Jerevan: l’ambasciatore Ferranti a colloquio con il ministro del Lavoro e degli Affari Sociali Torosyan (Aise 25.09.25)

JEREVAN\ aise\ – L’ambasciatore d’Italia a Jerevan, Alessandro Ferranti, ha incontrato ieri, mercoledì 24 settembre, il ministro del Lavoro e degli Affari Sociali della Repubblica di Armenia, Arsen Torosyan.
Nel congratularsi con il ministro Torosyan per la recente nomina, l’ambasciatore Ferranti ha ribadito l’importanza della cooperazione tra Italia e Armenia nel campo del lavoro e della protezione sociale, ricordando la fruttuosa recente visita del ministro Locatelli in Armenia.
Ferranti ha voluto evidenziare il ruolo fondante del lavoro nella genesi della Repubblica Italiana, facendo riferimento all’Articolo 1 della Costituzione. Il ministro Torosyan, da parte sua, ha osservato che il Governo della Repubblica di Armenia attribuisce massima priorità al lavoro come prerequisito fondamentale per il superamento della povertà e per l’indipendenza delle persone. Torosyan ha sottolineato che negli ultimi sette anni sono stati creati circa 200.000 nuovi posti di lavoro in Armenia, il che ha contribuito sensibilmente ad aumentare il benessere e le prospettive dei cittadini armeni.
Ancora, il ministro armeno ha sottolineato l’importanza dell’assistenza continua da parte dello Stato alle persone con disabilità e ai più vulnerabili, al fine di garantire la loro piena inclusione sociale e realizzazione personale.
Nel corso dell’incontro le parti hanno inoltre discusso una serie di altre questioni relative all’agenda bilaterale e multilaterale, focalizzandosi sull’importanza dell’ulteriore approfondimento della cooperazione fra i due Paesi. (aise)

Il Monte Ararat sparisce dai timbri dei passaporti armeni, sdegno social (Avvenire 25.09.25)

Il simbolo patriottico per eccellenza, malgrado il monte sia ormai in territorio turco, per accordi diplomatici non sarà più utilizzabile per visti e timbri. Ma non tutti sono d’accordo

Ivan Aivazovskij, Discesa di Noè dal Monte Ararat, 1889. Olio su tela, cm 128x117. Erevan, Galleria Nazionale dell'Armenia.

Ivan Aivazovskij, Discesa di Noè dal Monte Ararat, 1889. Olio su tela, cm 128×117. Erevan, Galleria Nazionale dell’Armenia. – Ansa

In un mondo dove i nazionalismi sembrano aver preso il sopravvento sulla ragione, si litiga anche per una montagna disegnata, anche se non è decisamente una qualunque. Il Monte Ararat è un luogo simbolo della tradizione cristiana e in particolare di quella armena. Ma c’è un piccolo particolare: dal 1921 si trova sul territorio della Turchia, che lo assorbì con il trattato di Kars.

Come noto, la Mezzaluna con gli armeni ha qualche problema irrisolto legato al genocidio del 1915, mai riconosciuto e costato la vita a un milione di persone. Ankara, che quanto a nazionalismo non ha nulla da imparare dal resto del mondo, ha sempre criticato il fatto che Erevan utilizzasse l’immagine dell’Ararat, stilizzata o di profilo che fosse, come simbolo identitario. Alla montagna “degli armeni” sono pure dedicate una marca di sigarette e un liquore famoso in tutto il mondo. La si trovava sulle magliette dei calciatori della nazionale, sui timbri dei passaporti.

Poi è arrivata la guerra in Nagorno-Karabakh fra Armenia e Azerbaigian, quest’ultimo grande alleato della Turchia per motivi storici, religiosi e culturali (fra i quali è da inserire il sentimento antiarmeno). Baku, supportata da Ankara in modo determinante, è riuscita a cacciare le comunità armene che vivevano nella enclave da secoli, creando una pesante situazione di instabilità nel Caucaso del sud, con Erevan che, stretta fra i due nemici storici e la sua volontà di smarcarsi dalla Russia, era sicuramente quella nella posizione più debole.

Qui entrano in gioco gli Stati Uniti di Trump, che avviano un processo di normalizzazione dei rapporti, non senza conseguenze per Erevan, che però aveva bisogno di un accordo per evitare l’isolamento geografico e politico e aprire la sua economia all’estero e non più solo a Mosca. E qui arriva anche il balzello da pagare. La sagoma dell’Ararat sparirà dai timbri sui passaporti dal prossimo novembre. E nel Paese la cosa non è piaciuta. Il premier, Nikol Pashiyan, sapeva a che cosa sarebbe andato incontro e, nell’annunciare la decisione alla nazione, ha sottolineato: «Il nostro compito è prendere decisioni che possano garantire la sicurezza nazionale e i nostri confini non solo oggi, ma per un secolo».

Mettere le mani avanti, però, non è servito a niente. L’opposizione, che già in occasione della guerra in Nagorno-Karabakh aveva accusato il primo ministro di essere troppo debole, ha protestato, portandosi dietro una buona fetta di opinione pubblica per la quale, evidentemente, l’Ararat non è solo una montagna. Ci sono state azioni formali e l’immancabile ondata di sdegno sui social, soprattutto da parte degli abitanti della capitale, che vedono la sagoma della montagna “patriottica” dalle loro finestre.

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Le sette guerre “concluse” da Trump: quali sono e perché non è del tutto vero (Avvenire 24.09.25)

Un posto al sole. Dei Nobel per la Pace. Magari al fianco di Nelson Mandela, del Dalai Lama o di Martin Luther King. È l’ambizione massima di Donald Trump. Di più, quasi un’ossessione, che però cozza spesso con la realtà e, altrettanto frequentemente, frana dinanzi alla affermazioni roboanti a cui il presidente a stelle e strisce ci ha abituati e alla facilità con cui l’inquilino della Casa Bianca si attribuisce questo o quel successo diplomatico.

