Relazioni normalizzate tra Armenia e Turchia: auspicabile ma difficile (Osservatorio Balcani e Caucaso 24.01.22)

In una seduta parlamentare del 13 dicembre, il ministro degli Esteri turco Mevlut Çavuşoğlu ha dichiarato  che Armenia e Turchia sono in procinto di compiere passi decisivi per la normalizzazione delle relazioni bilaterali. Il giorno seguente, Vahan Hunanyan, portavoce del ministero degli Esteri armeno, ha confermato  . Le parti hanno nominato inviati speciali come primo passo in tale direzione e concordato l’inaugurazione di una rotta di voli charter tra Istanbul e Yerevan.

In precedenza, il 27 agosto, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva affermato  , durante una seduta di governo, che l’Armenia avrebbe risposto a segnali pubblici positivi da parte della Turchia con altrettanti segnali positivi e sostenuto una riconciliazione “senza precondizioni”. Nello stesso periodo, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan aveva rilasciato un’intervista  dove sosteneva che, qualora il governo armeno fosse stato disponibile, i due paesi avrebbero potuto normalizzare gradualmente le relazioni bilaterali.

Una ferita centenaria mai sanata

Alla base dei rapporti ostili tra i due paesi vi è la memoria storica del genocidio armeno. Con questa espressione si definiscono i massacri perpetrati dall’Impero ottomano ai danni della popolazione armena tra il 1915 e il 1923; una tragedia costata 1,5 milioni di morti e che Ankara tutt’oggi rifiuta di riconoscere con quel termine, “genocidio”, fatto proprio dalla risoluzione 260 A (III) dell’ONU. La campagna per il riconoscimento del genocidio è stata una delle priorità di politica estera della repubblica armena sin dall’indipendenza. A tal fine, Yerevan si è avvalsa della mobilitazione della “spyurk”, la numerosa diaspora armena presente in molti paesi del mondo.

Ad oggi soltanto 33 paesi hanno riconosciuto il genocidio armeno. Ciò si deve soprattutto al timore di eventuali effetti sui rapporti con Ankara, dato il suo peso economico e geopolitico. James Jeffrey, ex-ambasciatore americano in Turchia, osservò  che “ogni decisione degli Stati Uniti in merito alla classificazione degli eventi del 1915 come genocidio potrebbe provocare una tempesta politica nel paese e gli effetti sulle relazioni bilaterali, incluse quelle politiche, militari e commerciali sarebbero devastanti”. Il persistente negazionismo turco del genocidio causò, tra varie conseguenze, un’onda di attentati terroristici dell’ASALA, organizzazione armata armena che, tra il 1975 (sessantesimo anniversario del genocidio) e il 1986, uccise oltre 30 diplomatici turchi in tutto il mondo.

Dopo aver visto svanire l’esperienza della prima repubblica tra il 1918 e il 1920 e aver vissuto sette decenni in seno all’Unione Sovietica, il 21 settembre 1991 l’Armenia è diventata indipendente. Sebbene la Turchia sia stata uno dei primi paesi a riconoscerla, le tensioni politiche sono emerse subito. Con lo scoppio del conflitto tra Armenia e Azerbaijan per la regione montuosa del Nagorno Karabakh, Ankara diede appoggio all’alleato azero. All’epoca, il presidente dell’Azerbaijan, Heydar Aliyev, coniò l’espressione: “Una nazione, due stati” per descrivere i rapporti del suo paese con la Turchia (“Bir millət, iki dövlət” in lingua azera e “Bir millet, iki devlet” in lingua turca).

In risposta alla presa della regione e dei distretti circostanti da parte dell’esercito armeno, la Turchia chiuse la frontiera con l’Armenia nel 1993. Non solo: impose un embargo economico su Yerevan e co-sponsorizzò la risoluzione 822 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che riconosce il Nagorno Karabakh come parte del territorio sovrano dell’Azerbaijan.

I due paesi tentarono poi di riallacciare i legami nel 2008, quando l’allora Presidente armeno Serzh Sargsyan invitò a Yerevan il suo omologo turco, Abdullah Gül, in occasione di una partita di calcio tra le due nazionali. L’anno successivo, con la mediazione americana e svizzera, Armenia e Turchia siglarono i protocolli di Zurigo, che prevedevano il ripristino di piene relazioni e l’apertura della frontiera comune. Tali sforzi si sono però rivelati vani a causa dell’opposizione dell’Azerbaijan. Come dichiarato dal membro del parlamento azero, Qanira Pashayeva, “l’apertura del confine non è solo contraria agli interessi dell’Azerbaijan, ma anche a quelli turchi. Al momento, la situazione economica e sociale in Armenia è vicina al collasso. L’apertura del confine darebbe di certo impulso allo sviluppo dell’economia armena. Rafforzerebbe il paese. Spero che la Turchia analizzerà più attentamente la questione e non aprirà il confine”. Armenia e Turchia non hanno così ratificato i protocolli e la cosiddetta diplomazia calcistica che tanto aveva fatto sperare nel 2008 non ha portato a risultati concreti.

Le relazioni nella guerra dei 44 giorni

Dopo 44 giorni di scontri iniziati il 27 settembre 2020, il secondo conflitto del Nagorno Karabakh tra Armenia e Azerbaijan è terminato il 9 novembre. In seguito al cessate il fuoco siglato con la mediazione del Cremlino e alla vittoria azera, l’Armenia ha perso sia i distretti che la circondavano e che erano stati occupati dopo la prima guerra del Nagorno Karabakh, sia alcune parti della regione stessa. Dei 4400 chilometri quadrati controllati prima della guerra, agli armeni ne rimangono meno di 3000. A garanzia del mantenimento del cessate il fuoco, il trattato ha previsto il dispiegamento di circa duemila peacekeepers russi per almeno cinque anni, con estensione automatica di altri 5 se Yerevan o Baku non riterranno altrimenti. La principale giustificazione di Ankara per continuare a tenere chiuso il confine con l’Armenia sembra essere dunque venuta a meno.

L’accordo ha inoltre imposto, a vantaggio dell’Azerbaijan, la costruzione di un collegamento che l’unisca con la sua exclave del Nachicevan e con la Turchia attraversando il territorio armeno. La linea ferroviaria che Baku intende costruire utilizzerà l’infrastruttura di quella costruita nel 1941, in età sovietica. Serviva per collegare Mosca ai territori transcaucasici e, grazie al ramo Nachicevan-Julfa, ai porti iraniani sul Golfo Persico. Inutilizzabile dal 1989, quando l’Unione Sovietica era sull’orlo del collasso e le tensioni tra Armenia e Azerbaijan minacciavano già di sfociare in guerra, poco è sopravvissuto alla prima guerra del Nagorno Karabakh. La Turchia potrebbe raggiungere in tal modo l’Azerbaijan sfruttando il confine di circa 17 chilometri con il Nachicevan, senza transitare dall’Iran. Ankara ne trarrebbe un duplice vantaggio strategico: verso Teheran, con cui non sempre è in sintonia nella politica mediorientale, e verso i paesi turcofoni dell’Asia centrale, con cui riuscirebbe così a consolidare i rapporti economici.

