichiarazione gravissima che evidenzia, ancora una volta, la volontà azera di “ripulire” il Nagorno-Karabakh dagli Armeni. A questa ennesima grave affermazione di Aliyev, ha risposto Gegham Stepanyan, il Difensore dei diritti umani della Repubblica di Artsakh.

Gegham Stepanyan, Difensore dei diritti umani della Repubblica di Artsakh.

Il Presidente dell’Azerbajgian Ilham Aliyev vuole la pulizia etnica in Artsakh

«Gli sforzi compiuti dalle forze di pace per ripristinare la vita pacifica nell’Artsakh causano insoddisfazione alle autorità azerbajgiane. Questa non è altro che una confessione della politica azerbajgiana di pulizia etnica degli Armeni nel territorio di Artsakh, deportando la popolazione armena e privandola della loro Patria. La politica di chiudere la questione appropriandosi dell’Artsakh, cambiando i dati demografici a favore degli Azeri non è nuova in Azerbajgian; ha guadagnato più slancio durante il governo del padre di Ilham Aliyev, Heydar Aliyev, in particolare negli anni ’70.

Nel 2002, in un’intervista con i media azerbajgiani, Heydar Aliyev dichiarò testualmente: “Allo stesso tempo, ho cercato di cambiare i dati demografici lì. Il Nagorno-Karabakh ha sollevato la questione dell’apertura di un’università lì. Qui [in Azerbajgian] tutti si opposero. Ho pensato e deciso di aprire. Ma a condizione che ci fossero tre settori: azero, russo e armeno. Ho aperto. Abbiamo inviato Azeri dalle regioni adiacenti non a Baku lì [Oblast’ Autonoma del Nagorno-Karabakh]. Abbiamo aperto una grande fabbrica di scarpe lì [Oblast’ Autonoma del Nagorno-Karabakh]. Non c’era forza lavoro nella stessa Stepanakert. Abbiamo inviato lì Azeri dai luoghi circostanti la regione. Con queste e altre misure, ho cercato di avere più Azeri nel Nagorno-Karabakh e di ridurre il numero di Armeni”.

In questo modo, la politica sistematica delle autorità azere di interrompere con ogni mezzo la vita pacifica nell’Artsakh, di violare i diritti umani fondamentali, di creare un’atmosfera di paura e disperazione, mira a chiudere la questione dell’Artsakh. Questo è ciò a cui mirano i dati completamente falsi e manipolatori di Ilham Aliev sul numero di Armeni che vivono in Artsakh. In varie dichiarazioni e interviste, presenta deliberatamente dati che non hanno nulla a che fare con la popolazione reale di Artsakh. Che, tra l’altro, sono state più volte smentite dai dati forniti dalla parte russa.

Attiro l’attenzione dei rappresentanti dei circoli politici ufficiali di diversi Paesi, della comunità dei diritti umani, delle organizzazioni internazionali, esorto a non cedere alle manipolazioni azerbajgiane, a visitare l’Artsakh o ad utilizzare fonti oggettive per avere informazioni chiare e informazioni imparziali su Artsakh».

La politica di Baku di promuovere l’odio verso gli Armeni e incoraggiare le uccisioni, ha una cronologia chiara, ha dichiarato Gegham Stepanyan, Difensore dei diritti umani della Repubblica di Artsakh.

«32 anni fa, dal 13 al 19 gennaio 1990, con l’esplicito permesso e il sostegno delle autorità azere, fu compiuto a Baku un massacro sistematico e massiccio della popolazione armena. Durante la settimana, a seguito di queste atrocità, centinaia di Armeni sono stati uccisi, centinaia di migliaia di armeni sono rimasti indigenti e sottoposti a tortura. La popolazione armena di Baku e di altre città, sotto la diretta minaccia della loro esistenza fisica, è stata costretta reinsediarsi e, come rifugiati, trovare rifugio in Artsakh, in Armenia e in altri Paesi del mondo, non ha mai ricevuto lo status e il sostegno internazionale.

Per molti anni, il patrimonio culturale armeno in questi territori è stato oggetto di atti vandalici e profanazioni, e il loro valore storico e significato sono stati distorti dalle autorità azere, adattandoli alle loro opportunità politiche. L’attuazione, l’incoraggiamento e l’esaltazione degli omicidi degli Armeni da parte delle autorità dell’Azerbajgian, purtroppo già da parte della società azerbajgiana, è sistematica, su larga scala, ha una cronologia chiara: il massacro di Baku nel 1905 e nel 1918, a Sumgayit nel febbraio 1988, a Gandzak-Kirovabad nel novembre dello stesso anno, negli anni ’90 ancora a Baku e Maraga, la glorificazione di Ramil Safarov, che uccise Gurgen Margaryan con un’ascia nel 2004. Le uccisioni di civili e le torture soldati armeni durante la guerra di aprile del 2016 e l’aggressione azero-turca nel 2020 sono prove inconfutabili della politica sistematica di promozione dell’odio anti-armeno e delle sue conseguenze. A causa di molti anni di avvelenamento della società da parte delle autorità, l’intolleranza, l’odio e la sete di uccidere gli Armeni, il vandalismo contro il patrimonio culturale armeno e la profanazione dei monumenti in Azerbajgian sono diventati non solo politica statale, ma anche nazionale. Questo è un fatto contro il quale l’urgenza di agire è sancita dalla decisione della Corte internazionale di giustizia.

Sotto i falsi slogan di stabilire la pace nella regione, le autorità azere continuano a commettere violazioni diffuse e su larga scala dei diritti degli Armeni di Artsakh, creando un’atmosfera di paura e disperazione con vari metodi, sconvolgendo la vita normale in Artsakh, isolando la gente di Artsakh dal mondo. Ci sono molti materiali che confermano i crimini commessi contro gli Armeni dall’Azerbajgian, ma è necessario uno sguardo imparziale e coraggioso per vedere tutto questo e dare una valutazione adeguata. Purtroppo, questi crimini non hanno ancora ricevuto una chiara valutazione giuridica da parte della comunità internazionale. Questa impunità è uno dei motivi principali per cui l’Azerbajgian si permette di violare palesemente le norme del diritto internazionale, di parlare con odio di un’intera nazione, senza timore di essere ritenuto responsabile».

Ararat Mirzoyan, Ministro degli Esteri della Repubblica di Armenia.

Yerevan ha preparato proposte volte a ridurre l’escalation della situazione al confine armeno-azero

Oggi, 19 gennaio 2020 il Ministro degli Esteri della Repubblica di Armenia, Ararat Mirzoyan ha detto in Parlamento che la parte armena ha preparato un pacchetto di misure volte ad attenuare la situazione al confine armeno-azero, riducendo le tensioni, aumentando la sicurezza e la stabilità e lo ha consegnato alla parte russa, e attraverso Mosca anche all’Azerbajgian . “Ora stiamo aspettando una risposta”, ha detto Mirzoyan. “Naturalmente non posso rendere pubblico i dettagli – ha aggiunto -. Posso solo dire che provengono dalle questioni costantemente sollevate dal Presidente del Consiglio di sicurezza sul ritiro speculare delle truppe e della creazione di ulteriori meccanismi di sicurezza – il nostro concetto generale, espresso in precedenza”, ha detto Mirzoyan. Ha aggiunto che questo pacchetto è stato presentato al Consiglio di sicurezza.