Ieri all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il capo della Casa Bianca si è appuntato al petto la medaglia di aver posto fine a “sette guerre” (erano sei fino al mese scorso… ) in sette mese di presidenza. Un modo per “nascondere” il mancato obiettivo di fermare le armi in Ucraina, traguardo che prima di essere eletto aveva garantito di raggiungere nel giro di 24 ore?

Ma i successi sbandierati da Trump sembrano scollati dalla realtà. Il presidente ha davvero chiuso sette guerre come pretende, vale a dire i conflitti tra Israele e Iran, Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, Cambogia e Thailandia, India e Pakistan, Serbia e Kosovo, Egitto ed Etiopia e Armenia e Azerbaigian? In realtà Trump ha “supervisionato accordi temporanei o parziali in sette conflitti”, ma nel computo vanno inseriti anche quelli raggiunti durante il suo primo mandato.

Tra questi lo scontro tra Etiopia ed Egitto, da anni impegnati in un braccio di ferro sulla diga etiope Grand Ethiopian Renaissance Dam sul Nilo, che secondo il Cairo minacciare il suo approvvigionamento idrico.

L’altra crisi “risolta” durante il primo mandato di Trump è quella tra Serbia e Kosovo: l’accordo “di normalizzazione economica” risale al 2020. Ma le tensioni tra i due Paesi sono tutt’altro che risolte.

Mentre sembra tenere la tregua tra Cambogia e Thailandia, grazie anche all’occhialuta vigilanza della Cina. La narrazione trumpiana scricchiola anche sull’accordo raggiunto tra India e Pakistan, dopo le giornate infuocate dello scorso maggio in occasione dell’ennesima crisi per il Kashmir: New Delhi nega – come ricorda il Guardian – che Trump abbia avuto alcun ruolo nel raggiungimento del cessate il fuoco. Politico invita, poi, a un distinguo fondamentale: la fine degli scontri armati non necessariamente coincide con una reale pacificazione che “spenga”, in maniera definitiva, la possibilità e i motivi di una guerra.

È il caso del conflitto tra Israele e Iran che appare più congelato che risolto, peraltro solo dopo l’intervento militare a stelle e strisce. Vacilla anche la “pace” raggiunta tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo, minata da troppe incognite. Ultima, in ordine di tempo: la decisione dei ribelli del M23, che hanno in mano la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, di abbandonare i colloqui di pace con il governo. Il tycoon ha comunque strappato, in questa occasione, un accordo sulle terre rare, facendo uno sgambetto alla Cina e non obliando mai la sua vocazione agli affari.

Infine, c’è sul piatto la pacificazione tra Armenia e Azerbaigian: all’inizio di agosto i leader dei due Paesi hanno firmato un accordo di pace. La location? La Casa Bianca. Un successo per Trump anche dal punto di vista economico: come riportato dalla Reuters, l’Armenia prevede di concedere agli Stati Uniti diritti esclusivi di sviluppo speciale per un periodo prolungato sul corridoio di transito, la “Trump Route for International Peace and Prosperity”. Resta il “buco nero” dell’Ucraina. Per Trump “il pacificatore” la partita più difficile.

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Fact-checking: Trump e le sette guerre fantasma (Spondasud)

Donald Trump non ha posto fine a 7 guerre “interminabili”

 

Armenia, terra di monasteri e meraviglie nascoste tra Caucaso e tradizione millenaria (Nonewsmagazine 22.09.25)

Nel silenzio delle montagne caucasiche, dove l’eco della storia risuona tra pietre levigate dal tempo, si apre uno scenario che sfida l’immaginazione: l’Armenia. Questo piccolo paese, custode di un patrimonio culturale straordinario, si rivela al viaggiatore come un libro aperto le cui pagine raccontano millenni di fede, arte e resistenza. Un territorio dove ogni pietra sussurra storie antiche e dove l’architettura sacra raggiunge vette di sublime bellezza.

Il volto antico di Yerevan nella modernità

La capitale Yerevan si presenta come una delle città continuamente abitate più antiche del mondo, con una storia che affonda le radici nell’VIII secolo avanti Cristo. Le sue vie lastricatein tuf rosa – la caratteristica pietra vulcanica locale – creano un’atmosfera unica dove antico e contemporaneo si fondono armoniosamente. Il Teatro dell’Opera, maestoso edificio in stile neoclassico, si erge come simbolo della rinascita culturale armena, mentre la monumentale Cascade offre una prospettiva privilegiata sul biblico monte Ararat, montagna sacra che, pur trovandosi oggi in territorio turco, continua a dominare l’orizzonte e l’immaginario collettivo armeno.

Il Matenadaran, repository di manoscritti antichi, custodisce tesori inestimabili della letteratura e del pensiero armeno. Tra le sue sale si conservano codici miniati che testimoniano la raffinatezza artistica raggiunta dai copisti medievali, veri maestri nell’arte della calligrafia e dell’illustrazione.

 

 

Garni e Geghard: dove paganesimo e cristianesimo si incontrano

A una trentina di chilometri dalla capitale, il tempio di Garni rappresenta un unicum nel panorama armeno: l’unico tempio pagano ellenistico sopravvissuto in Armenia. Questo gioiello architettonico del I secolo dopo Cristo, dedicato al dio del sole Mihr, testimonia la complessa stratificazione culturale del paese. Le sue colonne doriche si stagliano contro il cielo in un perfetto equilibrio di proporzioni che richiama l’arte classica greca.

Poco distante, il monastero di Geghard si rivela come un rinomato centro ecclesiastico e culturale dell’Armenia medievale, dove convivevano scuola, scriptorium, biblioteca e celle rupestri per il clero. Il monastero è patrimonio UNESCO e sorge sul sito di una sorgente sacra in una grotta che scorre ancora oggi. Il nome “Geghard”, che significa “lancia”, deriva dalla reliquia della lancia che secondo la tradizione ferì Cristo, custodita in passato tra queste mura e oggi conservata a Echmiadzin.

La Sinfonia delle Pietre, formazione geologica unica nella gola del fiume Azat, completa questo trittico di meraviglie naturali e architettoniche, offrendo uno spettacolo geologico di colonne basaltiche che la natura ha scolpito in forme che ricordano le canne di un organo monumentale.