Benché il potenziale geopolitico di Ankara sia inibito dall’influenza della Russia nel Caucaso, il ruolo della Turchia, sia per i droni forniti, sia soprattutto per i consiglieri militari di cui si è avvalso l’esercito azero, è stato determinante nelle sorti del conflitto. Non a caso, l’11 novembre Russia e Turchia hanno firmato un memorandum d’intesa per creare un centro di monitoraggio congiunto ad Aghdam, occupata dagli armeni dal luglio 1993 al novembre 2020. Il sostegno militare garantito da Erdoğan agli azeri, simboleggiato dalla sua presenza alla parata della vittoria di Baku al fianco del presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev, è stato retribuito con contratti da 15 miliardi di dollari appaltati dal governo azero a imprese turche per progetti di ricostruzione in Karabakh.

In risposta al sostegno turco all’Azerbaijan, l’1 gennaio 2021 il governo armeno aveva approvato un embargo sulle merci turche. In base alle disposizioni dell’Unione Economica Eurasiatica, di cui l’Armenia è membro, misure simili possono applicarsi per un massimo di sei mesi con possibilità di rinnovo. All’approssimarsi della scadenza, il ministro dell’Economia, Vahan Kerobyan, annunciò che il governo armeno intendeva introdurre nuove restrizioni ai prodotti provenienti dalla Turchia. Al momento l’embargo è stato esteso fino a gennaio 2022.

Normalizzazione, una sfida colma di ostacoli

Durante una visita in Azerbaijan il 12 novembre, il ministro turco Çavuşoğlu ha dichiarato che lo sviluppo del corridoio del Nachicevan porterà benefici a tutti i paesi della regione, Armenia inclusa. A sua volta, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha affermato che il ripristino della vecchia ferrovia d’epoca sovietica aprirà a Yerevan un collegamento diretto con Russia e Iran, favorendo la crescita economica del paese. Nell’opinione pubblica armena aleggia però un certo scetticismo su queste dichiarazioni. Molti ritengono che il ripristino del collegamento con l’Azerbaijan sia un rischio cui non corrispondono sostanziali benefici per l’Armenia.

Per Yerevan, normalizzare i rapporti con la Turchia risponde a due obiettivi: superare l’isolamento fisico e ridurre per quanto possibile la dipendenza da Mosca, cresciuta nel corso della guerra dei 44 giorni, quando l’Armenia ha contato su un cospicuo appoggio della Russia, cui è legata nel quadro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), alleanza difensiva che si estende ai membri dell’Unione Eurasiatica (Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan). Molti armeni, tuttavia, temono l’“agiarizzazione” del loro paese, termine che allude ai massicci investimenti turchi nella Agiara, regione autonoma del sud-ovest della Georgia. Questi hanno portato a una notevole crescita dell’influenza turca nella regione. I timori armeni riguardano perciò una possibile “turchizzazione” della loro economia.

Vi è poi l’ostacolo delle relazioni politiche, che le parti dovranno discutere una volta risolte quelle economiche. In primis la questione del genocidio, di cui Ankara esige la totale depoliticizzazione e Yerevan il riconoscimento. Ad essa si collegano le recriminazioni territoriali. L’Armenia si appella al Trattato di Sévres del 1920, che prevede la creazione di uno stato armeno nelle province di Bitlis, Erzurum e Van in Anatolia Orientale. La Turchia si aspetta che Yerevan accetti il Trattato di Kars del 1921, base degli attuali confini. Il ruolo che l’Azerbaijan potrebbe giocare nella normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Armenia genera anch’esso dissidi. Questa ultima è del tutto contraria alla partecipazione di Baku, visti i cronici scontri alla frontiera tra i due paesi.

Infine, la normalizzazione genera perplessità a Mosca. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha dichiarato il 25 novembre che il suo governo sostiene la riappacificazione tra i due paesi, ma non è chiaro quali benefici si aspetti. Se da un lato il corridoio del Nachicevan offrirà alla Russia un collegamento diretto con la Turchia attraverso l’Azerbaijan e l’Armenia, dall’altro la possibilità che Yerevan diversifichi la sua economia ed espanda la rete di trasporti al di fuori del suo controllo, ne indebolirebbe l’influenza nel Caucaso meridionale, a favore di Ankara. Considerando che una delle ragioni che hanno spinto Mosca ad intervenire per porre fine alla guerra in Nagorno Karabakh è stata il contenimento della Turchia nell’area, è difficile che osserverà senza muovere un dito l’evoluzione dei rapporti turco – armeni.

Dopo il fallimento della diplomazia calcistica del 2008, la normalizzazione dei rapporti sembra di nuovo un punto importante dell’agenda di Armenia e Turchia. Dopo quasi un trentennio senza alcun dialogo e coi confini chiusi, l’inaugurazione della tratta aerea Istanbul-Yerevan, le dichiarazioni dei governi e le nuove prospettive di connettività regionale pongono basi inedite per questo tentativo ambizioso. In caso di successo, la distensione avrebbe forte impatto sulla geopolitica del Caucaso Meridionale. Tuttavia il timore armeno di un’eccessiva esposizione all’influenza economica turca, la persistenza di tensioni politiche tra Yerevan e Ankara e il ruolo di Azerbaijan e Russia nel processo di normalizzazione, sono ostacoli che rendono impervia la strada.

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San Mercuriale, continuano gli studi sulle reliquie: ricostruito l’intero genoma mitocondriale (Forli Today 24.01.22)

Gli ultimi studi sulle reliquie di San Mercuriale raccontati in studio al giornalista Piergiorgio Valbonetti, su Teleromagna, dall’antropologo fisico Mirko Traversari e dalla dottoressa Tiziana Rambelli del gruppo Ausl Romagna cultura. Le puntate andranno in onda domenica 30 gennaio, ore 20,30 (canale 11), mercoledì 2 febbraio ore 18,30 (canale 11) e giovedì 3 febbraio, alle ore 18 (canale 14).