Il 14 gennaio scorso, il Ministro degli Esteri della Federazione Russa, Sergei Lavrov, in una Conferenza Stampa a seguito dei risultati delle attività della diplomazia russa nel 2021, ha affermato che la Russia trasmetterà all’Azerbajgian le proposte dell’Armenia in merito a una Commissione sulla delimitazione del confine tra i due Paesi, con la sua successiva demarcazione. “Proprio ieri ho parlato con il collega armeno che aveva nuove proposte, le stiamo passando a Baku. Vedremo come far funzionare [la Commissione] il prima possibile”, ha detto. “È ottimale creare questa Commissione includendo nella sua agenda questioni che devono essere affrontate in via prioritaria”, ha aggiunto Lavrov. Come ha osservato il Capo della diplomazia russa, Baku e Yerevan stanno avanzando le loro proposte per la creazione di una Commissione, ma su questo tema permangono disaccordi. “Per creare una Commissione è necessario prima di tutto mettersi d’accordo a quali termini. Queste condizioni sono attualmente in discussione. Ci sono discrepanze, – ha proseguito Lavrov. “La nostra posizione è semplice: dobbiamo sederci e, nell’ambito di una Commissione ufficialmente costituita, risolvere tutte quelle questioni che attualmente rimangono irrisolte”.

David Babayan, Ministro degli Esteri della Repubblica di Artsakh.

Il Ministro degli Esteri della Repubblica di Artsakh ritiene improbabile l’inizio di una nuova guerra nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh in questa fase

Nessuno può garantire, che non ci saranno nuove guerre nella zona del conflitto del Nagorno-Karabakh, ha affermato il Ministro degli Esteri della Repubblica di Artsakh, David Babayan oggi, 19 gennaio 2022 durante una Conferenza Stampa a Stepanakert, quando gli è stato chiesto di valutare le minacce del Presidente dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev di scatenare un’altra guerra. Ma – ha proseguito il Capo della diplomazia dell’Artsakh – la possibilità di una guerra esiste, però in questo contesto è molto piccola. «Perché? In primo luogo, un attacco su larga scala all’Armenia – non intendo vari tipi di provocazioni organizzate dalla parte azerbajgiana al confine – significherà effettivamente un attacco all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva [un’alleanza militare creata il 15 maggio 1992 da sei Stati dell’allora Unione delle Repubbliche Socialistiche Sovietiche] e non può passare inosservato. Abbiamo assistito agli ultimi eventi in Kazakistan e al primo tipo di reazione di questo tipo da parte della OTSC. Cioè, un attacco all’Armenia significherebbe un attacco alla OTSC, cioè alla Russia. Questo per quanto riguarda l’Armenia, soprattutto se c’è anche il sostegno della Turchia. Per quanto riguarda l’Artsakh, come sapete, qui la pace e la stabilità sono mantenute, anche dal contingente russo di mantenimento della pace. Cioè, un attacco all’Artsakh significherebbe automaticamente un attacco al contingente di mantenimento della pace russo e, quindi, alla Russia. In questo contesto, sarebbe già un’altra guerra», ha detto il Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh.

Babayan ritiene che è improbabile che l’Azerbajgian lo capisca, ma – sulla base di quanto sopra, secondo Babayan – in questa fase è improbabile l’inizio di ostilità su larga scala. Allo stesso tempo, il Capo della diplomazia dell’Artsakh è convinto che se islamisti e panturchi raggiungessero i loro obiettivi in Kazakistan, allora la probabilità di iniziare un quarto di guerra sarebbe del cento per cento. «Ma ora questa probabilità è molto piccola», ha concluso.

Kiro Manoyan, Capo dell’Ufficio di Presidenza dell’Armenian Revolutionary Federation-ARF Dashnaktsutyun Hay Dat (Causa armena) per le questioni politiche.

Per l’ARF, secondo la logica esistente, la normalizzazione delle relazioni si concluderà con la dipendenza dell’Armenia dalla Turchia

Il fatto di nominare come Rappresentante speciale dell’Armenia nei negoziati con la Turchia un Ruben Rubinyan, piuttosto inesperto, soprattutto nel confronto con Serdar Kılıç (già ambasciatore della Turchia negli Stati Uniti, in Libano e in Giappone, nominato in dicembre 2021 Inviato speciale della Turchia per la normalizzazione delle relazioni con l’Armenia) dà l’impressione che in realtà sia già tutto concordato tra Yerevan e Ankara. Di conseguenza, i negoziati saranno puramente formali. Questo è il parere espresso ad ArmInfo da Kiro Manoyan, Capo dell’Ufficio di Presidenza dell’Armenian Revolutionary Federation-ARF Dashnaktsutyun Hay Dat (Causa armena) per le questioni politiche [*].

«In linea di principio, una differenza significativa nelle categorie di peso, la sconfitta dell’Armenia nella guerra non solo con l’Azerbajgian, ma proprio con la Turchia nell’autunno del 2020, determina già un certo atteggiamento di Ankara nei confronti di Yerevan. Il che dà alla figura del Rappresentante speciale armeno, nella migliore delle ipotesi, un significato di terz’ordine. I Turchi considerano la questione dell’Artsakh risolta, ma continuano a chiedere il “corridoio di Zangezur” [QUI], che è una continuazione della loro politica a lungo termine di precondizioni nei confronti dell’Armenia”», ha osservato Manoyan.

L’ARF considera la distruzione delle tesi politiche e degli obiettivi della diaspora armena negli Stati Uniti un obiettivo importante di Ankara nello sviluppo dei rapporti con Yerevan, che contiene un certo pericolo. Innanzitutto per la prospettiva della formazione da parte dei Turchi, con il supporto delle autorità armene, di ostacoli all’attività degli Uffici di Hay Dat (Causa armena) e di altre strutture politiche della diaspora. Manoyan prevede che se Yerevan si opporrà al lavoro di questi Uffici, diventerà molto più difficile per gli Armeni della diaspora di difendere i propri interessi. Questo si concluderà, secondo Manoyan, con un’ondata di malcontento non solo nella diaspora, ma anche nella stessa Armenia.

L’ARF non vede particolari vantaggi economici per l’Armenia dalla prospettiva di sbloccare il confine armeno-turco. Riferendosi alla ricerca e all’analisi degli esperti dell’ARF in questo settore, ha sottolineato che l’apertura del mercato turco ai prodotti armeni non finirà nel nulla. Innanzitutto per la necessità che le importazioni in Turchia rispettino gli standard europei. Mentre ci sono pochissimi prodotti del genere prodotti in Armenia. Anche se oggi nulla impedisce ai Turchi di esportare merci di qualsiasi qualità in Armenia.

Manoyan rileva un’altra minaccia nella componente economica della normalizzazione della relazione armeno-turco: l’espansione economica della Turchia in Armenia con la prospettiva di un’espansione politica. «Attraverso l’acquisto di oggetti strategicamente importanti per cui non ci sono restrizioni legislative in Armenia. Insieme al resto dei punti all’ordine del giorno, dopo aver precipitato l’Armenia nella dipendenza economica da loro, la Turchia e l’Azerbajgian sfrutteranno ogni opportunità per dettare i propri termini e politiche all’Armenia.