I giganti della spiritualità armena: Haghpat e Sanahin

Nella regione settentrionale di Lori, i monasteri di Haghpat e Sanahin rappresentano l’apice dell’architettura religiosa armena. Situati nella regione di Lori, questi monasteri furono importanti centri di diffusione culturale durante il periodo di prosperità della dinastia Kiurikian (secoli X-XIII). Sanahin divenne famoso per la sua scuola di illuminatori e calligrafi, e come collegio di religione, filosofia e scienza.

Il nome Sanahin si traduce letteralmente dall’armeno come “questo è più antico di quello”, presumibilmente rivendicando di essere un monastero più antico del vicino monastero di Haghpat. Questa rivalità costruttiva tra i due complessi ha prodotto capolavori architettonici che ancora oggi stupiscono per la loro audacia progettuale e la raffinatezza decorativa.

La culla del cristianesimo: Echmiadzin

Echmiadzin rappresenta il battito spirituale dell’Armenia, sede della Chiesa Apostolica Armena e una delle cattedrali più antiche del mondo cristiano. Secondo la leggenda, fu San Gregorio Illuminatore a fondare questo luogo sacro nel 301 d.C., facendo dell’Armenia il primo stato ufficialmente cristiano della storia. All’interno del suo museo si conservano reliquie di inestimabile valore, tra cui frammenti dell’Arca di Noè e la Sacra Lancia.

Tra vigneti millenari e monasteri rupestri nel sud

Il monastero di Khor Virap, situato ai piedi del monte Ararat, offre una delle panoramiche più iconiche dell’Armenia. Da qui, la vista sulla montagna biblica – dove secondo la tradizione si arenò l’Arca di Noè – assume connotazioni quasi mistiche.

Il villaggio di Areni custodisce segreti enologici millenari: qui gli archeologi hanno scoperto la cantina più antica del mondo, datata 6.100 anni fa, testimonianza di una tradizione vitivinicola che continua ininterrotta ancora oggi. I vitigni autoctoni come il Sev Areni producono vini dal carattere unico, espressione autentica del terroir armeno.

Il monastero di Noravank, incastonato in una stretta gola rocciosa, stupisce per le sue architetture in pietra rossa che si fondono armoniosamente con l’ambiente circostante, creando un effetto cromatico di rara suggestione.

Tatev: il volo verso la spiritualità

Il monastero di Tatev, raggiungibile attraverso la funivia reversibile più lunga del mondo – la Wings of Tatev – rappresenta il gran finale di ogni viaggio in Armenia. Questo complesso del IX secolo, arroccato su uno sperone roccioso che domina la gola del fiume Vorotan, è stato uno dei più importanti centri spirituali e culturali dell’Armenia medievale. L’università medievale di Tatev formò generazioni di teologi, filosofi e artisti, diffondendo la cultura armena in tutto il Caucaso e oltre.

Un patrimonio da salvaguardare

L’Armenia custodisce tre siti UNESCO – tutti monasteri e chiese, riflesso dell’importanza fondamentale della fede nella cultura del paese. Ogni pietra di questi monumenti racconta la resilienza di un popolo che ha saputo preservare la propria identità attraverso secoli di dominazioni straniere e persecuzioni.

Viaggiare in Armenia significa immergersi in un museo a cielo aperto dove architettura, natura e spiritualità si intrecciano in un’esperienza che tocca l’anima. È un paese che non si limita a mostrare le proprie bellezze, ma le racconta, le sussurra, le incide nella memoria di chi ha la fortuna di percorrere i suoi sentieri millenari.

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Perché dovresti fare un viaggio in Armenia adesso: un giro tra monasteri, montagne e fascino unico

Antonia Arslan: “Le proteste pro Gaza sono il frutto dell’odio di sé occidentale” (Il Foglio 22.09.25)

Si protesta per la Palestina, ma si ignora tutto il resto. Dal Sudan all’Armenia. Il motivo? “Israele rappresenta l’avamposto dell’Occidente. Alla base di questi cortei è l’odio di sé”,  dice la scrittrice italiana di origini armene

“Come mai si protesta per Gaza e solo per Gaza? Il motivo è semplice, se parliamo di università”. E qual è? “E’ perché gli studenti sono stati, per così dire, ‘lavorati’. Sono stati ammaestrati accuratamente dal 7 ottobre a oggi”. A parlare al Foglio è la scrittrice italiana di origini armene Antonia Arslan.  Già docente di Letteratura a Padova, autrice di romanzi di successo come “La masseria delle allodole” (Rizzoli), Arslan spiega che  “Israele ha perso la guerra della propaganda”. La guerra delle immagini, intende? “Sì. Al punto che mi domando se non sia stato un errore non pubblicizzare le foto delle donne e dei neonati trucidati. Per quanto io non creda che dietro le proteste ci sia solo un latente antisemitismo…”. In effetti, professoressa, c’è forse qualcosa di più generico, di più superficiale. E tuttavia di altrettanto potente. Non crede? “Avendo frequentato molto le università americane, tendo a credere che la radice delle proteste pro Gaza, sempre più violente, sia un esito ovvio dell’odio di sé che spiega perché si protesta per i gazawi e non per i cristiani perseguitati in Nigeria”.

Non antisemitismo, dunque, bensì anti occidentalismo. “Proprio così. E’ un odio di sé coltivato. Soprattutto nelle facoltà e nei dipartimenti umanistici delle accademie occidentali, dove si sono prese a modello le elaborazioni francesi degli anni Sessanta e Settanta. Teorie nichiliste che sono diventate i nuovi vangeli della modernità. Voglio dire: i ragazzi che protestano fuori dalle scuole o dagli atenei sono privi di qualsiasi barriera morale e religiosa. Magari sono battezzati, certo, ma ignorano i cardini del Cristianesimo e del Cattolicesimo”. Che diventa, appunto, un Cattolicesimo-zombi. “Sono i figli di una cultura vuota. Senza forza e senza sostanza. Destinata, in altre parole, a essere sconfitta”.