Il progetto

Il progetto dello studio sulle reliquie di San Mercuriale, che ha preso avvio con la ricognizione scientifica del 19 settembre 2018, nasce grazie ad una proficua collaborazione tra ricercatori ed istituzioni. Protagonisti dell’iniziativa sono Mirko Traversari, antropologo fisico e responsabile del progetto, Tiziana Rambelli e Luca Saragoni del gruppo Ausl Romagna Cultura e la Diocesi di Forlì-Bertinoro, con il contributo del Lions Club Forlì-Cesena Terre di Romagna, particolarmente attivo su attività di valorizzazione e tutela della città di Forlì, che si è dimostrato immediatamente sensibile all’importante iniziativa.

Il progetto ha raggiunto una tappa importante nell’ottobre scorso, con l’arrivo a Forlì dell’ambasciatore armeno alla Santa Sede, Garen Nazarian, in occasione della Festa di San Mercuriale. Dopo il riconoscimento della provenienza armena di San Mercuriale, infatti, l’ambasciatore ha voluto incontrare il gruppo scientifico che ha condotto gli studi sulle reliquie del primo vescovo di Forlì. Gli studi hanno accertato che San Mercuriale è vissuto tra il II e  il III secolo d.C, e’ morto in un’età  compresa tra i 40 e i 50 anni, era alto 1 metro e 60 e soffriva di osteoporosi.

Chiarisce Traversari: “Grazie all’immenso lavoro che in questi mesi le amiche e colleghe del Laboratorio del Dna antico dell’Università di Bologna, Campus di Ravenna, la professoressa Donata Luiselli e la dottoressa Elisabetta Cilli hanno compiuto siamo riusciti ad ottenere l’intero genoma mitocondriale e a decifrare l’aplogruppo delle reliquie di san Mercuriale e, in virtù di questo eccellente materiale, è stato finalmente firmato un accordo di collaborazione scientifico con il laboratorio diretto dal prof. Yepiskoposyan, che ci permetterà di approfondire l’analisi con un altissimo grado di dettaglio”.

“Studi di questo genere – ha aggiunto – mirano ad individuare e riconoscere ogni singola specificità e mutazione della sequenza genetica, attribuendone un significato preciso in relazione all’appartenenza ancestrale ad un gruppo popolazionistico rispetto un altro, e molto altro ancora”. Prossima, ma certamente non ultima tappa del progetto, la pubblicazione a brevissimo di un volume su San Mercuriale e sugli studi scientifici condotti sulle reliquie.

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Ennesimo tentativo del dittatore azero di riscrivere la storia dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh. La storia di Shushi sconfessa Aliyev (Korazym 23.01.22)

Il dittatore dell’Azerbaijgian ha messo le mani su Shushi con la forza delle armi. Non è un mistero che abbia eletto la Città a simbolo della vittoria nella guerra del 2020. La sua conquista vale più di tutti gli altri territori e non a caso gli Azeri stanno moltiplicando gli sforzi per prendere possesso stabile di questo centro (che faceva parte in epoca sovietica della regione autonoma armena del Nagorno Karabakh).

La statua dell’Angelo della Pace, custode dell’Artsakh che saluta i fedeli che arrivano alla Cattedrale apostolica armena del Santo Salvatore Ghazanchetsots di Shushi, distrutta nel bombardamento mirato dell’Azerbajgian dell’8 ottobre 2020.

Quasi completata la superstrada provenienti da Fuzuli, abbattuti tutti i condomini residenziali eretti nei decenni passati, eliminate tutte le tracce di presenza armena in città con le due chiese danneggiate intenzionalmente nel conflitto, poi vandalizzate e ora nascoste alla vista da ponteggi.

Secondo un copione già scritto, è già partita la riscrittura azera della storia della Città che Aliyev ha definito “capitale storica e culturale dell’Azerbajgian” annunciando inoltre, nel suo discorso di Capodanno, che il 2022 sarà l’anno di Shushi (anzi, Shusha come la chiamano loro…).

Quanto siano ridicoli questi tentativi di interpretazione azera della storia, lo dimostrano le parole del deputato azero Malahat Ibrahimgizi che in un’intervista alla stampa locale ha sottolineato che “una tale decisione ha un grande significato politico, storico e legale” aggiungendo che “l’Azerbajgian, che è uno stato giovane con una storia di indipendenza di 30 anni, non era aperto al mondo durante l’era sovietica”. Ma poi ha anche precisato che “per questo motivo, sullo sfondo dei piani insidiosi contro il nostro popolo negli ultimi duecento anni, è stato impossibile introdurre Karabakh e Shusha nel mondo come la terra storica dell’Azerbajgian”.

E qui ci arrendiamo di fronte alla logica: affermare che Shushi e il Karabakh sono terre storiche dell’Azerbajgian ovvero di uno Stato che esiste da soli trenta anni oltrepassa il limite del ridicolo ma conferma la tradizione tutta azera di ricostruire storia, cultura e religione a propria immagine e somiglianza.

Questa foto diffusa dall’AP, tratta da un video diffuso dal Ministero della Difesa dell’Azerbajgian lunedì 9 novembre 2020, mostra la bandiera dell’Azerbajgian fissata su un cartello a Shushi, nella Repubblica di Artsakh. Il Presidente Ilham Aliyev ha dichiarato domenica 8 novembre 2020 che le forze armate azere hanno preso il controllo della città strategicamente importante del Nagorno-Karabakh, 44 giorni dopo l’inizio dell’aggressione. Lo stesso giorno fu firmato l’accordo di cessate il fuoco trilaterale tra Armenia, Azerbajgian e Russia.

Una breve storia di Shushi

1428: Shushi è menzionata in un manoscritto di padre Manuel conservato oggi al Metenadaran di Yerevan. In seguito, è citata in altre fonti armene nel 1575, 1607, 1717 e 1725.

1722: la città è fortificata da Avan Haryurapet e così utilizzata dai soldati armeni per difenderla dalla invasione turca. Nello stesso periodo fu costruita una cappella in legno laddove oggi sorge la cattedrale del Santissimo Salvatore/Ghazanchetsots (foto di copertina).

1752: La fortezza di Shushi viene consegnata da un principe armeno locale (Melik Shahnazar di Varanda, grossomodo l’attuale provincia di Martuni) al neonominato Khan del Karabakh Pamah Ali Khan. Questi si stabilì nella città dove fece confluire tribù turche provenienti dalle pianure steppose dove oggi sorge Aghdam. Shushi fu proclamata la capitale del khanato del Karabakh (fondato nel 1747).

1805: il khanato del Karabakh riconobbe la sovranità dell’impero russo, nel 1813 fu ufficialmente annesso allo stesso e nel 1822 fu abolito. A quel tempo Shushi ospitava 10.000 abitanti con la componente turca che rappresentava il 72% della popolazione e gli Armeni al 23%. Nel 1830 i Turchi erano il 56% e gli Armeni il 44%.