Dobbiamo capire la cosa principale: la Turchia non vuole vedere un’Armenia indipendente come un suo vicino a livello uguale. I Turchi stanno conducendo un processo con l’Armenia esclusivamente in una direzione: la formazione della dipendenza del nostro Paese da loro. Qualcosa di simile è già successo con la confinante Georgia. Questo per noi è un chiaro esempio. L’ARF non è assolutamente contraria all’instaurazione di normali relazioni con la Turchia, ma solo se Ankara non ha il desiderio di rendere l’Armenia dipendente dalla Turchia. I Turchi devono riconoscere il genocidio armeno, pagare un risarcimento e quindi fornirci garanzie che tali eventi non si ripetano più in futuro. Solo successivamente sarà possibile normalizzare le relazioni», ha concluso il rappresentante dell’ARF.

[*] La Armenian Revolutionary Federation-ARF (Federazione Rivoluzionaria Armena, in armeno: Hay Heghapokhakan Dashnaktsutyun-HHD), nota anche come Dashnaktsutyun o Dashnak, è un partito politico socialista e nazionalista armeno fondato nel 1890 a Tiflis, nell’Impero russo (oggi Tbilisi, Georgia). Oggi il partito opera in Armenia, Artsakh, Libano, Iran e nei Paesi dove è presente la diaspora armena. Sebbene sia stato a lungo il partito politico più influente nella diaspora armena, ha una presenza relativamente minore nell’Armenia moderna. A partire dall’ottobre 2021, il partito è rappresentato in tre parlamenti nazionali, con dieci seggi nell’Assemblea nazionale armeno, tre seggi nell’Assemblea nazionale di Artsakh e tre seggi nel parlamento libanese nell’ambito dell’Alleanza dell’8 marzo.

L’ARF ha tradizionalmente sostenuto il socialismo democratico ed è membro a pieno titolo dell’Internazionale Socialista dal 2003, a cui aveva aderito originariamente nel 1907. Ha la più grande adesione dei partiti politici presenti nella diaspora armena, avendo stabilito affiliati in più di 20 Paesi. Rispetto ad altri partiti armeni della diaspora, che tendono a concentrarsi principalmente su progetti educativi o umanitari, l’ARF è l’organizzazione più politicamente orientata e tradizionalmente è stata uno dei più strenui sostenitori del nazionalismo armeno. Il partito si batte per il riconoscimento del genocidio armeno e il diritto al risarcimento. Sostiene inoltre l’istituzione dell’Armenia unita, parzialmente basata sul Trattato di Sèvres del 1920 (il trattato di pace firmato tra le potenze alleate della prima guerra mondiale e l’Impero ottomano il 10 agosto 1920 nel Salone d’onore del Museo nazionale della ceramica presso la città francese di Sèvres, con la spartizione dell’Impero ottomano fra gli Alleati della Prima Guerra Mondiale).

Accogliendo favorevolmente l’apertura il 2 settembre 2021 l’apertura a Stepanakert dell’Ufficio della rete mondiale Hay Dat (Causa Armena), il Ministro degli Esteri della Repubblica di Artsakh, David Babayan ha molto apprezzato l’attività pluriennale dell’Hay Dat finalizzata alla tutela degli interessi della Repubblica di Artsakh, al riconoscimento del genocidio armeno e alla risoluzione di varie questioni di rilevanza pan-armena. Poi, Babayan ha toccato le questioni di politica estera e gli attuali sviluppi geopolitici, rilevando in questo contesto l’importanza di preservare lo status di Artsakh come soggetto geopolitico e il processo del suo riconoscimento internazionale. Tra le precondizioni fondamentali per il successo, il ministro ha notato il lavoro adeguato e coordinato, il consolidamento delle relazioni tra Patria e Diaspora e la conservazione dell’Artsakh come uno dei valori supremi pan-armeno.

Foto di copertina: Siamo le nostre montagne (in armeno, Menq enq mer sarerè), il grande monumento a Stepanakert, la capitale della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh, un piccolo fazzoletto di terra incastrato nelle montagne del Caucaso meridionale. Karabakh è una parola di origine turca e persiana che significa «giardino nero». Nagorno è una parola russa che significa «montagna». La popolazione di origine armena della Montagna del Giardino Nero preferisce chiamare la regione Artsakh, il nome antico armeno. Il monumento, completato nel 1967 da Sarghis Baghdasaryan, è significativamente considerato come il simbolo principale del Artsakh. Costruito in tufo, raffigura un uomo anziano ed una donna che emergono dalla roccia, a rappresentare la gente delle montagne del Nagorno-Karabakh Una delle caratteristiche principali è la poca definitezza della scultura. È conosciuta anche come Tatik yev Papik in lingua armena orientale e Mamig yev Babig in lingua armena occidentale, traducibile come Nonna e Nonno. Il monumento appare anche nello stemma della Repubblica di Artsakh.

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Roma-Mkhitaryan, 100 presenze e un rinnovo che si avvicina (Calciomercato 19.01.22)

Cento volte insieme. Henrikh Mkhitaryan domani contro il Lecce in coppa Italia raggiungerà un traguardo importante alla vigilia dei suoi trentatre anni.  Ancora da chiarire se sarà l’ultimo (da calciatore) nella capitale oppure no. Sembrava ormai alla sua ultima stagione in giallorosso vista la scadenza contrattuale a giugno e il rapporto con Mou. Ma proprio il nuovo ruolo a centrocampo gli ha consegnato una seconda giovinezza.  Sono dieci, infatti, le gare giocate di fila per intero dall’armeno in campionato dopo la panchina severa col Venezia. Anche contro il Cagliari Micki è stato tra i migliori in campo (anzi probabilmente il migliore) tagliando quota 99 presenze condite da 27 gol e 24 assist.

RINNOVO –  La scorsa estate il suo sembrava un addio scontato, ma dopo il confronto con Mou ha deciso di rinnovare per un’altra stagione. Senza impegno. Nel contratto del quasi 33enne non ci sono opzioni, come  un anno fa. Ma i rapporti tra la Roma e Mino Raiola sono talmente buoni che non ci saranno problemi in caso di unità di intenti. Mourinho conta molto sull’armeno e lo vorrebbe ancora in rosa. L’ingaggio non è di quelli bassi (4 milioni più bonus elevati) ma forse è tra i pochi a meritarlo attualmente. E poi si tratterebbe di un altro annuale. La famiglia di Mkhitaryan nella capitale si trova molto bene e qui ha visto la nascita del primo figlio Hamlet. La scelta di vita riguarda proprio il posto dove vivere perché per lui sarebbe pronto un posto da dirigente nel Krasnodar.

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A 15 anni dall’omicidio verità e giustizia per il ‘profeta’ Hrant Dink (Asianews 191.01.22)

Il giornalista e direttore di Agos è stato ucciso a colpi di pistola il 19 gennaio 2007. I contorni della vicenda restano oscuri, in un clima di impunità. L’appello dell’Associazione giornalisti turchi. Fonte di AsiaNews: uomo con una visione “profondamente cristiana e civile”, che ha creato “imbarazzo” alle parti in causa.