Si avversa dunque Israele perché lo si considera l’avamposto dell’Occidente? “Sì. Il nemico non è tanto l’ebreo, quanto l’Occidente. Penso alle università americane, appunto. Sei anni fa, in Georgia, mi colpì l’esistenza dei cosiddetti safe spaces…”. Dei luoghi fisici o virtuali pensati, in teoria, per il supporto di persone soggette a discriminazioni, molestie, disagi legati all’identità di genere, all’orientamento sessuale, all’etnia o ad altre vulnerabilità. Perché la colpirono? “I safe spaces hanno contribuito a un lavorio sotterraneo verso un banale nichilismo. Il quale, a sua volta, non ha retto”. Forse perché il vuoto, in cultura come in natura, non regge. “E così dal nichilismo si è passati di colpo alla nostalgia per una guida forte che però si rivolge a Oriente. E che, oso dire, si traduce nell’islamofilia generalizzata e nei cortei pro Gaza”.

Il conflitto è certamente crudele: a Gaza, oggi, risultano morti 66.000 palestinesi. Lo sconcerto collettivo trova un correlativo oggettivo nei numeri. “Nelle università a volte si protesta per ragioni fondate. Altre volte sono puri pretesti”.  Giusto ieri una parte dei docenti della Sapienza recapitava una lettera alla rettrice Antonella Polimeni per cessare le collaborazioni con Israele. Ecco. Il sospetto che si tratti appunto di pretesti s’insinua, a maggior ragione, se si considerano gli altri conflitti in corso. Le altre guerre rispetto alle quali né la stampa né il corpo accademico paiono accorarsi. Secondo l’Onu la guerra civile sudanese, dal 2023, ha determinato la morte di 150.000 persone. Molte donne sono state massacrate in stupri etnici. Eppure il silenzio ovatta quest’altro sangue. Perché? “Le ragioni sono storiche e geografiche. Ma alla base è sempre l’odio di sé di cui parlavo prima. Il conflitto israelo-palestinese accende una partigianeria antica, mai sopita, tra Oriente e Occidente. Penso poi all’uso della parola genocidio…”. Parola che lei ben conosce. “Parola coniata nel 1944 da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, a proposito del caso armeno. La sua invenzione fu il frutto di una gestazione e di uno studio lunghi vent’anni. Il genocidio, secondo la definizione di Lemkin, è un tipo specifico di massacro. E’ l’eliminazione di una parte del ‘proprio’ popolo, e cioè di una minoranza, secondo la metafora diffusa al tempo di Lemkin del contadino che dispone a suo piacimento delle proprie galline”. Delle minoranze, appunto. “Se gli arabi possono vivere in Israele, quello contro i gazawi è tecnicamente un eccidio, un massacro. Genocidio è una parola in voga, lo capisco, ma è scorretta. Ciò detto, è vero: di alcuni fatti non si parla. Penso ancora all’Artsakh”.  Artsakh o Nagorno Karabakh. Regione di popolazione armena tornata sotto il controllo dell’Azerbaijan dopo l’ultima offensiva del 2023. Una vittoria, quella azera, che ha provocato l’esodo di migliaia di abitanti. “Il caso dell’Artsakh è la manifestazione della potenza bellica della Turchia. Del tentativo di Erdogan, cioè, di raggiungere via terra non tanto gli azeri ma la praterie degli stati islamici ex sovietici: Kazakistan, Turkmenistan… Ed è un progetto che riuscirà nell’insipienza di tutte le cancellerie occidentali, Figurarsi delle università. Notoriamente poco sensibili alle comunità cristiane”.

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Trump e la geografia, ancora una gaffe: “Guerra tra Cambogia e Armenia” – Video (Adnkronos 21.09.25)

Dopo la guerra tra Azerbaigian e Albania, Donald Trump ‘inventa’ il conflitto Cambogia e Armenia. Il presidente degli Stati Uniti interviene all’American Cornerstone Institute e, come di consueto, elenca i successi ottenuti come mediatore internazionale dall’inizio del suo secondo mandato alla Casa Bianca.

Trump inizia ricordando l’accordo tra Armenia e Azerbaigian, sancito nello Studio Ovale. “Era una situazione che andava avanti da anni”, dice il presidente degli Stati Uniti, che rapidamente perde il controllo del mappamondo: “Cambogia e Armenia… Avevano appena iniziato ed era una situazione pessima”, dice con un mix tra Caucaso e Sud-Est asiatico.

La nuova gaffe geografica arriva a pochi giorni dal precedente deragliamento. Durante la conferenza stampa a Londra con premier britannico Keri Starmer, infatti, Trump ha rivendicato i meriti per aver posto fine al conflitto tra ‘Aber Baijan’ e Albania, chiamando in causa Tirana per la terza volta in poche settimane. In realtà, ovviamente, si trattava di Azerbaigian e Armenia.

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Issata la bandiera armena su Palazzo di Città (Rainews 21.09.25)

Il tricolore armeno accanto a quello italiano sul balcone del Palazzo di Città di Bari, alla presenza del decano della comunità Rupen Timurian, come un ponte ideale tra due popoli uniti da storia, cultura e valori condivisi. La cerimonia dell’alzabandiera è stata organizzata e presieduta dal Consolato Onorario della Repubblica di Armenia a Bari. Un segno di affetto e riconoscimento verso il popolo armeno, la sua storia millenaria, e, soprattutto, la presenza radicata nella città di Bari, si legge in una nota. Un primo evento in vista del prossimo 28 settembre 2025, quando ricorrerà il primo anniversario dell’apertura del Consolato Onorario della Repubblica d’Armenia a Bari.


Issata la bandiera armena sul Palazzo Comunale di Bari

Assieme al Console Onorario della Repubblica di Armenia a Bari, nell’occasione, sono intervenuti Carlo CoppolaSiranush Quaranta e Tito Quaranta. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla richiesta avanzata nei giorni scorsi dal Consolato Onorario, prontamente accolta dal Sindaco e dall’Amministrazione comunale di Bari.