1850: la popolazione raggiunge le 12.000 unità con gli Armeni che diventano maggioranza per la prima volta dal 1752.

1916: il rapporto demografico non cambia di molto (52% Armeni, 43% Turchi, 3% Russi) ma la città raggiunge i 45.000 abitanti.

1918-20: Armeni e forze azerbajgiane combattono per il controllo dell’Artsakh/Karabakh. Le area del territorio corrispondente a quello che in seguito diventerà l’oblast del Nagorno-Karabakh sono abitate dagli Armeni mentre le aree circostanti sono controllate dai musulmani mandati dal governo azero.

1919: nel mese di giugno le forze azere aiutate da Curdi attaccano quattro villaggi armeni intorno a Shushi e provocano 700 vittime.

1920: in marzo gli Azeri massacrano 20.000 dei 23.000 Armeni della città, bruciando circa 7.000 case. Tutta la parte armena è distrutta e abbandonata.

1920: in aprile l’Azerbajgian diviene Repubblica Socialista Sovietica e l’area del Karabakh fu posta temporaneamente sotto la sua amministrazione. A dicembre è l’Armenia che cade sotto i bolscevichi; Artsakh, Syunik e Nakhchivan sono destinati a diventare parte dell’Armenia sovietica. Per quanto riguarda il Karabakh, ripetuti Congressi del popolo richiedono l’annessione al soviet armeno.

1921: l’Artsakh viene trasferito all’Azerbajgian sovietico e la regione viene nominata Nagorno Karabakh; a quell’epoca vi vivevano 138.466 persone come da censimento di quello stesso anno; l’89% erano Armeni. La città di Shushi si era ridotta a 9.223 abitanti di cui solo 289 erano Armeni.

1923: la regione viene organizzata come Oblast (Regione Autonoma del Nagorno-Karabakh) sotto giurisdizione amministrativa azera. Dato che Shushi si era spopolata a causa dei pogrom di pochi anni prima ed era in rovina, il capoluogo regionale viene trasferito al paese di Vararakn (anche Khankhendi nel 19° secolo), poi rinominato Stepanakert.

1926: il censimento attesta che nel Nagorno-Karabakh vivono 125.000 persone (89% Armeni, 10% Azeri, 1% Russi) mentre a Shushi abitano 4.900 Azeri e 93 Armeni oltre a 111 Russi.

1926-1989: poco alla volta gli Armeni cominciano a ritornare a Shushi e arrivano ad essere il 25% della popolazione. Nel 1961 il governo di Baku autorizza la demolizione dei quartieri armeni che erano ancora in rovina e vengono costruiti grandi blocchi di appartamenti al loro posto (dopo la guerra del 2020 gli Azeri li hanno rasi al suolo perché erano abitati solo da Armeni). Delle sei chiese che sorgevano in città ne rimangono solo due (Ghazanchetsots e Kanach zham). La città e il canyon che la lambisce vengono inseriti in una riserva naturale nel 1977; la popolazione ricomincia lentamente a crescere.

1988: conflitto etnico fra Armeni e Azeri che compiono numerosi massacri a danno della popolazione rivale in Azerbajgian. Tra il 16 e il 19 maggio attivisti azeri attaccano la popolazione armena a Shushi e 1.500 abitanti sono costretti a fuggire; le scene si ripetono tra il 19 e il 21 settembre. La popolazione armena viene completamente espulsa dalla città.

1989: secondo il censimento, la popolazione del Nagorno-Karabakh ammonta a 189.085 abitanti (77% Armeni, 22% Azeri, 1% Russi. A Shushi vivono 15.039 persone, al 98% di etnia azera. Il governo dell’Azerbajgian incoraggia il trasferimento nella regione di Turchi Meshketi provenienti dall’Uzbekistan.

1991: il 2 settembre il Consiglio del Nagorno-Karabakh dichiara l’indipendenza dopo che la Repubblica Socialista Sovietica Azera ha dichiarato la propria fuoriuscita dall’URSS e l’indipendenza. A ottobre le forze militari azere di stanza a Shushi cominciano a bombardare Stepanakert e la valle. A dicembre il Nagorno-Karabakh tiene il referendum confermativo sulla dichiarazione di indipendenza e il 28 dicembre le elezioni politiche.

1992: il 10 gennaio fitto lancio da Shushi di missili azeri su Stepanakert che da quattro giorni è la capitale della neonata Repubblica del Nagorno-Karabakh/Artsakh. Il 9 maggio Shushi viene liberata dalle forze armate armene e la popolazione azera ripara a Baku e nelle aree vicine.

1992-2019: sotto l’amministrazione della Repubblica di Artsakh, gli Armeni che erano scappati dall’Azerbajgian per i massacri (Sumgaiyt, Kirovabad, Baku) cominciano ad arrivare in Artsakh e a stabilirsi a Shushi. Nel 2005 la popolazione di Shushi era di 3.191 persone al 99,5% Armene. Nel 2015 gli abitanti erano aumentati a 4.060, cinque anni dopo la popolazione sfiorava le cinquemila unità.

La Cattedrale apostolica armena del Santo Salvatore Ghazanchetsots di Shushi, danneggiata nel bombardamento mirato dell’Azerbajgian dell’8 ottobre 2020.

2020: il 27 settembre l’Azerbajgian attacca la Repubblica di Artsakh. Tra l’8 e il 9 novembre Shushi viene catturata. Le due chiese sono danneggiate, molti edifici vengono intenzionalmente distrutti. La città viene occupata dalle forze armate azere.

“Premio di guerra e simbolo di vittoria”. Così Ilham Aliyev, il Presidente dell’Azerbajgian ha definito il 15 gennaio 2021, nel corso della sua visita con la sua moglie Mehriban Aliyeva, Primo Vicepresidente dell’Azerbajgian, la Cattedrale armena apostolica del Santo Salvatore Ghazanchetsots a Shushi. Le foto ufficiali diffuse dai media azeri non mostrano gli squarci causati dalle bombe azere dell’8 ottobre 2020. La pace è ancora lontana. E le chiese armene nell’Artsakh/ Nagorno-Karabakh sempre più in pericolo.

2021: il Presidente dell’Azerbajgian dichiara Shushi capitale storica dell’Azerbajgian.

Questo articolo è stato pubblicato oggi sul sito dell’Iniziativa italiana per l’Artsakh [QUI].