Istanbul (AsiaNews) – Giustizia e verità, mantenendo vivo il ricordo di un intellettuale appassionato e dalla visione “profondamente cristiana e civile”. É quanto chiedono i cristiani in Turchia, per i 15 anni dalla morte del giornalista di origine armena Hrant Dink, ucciso davanti alla sede di Agos, il quotidiano del quale era direttore, il 19 gennaio 2007. Il suo assassino, Ogun Samast, 17enne disoccupato al momento dell’omicidio, ha confessato il crimine e nel 2011 è stato condannato a 23 anni di galera. Inoltre, lo scorso anno il tribunale ha comminato altri quattro ergastoli, ma sull’intera vicenda e le reali responsabilità non si è ancora fatta davvero chiarezza.

Due anni prima dell’omicidio le autorità lo avevano processato per aver scritto del genocidio armeno del 1915, sempre negato dalla Turchia. Freddato con quattro colpi di pistola sparati a bruciapelo, la sua scomparsa aveva smosso le coscienze di molti cittadini e più di 100mila persone avevano partecipato alle sue esequie, riconoscendo l’opera di un cronista che aveva operato per la riconciliazione fra turchi e armeni. Nel gennaio 2021 è stato inaugurato un centro giovanile a Istanbul dedicato alla sua memoria e nei giorni scorsi hanno preso il via i colloqui fra rappresentanti di Erevan e Ankara nel difficile tentativo di raggiungere una pace “senza precondizioni”.

Nel quindicinale dall’assassinio, una fonte ecclesiastica di AsiaNews in Turchia, dietro anonimato, sottolinea con rammarico che “nessuno parla quasi più” di Hrant Dink e la sua morte. “In fondo – prosegue – è una personalità che ha creato imbarazzo alle parti in causa” con le sue prese di posizione nette, senza fare sconti. “Per me è stato un autentico profeta, un uomo con una visione profondamente cristiana e civile” in linea “col Concilio Vaticano II”. La fonte definisce “sconcertante” come anche “parte del mondo cristiano” lo abbia dimenticato, per questo suggerisce di “leggere un nuovo libro intitolato ‘L’inquietudine della colomba. Essere armeni in Turchia’”.

Fra le poche realtà che hanno fatto sentire la propria voce in questi giorni vi è l’Associazione giornalisti turchi (Tgc), che assieme al Consiglio della stampa ha diffuso un comunicato in cui ricorda che “siamo ancora in attesa di giustizia per Hrant Dink”. Egli è omaggiato per la sua strenua difesa “della pace universale” e la lotta “per la fraternità fra i popoli delle due nazioni, Armenia e Turchia”. In una nazione, prosegue la nota, in cui è ormai “ordinario” l’arresto dei giornalisti per il proprio lavoro viene ricordato una volta di più il valore “della libertà di stampa”. “Siamo tutti responsabili – prosegue – per l’eliminazione dei discorsi di odio nei media, per vivere in modo pacifico in una società in cui non vi siano razzismo e discriminazione”. Il Consiglio per la stampa ricorda infine che “le forze oscure” che hanno pianificato il suo assassinio sono tuttora segrete e impunite, per questo bisogna “fare piena luce” sulla vicenda e rendere giustizia alla sua memoria.

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Turchia-Armenia: dal 2 febbraio primi voli diretti (Ansa 19.01.22)

(ANSAmed) – ISTANBUL, 19 GEN – Il prossimo due febbraio inizieranno i collegamenti aerei diretti tra la Turchia e l’Armenia nell’ambito del processo di normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi recentemente avviato. Lo ha reso noto in un comunicato il ministero dei Trasporti di Ankara, secondo cui la compagnia turca Pegasus Airlines opererà tre voli alla settimana dall’aeroporto Sabiha Gokcen di Istanbul alla capitale armena, Yerevan. Voli diretti dall’Armenia alla Turchia saranno gestiti dalla compagnia moldava FlyOne.

Il 14 gennaio si è tenuto a Mosca il primo incontro tra i rappresentanti diplomatici nominati da Ankara e Yerevan per guidare il processo di riconciliazione. “Le parti hanno trovato un accordo per portare avanti senza precondizioni il negoziato che punta alla piena normalizzazione”, ha fatto sapere il ministero degli Esteri turco in un comunicato, secondo cui il primo incontro tra i diplomatici si è svolto “in un clima positivo e costruttivo” e un nuovo incontro sarà presto organizzato.

Il negoziato in corso segue tentativi falliti negli ultimi 30 anni per tentare di normalizzare le relazioni diplomatiche, interrotte nel 1993 a causa del sostegno della Turchia all’Azerbaigian nella guerra contro l’Armenia per la regione contesa del Nagorno-Karabakh. La conquista di gran parte dei territori nell’area da parte di Baku con l’ultimo conflitto a fine 2020 ha modificato gli equilibri e creato le condizioni per un nuovo tentativo di riconciliazione tra Turchia e Armenia

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Minassian, dal Libano la grande testimonianza di unità tra i cristiani (Vaticannews.va 19.01.22)

I cristiani sono “dispersi sulla terra e caduti nel tumulto dell’egoismo individuale e collettivo”, dimenticando il loro Signore. Sono state parole ferme quelle pronunciate dal patriarca armeno-cattolico Raphaël Bedros XXI Minassian nell’aprire, domenica scorsa, nella cattedrale dei Santi Elia e Gregorio a Beirut, la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Profonde ferite impediscono l’unità

Il patriarca ha sottolineato la sofferenza che ancora oggi le Chiese cristiane vivono per “ferite profonde e dolori strazianti, causati dai secoli”, ha invocato l’unità voluta da Dio Creatore e sollecitato il ritorno alla preghiera. Ad ascoltarlo, per la prima volta uniti per tale occasione, patriarchi, vescovi, sacerdoti, rappresentanti delle Chiese cristiane del Paese, tra loro il patriarca dei maroniti, il cardinale Béchara Boutros Pierre Rai, il patriarca dei melchiti, arcivescovo Youssef Absi, il patriarca siro-cattolico di Antiochia Youssef Younan, il nunzio apostolico in Libano, monsignor Joseph Spiteri.

Le meditazioni proposte per la Settimana

Quest’anno le meditazioni prendono spunto dal tema scelto dal Consiglio delle Chiese del Medio Oriente, con sede proprio a Beirut, e tratto dal Vangelo di Matteo: “In Oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per onorarlo”:

Ascolta l’intervista con Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian

Sua Beatitudine, “il Cristo cattolico non è diverso dal Cristo ortodosso”: questo è stato un significativo passaggio della sua riflessione per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, in cui lei ha sottolineato come, contro le divisioni, sia necessario tornare all’arma della preghiera. È ciò che serve per trovare l’unità?