Il gesto rappresenta un segno concreto di affetto e riconoscimento verso il popolo armeno, la sua storia millenaria, la straordinaria resilienza dimostrata nei secoli e, soprattutto, la presenza radicata nella città di Bari.

I legami tra la città pugliese e l’Armenia hanno infatti radici profonde nella storia, documentati da fonti che risalgono almeno alla fine dell’VIII secolo. La presenza armena nella città pugliese è testimoniata da documenti che attestano la presenza di una comunità armena almeno dalla seconda generazione, quindi dal tardo IX secolo. A testimonianza di questa connessione, la città custodisce il più antico documento redatto in alfabeto armeno presente sul suolo italiano, simbolo tangibile di una presenza che attraversa i millenni. Anche il primo beneficato da San Nicola una volta giunto a Bari fu il giudice armeno Curcorio, forse anche tra gli organizzatori dell’impresa per il trafugamento delle reliquie del Santo dalla Lidia.

Nel XX secolo, la presenza armena a Bari visse un nuovo capitolo di straordinaria importanza. Il poeta Hrand Nazariantz (1880-1962), negli anni Venti del Novecento, grazie all’iniziativa del poeta armeno e del filantropo Umberto Zanotti Bianco, nacque il villaggio “Nor Arax” (Nuovo Arax) alle porte di Bari, che nel 1924 accolse poco più di un centinaio di profughi armeni scampati al genocidio. Questi connazionali fecero rinascere l’arte della confezione dei celebri tappeti armeni, creando un’importante realtà produttiva che contribuì all’economia locale e mantenne vive le tradizioni artigianali armene.

In questa veste la cerimonia odierna ha assunto particolare significato in vista del prossimo 28 settembre 2025, giorno in cui ricorrerà il primo anniversario dell’apertura del Consolato Onorario della Repubblica d’Armenia a Bari. Questo importante traguardo è stato raggiunto grazie al sostegno delle più alte cariche amministrative e degli esponenti della società civile del capoluogo pugliese e dell’intero territorio regionale.

Il tricolore armeno ha sventolato per tutta la giornata di domenica 21 settembre 2025 accanto alla bandiera italiana, rappresentando un ponte ideale tra due popoli uniti da storia, cultura e valori condivisi.

Il Consolato Onorario Armeno a Bari ha voluto inviare infine uno speciale ringraziamento al Sig. Gino, prezioso collaboratore del Comune che con spirito di amicizia ha contribuito alle operazioni tecniche di innalzamento della bandiera.

Gazzetta Diplomatica 

Geopolitica del Caucaso e dell’Asia Centrale ex Sovietica (Notizie Geopolitiche 21.09.25)