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Il presidente armeno Sarkissian si dimette a 4 anni dall’elezione (Rassegna Stampa 23.01.22)

Il presidente dell’Armenia, Armen Sarkissian, ha annunciato le dimissioni dall’incarico a quattro anni scarsi dall’elezione. “Ho riflettuto a lungo e ho deciso di dimettermi dopo quattro anni di lavoro attivo” perché “il presidente non ha gli strumenti necessari per influenzare gli importanti processi di politica estera e interna in tempi difficili per il popolo e per il Paese”: ha affermato in una nota Sarkissian. In Armenia la carica di presidente dura sette anni e il ruolo è quello del garante dell’unità nazionale, mentre il potere esecutivo è prerogativa del primo ministro, che guida l’azione di governo.

Gli esiti della rivoluzione di velluto

Sarkissian era diventato presidente dell’Armenia in seguito alla cosiddetta “rivoluzione di velluto armena”, vale a dire le proteste non violente che avevano portato alle dimissioni l’allora presidente Serzh Sargsyan, accusato di voler instaurare un regime autoritario in Armenia.

Nell’ultimo anno Sarkissian aveva vissuto diversi momenti di attrito con il primo ministro Nikol Pashinyan, rieletto nel corso della scorsa estate. Le elezioni erano state convocate dopo la sconfitta dell’Armenia nella guerra contro l’Azerbaijan, che aveva provocato grandi proteste contro Pashinyan.

Gli eredi dello sterminio

L’attuale Armenia è l’erede di uno stato che fu creato dalla comunità armena che era stata inglobata nel decadente impero zarista poi diventato Unione Sovietica nel 1921. Anche lì si rifugiarono centinaia di migliaia di scampati al genocidio che agli inizi del XX secolo gli armeni scontarono per mano degli ottomani. Dei 2,5 milioni di armeni che si trovavano nell’Impero ottomano il 90 per cento fu ucciso o deportato.

Euronews 


Armenia: il presidente Sarkissian annuncia le dimissioni (Prealpina)


Armenia: il presidente Sarkissian annuncia le dimissioni (Ansa)


Armenia, il presidente Sarkissian ha annunciato le sue dimissioni (L’Antidiplomatico)


Si è dimesso il presidente dell’Armenia, Armen Sarkissian (Il Post)


Si dimette il Presidente Sarkissian (Tio.ch)


Armenia: presidente Sarkissian annuncia dimissioni (La presse)


Le dimissioni del presidente armeno Sarkissian (Timgate)


Armenia: presidente Sarkissian si dimette (Nova News)


Si è dimesso il presidente armeno mentre è in corso uno storico negoziato con la Turchia (Faro di Roma)


ARMENIA: IL PRESIDENTE ARMEN SARKISSIAN SI DIMETTE IN MEZZO ALLA CRISI NAZIONALE


 

Anche la scrittrice Antonia Arslan non sarà tra i relatori dell’evento (Restodelcarlino 22.01.22)

“Purtroppo in questi ultimi giorni si è ripresentato – spero per l’ultima volta – il problema di salute che mi ha tormentato nei mesi di agosto e settembre scorsi. Con grande dispiacere, e data anche la situazione generale, non potrò quindi partecipare all’incontro ferrarese di martedì prossimo. Il professor Aldo Ferrari ci sarà senz’altro”. Con queste parole, la scrittrice Antonia Arslan ha comunicato al direttore del Teatro comunale, Moni Ovadia, la mancata partecipazione alla ’Settimana delle memorie’. La scrittrice, nota in tutto il mondo per aver raccontato il dramma del genocidio armeno con il suo La masseria delle allodole (edito da Rizzoli, vincitore tra i tanti del Premio Selezione Campiello e del Premio Stresa di Narrativa), avrebbe dovuto partecipare all’evento del 25 gennaio prossimo, dedicato appunto alla memoria del genocidio degli Armeni, il cui unico relatore sarà il docente e storico Aldo Ferrari (concluderà la giornata il concerto del musicista Gevorg Dabaghyan, interprete della tradizione musicale armena). Il legame di Antonia Arslan con Ferrara è intenso. Nel giugno 2021, nell’ambito del Festival della fantasia ideato dal poeta Davide Rondoni, il sindaco Alan Fabbri ha concesso alla scrittrice la cittadinanza onoraria per “la sua attività, il suo impegno e il suo coraggio nel sostenere la verità storica e nel contrastare il negazionismo”.

“Un errore definirlo un ‘Festival’ delle memorie”

ASIA/TURCHIA – il Patriarca armeno di Costantinopoli benedice il processo di normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Turchia (Fides 22.01.22)

Istanbul (Agenzia Fides) – Il processo di distensione e normalizzazione dei rapporti, in corso tra Turchia e Armenia, viene sostenuto con decisione e speranza da esponenti autorevoli della comunità armena in terra turca, a cominciare dal Patriarca armeno apostolico di Costantinopoli, Sahag Mashalyan. Il Capo della comunità armena in Turchia ha definito “preziose” le misure “che rafforzano le relazioni tra i Paesi confinanti, sia in termini di investimenti che di scambi culturali”. Per i cittadini turchi che appartengono alla Chiesa armena – ha aggiunto il Patriarca nelle dichiarazioni rilanciate dalla stampa nazionale – “è anche estremamente importante che le relazioni migliorino giorno dopo giorno in modo che le due comunità si conoscano, lavorino insieme, facciano investimenti e in questo senso ricchi valori culturali si incontrino su un terreno comune”.
I rapporti tra Turchia e Armenia, tormentati dalla mancanza di una memoria condivisa in merito alle atroci vicende del Genocidio armeno, hanno registrato una svolta dopo il conflitto armato tra Armenia e Azerbaigian, che nel 2020 è tornato a infiammare il Caucaso in una nuova, cruenta fase della storica contesa intorno al Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena oggi inclusa nei confini dell’Azerbaigian. La firma del cessate il fuoco, avvenuta il 9 novembre 2020 con la mediazione della Russia, vide la netta affermazione dell’esercito di Baku, e pose fine a sei settimane di feroci combattimenti tra le truppe azere e quelle armene inviate da Erevan. Esso prevedeva il ritiro delle forze militari armene dal territorio azero, il ritorno degli sfollati alle rispettive aree di residenza e la dislocazione di truppe russe con funzione di “peacekeeper” in Nagorno Karabakh per i successivi 5 anni. In Armenia, la fine del conflitto, percepita come una disfatta, ha innescato una pesante crisi politica: Sugli sviluppi di quella fase incerta si è innestato il processo di normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Turchia, anch’esso favorito dalle pressioni esercitate dalla Russia di Vladimir Putin, che continua a agire nelle vesti di energico “mediatore” tra Erevan e Ankara. Le relazioni diplomatiche tra Turchia e Armenia sono congelate dal 1993, anno in cui i turchi hanno chiuso il confini con la ex repubblica sovietica proprio a causa del conflitto armeno-azero intorno al Nagorno Karabach, conflitto che ha sempre visto il governo turco saldamente schiarato a fianco dell’Azerbaigian. Adesso, il primo incontro bilaterale turco-armeno per concretizzare la distensione dei rapporti si è svolto il 14 gennaio a Mosca, in un clima definito “costruttivo” dalle fonti ufficiali armene. Nella capitale russa, il Presidente del Parlamento armeno, Ruben Rubinyan, ha incontrato l’ambasciatore turco Serdar Kilic, scambiando con lui “pareri preliminari circa il processo di normalizzazione del dialogo fra Armenia e Turchia”. Le parti hanno concordato di proseguire i negoziati senza precondizioni. Dopo l’incontro di Mosca, anche Mevlüt Çavuşoğlu, Ministro degli Esteri della Turchia, ha ribadito che l’obiettivo dei negoziati avviati è “la piena normalizzazione”, aggiungendo che “anche gli armeni sono molto contenti di questo”. La comunità armena in Turchia è interessata anche alla riapertura dei voli internazionali tra i due Paesi, in programma per l’inizio di febbraio.
Oltre alle dichiarazioni del Patriarca mashalyan, il quotidiano turco Hürriyet ha diffuso anche le dichiarazioni dell’imprenditore armeno Dikran Gülmezgil, Presidente del Consiglio delle scuole della Fondazione Karagözyan, secondo il quale d’ora in poi la Turchia “dovrebbe fungere da fratello maggiore dell’Armenia”, mentre Yetvart Dantzikian, direttore del quotidiano bilingue turco-armeno Agos ha dichiarato di considerare con ottimismo la riapertura delle frontiere tra i due Paesi.
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Barsamian: “Il cammino verso la comunione ha bisogno di nuovi servitori” (Vaticannews 22.01.22)