Prima di tutto vorrei dire che questa frase, il Cristo cattolico è lo stesso del Cristo ortodosso, l’ho sentita dalla mia mamma, un’orfana del genocidio armeno. Era il 1956, nel villaggio c’erano solo due chiese, per caso lei assistette alla Messa in una chiesa siro-ortodossa e per questo venne criticata: “Come mai sei sposata ad un cattolico e vai in una chiesa ortodossa?” La sua risposta fu: “Che differenza c’è? Cristo non è lo stesso di quello ortodosso?”. Se riflettiamo profondamente sull’unità della Chiesa, troviamo che Cristo è il centro della nostra vita, sia nella Chiesa ortodossa, sia nella Chiesa cattolica. Non dobbiamo punire Cristo! Questo è il punto che mi tortura. È vero che noi uomini non siamo d’accordo fra di noi, ma così puniamo nostro Signore che è il nostro Salvatore, che ci ha salvati tutti, quindi, praticamente, è questo il primo senso dell’unità: che Cristo è qui e là, e questo come primo punto. Secondo: l’unica cosa che ci avvicina l’uno all’altro è la preghiera, perché che cosa è la preghiera se non un dialogo con il mio Salvatore, con Dio? E allora quando gli chiederò o racconterò una cosa, lui mi guarderà bene negli occhi e dirà: a te io ho consegnato la mia Chiesa, cosa stai facendo? Perché questa divisione? E quale sarà la mia risposta, se non chiedere perdono e invitare mio fratello che è separato? O anche viceversa, che sia lui a chiamarmi ad andare insieme nella preghiera, per mostrare a Dio che ci siamo assunti questa responsabilità di salvaguardare la sua istituzione divina che è la Chiesa universale.

Il tema di quest’anno della Settimana fa riferimento ai Magi, rievoca la loro esperienza nel seguire la stella per trovare e onorare il Bambino. Perché si parte da questa riflessione scelta dalle Chiese del Medio Oriente?

Io penso che il tema scelto sia veramente reale, perché oggi i Magi siamo noi, siamo alla ricerca vera di Cristo, di Gesù Bambino, del nostro Creatore, che ha tralasciato la sua dignità divina per scendere e incarnarsi, che ha vissuto con noi e per noi, per salvarci e per riconciliarci con il Padre. Quindi, praticamente, siamo i Magi sotto la luce di questa stella, luce che è data dal Creatore per illuminare la nostra strada, per arrivare alla meta che è Cristo, suo Figlio unigenito. Siamo noi quei Magi che, alla ricerca di questa via, di questa verità e di questa vita, camminano sotto la luce che ci ha dato il Signore tramite la Chiesa.

Papa Francesco, all’Angelus di domenica scorsa, ha ricordato come i cristiani siano pellegrini in cammino verso la piena unità. Li ha invitati ad offrire le fatiche e le sofferenze e li ha sollecitati a tenere lo sguardo fisso su Gesù per avvicinarsi sempre più alla meta. Cosa ha impedito finora ai cristiani di arrivare a questa unità? È un ostacolo che ancora è presente?  

Direi di sì, perché il nostro peccato è sempre davanti a noi, davanti ai nostri occhi: il nostro egoismo. Noi possiamo parlare, dire e presentare tante belle intenzioni per qualsiasi iniziativa, ma in realtà siamo lontani l’uno dall’altro, perciò tutti questi sacrifici, questi mali, che noi sopportiamo e offriamo al nostro Signore, come dice il Papa, sono mezzi, così come il sacrificio che veniva presentato a Dio nell’Antico Testamento. Tutti i nostri dolori, tutte le nostre sofferenze, sarebbero un dono per ricevere una grazia, perché noi siamo consapevoli della nostra debolezza umana, perciò chiediamo al Signore di aiutarci ad avere il coraggio di dimenticare noi stessi e vivere per l’altro. Quindi, c’è questo sacrificio di cui parla il Santo Padre, a cui va aggiunta la preghiera. Dobbiamo chiedere al Signore e chiarire davanti a lui, umilmente: io sono peccatore, io sono debole, chiedo l’aiuto per aprirmi a mio fratello e accettarlo, così come prego anche per lui, che abbia questo coraggio di guardarmi, e così, guardandoci l’un l’altro, ci avvicineremo per amore del terzo che è l’essenziale, il punto centrale della nostra vita, la nostra meta, e il futuro, che è Cristo.

Come è stata vissuta in Libano, domenica scorsa, l’apertura della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani?

Durante la mia riflessione, alla presenza di tutti i patriarchi, vescovi, sacerdoti, rappresentanti di tutte le Chiese, il punto al quale volevo arrivare era fare chiarezza sul fatto che noi, in questo secolo, non arriviamo ancora a metterci accanto l’uno all’altro. In Libano, invece, questa volta, e penso che sia stata la grazia del Signore, c’è stata una risonanza molto ampia, in tutte le comunità e molto positiva nel Paese, e ringrazio Dio per questa luce e per questa unità. L’invito era a tutti quanti e il fatto che siano venuti è di per sé già una grazia, per molti motivi, come quelli che impediscono il movimento in questo Paese. Noi non abbiamo invitato la gente, ma i fedeli c’erano, noi avevamo invitato soltanto il clero e i rappresentanti di tutte le Chiese presenti nel Libano ma, a parte loro, sono venuti anche altri. Tutti voi conoscete la situazione in Libano e la sofferenza ingiusta che vivono i libanesi, per questo io considero un miracolo l’essere venuti tutti, una presenza del Signore nella nostra vita e, forse, una testimonianza per gli altri.

Armenia. Lettera aperta alla senatrice Papatheu (genteeterritorio.it 18.01.22)

L’autore della seguente lettera aperta, già manager del Gruppo Ferruzzi e della Philip Morris, ha scritto, tra gli altri, “I tre circoli del potere” (in edibus), libro inchiesta sugli anni di tangentopoli.

 

Lettera aperta alla Senatrice Urania Giulia Papatheu (Forza Italia) la quale ha rilasciato la seguente dichiarazione:

Roma, 14 gennaio 2022 – 10:33 – (Agenzia Nova) – “Lancio un appello a tutti i parlamentari, nazionali ed europei, affinché le provocazioni da parte dell’Armenia al confine di Stato con l’Azerbaigian non scatenino una escalation di violenze. Un silenzio, quello da parte del mondo politico ed anche della stampa, semplicemente assordante“. Lo afferma in una nota la senatrice di Forza Italia e vicepresidente della commissione Cultura all’interno della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare dell’Iniziativa centro europea, Urania Papatheu. “Provocazioni che hanno portato alla morte di un giovane soldato dell’Azerbaigian, impegnato a fare solo il suo dovere. Ecco perché non possiamo permetterci un altro sanguinoso conflitto – continua la parlamentare di FI -. Naturalmente, sono molto onorata di fare parte del gruppo interparlamentare di amicizia con l’Azerbaigian, grazie al quale ho apprezzato gli sforzi delle autorità di Baku per arrivare ad un processo di pacificazione con l’Armenia“. (Com) ©️ Agenzia Nova.

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Senatrice Papatheu,

Con enorme dispiacere e immenso dolore leggo del Suo appello alla comunità internazionale, nonché a media e organizzazioni politiche, al riguardo delle cosiddette “provocazioni armene”: gli armeni non sono – né mai lo furono nel corso di ventotto secoli – istigatori, provocatori né carnefici… ma bensì le vittime di una storia che coinvolge tutta l’umanità. “L’assordante silenzio” (parole Sue), cui Lei fa accenno, non è quello nei confronti degli azeri ma è, invece, il silenzio assordante che da oltre cento anni avvolge e ignora la tragedia Armena.

Il Suo intento a incitare il “mondo” verso un cammino di pace è sicuramente dettato da nobili intenzioni – nonostante il noto proverbio sulle buone intenzioni e le strade che con esse si lastricano – ma, nel contempo, temo che il Suo appello difetti anche di una prospettiva storica fondamentale per capire i problemi dell’Armenia e del suo popolo.