di Paolo Falconio * –

La recente crisi tra Russia e Azerbaigian, scatenata dall’uccisione dei cittadini russi Zieddin e Huseyn Safarov, di etnia azera, durante un’operazione di polizia russa contro reti criminali azere ha provocato una rapida escalation diplomatica e mediatica. La risposta di Baku, che include un blitz negli uffici di Sputnik (una stazione televisiva), arresti e l’umiliazione pubblica di cittadini russi fatti sfilare per le strade con evidenti segni di violenza, va oltre la semplice ritorsione: segnala una più profonda ridefinizione degli equilibri eurasiatici.
Al centro dell’episodio si trova un asse commerciale che si andrebbe ad affiancare al TRACECA (Europe-Caucasus-Asia Transport Corridor) superando i problemi operativi di quest’ultimo. Più precisamente, il premio è il Corridoio di Zangezur. L’accordo firmato da Armenia, Turchia e Azerbaigian ha riacceso l’interesse strategico nella regione. Questo passaggio, che collega il Mar Nero al Caspio e all’Asia centrale, è cruciale per le rotte energetiche e commerciali. In senso inverso, funge da canale diretto verso l’Europa, bypassando Russia e Iran. Il corridoio passerebbe per la provincia armena del Syunik (Zangezur), che attualmente separa la Turchia dall’Azerbaigian. In sostanza aprirebbe un corridoio logistico e militare senza precedenti. Questa regione dell’Armenia (il Syunik) separa l’Azerbaigian dalla sua enclave del Nakhchivan e dalla Turchia, rendendola vitale per le ambizioni regionali di Baku e Ankara. Tuttavia, se tradizionalmente è stata sempre la Russia a garantire gli accordi nell’ex impero sovietico, l’Armenia (con il placet dell’Azerbaijan) si è mostrata favorevole rispetto alla proposta statunitense di un contingente volto a garantire la sicurezza della linea del corridoio in territorio armeno lunga 43 chilometri per un periodo di 100 anni. Un business che garantirebbe agli Usa dai 50 ai 100 miliardi di dollari ogni anno.
Parallelamente quindi si delinea una traiettoria strategica volta a consolidare un asse che, oltre a rafforzare la connettività regionale, concorre all’attuazione della dottrina statunitense di contenimento di una possibile riaffermazione della Russia quale potenza globale, come evidenziato nel rapporto della Rand Corporation del 2018. In tale prospettiva la nuova possibile postura azero armena non solo potrebbe ridefinire la geografia delle alleanze euroasiatiche, ma configurerebbe un potenziale fronte meridionale, complementare a quello già operativo in Ucraina, contribuendo così alla pressione multilaterale esercitata lungo l’arco post-sovietico.
Questo progetto sarebbe sostenuto da un asse anglo-americano, con la Turchia come attore operativo e Israele come beneficiario indiretto. L’obiettivo finale sarebbe quello di inglobare Armenia e Azerbaijan nell’orbita occidentale, sottraendole all’area di influenza russa, rompendo anche la continuità territoriale con l’Iran, che verrebbe indebolito ulteriormente. L’Iran infatti si troverebbe di fronte una duplice minaccia. La presenza di militari o contractors americani a ridosso del suo confine a nord (il passaggio infatti corre lungo il confine fra Armenia e Iran), un nord abitato dalla componente azero-iraniana, cosa che costituirebbe per Teheran una minaccia potenzialmente mortale in considerazione della volontà della CIA e di Israele di sollevare la popolazione azera dell’Iran (anche se l’operazione non tiene conto che la componente azero-iraniana occupa la cuspide del potere assieme a quella persiana e senza contare che l’Iran è vitale per la Cina). In secondo luogo potenzialmente potrebbe essere in grado di marginalizzare il ruolo dell’Iran come perno del nastro trasportatore del commercio indo russo, ma anche indo caucasico. Dobbiamo ricordare che le merci scelgono la via più breve. Insomma l’Iran percepisce il corridoio come un accerchiamento militare e commerciale ed è improbabile che rimanga a guardare. Parimenti improbabile che la Russia rimanga inerte di fronte allo scivolamento nell’area occidentale di due delle sue ex repubbliche, addirittura accettando una presenza militare americana. Il Caucaso è considerato vitale per i russi, e si potrebbe replicare ciò che è avvenuto in Ucraina, ad eccezione del fatto che l’Azerbaijan è una piccola Nazione e per l’occidente è molto più complesso proiettare potenza nella regione. Infine la possibile gestione statunitense del corridoio di Zangezur é uno scenario chiaramente inviso a Cina, Russia ed Iran, che cercano di stabilire rotte fuori dal controllo degli Usa.
Ad ogni modo, tutto ciò si tradurrebbe nella possibilità per l’occidente, e opportunisticamente per la Turchia, di avere una base di lancio per una proiezione di influenza che crei un effetto domino sulle altre repubbliche centro asiatiche. Una zona del mondo dove gli Usa non hanno un vero e proprio ruolo.
Una Turchia, che dal canto suo avrebbe l’opportunità di realizzare il progetto pan-turco del “Grande Turan”, in cui Ankara diventerebbe un hub strategico tra Europa e Asia Centrale.
Ma il “Grande Turan” è un concetto molto più ampio. Il Turan (letteralmente Terra di Tur) viene geograficamente identificato come il “bassopiano turanico” e include deserti come il Kara-Kum e il Kizyl-Kum, il Lago d’Aral e regioni oggi divise tra Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan e altre repubbliche dell’ex Urss. Nel periodo timuride, il nome “Turan” fu adottato da Tamerlano per designare il suo impero turco-mongolo, che si estendeva su gran parte dell’Asia centrale e oltre.
Tamerlano si proclamò “Sultano di Turan” e fece scolpire il nome del dominio su una roccia in Kazakistan, legando il concetto a un’idea imperiale e islamica. In epoca moderna, “Gran Turan” è stato ripreso come concetto ideologico nel Turanismo, un movimento che promuove l’unità dei popoli turcofoni e uralo-altaici
Fuori dalla dimensione regionale, il progetto vedrebbe le agenzie di intelligence alimentare le tensioni tra Azerbaijan e Russia, mentre corteggiano un’Armenia che, sentitasi abbandonata dalla Russia impegnata sul fronte ucraino, sembrerebbe aver ceduto alle promesse di ingresso nel club occidentale. Al di là delle promesse, all’Armenia, uscita sconfitta dalla guerra, non è rimasto altro che accettare condizioni molto pesanti, fra cui acconsentire alla costruzione del “corridoio Zangezur” e l’impegno a realizzarne una parte.
Questo è il disegno, ma ci sono molte incognite sulla sua realizzazione.
Prima fra tutte il rafforzamento della presenza russa in Armenia. Sebbene l’Armenia abbia congelato la sua adesione alla CSTO (l’alleanza militare che lega la Federazione Russa principalmente con le ex Repubbliche Sovietiche), secondo l’intelligence militare ucraina la Russia starebbe rafforzando la sua presenza militare in Armenia, in particolare nella base di Gyumri, vicino al confine turco. Questa base resterà operativa e sotto contratto fino al 2044. I rapporti tra i due paesi sono tesi, ma considerando la nuova strategia russa che consente autonomia purché venga preservata la propria sfera d’influenza, è probabile che Mosca non permetterà all’Armenia di passare sul fronte opposto. Inoltre le ormai prossime elezioni politiche in Armenia vedono maggioranza bulgare opporsi all’attuale primo ministro Nikol Pashinyan, che viene accusato di una postura antistorica (la Russia è stata sempre la grande protettrice dell’Armenia), una postura filo occidentale che a detta della maggioranza della popolazione, potrebbe costare l’esistenza stessa dello Stato armeno minacciato dall’Azerbaijan e potenzialmente dalla Turchia. Va ricordato inoltre che al recente vertice della Shanghai Cooperation Organization (CSO), il primo ministro armeno e il presidente russo Vladimir Putin sono sembrati riavvicinarsi. Non da ultimo l’accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan. Un accordo molto generale, consta di sette articoli (compresi i ringraziamenti) e molte questioni rimangono irrisolte e non si tratta di questioni irrilevanti.
L’idea poi di fare Azerbaijan una base avanzata protetta da truppe turche (cioè NATO) sarebbe un’altra linea rossa a cui Mosca si opporrebbe. In ogni caso il Cremlino, pur avendo convocato l’ambasciatore azero, sembra gestire la questione attraverso canali diplomatici e negoziali, sfruttando l’interdipendenza economica tra le due nazioni. La postura diplomatica russa tuttavia non va fraintesa. La nuova dottrina russa non vuole la NATO (e quindi neanche la Turchia) nelle ex Repubbliche Sovietiche. Recentemente Mosca ha raso al suolo gli impianti produttivi turchi e azeri presenti in Ucraina, cosa che in precedenza non aveva mai fatto. Un messaggio politico molto chiaro legato a questa vicenda e che lascia intendere che Mosca, al di là delle dichiarazioni di circostanza, non intenda rimanere a guardare. Inoltre, sempre con riguardo all’effetto domino, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan aderiscono alla CSTO, che costituisce un’alleanza militare vera e propria, anche se tale alleanza non è mai riuscita a liberarsi della nomea di essere niente altro che uno strumento della Russia per mantenere il controllo sui suoi ex territori “imperiali”. Ma al di là della percezione, la realtà è che Mosca gode di questa alleanza e mantiene ottimi rapporti anche con l’Uzbekistan (uscito dalla CSTO), e ciò si è visto ad esempio nel conflitto uzbeko tagico. La ratio di tutti questi tentennamenti da parte della CSTO (o per meglio dire, da parte della Russia) ad attivarsi nei conflitti tra Stati ad essa appartenenti e Stati che ne sono usciti si spiega con il fatto che Mosca non ha mai abbandonato l’obiettivo di reintegrare in un’unica sfera d’influenza (quando non nello stato stesso) tutti i territori una volta facenti parti dell’Urss. Insomma l’effetto domino appare un obiettivo quasi utopico: queste repubbliche godono di una certa autonomia, ma non tale da modificare gli assetti geopolitici. Per le Repubbliche centro asiatiche Mosca è il referente politico-militare, la Cina è il referente economico e la dipendenza dai due giganti è difficilmente aggirabile, senza contare che sono strette geograficamente tra i due colossi.
Quanto sopra per significare che anche il “Grande Turan” sognato dalla Turchia (inteso appunto come proiezione turca nel centro Asia) presenta enormi criticità, financo culturali. Nell’Avestā (il corpus dei testi sacri dello zoroastrismo), i turani erano nomadi tra il Caspio e l’Aral, spesso in conflitto con gli arii stanziali. Erano probabilmente di origine ārya, nonostante la successiva identificazione con i turchi. A riprova il suffisso “stan” di questi stati non deriva dal turco, ma dal sanscrito e Turan è un termine di derivazione Iranica. Insomma anche se, ad eccezione del Tagikistan che afferisce più al mondo persiano, sono indubbi i legami con il mondo turco ed etnicamente la presenza di origine turcica (le tribù erano molte) è la più importante, larga parte della popolazione (in alcuni casi fino al 50%) fa parte di un meticciato che va dalle popolazioni originarie fino alle etnie derivanti dalle migrazioni di epoca sovietica. Queste nazioni, spesso governate dalle ex élite sovietiche, anche nel loro tessuto sociale e culturale sono profondamente diverse dall’odierna Turchia. Anzi, le élite stanno riscoprendo la teoria geopolitica di Mackinder e il concetto di Heartland, per legittimare la propria centralità strategica nell’Eurasia.
In questo gioco Russia e Iran possono contare anche sull’India, che non vuole assolutamente il corridoio sotto controllo turco e vede l’Iran come partner strategico per le sue rotte commerciali. Nel 2024 l’India ha firmato un accordo decennale con l’Iran per lo sviluppo e la gestione del porto iraniano di Chabahar, rafforzando così i rapporti con un paese mediorientale strategico.
Quello a cui stiamo assistendo è una reinterpretazione moderna del Grande Gioco ottocentesco, dove la vera partita si gioca tra vecchie e nuove superpotenze, purtroppo con caratteristiche simili al conflitto in Ucraina, nel senso che ha una dimensione strategica esistenziale per la Russia, ma anche per l’Iran. Armenia e Azerbaigian, piccoli attori su una scacchiera globale, rischiano di compromettere la propria sovranità nel tentativo di inserirsi in un nuovo ordine regionale, soprattutto in assenza di reali garanzie di sicurezza occidentali. Infine vi è una Turchia sempre più in difficoltà nel mondo della Umma. Il sogno ottomano e il “Grande Turan” rischiano di naufragare di fronte alle attuali politiche israeliane. Una situazione che potrebbe determinare una frattura profonda tra Ankara e Tel Aviv, con tutto ciò che ne consegue.
Il piano occidentale porta con sé ambizioni in grado di mutare la mappa geopolitica della regione, ma si scontra con ostacoli profondi, dalla resilienza iraniana agli interessi convergenti di Mosca, Pechino e Nuova Delhi, fino alla instabilità della regione
In definitiva il “Grande Gioco” moderno è meno lineare di quello ottocentesco: è fatto di interdipendenze, ambiguità culturali e alleanze fluide. In questa nuova versione le alleanze non sono rigidamente definite e le incognite sono molte. È un periodo di grandi mutamenti, e l’esito finale potrebbe dipendere da come si evolveranno le predette alleanze, così come dalla capacità dei singoli attori di navigare tra i loro interessi contrastanti.