“Oggi il cammino comune è diventato ancora più essenziale”. Ad essere convinto che è proprio nell’attuale contesto storico e culturale che l’unità dei cristiani debba essere ricercata in un clima di maggiore collaborazione reciproca, è monsignor Khajag Barsamian, rappresentante della Chiesa Armena Apostolica a Roma. “Il mondo -spiega il religioso in occasione della Settimana di Preghiera per l’Unità che si concluderà il prossimo 25 gennaio- è pieno di sfide come guerre, conflitti religiosi, migrazioni, pandemie e povertà. Solo uniti possiamo affrontarle e rendere il mondo migliore”:

Ascolta l’intervista a monsignor Khajag Barsamian

Nel prossimo futuro, quali saranno le tappe necessarie per il proseguimento del cammino ecumenico?

Negli ultimi decenni, grazie proprio al movimento ecumenico, sono caduti numerosi muri che, nei secoli, erano stati innalzati fra tante chiese. Però il percorso è ancora lungo. Per esempio, c’è bisogno di formare una nuova generazione di servitori della Chiesa, sia religiosi che laici: dovranno essere aperti al dialogo e alla collaborazione con tutti i discepoli del Signore per il bene comune. Queste persone dovranno essere in grado di valorizzare ciò che ci unisce e di comprendere le differenze reciproche.

Il Papa ha spesso fatto riferimento alla necessità che questo cammino si compia dal basso, tra il popolo fedele di Dio. Quanto è necessaria questa condizione per l’unità?

La mia esperienza di 28 anni come arcivescovo della Chiesa armena negli Stati Uniti mi permette di confermare quanto sia importante coinvolgere i fedeli nelle iniziative ecumeniche fra varie chiese e confessioni cristiane come, ad esempio, preghiere, incontri e conferenze. La conoscenza ed il dialogo conducono alla stima delle reciproche differenze facendo crescere nella mente dei fedeli la consapevolezza che tutti siamo uniti dall’amore e dalla misericordia di Dio. Insomma, dobbiamo agire insieme in nome della comune fede.

La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che stiamo vivendo, secondo lei può essere anche una buona occasione per il cammino sinodale che ha anch’esso una spiccata connotazione ecumenica?

Certamente. Papa Francesco, nel suo discorso pronunciato nella Divina Liturgia celebrata nella cattedrale di Etchmiadzin durante il suo viaggio apostolico in Armenia del 2016, ha sottolineato che l’unità delle Chiese non deve essere né sottomissione né assorbimento ma accoglienza di tutti i doni che Dio ha dato a ciascuno. Questo è davvero uno spirito bellissimo.

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Russia-Armenia: colloquio telefonico tra Putin e Pashinyan su cooperazione in Csto (Agenzianova 22.01.22)

Mosca, 22 gen 11:01 – (Agenzia Nova) – Il presidente russo Vladimir Putin ha intrattenuta una conversazione telefonica con il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Secondo quanto riferito in una nota dal Cremlino, le due parti hanno discusso di una ulteriore cooperazione all’interno dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto) nell’ambito della presidenza di turno armena dell’organizzazione. “Su richiesta di Nikol Pashinyan, il presidente russo ha fornito una breve panoramica dell’andamento dei negoziati con gli Stati Uniti e i loro alleati sulle garanzie di sicurezza della Russia”, ha aggiunto il Cremlino nella nota. Inoltre Putin e Pshinyan hanno discusso dell’attuazione degli accordi sulla demarcazione del confine armeno-azerbaigiano. “Sono stati presi in considerazione gli aspetti pratici dell’attuazione degli accordi stipulati nelle dichiarazioni trilaterali dei leader di Armenia, Azerbaigian e Russia, del 9 novembre 2020, dell’11 gennaio e del 26 novembre 2021, comprese le questioni relative alla delimitazione e demarcazione del confine armeno-azerbaigiano”, si legge nella nota. Infine durante la conversazione telefonica, i due leader hanno convenuto sulla necessità del proseguimento dei lavori della co-presidenza del Gruppo Osce di Minsk, composto da Russia, Stati Uniti e Francia, sulla questione del Donbass. (Rum)

Tra Ankara e Erevan un negoziato che fa comodo a tutti (Asianews 21.01.22)

A Mosca si è svolto il primo round dei colloqui a cui presto potrebbe seguirne un secondo probabilmente in Turchia. La pace farebbe uscire l’Armenia da un isolamento economico che l’ha resa l’ex repubblica sovietica più povera del Causaso, Erdogan ha bisogno di un successo di fronte al crollo della lira turca, il Cremlino vedrebbe accresciuta la sua reputazione in campo diplomatico. Il nodo del riconoscimento del Genocidio degli armeni.