Qui occorre fare accenno rapidamente a due diverse catene di eventi: (A) Anatolia Armena; e (B) il caso Nagorno-Karabakh.

La prego di avere la pazienza di leggere i fatti qui sotto esposti in ordine cronologico, altrimenti alcuni eventi attuali – se tolti dal grande fiume della Storia – non si comprendono, restando invece avulsi dalla realtà attuale.

A) Armeni e Anatolia

  • 1) Il popolo armeno si insediò in Anatolia nel VII secolo A.C. (attenzione, sì, ho detto proprio… Avanti Cristo);
  • 2) I turchi invasero l’Anatolia armena nel XI secolo D.C. (cioè ben 18 secoli da quando gli armeni vi abitavano senza mai aver fatto guerra ad alcun popolo);
  • 3) A partire dall’inizio del XX secolo gli armeni sono stati oggetto (da parte dei Turco-Ottomani) del genocidio più crudele e raccapricciante della storia dell’intera umanità. Ciò è sotto gli occhi di tutti e sono tutti fatti assolutamente innegabili e comprovati (incluso il libro con fotografie e testimonianze di Armin T. Wegner edito dalla Guerini e Associati);
  • 4) Le comunità internazionali, inclusa ahimè l’Italia, hanno prima illuso e poi abbandonato gli armeni, tradendo la parola data. Anche qui si tratta di eventi storici e inconfutabili, ossia:
      • a. Il 10 agosto 1920 il trattato di Sèvres (firmato dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale e dagli Ottomani) stabiliva la costituzione di un grande stato Armeno (più del doppio di quello attuale), nonché quello del Kurdistan, mentre l’impero Ottomano (Turchia) avrebbe avuto solo la metà occidentale dell’Anatolia.
      • b. Il suddetto trattato, per debolezza e inerzia delle potenze Europee e degli USA non fu mai applicato, lasciando invece strada alla rivolta turca guidata da Mustafà Kemal Atatürk. Tutta la comunità internazionale, in quei tre anni di eccidi, chiuse gli occhi!
      • c. Il 24 luglio del 1923 la Turchia (non più chiamata Impero Ottomano) firmò il trattato di Losanna che – di fatto – accoltellava alla schiena le promesse europee e americane fatte ad armeni e kurdi: fu costituita una piccola Armenia (quella attuale), niente terre ai kurdi, lasciando invece ai turchi territori che avevano sottratto agli armeni dopo averli derubati e sterminati.
      • d. Tra l’altro, visto che il Suo nome è greco… sappia che nell’intervallo di tempo fra i due trattati, centinaia di migliaia di greci furono trucidati dai turchi mentre, quelli che poterono, fuggirono dai loro insediamenti secolari dell’Anatolia occidentale (sul Mar Egeo, per intenderci).
  • B) Armenia e il Nagorno-Karabakh
    • 1) La storia di questa regione Caucasica è molto antica e complessa, per cui non se ne può fare un sunto in questa sede. Tuttavia, La invito a leggere anche la semplice pagina di Wikipedia (la più riassuntiva e lineare che si trovi in Internet) che le allego qui sotto;
    • 2) Nel 1923 Stalin, odiatissimo sia da azeri che da armeni, decise che il Nagorno-Karabakh sarebbe stato parte dell’Azerbaijan nel suo personale disegno dei confini delle repubbliche Sovietiche, un po’ come fecero Inghilterra e Francia nel tracciare arbitrari confini in Medio Oriente dopo la disgregazione dell’impero Ottomano. Tuttavia, da sempre il Nagorno-Karabakh era armeno e abitato da etnie armene;
    • 3) Il 20 febbraio 1988, il Consiglio Nazionale del Nagorno-Karabakh votò per rimanere con l’Armenia, staccandosi dall’Azerbaijan;
    • 4) Il 27 febbraio 1988 si scatenò la caccia agli armeni da parte degli azeri che terminò con un massacro di un centinaio di persone (armene);
    • 5) Il 30 agosto 1991, a seguito della disgregazione dell’URSS, l’Azerbaijan costituì la propria repubblica, decidendo unilateralmente, di abolire lo statuto autonomo del Karabakh;
    • 6) Il 10 dicembre 1991 nacque la Repubblica del Nagorno-Karabakh (Artsakh), poi il 6 gennaio 1992 (dopo le elezioni locali) venne proclamata la Repubblica Artsaks e, infine, il 31 gennaio 1992 cominciarono i bombardamenti da parte degli azeri.
    • 7) È quindi a partire dal gennaio 1992 che occorre risalire per inquadrare le recenti vicende: le prime ed estese provocazioni – anzi, veri e propri atti di guerra con i bombardamenti – sono stati intrapresi dall’Azerbaijan. Dunque, ancora una volta, come nel caso dell’Anatolia e dei turchi, gli armeni sono le vittime e non gli aggressori. Il perché è presto spiegato:
      • i. Per la stragrande maggioranza, il Nagorno-Karabakh è popolato – come detto più sopra – da armeni, i quali sono cristiani;
      • ii. L’Azerbaijan è musulmano, come il suo alleato Turchia: per entrambi tali stati la distruzione del popolo armeno (cristiano) è tuttora la sacra missione finale per il controllo della regione Caucasica;
      • iii. L’Azerbaijan è tutto fuorché una democrazia: l’attuale presidente Ilham Aliyev, figlio del primo presidente Heydar Aliyev, il quale ha mantenuto il potere con la frode elettorale del 2003, è azionista maggioritario di tutte le banche, delle società di costruzioni e telecomunicazioni del paese, nonché delle compagnie energetiche (gas e petrolio) dell’Azerbaijan. Le sue fortune sono nascoste in paradisi fiscali, come ogni buon dittatore che si rispetti, in modo da poter sbeffeggiare e doppiamente danneggiare i propri cittadini (in questo caso dovrei dire sudditi… sic!);
      • iv. Le vorrei anche segnalare che a Baku vi è il cosiddetto “parco dei trofei” ove si coltiva e si fa proliferare l’odio etnico contro gli Armeni;
      • v. La Turchia è una dittatura pura e semplice (mi pare che anche il Presidente Draghi lo abbia pubblicamente detto senza alcuna remora) ed ha il secondo esercito più grande del mondo, mentre i cittadini di Erdoğan soffrono la fame.

Occorre guardare alla realtà, ossia la foto di oggi, nel contesto del film storico che dura da quasi tre millenni per comprendere la dannazione degli armeni! Azerbaijan e Turchia sono due stati oppressivi – mascherati da democrazie con elezioni pilotate e fasulle – il cui scopo ultimo è la cancellazione dell’Armenia e degli armeni dalla faccia del pianeta.

Viene il dubbio che Lei, forse, non sia al corrente del fatto che circa 40 km quadrati del territorio Armeno sono, a tutt’oggi, occupati dai militari dell’Azerbaijan. Quindi, parlare di “provocazioni armene” per scontri avvenuti tra armeni e soldati azeri posizionati all’interno (occupazione) del confine sovrano dell’Armenia è tanto falso quanto meschino. Non oso immaginare da quali fonti Lei abbia ricevuto le Sue informazioni. Tuttavia, le Sue affermazioni suonano più come un megafono propagandistico a favore di Baku, o dettato dalla politica espansionistica del duo Azerbaijan-Turchia, che quelle di un Membro del Gruppo Interparlamentare per l’amicizia dell’Azerbaijan di cui Lei fa parte. In effetti… stupisce, rattrista, preoccupa.