Fonti:
Centro Studi Armeni Italia
Università di Tor Vergata – centro studi e analisi sulla Russia contemporanea
Rapporto Rand Corporation 2018
Notizie Geopolitiche
Rivista Italiana Difesa
Avvenire – Quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana.

* Membro del Consejo Rector de Honor e conferenziere de la Sociedad de Estudios Internacionales (SEI)

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Newsletter #88 – 🇦🇲 Armenia, il viaggio dell’indipendenza: 34 anni dopo (Steady 21.09.25)

Il 21 settembre l’Armenia celebrerà il trentaquattresimo anniversario della sua indipendenza. In questo lasso di tempo relativamente breve il paese del Caucaso meridionale ha vissuto una serie infinita di vicissitudini interne ed esterne.

Per l’occasione abbiamo deciso di dedicare questa newsletter all’Armenia (Si apre in una nuova finestra), raccontandone tanto l’attualità politica, quanto le particolarità culturali, religiose e sportive.

Buona lettura

I trentaquattro anni d’indipendenza dell’Armenia e la rielaborazione dell’identità nazionale

Partiamo con una riflessione sull’attualità politica nel paese, alle prese con un processo di normalizzazione con l’Azerbaigian, che comporta dolorose concessioni e in fase di avvicinamento alle importanti elezioni parlamentari del 2026.

I dimenticati armeni del Nagorno-Karabakh. Intervista al giornalista Simone Zoppellaro

ll 19 settembre 2023 un attacco militare dell’Azerbaigian costringeva alla fuga in Armenia gli oltre 100mila abitanti armeni del Nagorno-Karabakh. A distanza di due anni la vita di queste persone rimane molto precaria. Ne abbiamo parlato con il giornalista Simone Zoppellaro.