Milano (AsiaNews) – Turchia e Armenia fanno pace? Potrebbe essere la volta buona. A patto che si riescano ad aggirare gli ostacoli più spinosi e ci guadagnino tutti il giusto. Sta di fatto che il primo round di negoziati avvenuto a Mosca a metà gennaio potrebbe essere presto seguito da un secondo, pur con tutte le difficoltà e le polemiche, soprattutto da parte di Ankara, che avrebbe voluto regolare (diplomaticamente) i conti con Erevan autonomamente, senza il bisogno della Russia.

E invece il Cremlino c’è eccome e non intende certo lasciarsi scappare un’occasione d’oro per aumentare le sue quotazioni sull’arena internazionale e il suo peso nel Caucaso.

Le relazioni diplomatiche fra Armenia e Turchia sono interrotte dal 1993, da quando Ankara ha chiuso il suo confine in seguito alla guerra fra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh, regione a maggioranza armena, ma in territorio azero. Tensioni che si sono ripetute periodicamente in questi anni e che nel 2020 sono sfociate in un conflitto dove l’appoggio della Turchia a Baku è stato determinante.

Da quel momento, il Caucaso è diventato ancora più instabile. Mosca rischia di perdere la sua naturale preminenza e ha capito che, in questo momento, per motivi diversi, una mediazione riuscita farebbe comodo a tutti.

L’Armenia uscirebbe da un isolamento economico e commerciale che l’ha resa di fatto l’ex repubblica più povera del Caucaso meridionale. La Turchia verrebbe riabilitata agli occhi della comunità internazionale e potrebbe ricavarne opportunità interessanti, soprattutto nel campo delle infrastrutture, operando in un Paese che è ancora arretrato sotto molti aspetti. Rimane, enorme, il punto di domanda sul riconoscimento del Genocidio Armeno del 1915, operato ai tempi dell’Impero ottomano con un bilancio di almeno un milione di morti e che Ankara si è sempre rifiutata di riconoscere, anche, forse soprattutto, per motivi economici.

Ma, sulla carta, a guadagnarci più di tutti, sarebbe Mosca. Infatti nella capitale russa i toni sono quelli di chi ha già la vittoria in tasca. Il Cremlino vedrebbe accresciuta enormemente la sua reputazione in campo diplomatico e si aggiudicherebbe una posizione egemone nelle rotte commerciali che si apriranno automaticamente nella regione.

La prospettiva, ad Ankara, va decisamente di traverso. La Turchia ha inviato a Mosca un diplomatico di alto profilo come Serdar Kiliç, già ambasciatore negli Stati Uniti, uomo di fiducia del Ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu. Segno che il governo turco in questa possibilità crede ed è pronto a investire quanto necessario. Rimane il fatto che nei corridoi del potere, c’è non poco fastidio per un negoziato, le cui fila vengono dirette da Mosca, ma che avrebbe dovuto essere condotto a due. Quindi, se l’evento inaugurale di questi negoziati si è tenuto nella capitale russa, il prossimo step sarà in uno dei due Paesi, preferibilmente la Turchia, dove il presidente Erdogan ha seri problemi di consenso dovuti alla svalutazione della lira turca e un’iniezione di consenso gli farebbe solo comodo.

Questo, sulla carta. C’è poi chi pensa che questa operazione di mediazione, alla fine, potrebbe ritorcersi contro Mosca. Ali Askerov, professore associato e a capo del Dipartimento di Conflict Studies all’Università del North Carolina-Greensboro, ritiene che la mediazione fra Turchia e Armenia sia ‘possibile’, ma che poi le relazioni fra entrambe le parti prenderanno un loro percorso autonomo, fuori dal controllo di Mosca che, quindi, potrebbero evolversi in modo diverso da quanto previsto dal Cremlino.

“Ragionando in termini di real politik – spiega il prof. Askerov ad AsiaNews – se Turchia e Armenia trovano un compromesso da cui entrambe le parti sono in grado di guadagnare in modo più o meno bilanciato, allora la Russia alla fine potrebbe essere la parte che ci perde di più. Potrà sviluppare nuove sinergie, ma senza governare il processo di normalizzazione e le opportunità che ne conseguono”.

Mosca, insomma, l’avrebbe fatta un po’ troppo facile. E le relazioni con la Turchia, alleato di convenienza, ma con il quale le tensioni non sono poche, potrebbero essere sottoposte a nuovi stress. Tutto dipende da come evolverà la situazione in Caucaso.

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L’eredità degli armeni (Il Manifesto 21.01.22)

Sono passati quindici anni dal 19 gennaio 2007 e l’assassinio di Hrant Dink, fondatore e direttore di Agos, il giornale istanbuliota pubblicato in turco e armeno.

Nel Paese la memoria del giornalista è ancora molto viva tra la minoranza armena e gli ambienti progressisti e di sinistra, tanto da unire allora come oggi migliaia di persone intorno allo slogan «Hepimiz Hrant’ız, Hepimiz Ermeniyiz» (siamo tutti Hrant, siamo tutti armeni).

Sulla memoria ed eredità culturale di Dink e sulla realtà della minoranza armena di Turchia, abbiamo intervistato lo scrittore turco-armeno Hayko Bagdat, per anni collaboratore di Agos. Dal 2016 vive in esilio a Berlino, dopo aver lasciato la Turchia a seguito di pesanti minacce e forti pressioni.

Come sei venuto in contatto con Hrant Dink e il giornale Agos?

Ho conosciuto Dink attraverso la mia attività in radio. Negli anni ho avuto poi l’opportunità di conoscerlo meglio collaborando con il quotidiano nazionale Agos. Dopo il suo assassinio, circa un anno dopo, nel 2008, mi sono attivato insieme ad altre persone e abbiamo fondato il gruppo «gli amici di Hrant». L’obiettivo era quello di seguire il processo, organizzare manifestazioni, stare vicino alla famiglia ed essere presenti nelle aule del tribunale.

Che cosa rappresentava Hrant per te?

Per un armeno di sinistra come me, Dink era come una sorta di «sorgente di luce». Con il suo impegno ha esortato tutta la Turchia e il popolo armeno a conoscere ogni singolo dettaglio degli eventi legati al genocidio. Con lui gli armeni hanno acquisito più visibilità. Sciaguratamente, insieme al suo assassinio è stata uccisa anche la nostra energia ed è stata strozzata ogni speranza.

Hrant Dink (Foto: Ap)
Hrant Dink (Foto: Ap)

Come sono andate le cose dopo la morte di Hrant?