Signora Papatheu…

  1. Lei che è nata in un Paese democratico come l’Italia, Lei Senatrice che rappresenta un partito di centro e moderato come Forza Italia, davvero pensa che dando, o contribuendo a dare, credibilità alle mire dittatoriali e filo-genocide dell’Azerbaijan e della famiglia Aliyev… sarebbe in linea con i princìpi e valori dell’umana convivenza democratica quali rispetto, verità e giustizia?
  2. Davvero Lei non considera il rischio elevatissimo che questi Suoi appelli altro non faranno che legittimare la dittatura di Ilham Aliyev e le sue mire di eradicazione del popolo Armeno in buona compagnia con Racep Tayyip Erdoğan, fornendo inoltre informazioni errate e distorte ai Suoi elettori?
  3. Le Sue insinuazioni sulle “provocazioni armene” stupiscono ancor di più, visto e considerato il Suo delicato ruolo di vicepresidente della Commissione Cultura all’interno della delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare dell’Iniziativa Centro Europea. Ai miei tempi storia e cultura andavano a braccetto: conoscere la Storia faceva parte integrante della cultura. Forse oggi non più? Faccio fatica a crederlo…

Le allego qui, sotto la mia firma, una serie di links dove potrà trovare molte altre informazioni sulle questioni Armena e del Nagorno-Karabakh.

Temo, purtroppo, che Lei non avrà il tempo e la pazienza di leggere questa, e nemmeno i contenuti degli articoli allegati.

Se invece lo farà, avrà certamente modo di cogliere meglio “l’assordante silenzio” con cui noi europei, unitamente agli americani, da oltre un secolo ignoriamo la tragedia del primo popolo cristiano del pianeta.

Grazie dell’attenzione e cordiali saluti

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Nagorno_Karabakh

https://www.bbc.com/news/world-europe-54324772

https://www.tempi.it/i-turchi-uccidono-gli-armeni-e-leuropa-si-volta-di-nuovo-dallaltra-parte/

https://www.tempi.it/a-baku-ce-perfino-un-parco-dei-trofei-dove-si-coltiva-lodio-verso-gli-armeni/

https://lanuovabq.it/it/perche-turchi-e-azeri-attaccano-il-nagorno-karabakh-armeno

https://www.firstonline.info/armenia-su-nagorno-karabakh-azeri-e-turchi-caccino-i-terroristi/

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Patriarca armeno: superare gli ‘egoismi’ per una vera unità dei cristiani (Asianews 18.01.22)

Inaugurata a Beirut la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Nel suo intervento il primate ha attaccato le divisioni che ancora permangono nella Chiesa. Si viene a perdere il vero significato del sacrificio della croce. Lavorare per l’unità, non “trascinare gli altri verso i propri principi”.

Beirut (AsiaNews/LOJ) – L’ecumenismo è l’atto di redenzione di una precedente rottura. Esso non esiste altro che per rispondere alla preghiera sacerdotale di Cristo: “Che tutti siano uno”, e svanire. Il tema delicato dell’unità della Chiesa si presta spesso a discorsi educati alla cortesia formale. Ma non è questo il caso e il tono scelto dal patriarca armeno-cattolico Raphaël Bedros XXI Minassian per affrontare, ieri sera, la questione in occasione dell’apertura della Settimana di preghiera nella cattedrale dei santi Elia e Gregorio a piazza Debbas, a Beirut.

Rivolgendosi con parole pacate, ma ferme, ai patriarchi e ai capi delle Chiese riunite per l’occasione, presente anche il nunzio apostolico in Libano e il patriarca maronita, il patriarca Minassian non ha esitato a mettere il dito sulla piaga, affermando che le divisioni sono proprie dell’uomo, e che la via maestra per risolvere una volta per tutte la questione è quella di mettere fine a tutti “gli egoismi individuali e collettivi”.

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani si tiene ogni anno dal 18 al 24 gennaio. In tutte le chiese del Libano e del mondo, questi otto giorni sono caratterizzati da meditazioni quotidiane che i fedeli presenti alla messa possono seguire in un libretto messo a loro disposizione dal Consiglio delle Chiese del Medio oriente (Cemo).

Quest’anno le meditazioni sono state affidate dal Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani al Cemo, che ha sede a Beirut. Il loro tema è tratto dalle parole pronunciate dai re magi al loro arrivo a Gerusalemme e riportate dal Vangelo secondo Matteo: “Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo”. Al centro di queste riflessioni, la situazione assai difficile dei cristiani oggi in Oriente e l’urgenza di lavorare per l’unità. È stato il capo della Chiesa armena cattolica, ospite della cerimonia, a pronunciare l’esortazione centrale.

Dei “gesti che non corrispondono alle buone intenzioni”

Lontano dalle formule edulcorate delle meditazioni tradizionali, il patriarca Minassian ha ricordato ai suoi pari che “le Chiese continuano a subire divisioni che le hanno fatte a pezzi in passato” a causa degli “egoismi individuali e collettivi” mostrati dagli uomini di Chiesa e dalle gerarchie religiose. Egli ha poi affermato che “le loro azioni non corrispondono alle buone intenzioni” e “non colgono il vero significato” del sacrificio della Croce.

Denunciando una delle “architravi” dell’ecumenismo, che consiste nel “lavorare per l’unità, ma con lo scopo di trascinare gli altri verso i propri principi”, il capo della Chiesa armeno-cattolica non ha esitato a paragonare le Chiese ai soldati romani che, ai piedi della Croce, si sono divisi le vesti di Gesù.

Affrontando il delicato argomento della presenza reale di Cristo nell’eucaristia, sotto la forma del pane e del vino, egli si è mostrato meravigliato del fatto che “il cattolico rifiuti la comunione con gli ortodossi e gli ortodossi rifiutino la comunione con i cattolici”. “Ma il Cristo cattolico è diverso dal Cristo ortodosso – si interroga il patriarca Minassian – o il sacramento del battesimo è diverso nell’uno rispetto all’altro?”. Siamo ben consapevoli, prosegue, che tutti i sacramenti della Chiesa sono stati stabiliti direttamente da Cristo, quindi “dove sta la controversia? La questione non è forse tutta umana, inghiottita dall’egoismo settario, lontana da qualsiasi principio spirituale e cristiano?”.

Per alcuni ambienti ecclesiastici, non vi è dubbio che il messaggio formulato in modo così diretto dal patriarca degli armeni cattolici si riferisce alle “opacità” e agli “errori” a cui il papa ha fatto riferimento nel suo discorso ai patriarchi e ai capi delle Chiese orientali riuniti la scorsa estate in Vaticano (primo luglio). Il pontefice ha detto: “In questo frangente buio abbiamo cercato insieme di orientarci alla luce di Dio. E alla sua luce abbiamo visto anzitutto le nostre opacità: gli sbagli commessi quando non abbiamo testimoniato il Vangelo con coerenza e fino in fondo, le occasioni perse sulla via della fraternità, della riconciliazione e della piena unità. Di questo chiediamo perdono”. In quel caso il papa aveva parlato a nome di tutti. Forse è giunto il tempo che le Chiese orientali parlino ciascuna per conto proprio?