Aleksandr Tamanian e l’utopia di Erevan, città-giardino

Al centro della vita culturale e politica dell’Armenia, Erevan è considerata una delle città del mondo continuativamente abitate più antiche. Eppure, passeggiando per vie della capitale, si vedono poche costruzioni che richiamano ai suoi oltre duemila anni di storia.

Il Matendaram di Erevan

Quando si parla di cultura armena, il Matenadaran è un luogo, un’istituzione, un simbolo che non può essere tralasciato. Letteralmente, il suo nome significa “archivio di manoscritti”. Oggi è un’imponente biblioteca, un ricco museo e un prestigioso centro di studi, e lo troviamo nel programma Unesco “Memoria del mondo”.

 

Lo Yazidismo in Armenia e il tempio di Ria Taza

Michele Santolini ci porta alla scoperta di un tempio yazida in Armenia. Il paese del Caucaso rappresenta, infatti, un luogo importante per la tutela e la conservazione della cultura yazida a livello mondiale.

 

Lago Paravani: leggende, reperti sommersi e le comunità armene in Georgia

Il lago Paravani, situato in Georgia meridionale a pochi chilometri dal confine con l’Armenia, è un mosaico di storie: dai reperti sommersi dell’età del Bronzo ai racconti su Santa Nino, fino alle memorie delle comunità armene che abitano questi villaggi remoti.

 

🇦🇲 Per concludere, tre storie calcistiche armene che abbiamo scritto negli ultimi mesi:

 

⚽⛰️ Il calcio in Armenia: sognando un goal nel paese delle cicogne (Si apre in una nuova finestra)

L’epoca di gloria del calcio armeno è lontana, sia per le squadre di club che per la nazionale. Alcuni sviluppi recenti fanno però sperare che le cose possano cambiare.

⛰️⚽ La storia dell’Ararat Erevan che sconfisse il grande Bayern Monaco (Si apre in una nuova finestra)

C’è stato un tempo, breve a dire il vero, in cui l’Armenia è stata il centro calcistico dell’Unione Sovietica. In quel momento, tutti gli appassionati di calcio da Leopoli a Vladivostok conoscevano il nome dell’Ararat Erevan.

⚽⛰️ Henrikh Mkhitaryan: il più forte calciatore armeno di tutti i tempi (Si apre in una nuova finestra)

Ma non tutto è nel passato per il calcio armeno. Ecco la storia, tra sport e politica, di Henrikh Mkhitaryan.

Sul nostro sito trovi un ricco archivio di articoli sull’Armenia (Si apre in una nuova finestra).

ARMENIA. A rischio la costruzione del Corridoio di Trasporto Internazionale Nord-Sud (Agc Comunication 21.09.25)

Si è tenuto a Teheran l’8 settembre, il terzo incontro trilaterale dei responsabili dei dipartimenti regionali dei Ministeri degli Esteri di Armenia, Iran e India sullo sviluppo del Corridoio di Trasporto Internazionale Nord-Sud (INSTC)

Le parti hanno prestato particolare attenzione al ruolo del porto iraniano di Chabahar come hub per il movimento merci lungo l’INSTC. La gestione di uno dei terminal del porto di Chabahar è stata trasferita all’India nel 2024 per dieci anni. L’accordo riduce al minimo i rischi associati alle sanzioni occidentali contro l’Iran. Per l’India, la connettività con l’Iran attraverso il Mar Arabico offre un’alternativa alle rotte attraverso il Pakistan.

L’Armenia, collegata al confine iraniano tramite Meghri, svolge il ruolo di ramo occidentale dell’INSTC, che attraversa la Georgia per raggiungere il Mar Nero e la Russia. L’incontro ha anche discusso del progetto armeno “Crocevia del Mondo”, in base al quale tutte le autostrade operano sotto la sovranità degli stati partecipanti.

È qui sono sorti i primi problemi: Yerevan ha concesso agli americani l’accesso ai suoi confini meridionali e il controllo sul “Corridoio di Zangezur” il così detto Sentiero/Ponte di Trump, ciò rende il confine armeno-iraniano estremamente vulnerabile.

Il corridoio che attraversa l’Armenia fa parte del “Corridoio di Mezzo” turco e occidentale, che funge da contrappeso a Russia e Iran, che fanno affidamento sulla Turchia. Una presenza statunitense più forte potrebbe potenzialmente spingere le autorità armene verso progetti occidentali e allontanarle dalla partecipazione attiva al “Corridoio Nord-Sud”, per non parlare del possibile pericolo che gli americani blocchino il confine iraniano.

La Russia ha concepito il progetto Nord-Sud come alternativa al Canale di Suez, collegando i porti indiani con la Russia meridionale e l’Europa. Data la pressione delle sanzioni occidentali, l’importanza della rotta per la Russia sta aumentando.

Tuttavia, l’attuale situazione nel Caucaso meridionale rende l’attuazione del progetto altamente imprevedibile. Questo è esattamente il motivo per cui la perdita della sovranità dell’Armenia sui suoi confini meridionali è così delicata per la Russia. 

A seguire una breve descrizione dei diversi rami del corridoio:

Il Corridoio di Trasporto Internazionale Nord-Sud (INSTC) è un sistema di trasporto multiforme sviluppato da Iran, Russia e India. Con un’estensione di 7.200 km, il corridoio comprende tre principali rotte e modalità di trasporto:

Corridoio Centrale. Partendo dal porto di Jawaharlal Nehru a Mumbai, questa rotta si collega al porto iraniano di Bandar Abbas, attraversa territori iraniani tra cui Nowshahr, Amirabad e Bandar-e-Anzali, per poi proseguire lungo il Mar Caspio fino a raggiungere i porti russi di Olya e Astrakhan.

Corridoio Occidentale. Questo corridoio collega la rete ferroviaria dell’Azerbaigian all’Iran attraverso i punti di confine di Astara, estendendosi ulteriormente fino al porto indiano di Jawaharlal Nehru attraverso rotte marittime.

Corridoio Orientale. Collegando la Russia all’India, questa rotta attraversa le nazioni dell’Asia centrale di Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan.

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