I primi tempi, subito dopo la morte di Dink, non sono stati semplici. Vi faccio un esempio: in onore del suo assassino, un musicista turco ha composto un brano, divenuto popolare e canticchiato tra i poliziotti all’esterno dei tribunali durante le fasi del processo. Un esempio evidente di come l’uccisione di Dink avesse ucciso anche la possibilità di convivenza tra i popoli della Turchia. Se osserviamo bene come sono andate le cose possiamo dire che dopo la morte di Dink non solo in Turchia ma in tutto il Medio Oriente le dinamiche sono cambiate in peggio.

Negli anni che separano l’uccisione di Dink dalla rivolta popolare di Gezi nel 2013, la speranza che la democrazia in Turchia non fosse morta e che avremmo ottenuto un giusto processo e una verità giudiziale era ancora viva. Ma dopo Gezi e dal fallito golpe del 2016 vivere in Turchia è diventato molto difficile e la mancanza di democrazia è diventato un problema di tutti. Per anni ho ricevuto minacce di morte e girato con la scorta della polizia. Da dicembre 2016 vivo in Germania, in esilio, ma anche qua ricevo periodicamente minacce e ho dovuto chiedere la protezione delle autorità.

La minoranza armena in Turchia ha delle scuole e qualche rappresentate in parlamento. Verrebbe da dire che tutto sommato c’è un po’ di spazio?

È vero, in Turchia abbiamo il diritto all’istruzione in lingua armena ma questo è un diritto garantito, anche con la spinta degli europei, attraverso il trattato di Losanna (1923). Anche dopo questa convenzione, noi armeni e cristiani, abbiamo continuato a convivere con numerosi problemi. Il genocidio, l’allontanamento di persone e altre problematiche non sono né state affrontate, né risolte. Oggi, per esempio, curdi e aleviti hanno grossi problemi di riconoscimento dei propri diritti e identità. La Turchia è oggi il Paese in cui sono stati uccisi più cristiani nel mondo. Tuttora gli armeni e i non musulmani sono percepiti come una minaccia per la sicurezza nazionale dal governo e dalla maggioranza della popolazione.

Durante il recente conflitto armeno-azero abbiamo assistito a un crescente odio nei media e diversi sono stati gli episodi di violenza contro la minoranza armena di Turchia. Nel parlamento turco ci sono stati e ci sono dei parlamentari armeni sia nel partito di maggioranza, sia in quelli d’opposizione. Questi deputati hanno portato avanti importanti lavori. Penso che la loro presenza sia stata utile, tuttavia è come se fossero dei pesciolini colorati di un grande acquario. Soltanto nel caso dell’Hdp posso affermare che la presenza armena sia stata determinante e in un certo senso protagonista. In questo partito gli armeni hanno un rappresentante nel parlamento ma tantissimi sono quelli che lavorano nell’organizzazione in modo attivo con ruoli determinanti.

L’eventuale ripristino delle relazioni tra Turchia e Armenia potrebbe rappresentare un nuovo inizio?

Oggi le relazioni tra Ankara e Yerevan sembrano in fase di miglioramento. Sono convinto che la situazione attuale sia la conseguenza di una serie di nuove dinamiche e di mutamenti che stanno interessando la regione. La risoluzione del problema legato al Karabakh apre uno scenario più sereno. Il ripristino delle relazioni e l’eventuale riapertura delle dogane nascono da una serie di necessità commerciali vitali che interessano sia l’Armenia che la Turchia. Per la pace e il dialogo non avrei mai voluto che la regione pagasse un conto così salato. Non sono assolutamente contro la riapertura delle dogane, anzi, spero davvero che possa essere un elemento di normalizzazione.

Cosa pensi di Agos?

Il quotidiano Agos oggi continua a lottare e resistere come una fortezza. Penso che sia uno degli organi di stampa più importanti della Turchia e, malgrado le numerose minacce e pressioni, continua a lavorare molto bene. Sono un amico di Agos e insieme si deve lavorare per renderlo ancora più grande, produttivo e solido.

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Il documentario. «La memoria non basta»: la pace come sforzo collettivo

«Hafiza Yetersiz» (Memory Too Low For Words) è il nuovo documentario del regista e giornalista Umit Kivanç. Un’opera che sa di Vertov e a tratti di Einzenstein, interamente dedicata al giornalista armeno Hrant Dink.

«La memoria non basta» – questo il senso in italiano – è un lavoro che include diversi passaggi estratti dai numerosi interventi pubblici di Dink e arricchito da tante immagini d’archivio e inedite. «Io non vivo nella diaspora, vivo nelle terre dove hanno vissuto i miei antenati da tremila anni», è una delle prime dichiarazioni di Dink che aprono il documentario. Una frase che si scaglia contro la percezione che in ambienti nazionalisti turchi si ha degli armeni, spesso considerati come degli «ospiti» o degli «intrusi».

Dal documentario emerge l’analisi di Dink sulla dicotomia irrisolta tra la paranoia dei turchi e il trauma degli armeni. «Non c’è altra soluzione, gli armeni e i turchi devono vivere insieme e in pace. Dobbiamo risolvere da noi i nostri problemi. Dobbiamo costruire una memoria collettiva e per farlo è necessario che le informazioni possano circolare liberamente e la libertà di pensiero sia garantita».

L’ultima opera del regista Umit Kivanç si conclude con un’altra considerazione sul concetto di cittadinanza che approfondisce il pensiero di Dink in modo molto chiaro e onesto: «Sono un cittadino turco e voto ma i parlamentari eletti e pagati da me costruiscono delle politiche e usano un linguaggio contro l’immagine dell’armeno ogni giorno».

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La prima volta di Ankara e Yerevan

Venerdì 14 gennaio gli inviati speciali di Turchia e Armenia si sono incontrati per la prima volta a Mosca per normalizzare i legami tra i due Paesi. Il primo round di colloqui potrebbe portare all’instaurazione di relazioni diplomatiche e alla riapertura dei confini tra Turchia e Armenia, che non hanno relazioni diplomatiche e commerciali dal crollo dell’Unione Sovietica e l’indipendenza armena, nonostante un accordo di pace raggiunto nel 2009 e mai ratificato.

L’inviato armeno Ruben Rubinyan e il suo omologo turco, Serdar Kilic, si sono incontrati «in un’atmosfera positiva e costruttiva» venerdì, hanno affermato i rispettivi ministeri degli esteri in una dichiarazione congiunta. Nonostante questo clima «positivo e costruttivo», il solco che separa Ankara da Yerevan è ancora molto profondo. Molto dipenderà se la questione genocidio sarà o meno affrontata, tema sul quale la diaspora armena gioca sicuramente un ruolo decisivo negli equilibri internazionali.

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