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Post Patto di Varsavia: i doppi standard dell’OTSC (Osservatorio Balcani E Caucaso 18.01.22)

L’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), che dal 1992 sostituisce di fatto il Patto di Varsavia e alla quale aderiscono sei stati membri, ha avuto comportamenti del tutto differenti riguardo la recente situazione in Kazakhstan e nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan. Un’analisi

18/01/2022 –  Marilisa Lorusso

Le drammatiche proteste in Kazakhstan  hanno preso avvio il 2 gennaio a Zhanaozen, città che era già stata teatro di rivendicazioni di aumento salariale per i lavoratori del ricco settore nazionale degli idrocarburi. Sono state scatenate dal quasi raddoppio del prezzo del carburante e sono presto diventate di portata nazionale. Le rivendicazioni economiche sono rapidamente evolute in politiche. Nel paese vige una totale mancanza di meccanismi di alternanza al potere, con un establishment che si è protratto dai tempi sovietici. E oltre che politiche le proteste sono diventate anche violente, con la messa a ferro e fuoco di edifici governativi.

Il governo non ha riconosciuto i moti come di matrice interna, classificandoli come il prodotto di terrorismo internazionale, e per questo il 5 gennaio ha chiamato in causa l’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC). Il Trattato è del 1992 e sostituisce di fatto il Patto di Varsavia, l’organizzazione militare dell’ex blocco sovietico. Si è strutturato in organizzazione nel 2002 e rispetto al Patto di Varsavia è in versione molto ridotta, con solo 6 stati membri cioè Russia, Bielorussia, Armenia e i tre paesi asiatici di Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan. In 30 anni l’Organizzazione non era mai stata operativa nonostante i precedenti disordini del 2010 in Kirghizistan, gli scontri al confine fra Afghanistan e Tagikistan nel 2015, ma soprattutto la guerra armeno-azera nel 2020 e gli scontri transfrontalieri armeno-azeri nel 2021.

Come la NATO la OTSC ha funzione difensiva in caso di attacchi da parte di stati non membri e quindi non per redimere questioni di ordine pubblico o sicurezza interni agli stati membri. Ma – come il Patto di Varsavia a suo tempo – per il momento la OTSC è stata dispiegata solo una volta (il Patto a Praga nel 1968), adesso in Kazakhstan, e con funzione non di difesa militare per un attacco di un paese terzo ma di polizia all’interno di un paese membro.

L’Armenia e la OTSC

L’Armenia è l’unico dei paesi caucasici a fare parte dell’organizzazione, dopo il ritiro nel 1999 di Georgia e Azerbaijan. Con la salita al governo di Pashinyan i rapporti fra l’OTSC e l’Armenia hanno conosciuto un minimo storico. Nel 2018 il Segretario Generale dell’OTSC, l’armeno Yuri Khachaturov, è finito sotto processo quando a Yerevan il nuovo governo investigava sulle repressioni post elettorali  del 2008, decapitando di fatto la OTSC. Ne sono emerse frizioni con Mosca e con l’Organizzazione.

La OTSC è rimasta inattiva durante gli scontri del 2016 e anzi, proprio il Kazakhstan aveva rifiutato di tenere un incontro dell’organizzazione a Yerevan quell’anno perché il paese era ritenuto “poco sicuro”. Di nuovo, nel pieno dei combattimenti, a ottobre 2020, Pashinyan aveva messo nero su bianco a Putin che i combattimenti riguardavano l’Armenia de jure, non solo il Karabakh, e che era quindi competenza della OTSC di intervenire. La risposta è invece arrivata dal ministero degli Esteri russo che aveva ricordato l’accordo russo-armeno del ’97 di mutua collaborazione e protezione, in caso di necessità. Insomma, per l’Armenia la OTSC non c’è stata, né nel pieno della guerra, né dopo, quando sono cominciate le rivendicazioni territoriali transfrontaliere per la mancata delimitazione e demarcazione del confine con l’Azerbaijan.

A luglio 2021 lo scontro verbale fra l’Armenia e il segretario della OTSC, il bielorusso generale Stanislav Zas, è stato evidente: mentre gli scambi di fuoco lasciavano (come lasciano tuttora) nuovi morti sul terreno, questo ultimo ha negato che ci fossero conflitti transfrontalieri. Gli ha risposto pubblicamente  il Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale armeno Armen Grigoryan invitandolo in sostanza a non dire sciocchezze e venire in Armenia a rendersi conto della situazione. A settembre finalmente Zas si è recato in Armenia, ma alla seguente riunione dei ministri degli Esteri e della Difesa quel mese a Dušanbe mancavano i due rappresentanti armeni perché, questa la motivazione ufficiale, si era rotto l’aereo…

Il dispiegamento

In un momento quindi non splendido nei rapporti OTSC-Armenia, la sorte ha voluto che sia toccato proprio a Nikol Pashinyan annunciare le consultazioni per il primo, storico, dispiegamento di forze dell’Organizzazione in base all’articolo 4 del trattato che recita: “In caso di aggressione (attacco armato che minacci la sicurezza, la stabilità, l’integrità territoriale e la sovranità) contro qualsiasi stato membro, tutti gli altri stati membri, su richiesta di tale stato membro, forniscono immediatamente a quest’ultimo l’aiuto necessario, anche militare”.

Da gennaio la presidenza a rotazione dell’Organizzazione è armena, per cui è stata incaricata Yerevan di coordinare gli incontri politici. Il dispiegamento pratico invece è stato organizzato e amministrato da Mosca. La sera del 7 gennaio Pashinyan ha firmato per mandare in Kazakhstan un centinaio di peacekeepers armeni, parte del contingente di oltre 3000 uomini.

Tutti i paesi che hanno partecipato a questa prima missione dell’Organizzazione hanno sottolineato che il ruolo dei propri uomini sarebbe stato quello di presidiare le infrastrutture. La questione è delicata: in Kazakhstan vivono numerose minoranze, e fare parte del contingente che contribuisce a una repressione – invocata dal presidente kazako Tokajev come feroce – rischia di esporre le minoranze locali a rischi, di innescare scontri interetnici. Sono circa 25.000 i cittadini kazakhi di origini armene, per cui Yerevan ha ricusato – come le altre capitali dell’OTSC – un ruolo di repressore delle proteste.

La missione è durata circa una settimana, e mentre le forze dell’OTSC si ritiravano via Mosca (a parte i kirghisi per prossimità fisica), e divampava il dibattito fra gli analisti sull’importanza di questa prima operazione dell’Organizzazione, a Yerevan si cercava di mandare giù il retrogusto amaro di aver dovuto fare per altri quello che non è stato fatto per il paese. ll Segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale Grigoryan ha commentato  : “Non dobbiamo comportarci come un ragazzino offeso… confidiamo che in futuro, si dovesse trovare in una situazione da aver bisogno di aiuto l’Armenia, lo riceverà”.

Il quadro è stato molto chiaro, e la differenza di priorità, supporto politico e militare, del coinvolgimento dei vertici dell’Organizzazione – con Zas che si è recato immediatamente in Kazakhstan – è spiccata agli occhi di tutti. L’ironia della sorte ha spinto in prima fila nelle operazioni proprio la negletta Armenia. Decisamente un rospo difficile da digerire.

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